INSIEME PER SERVIRE: INTERVENTO DI MARIA ROSA INZOLI

 medici

 

INTERVENTO Dr.ssa Maria Rosa INZOLI

Primario Divisione Medicina Riabilitativa Ospedale S. Orsola Brescia

 

Inzoli Dr.ssa Maria Rosaria-1Mi è sembrato opportuno far conoscere a tutti alcune pagine di Padre Gabriele Russotto O.H. contenute nel suo studio “San Giovanni di Dio e il suo ordine ospedaliero”, nel tentativo di evidenziare come ogni epoca storica e culturale, sconvolta da contraddizioni, necessiti di interventi per recuperare dignità alla persona.

 

1. Nel quadro dell’umanesimo e del Rinascimento

 

Pazzini - Storia della medicinaIl Pazzini, nel suo libro “assistenza e ospedali nella storia dei Fatebenefratelli” tratteggia la figura di San Giovanni di Dio nel quadro dei Santi che vissero nel periodo dell’umanesimo e Rinascimento.

 

Si chiama umanesimo — come è noto — quel periodo dal Trecento al Cinquecento in cui i letterati e filosofi tornarono allo studio e alla imitazione dell’antica cultura classica greca e romana, con acceso — a volte fanatico — entusiasmo, dopo il lungo assopimento medioevale.

 

L’esaltazione dei valori umani e razionali — soprattutto se tendenti a sganciarsi dalla dottrina dogmatica e dalla morale tradizionale della Chiesa — aprì la via alla indifferenza religiosa, alla rilassatezza dei costumi, al razionalismo e a tutti gli errori dei secoli seguenti.

 

Il Rinascimento, nato dall’Umanesimo e con esso in parte fuso, è quel periodo della storia italiana che va dalla seconda metà dal Trecento alla prima metà del Cinquecento, in cui fiorirono i più grandi letterati, poeti, pittori, scultori e architetti, che onorarono l’italia e il mondo, anche se alcuni trascesero i limiti della re ligione e della morale.

 

H… chiarissimo storico della medicina, dunque, ragionando dell’umanesimo veramente umano, dimostra che tale umanesimo — ossia il rispetto dell’uomo, della sua dignità, dei suoi diritti — è quello dei Santi ospedalieri, in opposizione all’umanesimo paganeggiante, spesso senza umanità.

 

Nei Santi ospedalieri del Rinascimento, “pur se alieni dal filosofeggiare dei dotti, pur se estranei alle intuizioni degli artisti, pur se lontani dalle meditazioni degli scienziati, lo spirito umanistico colmò una lacuna”, la sciata dai Santi medioevali consacrati al servizio degli infermi

 

Nei Santi del Rinascimento — scrive il Panini – la necessità di soccorrere l’ammalato viene da questo ultimo, dalle sue sofferenze, dalla umanità dolorante, che si vuole soccorrere e si vuole integrare, se ce ne è bisogno, nella sua dignità”.

 

Non dirado, l’umanità dell’Umanesimo sembra più preoccupeta dell’opera d’arte, che deve accogliere i malati, che non degli stessi infermi, che vi devono essere accolti, assistiti e confortati.

 

Nè gli ospedali, che assai spesso il Filarete e il PaIladio ornavano della più vaga architettura e le scuole più famose affrescavano con le più insigni rappresentazioni di scene e carità, furono maggiormente pietosi dell’altrui miseria. Tristi documentazioni, indiscutibilmente vere, attestano sulle inumanità dell’umanesimo verso i ricoverati, sulla brutalità degli inservienti addetti all’assistenza degli infermi, mentre a chi scorra anche superficialmente la storia ospedaliera del tempo, innumerevoli sono i casi di ospedali minori abbandonati o rovinati moralmente e materialmente per l’incuria di coloro (confraternite o comunità) che sarebbero stati preposti al loro mantenimento.

 

I santi ospedalieri del Rinascimento nacquero nell’Umanesimo ma si ispirarono al fraterno umanesimo del buon Samaritano evangelico.

 

Dice ancora il Fazzini: ”l’ Umanesimo che seppe eccitare nell’uomo le sublimi opere artistiche e letterarie, i profondi rivolgimenti filosofici, le scoperte di nuovi mondi, che preparò i grandi movimenti scientifici, che rivelò, in una parola l’uomo a se stesso, rendendolo consapevole delle proprie capacità creò anche questi spiriti sublimi, purissimi, che nell’uomo videro non le gloriose affermazioni sconfinanti nella vanità delle cose, bensì la sofferenza e il dolore”.

 

San Giovanni di Dio è una delle grandi, delle più grandi figure del vero umanesimo, di quello, cioè “che non si esauriva in sterili distici latini, o non si limitava all’arte della scienza, alla filosofia” ma volgeva a tutte le miserie umane per portervi rimedio. “Giovanni Ciudad, come uomo, è il perfetto umanista, se umanesimo vuoI dire valorizzazione della individualità umane”.

 

E’ inutile sottolineare che l’Umanesimo di San Giovanni di Dio — e quello degli altri Santi Ospedalieri — poggiava su motivi teologici, divini e umani allo stesso tempo, cioè: sull’amore di Dio, sul precetto della carità verso il prossimo, sulla solidarietà col Corpo mistico di Cristo; e non su motivi puramente estetici, naturali e filantropici.

 

2. Nel progresso ospedaliero

 

L’opera ospedaliera di San Giovanni di Dio può essere considerata nella sue azione personale, circoscritta per estensione (Granada) e per tempo (1539-1550: 11 anni); ed in quella del suo ordine, estesa per il mondo attraverso i secoli.

 

Qui ora non ci interessiamo solo dell’azione personale del Santo, il quale come è noto, non mirava alla fondazione di un Ordine religioso, bensi alla erezione di una casa —ospedale, dove accogliere i poveri infermi e quant’altri fossero privi di alloggio e di cibo.

 

Naturalmente, Giovanni desiderava che la pia fondazione non finisse con lui, ma continuasse anche dopo la sua morte, per opera di pochi discepoli, che si erano, intanto uniti a lui nel caritatevole apostolato.

 

La casa — ospedale, fondata da Giovanni di Dio, non era un ospedale nel senso inteso oggi da noi, cioè un luogo destinato soltanto ai malati: era un ospedale che aveva anche dell’ospizio. Vi si accoglievano, per ciò non solo gli infermi, ma anche la povera gente senza tetto, le persone abbandonate e i pellegrini.

 

L’ospedale conservò questa sua caratteristica anche quando venne trasferito nella cuesta de los Go meléz, pur assumendo la forma più progredita e ordinata già accennata. Attigui ai reparti per gli infermieri, vi erano locali per i bisognosi di alloggio (uomini, donne, bambini). Lo dice il Santo stesso: “Essendo questa una casa generale vi si ricevono generalmente tutte le malattie e ogni sorta di gente, sì che qui vi sono rattrappiti, monchi, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi, ed altri molto vecchi e. molti bambini, e, senza contar questi, molti altri pellegrini e viandantiche si rifugiano qui, ai quali si da’ fuoco, ac qua e sale e recipienti per preparar da mangiare”.

 

Per ospitare, specialmente durante la notte, più poveri che poteva, Giovanni costruì, attiguo all’ospedale, un ampio locale per oltre 2000 persone — durante l’inverno riscaldato con stufe poste nel mezzo delle camere — dando a ciascuno un posto per dormire, modesto ma lindo e decoroso, e tenendo dignitosamen te separate le donne dagli uomini.

 

L’ordinamento e le iniziative di origine igienico, sanitario ed assistenziale da lui adottati e continuati poi dai suoi discepoli, sono veramente sorprendenti. Non che il Santo partisse da premesse scientifiche, accuratamente studiate e preparate, per riformare l’assistenza ospedaliera — non era medico e non aveva fatto studi particolari in tal senso — però sta il fatto che egli fu un vero pioniere e riformatore ospedaliero.

 

La carità gli faceva intuire quanto più tardi insegnerà la scienza. Il che dimostra ancora una volta che la carità apre la via al progresso.

Nel suo Ospedale Giovanni non ammassava i malati tutti insieme alla rinfusa, ma li divideva in categorie secondo le varie infermità abbozzando così — solo “abbozzando” si capisce — i vari reparti degli ospedali moderni: medicina, chirurgia, psichiatria, ecc.

 

Non solo, ma ad ogni infermo dava il proprio unico letto. In altri ospedali, invece, anche celebri, com’è risaputo, non sempre un solo letto accoglieva un solo malato: spesso un letto grande ne accoglieva diversi.

 

Per i dementi, poi, San Giovanni di Dio aveva premure particolari — memore del come li aveva visti trattare ed era stato trattato nell’Ospedale Reale — ed usava sistemi assistenziali ispirati alla più alta umanità, il che non avveniva negli altri ospedali di Spagna e del mondo. Premure e sistemi ereditati, perfezionati e ampliati poi dal suo Ordine, col merito di vero primato.

 

Il Lombroso, nell’opera citata, riconosceva al Santo il genio del precursore allorché scrisse: “un fatto de gno di attenzione è che, in quanto al trattamento dei malati, Giovanni fu un riformatore, poiché non mise che un solo malato per ciascun letto; egli fu il primo a fondare il Workhouse aprendo nel suo ospizio una casa dove i poveri senza tetto ed i viaggiatori senza denari potevano dormire”.

 

Legittima, pertanto, è l’affermazione del chiarissimo Prof. Pazzini, cioè che “San Giovanni di Dio nella Storia della Medicina, o per meglio dire, in quella della assistenza ospedaliera, merita un posto che non può essere cancellato dai secoli che trascorrono sul mondo”.

 

Questa in sintesi è l’opera dell’umile portoghese Giovanni Ciudad nella storia dell’assistenza e del pro gresso ospedaliero, prescindendo da quella successiva dei suoi Figli spirituali: i Fatebenefratelli.

 

Introduzione

 

Quali epoche non sono agitate da contraddizioni?

 

San Giovanni di Dio ha rilevato i bisogni dell’uomo e con amore e scienza ha dato risposte tuttora attuali. I nostri contrasti sono sempre più inquietanti, ma

la sensazione di non trovare soluzioni la considero mancanza di’ speranza”.

 

La nuova visione del malato si colloca nelle con traddizioni esasperate del nostro tempo:

  • al recupero del valore di persona si contrappone la perdita del rispetto alla vita umana nelle varie ma nifestazioni di violenza

  • — il nuovo concetto di salute inteso come condizione di vivibilità e considerata “equilibrio dinamico, al l’interno della persona tra soma e psiche, all’ester no della persona tra soggetto e ambiente” è continuamente minato da fattori inquinanti o di rottura l’incontestabile progresso tecnologico e biotecno logico è avvolto dal rischio di un’applicazione non rispettosa della persona.

 

Siamo responsabili, o meglio, usando una parola un poco retorica siamo “i difensori” dei nostri malati per contrastare gli aspetti negativi. Il nostro ruolo, in questo periodo affascinante, è diffondere informazioni propositive e realizzare strutture nelle quali ognuno sia ‘persona” partecipe del “bene” insito nel progresso.

 

E necessario recuperare l’eticità della medicina.

 

La medicina della persona ripropone il ruolo della medicina come scienza di principi etici e di principi mo rali nell’operare del medico e di ogni operatore sanitario.

 

La eticità appare come aspetto peculiare che tra scende quello che viene definito etico ed intrinseco ad ogni altra scienza. La “eticità” della medicina traspare invece proprio attraverso il suo scopo di proteggere l’uomo, di difendere la vita umana, ma di fatto trova la sua ‘sostanza” nei principi che costituiscono nor me al suo stesso operare, principi che sono testimo niati nell’allo clinico quando questo è verso una scel ta che rispetti la persona umana nella sua verità inte ra” (A. Borghetti).

 

La medicina attuale: aspetti negativi e positivi

 

La medicina evoca un insieme di elementi in cui la riflessione è rapida ed è seguita immediatamente dall ‘azione. E propria della formazione medica la scarsità di ma teria di pura riflessione, di profonda conoscenza, di ap profondimento, per poi essere messa al servizio del l’uomo.

 

La medicina deve mantenere la salute, eliminare le malattie; questa affermazione ci mette in atteggiamento di riflessione sul concetto di salute e sul significato di malattia.

 

Lo storico, l’antropologo culturale, il sociologo, ci insegnano che le norme che definiscono salute e malattia mutano con le società, con il raffinarsi della tecnica, con il rapido sviluppo scientifico. La malattia non è più qualcosa che capita all’uomo nel suo insieme, ma una modificazione dei suoi di versi apparati. Le indagini eziopatogenetiche si restringono alla ricerca delle modificazioni tissutali e funzionali di un apparato o di più apparati.

 

Ormai fra l’operatore sanitario ed il paziente si sono insinuati elementi decisamente importanti, ma che hanno portato la scienza del guarire ad allinearsi alle altre scienze fisicistiche.

 

Il prezioso apporto della tecnica ha allineato la medicina fra le scienze della natura.

 

La medicina organizzata come scienza della natura ha adottato il metodo delle altre discipline scientifiche più progredite (quali la chimica e la fisica) cioè il metodo analitico.

 

Noi riconosciamo i momenti decisamente positivi di questa nuova concezione della medicina:

  1. Il principio della ricerca scientifica applicabile allo studio del metodo;

  2. Il significato fondamentale dell’indagine di tipo fi siopatologico e biochimico;

  3. L’’importanza dello studio strumentale;

  4. La terapia mirata.

     

I progressi della medicina e della chirurgia non sarebbero mai stati ottenuti se la medicina non si fosse allineata tra le scienze della natura. Questo progresso indiscutibile mette in evidenza alcuni aspetti:

 

  1. L’organizzazione sanitaria ha un modello organi cistico, le malattie vengono suddivise per settori e l’operatore sanitario, è un tecnico che cerca di scoprire il guasto di un organo per riparare solo quell’organo;

  2. In contrapposizione abbiamo acquistato coscienza che quando l’uomo è considerato semplicemente come una parte si opera una mutilazione antropologica.

 

Personalmente credo nella medicina scientifica, ma mi rifiuto di accettare quel dogmatismo che si irrigidisce sul metodo terapeutico o diagnostico appena scoperto, considerandolo come universale e unico possibile, trascurando di adattarlo al singolo malato. Forse è già subentrato un ripensamento in tutti noi operatori sanitari.

 

Anche tra i leaders culturali della medicina vi è certamente un’area di ripensamento:

 

  1. la pura concezione fisicistica delle malattie pare ab bia condotto la medicina in un vicolo cieco;

  2. il predominio del calcolo quantitativo e la super-specializzazione non possono porre la diagnosi globale della malattia di un uomo;

  3. la terapia, da servizio all’uomo, ha cominciato a divenire fine a se stessa, estranea all’uomo e talvolta pericolosa all’uomo.

 

Ritengo positivi alcuni atteggiamenti critici sulla medicina di oggi:

  • non può riguardare un ristretto settore specialistico;

  • il relativismo generale dopo alcuni lustri di scoperte entusiasmanti e di alcuni rifiuti in certi settori della scienza conduce ricercatori e super- specialisti ad integrarsi;

  • esiste una certa difficoltà ad accettare come esclusivo in medicina il punto di vista della scienza della natura;

  • è stata posta in discussione l’autosufficienza della analisi:

  • il ritorno della clinica all’uomo ha reso necessario il recupero delle capacità di sintesi, la percezione della totalità che è più della somma delle parti:

  • la totalità è la persona umane nei suoi rapporti con il mondo e quindi la sua assoluta priorità sulla tecnologia.

     

La globalità del malato e la tecnologia

 

Nella prospettiva della totalità la malattia non è solo un fatto biologico organico, essa traduce lo squilibrio della persona nel suo rapporto con il mondo, in cludendo elementi spirituali, psicologici, sociali, economici.

 

Noi crediamo, a questa totalità, ma molti ostacoli si frappongono nella coerenza quotidiana a questa visione di unitarietà. Molti elementi si inseriscono per frammentare nuovamente la persona, in particolare la persona malata.

 

Come ho in precedenza segnalato la medicina fisicistica ritiene prioritario l’aspetto biologico favorito dalla super-specializzazione e dalla tecnologia; forse un esempio può evidenziare i pericoli. L’esame eco-doppler dell’arteria carotide comune di destra dimostra la lesione ostruttiva di quel distretto arterioso, consente di fare una diagnosi e una scelta terapeutica, ma è un dato isolato se non ci preoccupiamo delle reazioni emotive del paziente, delle implicazioni personali, famliari, sociali che ne conseguono.

 

E un esempio trasportabile ad ogni altro… diagnostico o terapeutico dissociato dalla persona, ma è sempre un errore di approccio che minaccia la visione unitaria del malato.

 

La psicologia conosce un periodo di successo e di enfasi; ma noi tralasciamo la “cura” complessiva perché ansia, paura, depressione, sono componenti di molte malattie.

E proprio necessario essere psicologi per rimuovere queste situazioni?

 

Ma, in particolare, quale attenzione abbiamo per non provocarle e aggravarle?

 

Un flash sul malato e i nostri rapporti svela come esista lacerazione, disattenzione, dimenticanza della sofferenza psicologica aggravante una considerazio ne biologica alterata.

 

Rivediamo i rapporto quotidiani, dai piccoli gesti usuali (mobilizzare il paziente, rifare un letto, porgere il cibo, somministrare un farmaco) ai momenti impe gnativi dell’incontro con il malato che domanda:

  • aiuto per la sofferenza fisica e psichica

  • attenzione all’inquietudine, all’ansia, alle attese al la solitudine

  • un segno di affetto e di compartecipazione a quel la incerta vicenda in cui riconosce la sua malattia

  • assistenza “spirituale” nell’attesa del morire.

     

Ho l’impressione che talvolta l’atmosfera dei nostri ospedali, dei nostri ambulatori sia rarefatta, priva di anima, certamente non inserita in quell’insieme per servire” messaggio oggi proposto.

 

La componente psicologica del paziente può essere disattesa e talora offesa per assenza di comprensione, di gentilezza; si può lavorare tanto si può essere affaticati, senza riuscire a rimuovere dal nostro paziente il timore della dipendenza da noi, l’ansia di essere un peso per ogni operatore, l’inquietudine di non essere accettato.

 

La componente sociale è entrata di diritto nella nuova visione del malato.

 

Le nuove solitudini, il single, la famiglia nucleare, la società consumistica sono contraddizioni di un mondo che si configura nel “sociale a cui affida scelte e soluzioni.

 

L’incontro con il malato deve essere correlato a una ricerca sociologica semplice, capace di conoscere i problemi esistenziali prioritari: la vita relazionale, l’ambiente famìliare, la situazione abitativa, le condizioni di necessità.

 

Diagnosticare la malattia, somministrare un farmaco é oggi adeguato ai bisogni del malato?

 

Può essere sufficiente se rifiutiamo di ricordare il carisma dell’ordine di San Giovanni di Dio, se dimentichiamo di accogliere’ il malato.

 

E’ consentito dimettere da un reparto o lasciar uscire dall’ambulatorio un cardiopatico o un neuroleso senza chiedere in quale casa abita, a quale piano, con o senza ascensore?E un atto più importante del calcioantagonista consigliato.

 

Un fenomeno di rilevanza sociale è l’invecchiamento della popolazione, ha gravi ripercussioni sanitarie ed assistenziali in parte ancora disattese. Nella nuova visione del malato, questo aspetto demografico ha implicazioni tanto rilevanti da mutare ogni programma nel settore della salute.

 

E un problematica che da molti anni affronto ad ogni livello, ma con forza proprio in nome del rispetto alla persona la ripropongo come prioritaria all’attenzione di tutti sotto il profilo scientifico, umano, etico.

 

Ripercussioni sociali gravi sono insite nelle attuali difficoltà dell’assistenza psichiatrica iniziata cinque secoli orsono da San Giovanni di Dio e sempre continuata con competenza, serietà, rinnovamento, amore, dai suoi confratelli.

 

I problemi sociali riguardano il rapporto con la persona nella sua globalità, ma assumono un ruolo più ampio quando si ricercano nella attuale “medicina della popolazione”. Le implicazioni sociali sono nuove, imprevedibili, talora senza risposta e proprio in questo ambito la tecnologia, la biologia, la psicologia, la farmacologia accumulano insuccessi e sconfitte.

 

Ancora una volta è l’amore per l’uomo che porta a ricercare la patologie nuove e drammatiche:

  • riguardano l’anziano non autosufficiente e ogni in tervento che contrasta l’inabilità

  • coinvolgono il giovane tossicodipendente o l’omosessuale sempre più minacciati dall’AIDS

  • esprimono i drammi dei malati psichiatrici che avvengono nella famiglia, nella strada, nelle strutture sanitarie

  • manifestano la reazione alla solitudine di coloro che rifiutano la vita

  • sono le conseguenze di tutte le violenze ogni giorno consumate contro l’uomo sano e ammalato

  • comportano l’assistenza al malato terminale e colui che nell’angoscia, lascia un corpo e ogni rapporto relazionale, ma recupera la visione spirituale e religiosa della sua anima. Assistere un morente non è solo allo medico, ma é partecipare al suo ingresso nel mistero dell’eternità.

 

Le nuove»tecnologie e la biotecnologia caratterizzano il vicino 2000, sono parte integrante del progresso, accolte con gioia quando entrano nelle nostre strutture al servizio dei malato.

 

Sono in contrasto con chi demonizza le inarrestabili conquiste della ricerca, in quanto, esse costituiscono la nostra speranza di modificare il corso di alcune malattie con interventi in ambito diagnostico e terapeutico.

 

Le nuove scienze sono al servizio dell’uomo purché siano finalizzate al suo vero bene nei rispetto della sua unicità e irripetibilità. La tecnica favorisce la visione diretta, non invasiva, di organi e apparati, la biologia molecolare consente lo studio del ONA e di altre componenti cellulari, le sonde del DNA ricombinante si preannunciano come mezzi per modificare malattie congenite e preparare vaccini, la conoscenza delle vie nervose consente di riattivare funzioni lese. Entusiastica accettazione di queste tecnologie, purché non siano causa di rottura dell’equilibrio globale della persona.

 

Altro rischio delle tecnologie è il loro possibile coinvolgimento nell’atmosfera dilagante del consumismo.

 

Per una nuova visione del paziente è necessario fare la sintesi del rispetto alla persona considerata in tutte le sue componenti e delle tecnologie necessarie per curare la sua malattia.

 

Riflessioni obbligatorie da inserire nel lavoro quotidiano, difficile per le frequenti conflittualità sulle scelte più utili, meno pericolose per il nostro ammalato.

 

Rapporto con il malato

 

In quanto persona l’uomo è un essere conscio di sé che dispone di se stesso o si costruisce progressivamente prendendo opzioni libere. Emerge la necessità del colloquio con il malato. Il termine di anamnesi è stato sostituito giustamente con quello di “colloquio” a dimostrare un rapporto di parità fra operatore sanitario e paziente.

 

E’ indispensabile eliminare “l’asetticità” di alcune visite, di esami raffinati, ma aridi. Il malato ha il diritto di essere informato in modo adeguato, rispettoso cortese delle sue condizioni di salute, del programma diagnostico e terapeutico; è sotteso il coinvolgimento dei familiari.

 

Scrive Sir John Walton (President Generai Council Regno Unito): “sono convinto che per il resto del secolo e per buona parte del prossimo, dobbiamo continuare, attraverso l’insegnamento della medicina, a formare un medico “pluripotente” con un nucleo di conoscenze di base, di capacità e di comportamenti… L’arte del colloquio e di dare consigli è parte essenziale: non dobbiamo dimenticare l’importanza fondamentale del rapporto medico-paziente.

 

Troppo spesso ho vissuto situazioni critiche nelle quali i risultati di tecniche diagnostiche sofisticate hanno portato a conclusioni sbagliate o sono state male interpretate per una scarsa o inefficace comunicazione tra medico e paziente per quanto concerne la conoscenza della malattia e i mezzi di trattamento”.

 

Conclusioni

 

La visione del malato è complessa, ma si ricostituisce nei diversi ambiti che ho esaminato, è nuova in quanto inserita in una società ricca di potenzialità positive, ma tormentata da una sofferenza cosmica, sconfitta dal progresso, lacerata dalla incomunicabilità.

 

Il nostro impegno non si esaurisce nell’essere operatori qualificati, preparati aggiornati (lo ritengo un obbligo), ma richiede intelligenza, sensibilità, disponibilità per scoprire ogni bisogno e senza pretese di fantasia, costruire la futura visione dell’uomo ammalato.

 

L’antropologo Cristiano proponendo una medicina della persona, non pretende di sostituire semplicemente una prassi medica con l’altra; la medicina della persona non è neppure in ultima analisi una medicina ma lo spirito con cui la medicina deve essere praticata” (Spinsanti).

 

Questa è la medicina iniziata da San Giovanni di Dio, continuata dai suoi confratelli, riproposta a tutti noi che operiamo in Ospedali rinnovati, ma permeati da tante testimonianze di servizio e amore per ogni malato.

 

Concludendo con queste parole di Padre Marchesi, Generale dell’ordine “Gli uomini che soffrono sono direttamente e prioritariarnente il nostro prossimo: la nostra vista deve quindi avere una suo preciso orientamento in questo senso. E’ un orientamento faticoso da riconquistare, ma necessario. E’ questa riconquista, è questo vincolo “di sangue” tra noi e il malato che io chiamo “umanizzazione”.

 

Prima Dio e poi la Chiesa ci hanno affidato il compito di assistere gli ammalati: spetta a noi decidere se dobbiamo esercitare questa assistenza per dovere o per amore, vale a dire per il gusto di esercitare l’amore tutte le volte che ci è possibile, per il gusto e la follia di entrare in comunicazione intellettiva, affettiva, spirituale, con altre persone che sono nostri fratelli oppure perché alcune leggi ci imporrano (prima o poi) di essere più umani con il malato.

 

Dobbiamo chiedercelo fino al tormento e ci muove la consapevolezza che il bisogno fondamentale dell’uomo è quello di essere riconosciuto come persona degna per se stessa, degna cioè di ricevere attenzione, premura e amore al di là delle differenze di cultura, di istruzione, di classe sociale, di religione e di razza; oppure se ci muove l’esigenza di ricevere un applauso per la nostra bontà o quello di mantenere in stato di dipendenza chi è più debole”.

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SANTI COSMA E DAMIANO, MARTIRI 

 

Onore ai medici.

Onora il medico, perché la sua missione non è inutile. L’Altissimo l’ha creata, come ha creato le medicine e respingerle non è cosa da saggio.

“Le piante hanno le loro virtù e l’uomo che le conosce glorifica Dio, degno di ammirazione in tutto quello che ha fatto. Il dolore, per mezzo di esse è addolcito, l’arte ne trae ricette senza numero nelle quali risiede la salute.

Se sei malato, non trascurarti, figlio mio, ma prega il Signore che ti guarisca, allontana da te il peccato, purifica il tuo cuore, fa’ la tua offerta all’altare e poi lascia che il medico intervenga. Il suo intervento una volta o l’altra si impone e non contare di evitarlo.

Egli pure però deve pregare il Signore, perché diriga le sue cure a calmare la sofferenza, allontanare il male e rendere le forze a colui che lo ha chiamato” (Eccli 38,1-15).

Sono parole della Sapienza che era bene citare in questa festa. Fedele al precetto divino, la Chiesa onora oggi in san Cosma e san Damiano la professione del medico nella quale molti raggiunsero la santità (Dom A. M. Fournier, Notices sur les saints médicins).

 

Il Cristo e la sofferenza.

Sarebbe un errore grossolano pensare che la Chiesa, sollecita della salute delle anime e persuasa che la sofferenza è per esse sorgente di meriti immensi, si disinteressasse del corpo dei fedeli e delle miserie che li colpiscono.

Non ci si mostra Gesù Cristo nel Vangelo medico dei corpi e delle anime? Il maggior numero dei suoi miracoli hanno per oggetto la guarigione di malattie e infermità e la risurrezione stessa. Se la pietà del suo cuore arrivava fino all’anima degli infelici che gli erano messi davanti e vi portava il rimedio con la grazia della contrizione e con il perdono dei peccati, non dimenticava la malattia fisica, ma li liberava da essa con eguale potenza e bontà.

 

La Chiesa e la sofferenza.

Depositari del potere di far miracoli, gli Apostoli continuarono la missione del Maestro e il libro degli Atti ci fa sapere che il primo miracolo di san Pietro fu compiuto per guarire un infelice, che non aveva mai potuto camminare.

Quando la Chiesa ebbe la libertà di farlo, fondò non soltanto scuole per l’istruzione e l’educazione della gioventù, ma anche ospedali per i vecchi e i malati. Con la dottrina, tutta carità e mansuetudine, con l’esempio di abnegazione e di sacrificio, ispirò a molti suoi figli il pensiero e il desiderio di consacrarsi a quelli che soffrono.

Nel corso della storia sorsero numerose Congregazioni per l’assistenza dei malati: Fratelli di san Giovanni di Dio, Sorelle di san Vincenzo de’ Paoli ecc., e nelle regioni nostre come nei luoghi di missione si contano a migliaia gli ospedali, i dispensari dove religiosi e religiose curano con abnegazione indiscutibile che desta ammirazione, tutte le miserie della povera umanità.

 

Cristo nei fratelli sofferenti.

Questa attività generosa trova la sua spiegazione in un amore disinteressato per l’umanità sofferente e, prima ancora, in un amore per Cristo, che continua a soffrire nelle sue membra infelici. Mentre curano il malato, l’infermiere e l’infermiera vedono più lontano, vedono il Signore sofferente e, per amore suo, superano la naturale ripugnanza, la fatica che le cure e le veglie comportano, passano sopra tutte le difficoltà che incontrano nel malato o in quelli che lo circondano e non chiedono né paga, né ricompensa.

Però una ricompensa è loro assicurata: spesso quella degli uomini; ma, soprattutto e infallibilmente, quella di Dio. Il contatto con Dio è risanatore e santificante. Dio si è sostituito al prossimo ed è Dio che è servito, a Lui risale l’amore. Un bicchiere d’acqua offerto in suo nome non resta senza ricompensa e le sue grazie scendono abbondanti anche quaggiù su coloro che Lo servono, ma nell’ultimo giorno essi ascolteranno con gioia le parole del giudice supremo: “Ero ammalato e voi mi avete visitato” (Mt 25,36).

 

I santi medici.

Detto questo non sorprende che un grande numero di anime si sia santificato nell’esercizio della carità fraterna. Le Litanie dei santi medici contano 57 nomi e sono incomplete, perché bisognerebbe aggiungere i nomi di santi e di sante, che senza avere diploma o titolo di dottore in medicina, consacrarono tuttavia la vita all’assistenza dei malati e dei deboli. Bisognerebbe aggiungere il nome dei missionari martiri, che portarono in regioni lontane insieme con la fede la loro dedizione al sollievo di tutte le sofferenze fisiche. Gli Angeli aggiornano il Libro d’Oro sul quale leggeremo, nell’eternità, le meraviglie che la carità ha ispirato alle anime generose e, più ancora, quelle che vi ha realizzate.

 

VITA. – Sarebbe più facile tracciare la storia del culto dei santi Cosma e Damiano che dare notizie della loro vita e della loro morte. La tradizione li vuole fratelli, medici, arabi e martiri. Il loro culto nacque a Cyr, città della Siria settentrionale, dove nel V secolo era una basilica ad essi dedicata, e nel 530 il pellegrino Teodosio afferma che ivi furono martirizzati. La loro fama si propagò rapidamente e si trovano tracce del loro culto in Cilicia, a Edessa, in Egitto. Papa Simmaco (498-514) consacrò loro un oratorio a Roma e Fulgenzio un monastero in Sardegna, nel 520. Nell’ottavo secolo Gregorio II istituì una Messa stazionale nel giovedì della terza settimana di quaresima e la fissò nella loro Chiesa. I due santi sono oggi Patroni di una associazione di medici cattolici e delle Facoltà di Medicina.

Medici - Sepoltura di Cosma e Damiano medici 

Preghiera ai santi Cosma e Damiano.

Per implorare la protezione dei santi Cosma e Damiano, prendiamo a prestito dal Messale Mozarabico una bella preghiera:

“O Dio, nostro guaritore e medico eterno, che facesti Cosma e Damiano incrollabili nella fede, invincibili per il coraggio, affinché con le loro ferite portassero rimedio alle ferite umane, essi, che prima del loro martirio, con una terapeutica terrena, operarono la salute dei popoli, costituiscili, te ne preghiamo, nostri custodi e medici delle nostre infermità.

Per essi sia guarito quanto in noi vi è d’infermo, per essi sia la guarigione senza ricadute, per essi trovino rimedio i corpi e le anime. Mettano essi termine alle segrete malattie dell’anima, ai visibili languori concedano pronta salute.

Con la loro intercessione spremano il pus delle ferite, con le dita della loro preghiera le detergano fino in fondo, vadano essi incontro alle miserie umane per portare ad esse rimedio.

Sorreggano il peso che schiaccia gli uomini e possano quaggiù custodirci immuni dalla malattia del peccato per condurci ad essere coronati nella celeste patria”.

 

Preghiera a tutti i santi medici.

Terminiamo con una preghiera a tutti i santi medici, per raccomandarci alla loro benevola sollecitudine:

“Voi tutti santi e sante di Dio, che professione medica e carità nell’assistere gli infermi poveri illustrano e che la Chiesa cattolica onora e venera; e voi, san Luca, Evangelista di nostro Signore Gesù Cristo, primo fra tutti, principe e patrono dei medici cristiani;

e voi, insigni medici, Cosma, Damiano, Pantaleone, Ursino, Ciro d’Alessandria, Cesare di Bisanzio, Codrate di Corinto, Eusebio il greco, Antioco di Sebaste, Zenobio di Egea;

Voi ancora sante e dolcissime consolatrici dei malati, guaritrici dei loro mali e nelle arti medicali esperte: Teodosia, la martire illustre, madre di san Procopio, martire egli pure, Nicerate di Costantinopoli, Ildegarda vergine di Magonza, Francesca Romana,

che la carità verso gli infermi poveri e i miracoli resero così celebre, intercedete per noi presso colui nella fede e nella carità del quale voi viveste e per amore del quale esercitaste la medicina,

affinché noi, vostri imitatori, nella santità e nella carità cristiana per l’assistenza ai poveri malati, passiamo la nostra vita nella pietà e nella pazienza e l’eterna beatitudine sia per noi il magnifico e glorioso onorario che riceveremo dal generosissimo Gesù, che vive e regna nei secoli dei secoli”.

 

da: dom Prosper Guéranger, L’anno liturgico. – II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1109-1112

INSIEME PER SERVIRE: INTERVENTO DR. PULICI

Lavanda dei piedi

«Io sono in mezzo a voi come colui che serve». Lc 22,27

 

INTERVENTO DOTT. PULICI

 

 Più che una domanda, è una riflessione ed un ringraziamento alla Dott.ssa Inzoli che mi ha fatto nascere tale riflessione mentre l’ascoltavo.

Nella relazione è stato detto UNICITA’ DEL MALATO. Questa unicità che quando dita ?.

Mentre ero seduto, guardavo il titolo del convegno ‘ PER SERVIRE” e mi sono ricordato di alcune cose sentite ieri che sono circolate tra di noi.

SERVIRE… Mi pare che siamo tutti d’accordo; non ho trovato una persona che non abbia ritenuto che il nostro compito è di essere qui a servire il malato. Dappertullo, in tutti gli ospedali, di qualsiasi confessione religiosa si sia.

 

INSIEME è la parola che mi è sembrata più difficile. Non sempre siamo insieme.

lo sono un primario: i primari tra di loro non sempre sono insieme e così spezzettano anche i loro malati. Se si spezzano tra di loro spezzano anche il malato. Queste super specialità di cui abbiamo parlato ieri e oggi fanno parte di tutto questo spezzettarsi di primariati. Poi questi primari non si ritrovano mai. Si trovano nei Congressi ma fra di loro, cioè ognuno con la sua cartella.

Si dice che per trovarsi ci vuole il Consiglio dei Sanitari, l’approvazione burocratica, ecc.; si nasconde dietro la burocrazia una non volontà personale di trovarsi sinceramente e volutamente per affrontare i problemi veri del malato; del malato inteso come unicità di persona. Ma non è solo a questo livello.

 

Altro punto emerso ieri: INFERMIERI-MEDICI, non ci rispettiamo, ci sfruttate, la nostra professionalità, la vostra, ecc.

Nel mio gruppo eterogeneo è emersa UNA GRAN VOGLIA Dl TROVARSI. Tutti hanno auspicato la possibilità di un’ora di incontro.

Una infermiera proponeva almeno un’ora alla settimana in reparto.

Un’altra signorina del gruppo ha detto che nel loro ospedale viene disattesa, viene tra…

Io tacevano già.

Ecco, allora si vede che questi “me”, se si vuole possono marciare; bisogna però mettere da parte molti preconcetti, non bisogna nascondersi dietro il dito delle difficoltà burocratiche: se c’è la volontà di mettersi insieme ci sono mille modi per superare le difficoltà.

 

? Ben messo l’accento sulla IL MALATO PERSONA.

 

[

Infatti, chi è disposto veramente a mettersi insie me lo fa a qualsiasi condizione. E chi non è disposto nel suo intimo a mettersi in sieme che accampa tutte queste difficoltà. Ecco io non voglio metterla come domanda; la voglio solo mettere come riflessione e ve la passo; mi è venuta in mente e ve la lascio lì.

 

LAVORI DI GRUPPI ETEROGENEI

RELAZIONE:

 

Nuova o diversa visione del malato

Relatore: Dott.ssa M. Rosa Inzoli.

 

Sintesi delle piste di riflessione alla prima domanda:

Gli ospedali nei palazzi rinascimentali ed i nostri ospedali come cattedrali nel deserto: due secoli e due culture a confronto”.

 

1. Si individuano oggi, come 500 anni or sono, due differenti espressioni di umanesimo:

  • l ‘ Umanesimo paganeggiante, ovvero risposte ai bi sogni più superflciali dell’uomo.

  • l’ Umanesimo cristiano, ovvero risposta “integrale” ai bisogni più profondi dell’uomo.

2. Il rischio di oggi è quello di trasformare o costruire ex novo grandi o piccoli ospedali, sontuosi, tecnologici, officine delle parti malate, funzionali allo scientificismo ed avulsi dalla realtà dei bisogni concreti;

3. Si ritiene che nel rispetto dell’esigenza tecnica sia utile recuperare l’aspetto estetico di antichi palazzi o ville con giardini per il loro effetto positivo sulla psiche

dei ricoverati e degli operatori.

4. Viene però avvertito il distacco esistente tra i vertici decisionali e la base.

5. La bella struttura ha valore se dentro vi è il cuore di chi lavora.

6. Il nostro impegno deve far si che la tecnologia sia messo al servio dell’umanizzazione, con l’abbattimento delle barriere architettoniche esistenti e creando

strutture a misura d’uomo con tutti i suoi bisogni.

7. Quando c’è l’impronta del fine ultimo non ci può essere deserto.

 

Sintesi delle piste di riflessione alla seconda domanda:

 

“L’amore e la scienza di San Giovanni di Dio nell’approccio moderno al malato”.

 

1. L’amore congiunto alla scienza aiuta a comprendere quanto sia “diverso” il malato d’oggi.

2. Nell’approccio moderno all’ammalato riteniamo di recuperare l’amore e la scienza di 5. Giovanni di Dio come figura di insegnamento con l’esempio. Ci sentiamo meno propensi all’insagnamento con le parole.

3. A volte, la scienza, di per sé un valore fondamentale della attività degenerata in scientismo, troppo scienza e poco coscienza, non conoscenza e non consapevolezza dei suoi limiti.

4. Si ribadisce la necessità che l’organizzazione è in dispensabile per assistere in modo completo l‘ammalato, ma non deve prevalere il rispetto dell’identità di ogni operatore creando disagi e abolendo il diritto di proporre. Si riafferma il ruolo signfficativo dell’infermiere professionale nell’ambito dell’assistenza.

5. Risultano necessarie strutture di supporto quali: abitazioni, asili nido, sale ricreative per assicurare un’ulteriore serenità durante il lavoro agli operatori.

6. Si devono prendere in considerazione nuovi proble mi quali l’assistenza domiciliare al malato, le vecchie e nuove solitudini, la mancanza di motivazioni al rapporto con la sofferenza.

7. Una attenzione per lo meno pari ad altri bisogni, va posta nei confronti di alcune categorie quali gli etilisti, i tossicodipendenti, gli ammalati di AIDS, gli anziani.

8. Viene dato atto all’Ordine FatebeneFratelli di essere riuscito a cogliere l’esigenza di rendere più umana e ospitale la struttura ospedaliera.

9. Da tutto questo emerge che ogni operatore sanitario deve reimparare ad amare l’uomo con tutti i suoi bisogni.

 

Sintesi della piste di riflessione alla terza domanda:

 

“Le nostre risposte ai problemi sociali del malato acuto e cronico”.

 

1. Le risposte ai problemi sociali vengono sentite co me legate alla creazione e al funzionamento di strutture adeguate con personale motivato.

2. Riteniamo, fra gli aspetti sociali dei malati acuti e cronici, importante il problama del reinserimento dell’ammalato non autosufficiente, da istituti di riposo, dai familiari stessi: in una parola dalla società.

3. Uno dai metodi per risolvere i problemi sono i piani di assistenza. Infatti l’uomo, quando è colpito da una malattia, si trova inserito in un contesto talora violento. In particolare il cronico deve essere aiutato al massimo a mantenere la sua autonomia in quanto la comparsa di disabilità dissolve ogni capacità relazionale.

4. Fra le altra risposta ai problemi sociali dell’ammalato vengono indicati le saguanti:

  • ) sensibilizzazione degli operatori sanitari ai problemi sociali dell’ammalato,

  • b) sollecitazione delle strutture territoriali alla risoluzione di tali problemi,

  • c) collegamento tra le strutture sanitarie ospedaliere e territorio attraverso operatori qualificati,

  • d) quando è possibile il reinserimento nell’ambiente familiare a tutti i costi,

  • e) apporto dei giovani all’anziano e volontariato inteso come legame tra ospedale e famiglia,

 

L’ educazione sanitaria del paziente e di chi gli vive accanto.

 

5. Occorre un ulteriore impegno da parte di tutti gli operatori a portare avanti quanto impostato fino ad oggi.

6. Oobbiamo proporci come mobilitatori di risorse umane (volontari, familiari, assistenti sociali, responsabili economici e politici, ecc.) in grado di condividere con noi la responsabilità della cura in senso globale del malato.

 

Intervento di Don Dario Franzoni

 

lo parlo come capellano per dimostrare che cos’è l’azione pastorale e faccio proprio azione pastorale sottolineando, per me e per voi quanto è stato detto.  Innanzitutto la riflessione su “insieme per servire».

Poichè penso serva per tutti, la ripropongo sinteticamente e non per correggere questo titolo.

 

A mio giudizio, l’insieme è il traguardo, per cui occorrerebbe cambiare, «Servire per essere insieme”.

 Per l’idealità evangelica servire vuoi dire morire, mettersi a disposizione e allora si ha quell’animo che porta ad essere insieme, ma insieme è la vetta per cui non si riesce neanche a servire, mentre se si serve è facile essere insieme.

 La seconda osservazione che desidero fare, seconda e terza -  ne ho tre – riguarda la relazione della Dott.ssa lnzoli. Non è una domanda, ma mi piace moltissimo – e glielo ho già detto personalmente -  la lettura che ha fatto del periodo, molto sinteticamente, del Rinascimento.

 Noi quando andiamo in giro vediamo i monumenti, diciamo sono belli!  Quando lei citava, per esempio, l’ospedale degli Innocenti a Firenze, l’ospedale di Roma vicino al Vaticano, l’ospedale di Parigi… ospedali bellissimi ma che dimenticavano davvero l’uomo. Era vero umanesimo? Grazie per il suggerimento: l’umanesimo viene dai Santi e dai Santi ospedalieri in modo particolare.

 La terza è la sottolineatura che riguarda questo punto: la scienza medica va messa veramente al servizio dell’uomo; non solo la scienza medica ma il medico al servizio dell’uomo.  Oggi siamo portati a divinizzare, a fare del medico quasi un mago, ancora adesso come in epoche passate. Il medico è a servizio, la medicina è a servizio del l’uomo e non l’uomo a servizio della medicina.

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Una seconda cosa ti chiedo, Signore.

 

 

Tonino Bello vescovo

  • Fa’ provare a questa gente che lascio
    l’ebbrezza di camminare insieme.

  • Donale una solidarietà nuova, una comunione profonda,
    una «cospirazione» tenace.

  • Falle sentire che per crescere insieme
    non basta tirar dall’armadio del passato
    i ricordi splendidi e fastosi, di un tempo,
    ma occorre spalancare la finestra del futuro
    progettando insieme, osando insieme,
    sacrificandosi insieme.

  • Da soli non si cammina più.
    Concedile il bisogno di alimentare questa sua coscienza di popolo
    con l’ascolto della tua parola.

  • Concedi, perciò, a questo popolo, la letizia della domenica,
    il senso della festa, la gioia dell’incontro.

  • Liberalo dalla noia del rito, dall’usura del cerimoniale,
    dalla stanchezza delle ripetizioni.

  • Fa’ che le sue Messe siano una danza di giovinezza
    e concerti di campane,
    una liberazione di speranze prigioniere
    e canti di chiesa,
    il disseppellimento di attese comuni
    interrate nelle caverne dell’anima.

IL VANGELO DEI RI…RI…RI… – Angelo Nocent

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Questo è il ritratto di un avventuriero illuminato che nella sua vita avrebbe avuto bisogno di incontrare un San Giovanni di Dio e lo trovò in se stesso…

 

 IL VANGELO DEI RI…RI…RI…

 

Angelo Nocent

 

Caro Salvatore,

 

avevo cominciata in un modo e poi ho rimescolato le carte. La fretta di spedire mi impedisce di ritoccare. Pensaci Tu.

 

Quello  della terza domenica di Quaresima è un vangelo molto curioso:  il vangelo dei  “RI”…, “RI”… “RI”…

 

L’ espressione forte è questa: “Distruggete questo tempio e io lo ri-edificherò”. Una sfida, lì per lì, incomprensibile.

 

Da questo RI-EDIFICHERO’ derivano verbi positivi, luminosi, creativi, di luce:

  • RI-SORGERE,

  • RI-PARTIRE

  • RI-SURREZIONE

  • RI-CONCILIAZIONE

  • RI-NASCITA

  • RI-ALZARSI

  • RI-SVEGLIARSI

 

Questa particella  “RI” vuol dire:

 

  • di nuovo

  • da capo

  • un’altra volta

  • ancora,

  • senza stancarsi

è come se Gesù dicesse: distruggetemi un uomo, uno qualsiasi, e io ve lo rimetto a nuovo.

 

A Dio sta a cuore l’uomo.

 

La vita è sofferenza, distrugge le persone; la morte sembra spadroneggiare… ma noi RI-SORGEREMO.

 

In attesa della risurrezione noi possiamo gia qui essere

 

  • RI-ANIMATI, non solo quando abbiamo i collassi fisici  ma anche quelli spirituali,

  • RI-COSTRUITI quando crolla qualche parete dell’anima,

  • RI-FATTI dopo un terremoto che ci ha ridotto in macerie, ci ha prostrati, messi a terra, nella polvere della miseria morale, proprio quando verrebbe da dire: non c’è più niente da fare.

 

Quando si è anemici si sta male, mancano le forze, non si può reagire, si vede tutto nero, si sente venir meno la terra sotto i piedi…

Senza sangue si muore. E chi è anemico, soffre gravi disagi e la sua è un’esistenza a rischio.

Sangue è sinonimo di energia, vita. Se ti manca sangue, devi correre al pronto soccorso e ti fanno una trasfusione d’urgenza.

 

Ma se l’anima è anemica, che si fa?

Qui nascono i guai: ci sono cristiani che vivono in uno stato di anemia cronica. Non si rendono conto che dove non arriva il sangue viene la nècrosi, le gambe si gonfiano, il cuore si scompensa…

Ciò che succede nel corpo si verifica anche nello spirito. Ma i rimedi ci sono, ci sono. E li conoscete tutti: sono i sacramenti.

E chi non ha la forza di andare al Pronto Soccorso della Chiesa?Ecco la Compagnia dei Globuli Rossi!

Come avrete già visto sul nostro sito internet, improvvisamente è comparsa la  www.compagniadeiglobulirossi.org . Cosa sarà mai? Che siano donatori di sangue?

 

Ebbene, se si va a vedere chi sono, si legge:

“Chi siamo?

Con i carismi comuni della tenerezza: servitium, charitas, hospitalitas ed i carismi particolari di ognuno,  

  • donne e uomini, 

  • laici e consacrati,

  • sani e malati, 

  • giovani e adulti…

SCHIENE A DISPOSIZIONE DI DIO nel cuore del Vangelo  a fararGli strada:”Andate…guarite…annunciate…”(Mt 10,5ss) . 

 

Poi una precisazione: “Le terre di nessuno” sono sconfinate. Ogni talento è prezioso.

Con altre parole si può dire questo:

I cristiani sanno di essere consanguinei del Signore. Coloro che sono più attenti, che se ne rendono conto più di altri, vedono in quale stato pietoso alcuni fratelli trascinano la loro esistenza.

Essi non pretendono di cambiare il mondo, di fare prediche a tutti, di terrorizzare gli indifferenti…No, no, 

  •  essi si prefiggono di CONSOLARE,

  •  di AIUTARE CHI FATICA A PORTARE LA CROCE,

  •   intendono PORTARE LA GIOIA DOVE SI E’ SPENTA, è calata la tristezza.

I cristiani, con la CRESIMA hanno ricevuto dal Vescovo proprio questo mandato: andate a consolare i fratelli, ad asciugare lacrime, a portare buone notizie agli sfiduciati…

Fare questo vuol dire essere SCHIENE A DISPOSIZIONE DI DIO, essere donatori di sangue,  vuol dire iniettare, trasfondere sacche di carità-divina-Sangue-di-Cristo, nei tessuti anemici di coloro che incontriamo sui nostri cammini, lottare senza stancarsi contro tutte le emorragie, rappresentate dalla sofferenza, dalla povertà e dalla miseria umana.

Globuli rossi  è bello: vuol dire recuperare la fede battesimale dimenticata nel guardaroba delle “sempre tante cose da fare”, per  indossarla pubblicamente: “Rivestitevi del Signore nostro Gesù Cristo”. (Rom. 13,14) .

  • VUOL DIRE RIVESTIRSI DI ROSSO, quel rosso che richiama la Passione di Cristo, il suo martirio;

  • vuol dire  indossare la casula come il sacerdote quando celebra la Messa: i laici che diventano sacerdoti fuori dalla Chiesa, nel lavoro, negli ospedali, nelle case…

  • ·        Vuol dire “Donne e uomini, religiosi e laici, uniti  insieme, progettare insieme, camminare insieme, mettere carismi e talenti a disposizione della comunità…per ANDARE, PORTARE, CONDIVIDERE, SANARE… ogni situazione di sofferenza; 

  •  vuol dire essere schiene-persone-mente-cuore-anima a disposizione di Dio.

I membri della Comunità, della Compagnia, pur rivestiti di Luce, sono del tutto coscienti che la comunione con Dio è un dono mai pienamente vissuto, sempre oggetto della nostra speranza.

Proprio per questo sono assidui frequentatori della Comunità orante. Nella preghiera trovano aiuto  a corrispondere all’intimità di questa relazione con il Signore Gesù dal quale possono attingere l’energia vitale da distribuire su territorio.

Se ci unisce la  alla carità scambievole, a imitazione di Gesù che indossa i grembiule e lava i piedi ai discepoli, succedono veri miracoli che cadono a cascata:

  •         passione, 

  •         fervore,

  •         impeto,

  •         zelo,

  •         ardore,

  •         entusiasmo,

  •         impegno,

  •         fantasia,

  •         amore… 

tutti componenti da trasfondere all’uomo incontrato sui diversi percorsi del mondo.

Per DARE bisogna POSSEDERE. Siamo tutti d’accordo.

  •         Se impariamo a lavarci i piedi gli uni gl’altri,

  •         ossia ad avere attenzioni reciproche,

  •        se ci mettiamo al servizio della Comunità e della gente che incontriamo nel vivere quotidiano, con animo semplice, umile e gioioso, sull’esempio del Maestro nell’Ultima Cena,

  •        noi diventiamo la COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI.

Facile no? Più facile di così !?

Shalom!

San Giovanni di Dio - Granada sarà la tua croce

Giovanni di Dio è vangelo vivente dei RI…RI…RI…

QUANDO LA PAROLA METTE SU FAMIGLIA – Angelo Nocent

 

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QUANDO

 

LA “PAROLA

 

METTE SU FAMIGLIA

 

 

Di Angelo Nocent

Shalom! arton667-f833bIl 2 Gennaio 2006 sul Corriere della sera compariva questo interrogativo: “In principio fu il Verbo o il Dna?” Il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia James D. Watson, ha dichiarato di saperlo. Infatti, se l’universo fosse opera di un Creatore, il pipistrello avrebbe le piume. Lo studioso che rivoluzionò la biologia, nel suo articolo spiega come Darwin abbia liberato l’uomo dalla superstizione. Offrendogli un mondo naturale che non era mai stato così meraviglioso. Più che le sue teorie scientifiche, mi ha colpito la folgorante conclusione cui è giunto il Nobel con le sue mirabili scoperte: “Possiamo vivere la nostra vita senza il costante timore di aver offeso questa o quella divinità che va placata con incantesimi o sacrifici, o di essere alla mercé dei demoni o delle Parche.

Se aumenta la conoscenza, l’oscurità intellettuale che ci circonda viene illuminata e impariamo di più della bellezza e della meraviglia del mondo naturale. Non giriamoci attorno: l’affermazione comune secondo la quale l’evoluzione attraverso il meccanismo della selezione naturale è una «teoria», esattamente com’è una teoria quella delle stringhe, è sbagliata. L’evoluzione è una legge (con parecchi elementi), tanto sostanziata quanto qualsiasi altra legge naturale, che sia di gravità, del movimento o di Avogadro.

Shalom rubon109-7e289L’evoluzione è un dato di fatto, messa in discussione soltanto da chi sceglie di negare l’evidenza, accantona il buonsenso e crede invece che alla conoscenza e alla saggezza immutabili si arrivi soltanto con la Rivelazione.”


Caro lettore, stai pure dalla parte di chi vuoi. Sappi però che, se mi vieni dietro, un tratto di oscurità, un tunnel lo dobbiamo attraversare. Ma devi anche sapere che la tenebra più che da ottusità intellettuale deriva da un fattore genetico: il mio telescopio non va oltre le stelle. Perché la luce è talmente accecante che risulta impossibile sfondare quello sbarramento. A meno che…

A meno che… non venga qualcuno a “familiarizzare” con noi, poveri pipistrelli senza piume.


Giovanni, che era solo Apostolo ed Evangelista e difficilmente avrebbe preso il Nobel per via delle sue ri-velazioni, ha indagato anche lui ed è riuscito proprio dove il geniale James D. Watson, con tutto il buon senso del suo sapere, non ha potuto introdurre la sonda. Ed ecco i risultati della perlustrazione:

“In principio,
c’era colui che è “la Parola”.
Egli era con Dio,
Egli era Dio.
Egli era al principio con Dio.
Per mezzo di lui Dio ha creato ogni cosa.
Senza di lui non ha creato nulla.
Egli era la vita
e la vita era luce per gli uomini.
Quella luce risplende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta”

Era nel mondo,
il mondo è stato fatto per mezzo di lui,
ma il mondo non l’ha riconosciuto.
È venuto nel mondo che è suo
ma i suoi non l’hanno accolto.
Alcuni però hanno creduto in lui.
A questi Dio ha fatto il dono
di diventare figli di Dio.
Non sono diventati figli di Dio per nascita naturale,
per volontà di un uomo:
è Dio che ha dato loro la nuova vita.
Colui che è “la Parola” è diventato un uomo
ed è vissuto in mezzo a noi uomini.
Noi abbiamo contemplato
il suo splendore divino.
È lo splendore
del Figlio unico del Dio Padre,
pieno della vera grazia divina! “ (Gv 1,ss)
 

 


Lasciando agli scienziati di proseguire per la loro strada, con l’augurio sincero che non finiscano intrappolati nella rete dei pregiudizi, proseguo per la via indicata dalle Scritture. Noi siamo nella Parola di Dio, essa ci spiega e ci fa esistere. Questa è la nostra fede. E’ stata la Parola per prima a rompere il silenzio, a dire il nostro nome, a dare un progetto alla nostra vita.

Non sarà mai ripetuto abbastanza che

  • È in questa Parola che il nascere e il morire, l’amare e il donarsi, il lavoro e la società hanno un senso ultimo e una speranza.
  • E’ grazie a questa Parola che io sono qui e tento di esprimermi e tu sei lì e cerchi d’intendermi: “Nella tua luce vediamo la luce” (Sal 35,10)

Di fronte al mistero del Dio Vivente, auspico che ogni lettore possa provare con me quell’impressione di Isaia che sentiva il disagio delle labbra impure (Is 6,5):

“Allora gridai:
“È finita! Sono morto.
È finita perché sono un peccatore
e ho visto con i miei occhi il Re, il Signore
dell’universo!
Ogni parola che esce dalla mia bocca
e da quella del mio popolo
è solo peccato”.
 

 

 

 

 

 

 

Dire famiglia è parlare del Dio vivente, sentirsi alla sua presenza. Viene spontanea l’implorazione di Pietro: “Signore, allontanati da me che sono un uomo peccatore”. (Lc 5,8)
Ai credenti certamente, ma anche a coloro che non si sentono di condividere la fede cattolica, la Parola di Dio può parlare, aprire la via del cuore. Ogni uomo dalla Parola può essere messo al servizio dell’uomo.

 

SHALôM” il saluto della famiglia

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Shalôm foto1 

Il termine biblico Shalôm descrive una dimensione originaria della vita umana caratterizzata dall’abbondanza e dalla pienezza di senso.

  1. Il significato letterale sembra comprendere l’idea di PACE-BENEVOLENZA in opposizione a guerra e inimicizia, e quella di BENESSERE-COMPLETEZZA, con forte accento sui beni materiali, ma anche sull’armonia e la forza del corpo e dell’animo umano.
  2. Nella sua forma verbale può assumere il significato di PAGARE-RIPAGARE, come nell’espressione lebab shalem , che significa “cuore che paga”, nel senso di cuorericonoscente (al Signore);
  3. oppure il significato di ESSERE COMPLETO, come in 1Re 9,25: “Egli (Salomone) completò (Shalam) il tempio”.
    Volendo ulteriormente esemplificare:
  4. Shalôm è benedizione: presenza di Dio;
  5. Shalôm è frutto di giustizia sociale, di rispetto del diritto; di educazione sapiente dell’uomo;
  6. Con la sua fecondità e abbondanza, anche la natura è manifestazione di Shalôm ;
  7. Shalôm è un termine che esprime anche una promessa:
  8. Shalôm ha un forte senso religioso; è’ il dono di Dio perché gli ideali che sembrano impossibili possano concretizzarsi;
  9. Shalôm è la pienezza che ricolma ogni carenza, che risana ogni ferita.
  10. Come sostantivo è usato per descrivere la situazione di CHI HA A SUFFICIENZA, CON MISURA TRABOCCANTE, SENZA AVERE NULLA DI MENO DEL MASSIMO.
  11. L’espressione “fare shalom” è talvolta sinonimo di “stipulare un accordo, un patto”.
  12. Nel Salmo 85,11 Shalôm fa coppia con giustizia, per escrivere la pienezza dei beni messianici: “Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno…”.
  13. Il Salmo 22 ne illustra bene il significato, anche se non compare il termine specifico Shalôm: ” Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla…il mio calice trabocca…”.
  14. Sono molti i nomi propri che portano la radice Shalôm: Gerusalemme (città della pace), Salomone (la sua  ricompensa), Assalonne (mio padre è pace) e molti altri.

Abbondanza e pienezza di senso rientrano nel progetto di Dio. Le patologie della famiglia si possono curare se ci si apre alla  condivisione delle problematiche. Segregarsi con le proprie incognite equivale a chiudersi nel cucinino senza sfiatatoio: la pentola bolle, l’acqua fuoriesce, la fiamma si spegne e il gas si disperde incontrollato…

Ciao-Shalôm

Di fronte a tante famiglie deluse e scoraggiate, esiste una cosa pratica che si può fare subito, un intervento per tamponare l’emergenza? Ce lo insegnano gli ebrei, i nostri fratelli maggiori: immettere in circolazione e scambiarsi questa benedizione che è
anche promessa e speranza.
Ciao di qua…, ciao di là…E perché no Shalôm ? Così, se verremo interrogati sul significato del saluto, si aprirà uno spiraglio che permetterà l’aggancio alla Parola.

1). La famiglia in primo luogo, passa attraverso il medesimo processo che attraversa una Comunità, una nuova Chiesa che si costituisce. Quando la famiglia non è ancora costituita (ossia lo è solo in senso anagrafico), i suoi componenti assomigliano ai due discepoli che andavano a Emmaus. Essi non capivano ciò che era accaduto a Gerusalemme (la croce) ed erano delusi per la non avvenuta liberazione del popolo e per la risurrezione che non si
era ancora vista.

Caravaggio Emmaus 800px-Caravaggio.emmausIl compagnio di viaggio (Gesù) cosa fa? Familiarizza, crea le condizioni per…: “Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano. Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti”. (Lc 24,27)

E’ solo dopo questo cammino che si aprirono i loro occhi, cosi che allo spezzare del panelo riconobbero.
 

Da questo quadro si ricava una prima lezione:

 

 

 

 

 

  • Che bisogna fare propria la Parola di Dio;
  • Che è sconsigliabile la via delle scorciatoie.
  • Che le partenze a freddo vanno scoraggiate.
  • Che i motori rendono se sono riscaldati.
  • Nella vita succede la stessa cosa: il cuore, prima di agire, ha bisogno di essere acceso:
    Si dissero l’un l’altro: “Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.

Se portiamo subito il discorso – come spesso avviene – sulla morale coniugale, l’educazione sessuale, l’aborto, il divorzio…finiamo presto nelle sabbie mobili e scattano puntualmente le delusioni dei discepoli di Emmaus. Se non viene rispettata la fase del preriscaldamento con le sole Parole capaci di infiammarci l’anima, certe scelte diventano difficili.

Chi ha il cuore in ebollizione, facilmente può

  • amare la norma,
  • tagliare legami,
  • rinnegare se stesso,
  • prendere la croce,
  • seguire,
  • accettare,
  • farsi prossimo…

Molti di noi, pur avendo una certa fede, non hanno ancora avuto modo di scoprire che la Parola di Dio è veramente di Dio e non degli uomini. E proprio perché sua, è un dono fatto a tutti. La famiglia deve imparare a conoscere nel Primo Testamento la Parola di Dio indirizzata a lei. Abramo, Mosè, Davide, i Salmi, i Profeti…sono parole di luce e di verità per la famiglia nell’’insieme e per i suoi singoli componenti.

2). Il secondo momento consiste nel mettere insieme la vita e la Parola: devo scoprire che la Parola di Dio se ricevuta con povertà di spirito, ossia a mani tese, opera e trasforma la vita. Se apro le mani, nell’atteggiamento del bisognoso, ricevo i doni di Dio, destinati a fruttificare.

3). La Parola agisce sul nucleo familiare ma illumina anche le storie personali. A poco a poco ognuno scopre che Dio è presente sulla sua strada, anzi, si fa riconoscere proprio nelle situazioni di deserto, di morte, di disperazione, di abbattimento.

  • La famiglia è il cammino di una comunità, fondato sulla Parola; ad ogni componente che vi aderisce con fede dovrà essere fedelmente annunciata.
  • In ogni nucleo familiare è necessario che vi sia un responsabile per l’annuncio della Parola.
  • Potrebbe non essere sempre la medesima persona a fare l’annuncio, ma un componente deve portare le responsabilità globali.

Il responsabile ha dei criteri di base cui ispirarsi? Penso che l’Apostolo Paolo sia il consigliere migliore. Egli, rivolgendosi alla Chiesa di Tessalonicco, da lui fondata, parla di se stesso con i termini di padre e nutrice:

“mi sono comportato tra voi con dolcezza, come una madre che ha cura dei suoibambini.

8Mi sono affezionato a voi, e vi ho voluto bene fino al punto che vi avrei dato non solo il messaggio di salvezza che viene da Dio, ma anche la mia vita.

9Infatti, fratelli, voi ricordate la dura fatica che ho affrontato: ho lavorato notte e giorno per potervi annunziare la parola di Dio, senza essere di peso a nessuno.  

10Voi siete, con Dio, testimoni del mio comportamento. Potete dire quanto è stato
giusto, santo e corretto il mio modo di agire verso tutti i credenti.

11Sapete che ho agito verso ciascuno di voi, come fa un padre con i suoi figli. 12Vi ho esortati e incoraggiati, vi ho scongiurati di comportarvi in maniera degna di Dio, perché Dio vi chiama al suo regno e alla sua gloria.” (1Tess 5-12)

Paolo è padre perché ha fondato quella Chiesa sulla Parola: e su quella Parola la aiuta a crescere. L’impostazione è meno teorica e astratta di quanto possa sembrare. Epperò esige che qualcuno scopra il senso della paternità/maternità, giacché implica dono di se, amore, vigilanza, cura e sollecitudine per l’annuncio domestico della Parola e per la crescita dei membri familiari. Senza un vero punto di riferimento, se manca la persona

  • caratterizzata da una fiducia senza limiti nella Parola,
  • che crede al suo potere trasformante,
  • che abitua gli altri a confrontarsi con essa, tutto si riduce a pii desideri.

L’uomo nuovo nasce quando cessa di ragionare solo con categorie umane e decide di mettere le “situazioni” di fronte alla Parola.Nessuno si scoraggi se percepisce come inapplicabile tale impostazione schematica.
L’evangelizzatore è un povero che bussa alle porte. Dio non si serve delle nostre qualità e delle nostre “ricchezze”, ma utilizza abitualmente le nostre debolezze e passa attraverso i nostri limiti. Ognuno provi ad essere un annuncio vivente consapevole di essere “forte proprio quando è debole” (“ Cor 12, 1-10)

 

 

Il Maestro, povero e rifiutato, fa testo.

Alcuni verbi di moto da annotare nel taccuino:

 

 

 

  • stimolare,
  • decidersi per…,
  • andare,
  • non indugiare,
  • annunciare…

Alcuni Nota-Bene:

  1.  Molte cose si potranno chiarire solo strada facendo;
  2.  Quando le condizioni famigliari sono strette, bisogna unirsi ad altri gruppi;
  3. Internet può essere uno strumento di supporto, ma non può mai sostituirsi al Testo Sacro ed alle persone;
  4. In una mano la Bibbia e nell’altra il mouse per la navigazione;
  5. Un evidenziatore sempre a disposizione per sottolineare verbi e aggettivi del testo biblico.

E,  per concludere: Shalôm!   Di tutto cuore.

Angelo Nocent

 

 

QUANDO I PIPISTRELLI METTONO LE PIUME – Angelo Nocent

 

pipistrelli - nidi

 QUANDO I PIPISTRELLI METTONO LE PIUME

 

Le domande che pungono sul vivo

Angelo Nocent

Shalðm!

Sul nostro percorso incontriamo parole che confondono, altre illuminanti. L’idea che la Parola di Dio, quando raggiunge il mio Dna ne influenzi le frequenze e ne modifichi i suoi componenti può essere credibile?

E’ di questi giorni l’ultima notizia che, se attendibile, potrebbe metterci di fronte a una svolta epocale. La bomba messa in circolazione è questa: il Dna ci parla di altri universi. Stando alle ricerche di scienziati russi (Garjajev) comunicate dai tedeschi G. Gosar e F. Bludorf nel libro “Vernetze intelligenz”, sembrerebbe proprio di sì. Questi scienziati avrebbero studiato con genetisti e linguisti per dimostrare che il Dna

• serve da magazzino di informazioni e per la comunicazione,
• avrebbe un comportamento vibratorio emettitore di frequenze e ricettore, a sua volta, di frequenze.
• In sostanza, parole pronunciate con il tono appropriato o suoni specifici, potrebbero influenzare le frequenze del Dna, modificando i suoi comportamenti.

Qualcuno vi ha gia letto i miracoli di Cristo: la sua voce raggiungeva il Dna. Naturalmente gli scienziati sono andati oltre questo semplice accenno. Al di là delle suggestioni di queste ipotesi, ho voluto riprendere la notizia perché mi premeva questo: sottolineare che la Parola di Dio ha davvero una forza capace di cambiarmi profondamente il cuore, ossia di andare alla radice del mio essere. Poi, sul come interagisca sulle mie cellule, ce lo faremo spiegare dagli studiosi un’altra volta.

Test sperimentale

Gesù risorto appare ai discepoli di Emmaus (Luca 24, 13-35) (vedi anche Marco 16, 12-13)

” 13 Quello stesso giorno due discepoli stavano andando verso Emmaus, un villaggio lontano circa undici chilometri da Gerusalemme.

14
Lungo la via parlavano tra loro di quel che era accaduto in Gerusalemme in quei giorni.
15
Mentre parlavano e discutevano, Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro.

16
Essi però non lo riconobbero, perché i loro occhi erano come accecati.
17
Gesù domandò loro:
- Di che cosa state discutendo tra voi mentre camminate?
Essi allora si fermarono, tristi.
18
Uno di loro, un certo Clèopa, disse a Gesù:
- Sei tu l’unico a Gerusalemme a non sapere quel che è successo in questi ultimi giorni?
19
Gesù domandò: – Che cosa? Quelli risposero: – Il caso di Gesù, il Nazareno! Era un profeta potente davanti a Dio e agli uomini, sia
per quel che faceva sia per quel che diceva.
20
Ma i capi dei sacerdoti e il popolo l’hanno condannato a morte e l’hanno fatto crocifiggere.
21
Noi speravamo che fosse lui a liberare il popolo d’Israele! Ma siamo già al terzo giorno da quando sono accaduti questi fatti.
22
Una cosa però ci ha sconvolto: alcune donne del nostro gruppo sono andate di buon mattino al sepolcro di Gesù
23
ma non hanno trovato il suo corpo. Allora sono tornate indietro e ci hanno detto di aver avuto una visione: alcuni angeli le hanno assicurate che Gesù è vivo.
24
Poi sono andati al sepolcro altri del nostro gruppo e hanno trovato tutto come avevano detto le donne, ma lui, Gesù, non l’hanno visto.
25
Allora Gesù disse:
- Voi capite poco davvero; come siete lenti a credere quel che i profeti hanno scritto!
26
Il Messia non doveva forse soffrire queste cose prima di entrare nella sua gloria?
27
Quindi Gesù spiegò ai due discepoli i passi della Bibbia che lo riguardavano.
Cominciò dai libri di Mosè fino agli scritti di tutti i profeti.
28
Intanto arrivarono al villaggio dove erano diretti, e Gesù fece finta di continuare il viaggio.
29
Ma quei due discepoli lo trattennero dicendo: “Resta con noi perché il sole ormai tramonta
“. Perciò Gesù entrò nel villaggio per rimanere con loro.
30
Poi si mise a tavola con loro, prese il pane e pronunziò la preghiera di benedizione; lo spezzò e cominciò a distribuirlo.
31
In quel momento gli occhi dei due discepoli si aprirono e riconobbero Gesù, ma lui spari dalla loro vista.
32
Si dissero l’un l’altro: “Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
33
Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.
34
Questi dicevano: “Il Signore è veramente
risorto ed è apparso a Simone”.

35
A loro volta i due discepoli raccontarono quel che era loro accaduto lungo il cammino, e dicevano che lo avevano riconosciuto mentre spezzava il pane.”

Questa è la parabola che ci ritrae come singoli e come comunità, famiglia. Soli o in compagnia, girovaghiamo tra delusioni e sconforti. I produttori di ansiolitici e psicofarmaci fanno affari d’oro perché la domanda cresce in modo esponenziale.

Se a bruciapelo uno mi porgesse questo quesito:

  • Ma tu, come vivi il tuo rapporto col Signore?

  • Lo senti davvero vicino a te, come una presenza viva?

  • Oppure è un rapporto più che altro razionale, che rischia però di rimanere sterile?

Quello di stabilire un rapporto con Dio, ma di perderne la dimensione viva, vitale, personale è un rischio che corrono sia i professionisti che i consumatori del sacro, ossia tutti noi: preti e laici. Se questa domanda mi venisse posta mentre mi trovo davanti a un piatto fumante di spaghetti, la probabilità di strapparmi una risposta deludente sarebbe
molto elevata. Perché ho tirato fuori gli spaghetti? Perché parliamo di famiglia e perché i discorsi più profondi sul Signore e col Signore, come ci attestano i Vangeli e lo stesso brano riportato, si fanno proprio a tavola.

Questa è un a domanda che punge sul vivo, perché raramente il Signore è immediatamente percepibile. Se guardo dentro di me, con tutta onestà mi rendo conto che il rapporto con Dio non è mai garantito, non va mai dato per scontato. Talvolta il Signore lo sento lontano, come lontano da lui mi sento io quando mi rendo conto di prendere le distanze dalla missione che mi ha affidato, dalla via che mi ha indicato.

Adesso provo a rivoltare la domanda: dov’è il tuo Signore? Ti accompagna nel cammino? La risposta ognuno se la dia tra sé e sé.

Rimando la riflessione sul brano evangelico di Emmaus ed invito a concentrare l’attenzione su queste parole:

“32  Si dissero l’un l’altro: “Non ci sentivamo come un fuoco nel cuore, quando egli lungo la via ci parlava e ci spiegava la Bibbia?”.
33  Quindi si alzarono e ritornarono subito a Gerusalemme. Là, trovarono gli undici discepoli riuniti con i loro compagni.

Mi limito a evidenziare che la parabola racchiude in sé è un invito ad abbandonare l’inerzia. Anche il girare a vuoto è inerzia, anche perdersi in ore ed ore di navigazione su Internet può celare uno stato di oziosità spirituale: vorrei, ma non so, non oso, non me la sento, non vedo nulla di concreto…
Il messaggio che vorrei far passare oggi è questo: avete in mente i pipistrelli senza piume del nostro premio Nobel James D. Watson? Ebbene, si possono mettere le piume solo prendendo confidenza con la Bibbia.

Così scriveva l’Arcivescovo Martini alla sua Diocesi: “Per un primo impatto con la fede cristiana,

• una ben studiata aderenza alla pedagogia del testo biblico favorisce un contatto con gli elementi essenziali della fede;
• permette itinerari diversi e complementari, sempre orientati alla centralità del mistero pasquale;
• assicura quel costante contatto con la realtà storica, che dà fondamento critico alle certezze della fede;
• assume un andamento esistenziale e narrativo, che permette di congiungere una estrema concretezza con inesauribili risorse contemplative e spunti riflessivi;
• propone una mirabile varietà di formule sintetiche, con cui la fede, senza nulla perdere della sua vastità e complessità, riesce però a dire la sua pregnante compiutezza nel giro di poche parole.”

Ad una famiglia qualsiasi che decide di muovere i primi passi, farei due considerazioni:

1. Tu hai “fame di Parola”, noi abbiamo “fame di Parola”.
2. Non è sufficiente che io ti regali una Bibbia,
3. Non basta che tu ce l’abbia nella tua vetrina, bella, elegante, illustrata,
4. Non è sufficiente che qualcuno metta nelle tue mani il testo delle Scritture,
5. Non è sufficiente che tu l’ascolti nella lingua volgare.
6. Bisogna che tu sia abilitato a tale ascolto, attraverso la frequenza a
conferenze, a scuole della Parola, a sussidi, incontri con competenti che prevedano l’apprendimento delle metodologie della lettura, della meditazione e dell’attualizzazione della Bibbia.

Per evitare di farne una lettura letteralistica e mitica, uno deve acquisire la capacità di accostare la Bibbia, libro di sua natura complesso, perché comprende generi letterari diversi, dovuti al fatto di essere stata composta lentamente attraverso i secoli e conclusasi con l’Apocalisse.

Suggerirei di iniziare affrontando alcuni temi biblici particolarmente significativi che avranno certamente una ricaduta anche sulla tematica familiare che ci siamo dati come obiettivo:
• misericordia,
• fedeltà,
• peccato,
• liberazione

Una buona provocazione spirituale può venire dai seguenti testi:

1. Luca 4, 16-30 con i salmi 46, 72 e il canto d’Isaia 61;
2. Luca 23, 32-54 con il salmo 31;
3. Luca 6, 20-38 con i salmi 27, 73,131
4. Luca 12, 13-34 con i salmi 130, 136, 133
5. Giovanni 13, 1-17 con i salmi 130, 136, 133

Meriterebbe affrontare da subito la parabola dei talenti (Mt 25, 14-30) che non va letta in modo moralistico. I talenti non sono le nostre qualità personali, bensì i grandi doni che ci sono stati annunciati:

• il Cristo,
• il Regno,
• la Parola,
• le Beatitudini,
• la libertà,
• l’abbandono,
• l’agàpe, cioè l’amore gratuito.

Il Regno costituisce il vero punto di partenza di una famiglia in cammino. Se non viene colto il senso, si finisce in breve tempo in un vicolo cieco.

La Bibbia nella famiglia – Ascoltatori smemorati

Il Card. Carlo Maria Martini nella lettera al clero e ai fedeli sul tema: “La parola di Dio nella liturgia e nella vita” così scriveva a proposito della Bibbia nella famiglia:

“Dobbiamo, purtroppo, collocare la famiglia tra gli ambiti di difficile penetrazione della Parola di Dio. La famiglia, di per sé, dovrebbe essere un luogo di intensa comunicazione non solo della parola di Dio, ma anche di quelle fondamentali parole umane che introducono al senso profondo della vita. In realtà la famiglia vede molto  compromessa, nella società attuale, la sola insostituibile funzione educativa. Alcuni sintomi allarmanti denunciano la crisi profonda di quei valori umani, di cui la famiglia è portatrice in modo specifico e costitutivo. Per esempio, il rapporto uomo-donna tende a perdere la sua specifica caratteristica di dedizione incondizionata e definitiva, per uniformarsi ad altri rapporti
umani a breve scadenza, fondati sull’interesse, sull’arbitrio, su quello che di volta in volta appare come utile e piacevole, senza il coraggio della libera scelta irrevocabile.

Così la tipicità del rapporto genitori-figli viene intaccata sia dal fatto che il figlio tende ad essere visto come un fenomeno accessorio o addirittura fastidioso del rapporto coniugale, sia dal fatto che altre e contraddittorie figure di adulti, che si presumono autorevoli, impongono se stesse ai figli, non in collaborazione con l’autorevolezza dei genitori, ma spesso in sottile o clamoroso contrasto, rendendo ancora più difficile il dialogo familiare, già disturbato dall’ingigantito “salto generazionale”.

La conseguenza di tutto ciò è una grave riduzione del rilievo sociale e culturale della famiglia. Il senso pregnante di quelle fondamentali parole a cui uno deve far riferimento per orientarsi nella vita – come amore, lavoro, amicizia, apertura al mistero, nascita, morte, dolore, onestà sociale ecc. – non è più determinato dall’ambito familiare, con la sua carica di vita vissuta, di sapienza tradizionale, di affetto rispettoso, ma tende a essere influenzato sempre più da mille altre voci extra-familiari, spesso caratterizzate da superficialità, da distorsioni, da intenti di strumentalizzazione e di cattura psicologica.

Anche i tempi del dialogo familiare e dell’intimità post-lavorativa vengono invasi dai mezzi di comunicazione sociale, che condizionano pesantemente la vita intellettuale e affettiva della famiglia.

Occorre aiutare la famiglia a ritrovare il gusto e la responsabilità di quei valori umani originali, che in essa vengono celebrati a beneficio delle persone e, a lungo andare, dell’intera convivenza sociale.

Se la famiglia riuscisse a raccogliere se stessa, intorno alla parola di Dio, o riandando a ciò che fu proclamato in chiesa, durante la liturgia, o leggendodirettamente e organicamente le pagine bibliche, troverebbe una fonte inesauribile di messaggi preziosi circa la vita stessa della famiglia, circa le vicende che i familiari attraversano nelle diverse stagioni della vita, circa gli avvenimenti che succedono nel mondo d’oggi. Allora fatti e situazioni entrerebbero nella famiglia, non più in forma grezza e incombente, ma attraverso quel filtro di sapienza e di serenità che è la parola di Dio.

Questa Parola, inoltre, potrebbe stimolare le famiglie a inventare una socialità nuova, superando, anche a prezzo di tempo e di fatica, le aggregazioni istintive e discriminanti, fondate sulla comune estrazione sociale e culturale.
Le parrocchie si impegnino a preparare sussidi opportuni, utilizzando il bollettino parrocchiale, prevedendo nel programma di catechesi dei ragazzi qualche parte da svolgere in famiglia con i genitori, educando le famiglie più sensibili a una meditazione comune dei testi biblici almeno nei tempi forti dell’anno liturgico.

La visita annuale alle famiglie (trovando ad esempio anche il tempo di leggere insieme un Salmo e attualizzandolo brevemente) sarà un tempo propizio per stimolare questa apertura della comunità familiare alla parola di Dio.”

Il fatto che un gruppo di persone abbia pensato di sviluppare queste tematiche che vivono  per prime come meglio possono nelle rispettive famiglie, è un tentativo in atto di aprire la comunità familiare alla Parola di Dio.

L’amore di Gesù si esprime anche con gli ammonimenti. Eccone uno:

  • (Lc 11, 28):
    “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” .

  • Giovanni 13, 17:
    “Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” .

  • San Giacomo esorta a non essere “come un ascoltatore smemorato” (Giac 1, 25).

I verbi da memorizzare:

  •  ascoltare la Parola,

  •  vivere la Parola,

  • custodire la Parola,

  • praticare la Parola.

Per non perdere il contatto con la parabola, una sottolineatura: quelli che erano tornati a Emmaus per mettere fine al loro peregrinare, per rinunciare alla loro missione,

  • capiscono che il cammino deve proseguire;

  • e il loro cammino riceve una nuova direzione.

  • Non è più il cammino mesto e rassegnato di chi se ne torna a casa con le pive nel sacco,

  • ma il cammino gioioso di chi sfida la notte e i suoi pericoli per correre alla città santa e annunziare agli altri discepoli la buona notizia della risurrezione del Cristo.

Ecco un miracolo della Parola operato in persone sfiduciate. Esso è destinato a ripetersi, ripetersi, ripetersi…

Pipistrelli

03 – GLI “ADESSO” DELLA COMPAGNIA – Angeo Nocent

 adesso - testata di Primo Mazzolari -1 

 

SE NON ORA, QUANDO?

SE NON IO, CHI?

 

“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! 

 

  •  C’è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato, finché non sia compiuto!

  • Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra?

  • No, vi dico, ma la divisione. 

  • D’ora innanzi in una casa di cinque persone si divideranno tre contro due e due contro tre;

  • padre contro figlio e figlio contro padre,

  • madre contro figlia e figlia contro madre,

  • suocera contro nuora e nuora contro suocera». (Lc 12,49-53)

 

Paolo VI accende una lampadaGiovanni Battista aveva detto di lui: “Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.

 

SE NON ORA, QUANDO?

SE NON IO, CHI?

 

 

ADESSO

 

1. ADESSO è l’ adesso dell’Uomo, l’attimo delle sue giornate nell’Oggi Eterno di Dio.

E’ anche l’ADESSO di Dio: il Natale che entra nella mia esistenza:

  • Di me che credo,

  • Di me che mi dichiaro non credente,

  • Di chi lavora, soffre, spera di costruire un mondo migliore,

  • Di chi, stanco e deluso, vive lo smarrimento e l’angoscia.

  • A tutti è offerta la felicità dell’EVENTO capace di sconvolgere la vita,

  • Tutti possono accogliere il VERBO, la parola di Dio fatta carne,

  • Tutti possono aprire le porte per diventare in Gesù Figlio del Padre, figli di Dio.

  • Per qualcuno può essere l’inizio di un viaggio nuovo.

  • Di fronte all’annuncio incredibile dell’amore e della luce di Dio, del Dio con noi, si può pregare e adorare estatici, a condizione di essere umili pastori r apiti d al mistero della luce sfolgorante che squarcia le tenebre della terra.

  • Ma scatta l’esigenza di portare al mondo la BUONA NOTIZIA: che Dio ci ama teneramente e ci conosce per  nome.

  •  ADESSO E’ l’ ADESSO di Maria all’angelo, il “” che tramuta la Parola in Carne: gli aggregati nel suo nome non si propongono solo di limitarsi ad umanizzare la sanità ed i luoghi di sofferenza in cui s’imbattono nel quotidiano, ma tendono alla divinizzazione dell’uomo, appoggiandosi unicamente sulla forza dello Spirito che è Vita e ci abita.

 Paolo VI accende una lampada

 2. ADESSO è l’uscire dalla notte di pesca infruttuosa, riconoscere il misterioso personaggio che appare sul lago della vita, rompere il silenzio del mattino e gridare con la fede della Chiesa primitiva: “E’ il Signore” (Gv 21,7)

Paolo VI accende una lampada 

3. ADESSO è distruggere in se stessi tutto ciò che alla Parola si oppone: paure, infedeltà, indolenze, per aprirsi alla forza dello Spirito, in un atteggiamento di obbedienza alla Sua ispirazione.

Paolo VI accende una lampada

 4  . ADESSO è sogno e visione. Il già e non ancora… del Movimento “Compagnia dei GLOBULI ROSSI di San Giovanni di Dio” – (CGR), storia ancora tutta da scrivere.

  • Si prefigge di essere strumento di animazione della CGR che si affida all’azione dello Spirito, nella consapevolezza che solo i figli di Dio, nel senso neotestamentario, sono i veri liberatori del creato, capaci di ridare alla creazione il suo senso, in virtù della conoscenza che loro ne dà il Verbo, per cui tutte le cose furono fatte (Gv 15,5).

  • Si propone ai Collaboratori dei Centri Fatebenefratelli e a tutti coloro che operano negli spazi della sanità pubblica, nei centri di accoglienza, nelle “terre di nessuno”, dove la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto (Rom 8, 18-25).

  • Premesso che il Figlio, ed Egli solo, passando dovunque e facendo il bene e sanando tutti (Atti 10,38), vivendo e morendo durissimamente, da Figlio, in un mondo totalmente schiavo e non ancora redento da alcuno, ha aperto, tra gli scogli del peccato e attraverso il baratro della morte, il vero arduo e definitivo sentiero della liberazione del creato (Mt 7, 13-14 e Lc 13,22-24),

  • Il Movimento si presenta come espressione del carisma formidabile che ha ispirato il Patrono dei malati e degli operatori sanitari, san Giovanni di Dio, riconosciuto ed enunciato nella Chiesa come fondatore dell’ordine religioso dell’hospitalitas”, ossia del servizio sanante, nel significato più esteso del termine, ispiratosi alla scuola del Maestro Divino, il Samaritano dell’umanità.

  • Gli aggregati nel suo nome non si propongono solo di limitarsi ad umanizzare la sanità, le istituzioni, ma tendono alla divinizzazione dell’uomo, facendo afidamento unicamente sulla forza dello Spirito.

Paolo VI accende una lampada 

Essi partono dalla consapevolezza che,

  • mentre la sapienza psichica di questo mondo (1Cor 2,6), (laica non necessariamente nel senso di laicistica) lavora, con la sincerità di cui è capace, per la umanizzazione del mondo al fine di liberare l’uomo,

  • il discepolo di Gesù (l’uomo pneumatico) è messo a parte dallo Spirito di Dio di un progetto di salvezza-liberazione-dell’uomo, che è propriamente divino, e che nessun occhio, né orecchio, né cuore “laico” può mai arrivare a sospettare e ad apprezzare (1 Cor 2,9).

  • L’uomo psichico è giunto a concepire che si può liberare l’uomo, mediante la umanizzazione del mondo, della società, delle sue strutture, delle relazioni sociali e internazionali;

  •  Lo Spirito insegna a discernere e a non confondere (1Tess. 5,19-22): non un mondo più umano può davvero liberare l’uomo, ma solamente uomini diventati figli di Dio nel Figlio unico possono liberare il mondo.

  • Essi credono che non c’è da attendere che il mondo -società, stati, famiglie, ambienti, comunità, ospedali – sia disinquinato, per cominciare a vivere da uomini. Lo Spirito di Dio dà forza per cominciare oggi, ADESSO a vivere da figli di Dio, dovunque ci si trovi (Lc 10, 28-37).

  • “Il cristiano maturo ricorda quanti mali sono derivati, nella storia, all’umanità, alla chiesa, dalla confusione della psiche e dello Spirito, delle parole di Spirito con le parole di sapienza umana, delle imprese destinate alla “polis” degli uomini e di quelle concernenti la Chiesa di Dio, Sposa di Gesù” (Francesco Rossi De Gasperis s.j).

Paolo VI accende una lampada

5. ADESSO è distruggere in se stessi tutto ciò che alla Parola si oppone: paure, infedeltà, indolenze, per aprirsi alla forza dello Spirito, in un atteggiamento di obbedienza alla Sua ispirazione.

 

 6. ADESSO è una parola d’ordine che sott’intende: “super omnia Charitas”. E’ l’ “amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per molto lo amiate, molto più Lui ama voi. AbbIate sempre carità, perché dove non cè vcarità non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo” di cui parla Giovanni di Dio in una sua lettera a Loui Bautista.

Paolo VI nel suo vaggio in Oceania, a proposito della carià ha detto: “Questa è, a noi sembra, la virtù principale, che è demandata alla Chiesa Cattolica in quest’ora delmondo”.

Due modi di dire:

  • “carità organizzata” (Paolo VI)

  • “carità incarnata (Patriarca Atenagora)

7. ADESSO è un’idea. Sant’Agostino è la persona più adatta per spiegare un simile concetto:

Tu puoi averla nel tuo cuore e sarà come un’idea nata nella tua mente, da essa partorita come sua prole, sarà come un figlio del tuo cuore.

Se, ad esempio, devi costruire un edificio, devi realizzare qualcosa digrande, prima ne concepisci l’idea nella tua mente.

  • L’idea è già nata quando l’opera non è ancora eseguita;

  •  tu vedi già quello che vuoi fare, ma gli altri non potranno ammirarlo se non quando avrai costruito e ultimato l’edificio,se non quando avrai realizzato e portato a compimento la tua opera.

  •  Essi ammirano il tuo progetto e aspettano la costruzione mirabile; restano ammirati di fronte a ciò che vedono e amano ciò che ancora non vedono: chi può, infatti, vedere l’idea?” (S.Agostino Comm.Vangelo Giov. I).

  

Ai GLOBULI ROSSI coinvolti nell’ADESSO è chiesto di impossessarsene e renderla visibile sotto la guida dello Spirito e del suo uomo di fiducia, il Capo-mastro di Granada.

 

8. ADESSO è una luce: si rifà alla grande visione dell’Evangelista: ” E la luce risplende tra le tenebre, ma le tenebre non l’hanno compresa (Gv 1, 5).

Sant’Agostino così commenta:

Immaginate, fratelli, un cieco in pieno sole: il sole è presente a lui, ma lui è assente al sole. Così è degli stolti, dei malvagi, degli iniqui: il loro cuore è cieco;

la sapienza è lì presente, ma trovandosi di fronte a un cieco, per gli occhi di costui è come se essa non ci fosse;

non perché la sapienza non sia presente a lui, ma è lui che è assente.

Che deve fare allora quest’uomo?

Purifichi l’occhio con cui potrà vedere Dio.

Faccia conto di non riuscire a vedere perché ha gli occhi sporchi o malati: per la polvere, per un’infiammazione o per il fumo.

Il medico gli dirà: Pulisciti gli occhi, liberandoti da tutto ciò che ti impedisce di vedere la luce.

Polvere, infiammazione, fumo, sono i peccati e le iniquità.

Togli via tutto, e vedrai la sapienza, che è presente, perché Dio è la sapienza.

 Sta scritto infatti: “Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio” (Mt 5, 8).(S.Agostino, idem)

Le tenebre oscure e impenetrabili sono lette dal Card. C.M.Martini in questi termini:

 “ Nella storia umana e nella loro esperienza possiamo distinguere tre tipi di tenebre.

Le tenebre, per esempio, costituite dai singoli crimini che oscurano e abbruttiscono l’umanità: violenze, rapine, furti, tradimenti, disonestà, infedeltà; esse offuscano l’anima di chi commette questi reati e sono le tenebre dei nostri peccati personali. 

In secondo luogo, ci sono tenebre che potranno chiamare aberrazioni sociali, forme di disordine che guastano la società e la disgregano, la rendono malata e sofferente: crisi occupazionale, crisi economica, corruzione diffusa, crisi politica in cui si perdono il senso e le ragioni dello stare insieme, discordie, conflitti, guerre. Sono tutte le frammentazioni e le lacerazioni del tessuto civile, che non sono dovute semplicemente all’uno o l’altro gesto criminoso, ma rappresentano l’indice di un malessere comune, di una patologia contagiosa, che intacca e distrugge il corpo di un popolo. Questi fenomeni terribili sono chiamati tenebre in quanto frutto di orientamenti sbagliati, di atti di non intelligenza, di non chiarezza, di errata comprensione del processo sociale, del misconoscimento delle condizioni di sviluppo di una comunità di persone, sono peccati della volontà e dell’intelligenza comune, conseguenze di aberrazioni collettive di sentire e di pigrizia diffusa morale e mentale.

Tuttavia, peggiori di questi peccati sociali, sono le tenebre costituite da una cultura, da una mentalità che avendo perso il senso dei valori più alti, non trova più in se neppure la forza per ri-orientarsi e per smascherare, per superare e contrastare le aberrazioni sociali. E’ tenebra che riguarda i giudizi ultimi sulla vita e sulla morte, sul significato dell’esistenza umana, sul perché siamo uomini e donne, sulla terra; è insomma la perdita della spertanza in un futuro eterno, è la tenebra più spessa e impenetrabile, di cui Giovanni dice: “La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta”.

L’accoglienza del Verbo

Non l’hanno accolta perché rifiutano i primi principi dell’accoglienza, che sono

un sano concetto di Dio e dell’uomo,

il senso creaturale,

la coscienza del proprio peccato,

il bisogno di salvezza.

A tali disperanti tenebre, il Vangelo di Natale oppone l’accoglienza al Verbo di Dio: “A quanti l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

La salvezza dalle tenebre viene dunque dall’accoglienza del messaggio natalizio, dall’accoglienza del Salvatore che è nato per noi. E’ da essa che siamo innazitutto illuminati e rinnovati nella percezione dei valori eterni, di quei beni perenni che fanno della vita umana un’esistenza degna, anzi un’esistenza da figli di Dio; sono i valori della fede e della speranza, i valori che ricostituiscono l’orizzonte di senso in cui collocare le vicende umane, anche le più disperate e le più disgraziate, per avere la forza di uscirne con amore.

Dalla ricostruzione di questo orizzonte di senso, dalla forza di amore che viene dalla fede e dalla speranza, nasce l’energia per riconoscere e controbattere i processi disgregativi del tessuto sociale; nasce la forza per confessare ed espiare gli errori personali che a tale degrado hanno contribuito.

Questa è la conversione, la grazia della nuova vita di Cristo, la capacità di vivere nel mondo da figli di Dio: è il Natale che entra nella nostra esistenza”

L’arcivescovo Martini non si ferma alle analisi. Le riflessioni – c’insegna – si devono tramutarsi in preghiera. Questa ci mette sulle labbra: “Donaci, o Signore, di intuire qualcosa della luce della tua incarnazione. Donaci di lasciarci irradiare dalla gloria che risplende sul tuo volto e sii il Dio con noi”.

Vita, luce, tenebre, accoglienza, rifiuto, il Verbo che pone la tenda in mezzo a noi…sono i concetti basilari che suffragano l’hospitalitas, senza dei quali rischia di ridursi a un termine asfittico, di corto respiro, un’accoglienza alberghiera.

 9. ADESSO è un concerto di voci armoniose per solisti e coro:

Voce del Maestro interiore: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, smetta di pensare a se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Chi pensa soltanto a salvare la propria vita la perderà; chi invece è pronto a sacrificare la propria vita per me la ritroverà. 26Se un uomo riesce a guadagnare anche il mondo intero, ma perde la vita, che vantaggio ne avrà? Oppure, c’è qualcosa che un uomo potrà dare per riavere, in cambio, la propria vita!” (Mt 16,24-25).

Voce che viene:   “Fratelli, voi appartenete a Dio che vi ha chiamati. Perciò guardate attentamente Gesù: egli è l’inviato di Dio e il sommo sacerdote della fede che professiamo.…Perciò, come dice lo Spirito Santo nella Bibbia:

Oggi, se udite la voce di Dio,
8non indurite i vostri cuori,
come avete fatto nel giorno della ribellione,
quando nel deserto avete messo Dio alla prova.
Là, dice il Signore
i vostri padri mi hanno messo alla prova,
benché avessero visto per quarant’anni
ciò che avevo fatto per loro.

Voce che va: “ 13Piuttosto incoraggiatevi a vicenda, ogni giorno, per tutto il tempo che dura questo lungo oggi di cui parla la Bibbia. Incoraggiatevi, affinché nessuno di voi sia ostinato e si lasci ingannare dal peccato. 14Perché noi siamo diventati compagni di Cristo e lo saremo ancora, se conserveremo salda sino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio” (Ebrei 3,1-19)

10. ADESSO è un orizzonte: “A me è stato dato ogni potere in cielo e in terra. 19Perciò andate, fate che tutti diventino miei discepoli; battezzateli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; 20insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che io vi ho comandato. E sappiate che io sarò sempre con voi, tutti i giorni, sino alla fine del mondo”.

11. ADESSO è sapienza contadina spinta ad altezze vertiginose. Regola: “24Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto. Ve l’assicuro. 25Chi ama la propria vita la perderà. Chi è pronto a perdere la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. 26Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io ci saranno anche quelli che mi servono. E chi serve me sarà onorato dal Padre”. (Giov 12,24)

12. ADESSO è un clima: vivere la gioia. Sant’Agostino ci spiega che la pienezza della gioia “è lo scopo di tutto ciò che Cristo ha detto e ha fatto. Si potrà raggiungere nel secolo futuro, a condizione però che si viva in questo secolo con pietà, giustizia e temperanza”. Ma ora io vengo a te, e dico queste cose mentre sono ancora nel mondo, affinché essi abbiano in se stessi la mia gioia, nella sua pienezza (Gv 17, 13). 

Ecco che afferma di parlare nel mondo, colui che prima aveva detto: Io non sono più nel mondo.

Già lo abbiamo spiegato; o meglio, abbiamo fatto notare la spiegazione che egli stesso ha dato. Ora, siccome non se n’era ancora andato, era ancora qui; e siccome la sua partenza era imminente, in certo modo non era più qui.

Di quale gioia poi intenda parlare, dicendo: affinché essi abbiano in se stessi la mia gioia, nella sua pienezza, lo ha già spiegato prima, quando ha detto: affinché siano uno come noi.

Questa sua gioia, questa gioia cioè che proviene da lui, deve raggiungere in loro la pienezza; è per questo motivo, dice, che ha parlato nel mondo.

Ecco la pace e la beatitudine eterna, per conseguire la quale bisogna vivere con saggezza, giustizia e pietà nel secolo presente”. (S Agostino. Omelia 108,1, 8).

13. ADESSO è una certezza che nasce da un atto di fede nel Magnificat di Maria:” ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47). Cosi il Vescovo di Ippona a proposito degli apostoli:

Caddero, infatti, in tale disperazione che giunsero alla morte, se così si può dire, della loro fede anteriore.

Ciò appare evidente in Cleofa, il discepolo che parlando, senza saperlo, con il Signore risorto, nel raccontargli quanto era accaduto, gli dice: Noi speravamo che fosse colui che deve redimere Israele (Lc 24, 21).

Ecco, fino a che punto lo avevano abbandonato: perdendo anche quel po’ di fede con cui prima avevano creduto.

Invece, nelle tribolazioni che dovettero subire dopo la risurrezione del Signore, siccome avevano ricevuto lo Spirito Santo, non lo abbandonarono;

e benché fuggissero di città in città, non fuggirono lontano da lui, ma in mezzo alle tribolazioni che ebbero nel mondo, pur di avere in lui la pace, non furono disertori da lui ma posero in lui il loro rifugio.

Una volta ricevuto lo Spirito Santo, si verificò in loro quanto il Signore disse: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo. Essi ebbero fiducia e vinsero. In grazia di chi vinsero, se non in grazia di lui? Egli non avrebbe vinto il mondo, se il mondo avesse sconfitto le sue membra.

Per questo l’Apostolo dice: Siano rese grazie a Dio che ci concede la vittoria; e subito aggiunge: per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo (1 Cor 15, 57), il quale aveva detto ai suoi: Abbiate fiducia, io ho vinto il mondo. (S. Agostino, Omelia 103,3)

14. ADESSO è ardimento: la riscoperta di quella primitiva audacia di Giovanni di Dio, rimasta scolpita nei cuori di chi l’ha conosciuto e tramandata grazie al germe che l’Azionista di Dio, investendo tutto in carità, indebitandosi fino al collo, sempre con l’acqua alla gola a causa di Cristo e del suo straziante grido: “Ho sete!”, ha lasciato in eredità fino ai giorni nostri.

15. ADESSO è il notaio, un mandatario verbale dell’idea originaria lasciata in eredità da Giovanni di Dio per chi si arruola nella sua grande avventura, deposito dei suoi esempi, testimonianza delle sue virtù.

16. ADESSO è un cuore che accoglie le segnalazioni che vengono dal fronte, dalle trincee della sofferenza, quando l’anima, soggetta alle patologie metaboliche, necessita di essere posta in dialisi.

17. ADESSO è un atto di coraggio: un uomo d’onore non si permette di lasciare agli altri la pesante eredità dei suoi adesso sempre rimandati o traditi.

18. ADESSO è l’aprirsi allo Spirito per il dono dell’hospitalitas, ossia di una nuova capacità di percezione:

  • povertà, miseria, dolore, non solo quelli visibili,

  • infermità non solo quella clinicamente accertata, indigenza occulta, dolore taciuto, accettato, vergognoso;

  • lacrime silenziose, quotidiana ristrettezza che conduce alla morte ignorata e meschina,

  • un vivere sepolto di esseri invisibili,

  • povertà segrete trascinate come catene che nessuno vede.

19. ADESSO è partecipazione a un progetto: “Il piano di Giovanni di Dio è carità, ma carità assoluta, senza specializzazioni, senza confini, senza zone proibite. L’esempio del Cristo è, a tal riguardo, chiaro come la luce. Le sue mani arrivano a tutti: a lebbrosi, a storpi, a ciechi, a morti, a bambini, a donne buone e cattive. Nulla fu estraneo alla sua attenzione: nemmeno il biancore dei denti di un cane” (Josè Cruset in Un Avventuriero Illuminato).

20. ADESSO è consumarsi ad occhi aperti in un mondo che per tanti non è per nulla cambiato. Scrive il Cruset: “Giovanni di Dio consumava la vita in tre occupazioni vitali:

  • l’abbandono assoluto della sua persona,

  • la orazione (il cibo per resistere nel duro cammino),

  • e la carità totale.

E, col filo delle persone che accorrono a lui, entra nel labirinto della miseria di Granada, e soccorre orfani, vedove, fanciulli e soldati, operai poveri e “litigiosi” (come dice Castro),

e per tutti trova parole corroboranti e concreto aiuto o raccomandazione per chi possa risolvere il loro caso. In tal modo scopre la zona occulta della povertà vergognosa e silente:

fanciulle,

religiose (si riferisce a persone laiche con voti, ritirate nelle proprie case come religiose, senza esserlo),

umili focolari che hanno necessità segrete, occulte, avvilite dall’indigenza, vergognose di mostrarla.

  • Giovanni di Dio frequenta le loro case,

  • si informa della loro situazione.

  • Parla con chi possa dar elemosina per questi scopi,

  • e lui stesso provvede il necessario al sostentamento di questi esseri deboli;

  • procura lavoro in casa

  • e li esorta alla virtù” (idem).

 Sono tutti verbi che i GLOBULI ROSSI devono imparare a menadito per metterli in azione.

21. ADESSO è dilatazione del cuore di Giovanni di Dio, per farne luogo di appuntamenti e incontri, scambio di doni e carismi, esposizione del suo carisma, consegna dell’hospitalitas perché e esca dalla cerchia protetta dei Centri Fatebenefratelli e raggiunga le periferie senza confini del dolore, segreto e più celato nelle case della gente, più palese e manifesto nei luoghi di pubblica assistenza, spesso benemeriti ma anche centri di potere, di colossali interessi, dove lo spazio per la divinizzazione dell’uomo e delle sue strutture è mortificato e la desertificazione avanza inesorabile.

22. ADESSO è antenna di percezione dei tenui segnali di vita sepolta sotto le macerie dopo il terremoto di una diagnosi infausta, un evento doloroso; strumento di contatto per gl’interventi di soccorso dei GLOBULI ROSSI, avvezzi al rischio di muoversi in terreni minati. 

23. ADESSO è leggere con gli occhi rivolti al futuro, il terzo millennio dell’era cristiana, appena iniziato. Per farlo, bisogna cercar di capire le ragioni del personaggio che è San Giovanni di Dio e di coloro che gli fanno corona nella gloria: san Giovanni Grande, san Benedetto Menni, san Riccardo Pampuri, i 71 Betati martiri di Spagna, gli altri in lista di attesa per la beatificazione ed i Fratelli Ospedalieri che sono nella Comunione dei Santi. Parole e immagini, lettere e documenti storici,possono rendere bene gli originali. Ma solo da un cuore a cure, un guancia a guancia con essi, si può ricavare la netta sensazione di essersi incontrati con uomini che hanno vissuto in Dio, fatto dipendere da Lui il significato della gioia, la consistenza della loro vita.

Matteo nella parabola del regno dei cieli, “simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio”, svela il sogno di Dio e la fragilità degli uomini. Gesù vuole scuotere i suoi uditori (e noi), farli uscire dalla secca della religiosità tradizionale per riscoprire la bellezza dell’appartenenza al popolo di Dio. 

La Parola richiama alla gioia, alla festa. Tutti, ma soprattutto chi è nella prova della sofferenza, avverte una fitta al cuore nel constatare la gioia media che trasuda dalle comunità cristiane che si riuniscono per l’Eucaristia. Volti irrigiditi, distanze tenute. Chi si avvicina alla Chiesa (ossia a me, a te, a noi) la prima sensazione che prova non è la gioia di occhi che hanno visto Dio. Riscoprire la gioia vuol dire lasciare che sia la bellezza di credere, il senso della festa, a preoccupare il nostro annuncio. Dare testimonianza di una religiosità tristemente doverosa non avvicina nessuno alla fede!

Purtroppo il tempo in cui si vive è un tempo che divora il tempo, che uccide le coscienze. Chi non si rende conto di essere schiavo dell’agire? Ognuno lo vive sulla sua pelle: restare cristiani, oggi, richiede uno sforzo enorme.  

24. ADESSO è impedire che gli attimi vadano in fumo. Non si tratta di rifuggire l’azione ma di calarsi nell’agire costante di Dio. Certo, quando Gesù paragona il suo Regno a una festa, per chi vive accanto al dolore umano, lì per lì, fatica a entrare nella Sua ottica. La parabola ricorda che la chiamata del Signore è per tutti, che non sta a noi stendere la lista delle nozze, anzi, invitato alla festa è proprio chi all’apparenza è distante.

 25. ADESSO è punto di riferimento dei GLOBULI ROSSI, schiena a disposizione di Dio, onorate più del puledro d’asino che ha portato il Re d’Israele, Suoi manovali più che rappresentanti. Luogo in cui Gesù ripete al Movimento:

  • “Capite quello che ho fatto per voi?
  • Voi mi chiamate Maestro e Signore, e fate bene perché lo sono.
  • Dunque, se io, Signore e Maestro, vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri.
  • Io vi ho dato un esempio perché facciate come io ho fatto a voi.
  • Certamente un servo non è più importante del suo padrone e un ambasciatore non è più grande di chi lo ha mandato.
  • Ora sapete queste cose; ma sarete beati quando le metterete in pratica.

Fatica? Certamente. Ma le schiene a disposizione di Gesù, il risorto, il vivente, si sentono sostenute dalla Sua confortante promessa: “lo sono con voi tutti i giorni” (Mt 28,20).

 

26. ADESSO è centro di comunicazione responsabile, di irradiazione del messaggio evangelico. Non dice di saper cambiare le pietre in pane ma crede che nulla è impossibile a Dio, dal momento che abbiamo ereditato il suo Spirito: “non ci ha dato uno spirito che ci rende paurosi; ma uno spirito che ci dà forza, amore e saggezza. 8Dunque non aver vergogna quando parli del nostro Signore e dichiari di credere in lui, e non vergognarti di me [Paolo] che sono in prigione per lui. Piuttosto anche tu, aiutato dalla forza di Dio, soffri insieme con me per il Vangelo” (2 Tm 1,7-8) .

 

27. ADESSO è la capacità di sognare il giorno benedetto in cui i GLOBULI ROSSI, nei loro vestiti di lavoro si daranno appuntamento a san Pietro, la piazza del Mondo, sulla tomba dell’Apostolo che, alle domande di Gesù ha risposto anche per noi:

Forse volete andarvene anche voi?” “- Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole che danno la vita eterna. 69E ora noi crediamo e sappiamo che tu sei quello che Dio ha mandato.” (Gv 6, 68) - Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di questi altri?… Rispose: – Signore, tu sai tutto. Tu sai che io ti amo” (Giov 21,15-17).

 

28. ADESSO è amplificazione della voce del Papa per i suoi “Non abbiate paura: aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”. I GLOBULI ROSSI sono donne e uomini, laici, sacerdoti e consacrati che amano il Papa perché riconoscono la sua voce. Essi lo identificano con il Pastore Buono che ama le pecore del suo gregge. Come servitori del Re dei RE, ascoltano il successore di Pietro che rinnova l’invito di uscire per la missione:

andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.

Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali “.

I chiamati all’ hospitalitas, nell’accoglienza verso chi arriva, assumono lo stile di Dio che non dividere le persone né le soppesa e classifica. Il Padrone dell’Universo non si scoraggia davanti ai rifiuti così ingenuamente motivati da chi ha sempre impegni importanti da assolvere: 

nella parabola Egli invita persone sconosciute. Noi tendiamo a identificarle con quelle che chiamiamo barboni e rom, prostitute, alcolisti e tutta la categoria degli emarginati. Solo che l’elenco è riduttivo.

 

Sconosciuti. A noi. Ma chi è sconosciuto davanti a Dio?

 

L’ordine è preciso:” tutti quelli che troverete”. Anche i “benpensanti”.

Gesù ribalta le posizioni sociali e i ruoli: nel Regno non conta chi è riuscito, colui che si considera persona per bene ma chi ha accettato di partecipare al banchetto.

 

Dunque, si può essere partecipi anche da un letto d’ospedale.

Per una festa? Sì, per un banchetto. Purché non si porti la scusante dell’inappetenza o di essere a dieta.

 

A tutti il Signore chiede di non sederci sulla nostra fede, di non stare sulle proprie posizioni, di non invocare il privilegio della “esenzione” per egoistiche patologie dello spirito ma di avere sempre un cuore da mendicanti, pieno di stupore.

 

Solo uno dei “trovati” viene espulso: “Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì”. Le chiamate alle nozze del Figlio si susseguono. L’unica cosa che Dio non sopporta è l’ipocrisia, la falsità, il partecipare indossando un vestito che non ci appartiene: il cuore di pietra al posto della veste battesimale.  

 

Ora, se amare il Papa è oscurantismo fanatico, qualcuno dovrebbe spiegare a che titolo si dovrebbe credere alle sirene, ai saggi imbonitori televisivi, ad esperti, elzeviristi, filosofi che sbucano da ogni angolo, a psicologi ed opinionisti, a maghi e cartomanti, ai pieni di sé, ai presuntuosi e giocolieri, ai menestrelli…ai…ai…ai… che non finiscono mai? 

 

29. ADESSO è momento Eucaristico: apertura del cuore, fusione in Dio, vita eterna senza interruzioni: noi in Lui-Chiesa-Corsìa-Strada. Il Movimento GLOBULI ROSSI ho si fonda sul Mistero Eucaristico o non è.

  

Il 14 dicembre 2004 a San Pietro, migliaia di universitari e professori delle Università romane, delegazioni universitarie di altre città europee ed autorità civili e religiose hanno partecipato alla Santa Messa annuale per gli universitari, presieduta dal Santo Padre, che ha detto: “Grazie perché come ‘sentinelle del mattino’ volete vegliare – oggi, in queste settimane, e nella vita intera – per essere pronti ad accogliere il Signore che viene”.

  

Ed ancora: “scoprite la verità dell’uomo nel mistero eucaristico”

“Cari universitari” – ha continuato il Pontefice – “siamo nell’Anno dell’Eucaristia e, in preparazione alla Giornata Mondiale della Gioventù, voi state riflettendo sul tema: ‘Eucaristia e verità dell’uomo’. È un tema esigente. Infatti davanti al Mistero eucaristico siamo spinti a verificare la verità della nostra fede, della nostra speranza e della nostra carità. Non si può restare indifferenti quando Cristo dice: ‘Io sono il pane vivo, disceso dal cielo’. Nella coscienza emerge subito la domanda che Egli pone: ‘Credi che sono Io? Credi davvero?’. Alla luce delle sue parole: ‘Se qualcuno mangia di questo pane, vivrà in eterno’, non possiamo non interrogarci sul senso e il valore del nostro quotidiano”.
Sottolineando che l’amore più grande è stato l’amore di Cristo che si è “immolato per la vita del mondo”, il Santo Padre ha detto: “Viene allora spontanea la domanda: ‘E la mia carne – cioè la mia umanità, la mia esistenza – è per qualcuno? È colma dell’amore di Dio e della carità per il prossimo? O resta invece imprigionata nel cerchio opprimente dell’egoismo?”.
“Non si giunge alla verità dell’uomo solo con i mezzi che offre la scienza” – ha affermato il Santo Padre – “Voi sapete bene che è possibile scoprire fino in fondo la verità dell’uomo, la verità di noi stessi, soltanto grazie allo sguardo pieno di amore di Cristo. E Lui, il Signore, ci viene incontro nel Mistero dell’Eucaristia. Non cessate mai, pertanto, di cercarLo e scoprirete nei suoi occhi un attraente riflesso della bontà e della bellezza che Egli stesso ha effuso nei vostri cuori con il dono del suo Spirito”.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

30. ADESSO è l‘ “Ite, Missa est”, ossia la Messa-in-azione, l’ invito a gettare ponti tra l’altare e la strada, la corsia d’ospedale, la psicopatologia randagia, il marciapiede, il carcere, la droga, la tratta delle schiave da prostituzione, la mercificazione adolescenziale, la fame, l’immigrazione desolata… : “Fate questo in memoria di me”. Non è ricordo pietoso ma Passione ardente che vivamente si rinnova ad ogni richiesta: “Manda il tuo Spirito perché pane e vino diventino corpo e sangue… per la vita del mondo”.

31. ADESSO è un pensiero della giovinezza che si attua man mano che la fede si fa matura. L’antica profezia di Gioiele trova riscontro anche oggi. In ogni ADESSO c’è la voce della promessa divina: “manderò il mio spirito su tutti gli uomini:i vostri figli e le vostre figlie saranno profeti, gli anziani avranno sogni e i giovani avranno visioni.2In quei giorni manderò il mio spirito anche sugli schiavi e sulle schiave.(Gio. 3, 1-2)

E’ scritto che persino gli anziani, così poco suggestionabili, potranno sognare e perfino i giovani, sognatori per natura, avranno visioni realistiche, capacità di pensare in grande. San Giovanni di Dio è un classico: educato alla fede dalla fanciullezza, solo a quarantacinque anni smette di fare l’avventuriero. Da ora, sogno e visione camminano insieme. Così può rinunciare a tutto ma non al bene del suo prossimo. E ripetere anche alla nostra generazione che:

il cristiano, in nome dell’ unum necessarium, della sola cosa che conta, non può rintanarsi in un misticismo personale, isolato.

La tentazione dell’inerzia è il rifiuto dell’Incarnazione.

  • Il cristiano non ferma l’attimo per goderlo ma per contemplarlo e donarlo.

  • Dio mi fa posto in quello che è Suo, perché non mi rinchiuda, né escluda nessuno.

  • Il cristiano che opera in sanità e nel sociale è un testimone. Con un suo proprio stile di modi e di linguaggio, egli e in missione battesimale;

  • A sostenerlo è il carattere, ossia il temperamento impressogli dallo Spirito con il sacramento della Cresima.

  • Lì è la sua terra di missione, il “vai nel luogo che ti indicherò” (Gen 12,1).

  •  

31. ADESSO è un gradino dopo l’altro. La mia ascensione al cielo avviene attraverso la scala che Dio ha disposto nel cuore umano: ogni passo nuovo, ogni gradino che salgo,mi avvicina alla vetta. Salire è uno sforzo ma se il gradino è roccioso, mi regge, mi porta.

 

33. ADESSO è stazione di rifornimento dove i GLOBULI ROSSI sostano per fare “il pieno”, la forza di Dio, che è lo Spirito, e dal quale deriva la capacità di creare situazioni esplosive nella storia e una nuova architettura del mondo e dei rapporti umani. Se ogni GLOBULO ROSSO incomincia da se stesso ad azionare la leva del mutamento di mentalità, non saranno i potenti per denaro o per intelligenza a fare la storia, ma gli affamati e gli umili di cui parla Maria:

  • Coloro che si fidano della forza sono senza troni. 

  • Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano”.

E se il mio nido è la mano di Dio, di chi avrò paura?

34. ADESSO è riconoscere gli ostacoli per non ignorarli e nemmeno aggirarli ma per attraversarli e contestarli. A cominciare dalla malattia. I GLOBULI ROSSI non si muovono sulla logica del calcolo di probabilità né si fondano sull’analisi della storia. Non sono degli illusi, anch’essi vedono che la terra non è un giardino di bellezza né un mondo di bontà. Perciò, dal momento che la fame uccide, i cimiteri spopolano, quando è sensazione diffusa che l’impresa di Dio con le sue promesse sia fallita,

non dicono a cuor leggero le parole della speranza, non distribuiscono “pacche sulle spalle”, né gratuiti inviti alla pazienza.Se non trovano parole confortanti, preferiscono condividere in silenzio.

 

35. ADESSO è capacità di stupore e di futuro. Per i GLOBULI ROSSI che hanno negl’orecchi lo stupore di Maria, il futuro è già presente prima ancora che accada.

 

36. ADESSO è uno spazio carismatico. L’aiuto ai bisognosi si espleta anche con preghiere di guarigione e preghiere di liberazione. I GLOBULI ROSSI che percorrono il cammino nel Rinnovamento nello Spirito, si ispirano al movimento carismatico e si adeguano alle indicazioni della Chiesa che così concepisce il “Il «carisma di guarigione» nel contesto attuale”:

1.“Lungo i secoli della storia della Chiesa non sono mancati santi taumaturghi che hanno operato guarigioni miracolose. Il fenomeno, pertanto, non era limitato al tempo apostolico; tuttavia, il cosiddetto «carisma di guarigione» sul quale è opportuno attualmente fornire alcuni chiarimenti dottrinali non rientra fra quei fenomeni taumaturgici.

2. La questione si pone piuttosto in riferimento ad apposite riunioni di preghiera organizzate al fine di ottenere guarigioni prodigiose tra i malati partecipanti, oppure preghiere di guarigione al termine della comunione eucaristica con il medesimo scopo.

3.…Per quanto riguarda le riunioni di preghiera con lo scopo di ottenere guarigioni, scopo, se non prevalente, almeno certamente influente nella loro programmazione, è opportuno distinguere tra quelle che possono far pensare a un «carisma di guarigione», vero o apparente che sia, e le altre senza connessione con tale carisma.

4. Perché possano riguardare un eventuale carisma occorre che vi emerga come determinante per l’efficacia della preghiera l’intervento di una o di alcune persone singole o di una categoria qualificata, ad esempio, i dirigenti del gruppo che promuove la riunione.

5. Se non c’è connessione col «carisma di guarigione», ovviamente le celebrazioni previste nei libri liturgici, se si realizzano nel rispetto delle norme liturgiche, sono lecite, e spesso opportune, come è il caso della Messa pro infirmis. Se non rispettano la normativa liturgica, la legittimità viene a mancare.” (n.5 Congr.Dottrina della Fede).

L’ ”Istruzione circa le preghiere per ottenere da Dio la guarigione”, riportata in allegato, è una preziosa fonte di riferimenti biblici alla quale possono attingere i chiamati all’hospitalitas.

 

37. ADESSO è un atto di fede: “Ma il terzo giorno egli risusciterà”. (Mt 20,19) Nel groviglio del vivere, i GLOBULI ROSSI con Maria e sull’esempio di san Giovanni di Dio, si fanno coraggiosi e liberi, decisi a sfidare la notte per contendere il mondo alle sue forze tenebrose.

Il punto di leva sono le promesse di Dio che ha mandato Gesù a condividere ogni dolore.

Il sole non è ancora spuntato ma ogni ADESSO è un segnale premonitore dell’alba. Perché “Il futuro entra in noi molto prima che accada” (R.M. Rilche).

Quando Maria usa i verbi al passato, è perché dà per scontato e sicuro l’esito dell’azione di Dio.

Il cuore di san Giovanni di Dio aveva occhi che già vedevano il futuro. Con i suoi ripetuti ADESSO, la sua profezia ha bruciato i tempi, superato gli ostacoli ed è giunta a noi. La staffetta continua.

Visto con i suoi occhi di fede, l’innesto dei GLOBULI ROSSI sull’ulivo plurisecolare dell’ Impresario di Granada è già realtà, ancor prima che accada: “Ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore, della mia vita un luogo di prodigi”.

 

38. ADESSO è una fede motivata: Così scrive sant’Agostino: “ Colui che in un libro guarda dei caratteri, ma non sa ciò che questi caratteri vogliono dire, ciò a cui essi rimandano, loda con gli occhi, ma non comprende con lo spirito. Un altro, al contrario, loda l’opera d’arte e ne comprende il senso, colui cioè che non è soltanto in grado di vedere, così come ognuno ne è capace, ma che sa anche leggere. E ciò lo può soltanto colui che lo ha appreso”(Discorsi 98,3).

Don Giussani nel suo metodo educativo indica due cardini e un rischio che sono una preziosa indicazione anche per il Movimento dei GLOBULI ROSSI:

  • Primo cardine: i contenuti della fede hanno bisogno di essere abbracciati ragionevolmente, debbono cioè essere esposti nella loro capacità di miglioramento, illuminazione ed esaltazione degli autentici valori umani.

  • Secondo cardine: si può esprimere dicendo che quella presentazione deve essere verificata nell’azione, cioè l’evidenza razionale può illuminarsi fino alla convinzione solo nell’esperienza di un bisogno umano affrontato dall’interno di una partecipazione al fatto cristiano: e tale partecipazione è un coinvolgimento nella realtà cristiana come fatto essenzialmente sociale o comunionale.

La prova del rischio

In tale metodo ovviamente si gioca un rischio nell’insistere sulla razionalità del progetto di fede: non può pretendere di essere una dimostrazione matematica o comunque apodittica.

E si entra in rischio quando si dice che è dall’esperienza che una convinzione può scaturire: non si tratta infatti di un feeling da evocare, di un’emozione pietistica da suscitare; si è quindi alla mercè delle sabbie mobili di una libertà. Ricordo una significativa affermazione di Hans Urs von Balthasar: “Egli comprende che, per comprendere, deve realizzare la verità in maniera vitale. In questo modo egli diventerà “discepolo” Egli si impegna, si affida al “cammino” “ (Giussani, idem)

 

39. ADESSO è coscienza di una Presenza costante. Vedere la realtà percependo la presenza di un altro. Coscienza di una presenza dentro l’orbita di qualsiasi esperienza che faccio. Ciò mi è possibile nonostante una vita di sbandi, di errori, di incoerenze. E’ la ragione che vede oltre, oltre la ragione. La percezione che esiste una presenza di Senso ma che, nella sua misteriosità, è inesprimibile. Una via preclusa se il Senso stesso non fosse venuto tra noi a dire: “Io sono la via, la resurrezione, la vita” (Gv 14.6). Perché il Senso è proprio questo: che “Il Verbo si è fatto carne” (Gv 1,14). Dunque, le aspirazioni del cuore sono appagate.

  • Heinrich Schlier: “ Il senso ultimo e peculiare di un evento, e quindi l’evento stesso nella sua verità, si apre [cioè si comunica] solo e sempre a una esperienza che s’abbandoni ad esso e in questo abbandono cerchi di interpretarlo”.

  • Don Giussani: “A una esperienza”: un evento si palesa a chi partecipa all’esperienza di esso; si palesa solo a un’esperienza che è vera,

  • [si palesa] se è adeguata all’evento in questione.

  • L’evento in questione è che Dio si è fatto carne, uomo, ed è presente: “Sarò con voi tutti i giorni”.

  • E’ presente, è presente tutti i giorni! Egli disse che sarebbe stato presente ogni giorno nella comunità dei credenti, che li raccoglie e che li fa essere il Suo Corpo misterioso “.(Il rischio educativo, p.35).

La Compagnia dei GLOBULI ROSSI di san Giovanni di Dio è tale, a condizione che 

  • si abbandoni a questa Presenza,

  • viva all’interno di questa Presenza,

  • sotto l’influsso di questa Presenza,

  • illuminata da questa Presenza,

  • sostenuta da questa Presenza.

Diversamente, si trasforma in un Movimento di cellule impazzite, tossine prevedibilmente pericolose, se non mortali.

 

40. ADESSO è evento cristiano partecipato. Ad esso va sottoposta la vita, la vita intera nell’istante, l’intera storia del vissuto. L’ Evento non va gelosamente custodito ma generosamente partecipato: “La fede è la risposta finale a ciò che l’uomo vive come esigenza suprema per cui è fatto, a cui la ragione non può e non sa trovare risposta; tuttavia, se seguita, la ragione porta a quel punto in cui uno dice: “Ma qui rimanda ad altro. Dunque è segno. Tutto è segno di qualcosa d’altro!” (idem Giussani).

 

41. ADESSO è un abbraccio universale. Il mettersi insieme dei GLOBULI ROSSI, il fare famiglia, è un abbraccio destinato a dilatarsi fino a raggiungere la circonferenza del mondo, nella misura in cui ogni cosa, evento, situazione sanno cogliere il bene che vi è racchiuso, contenuto. E lo esaltano, lo sentono fraterno, compagno di viaggio. Abbraccio che si dilata perché essi, per loro natura (il DNA di san Giovanni di Dio) soffrono per il mondo, penano per il mondo, partecipano alla pena del Crocifisso per il mondo (“Padre, non sanno quello che fanno”) e sentono la Risurrezione, il suo palpito per il bene, il buono che c’è in ognuno, ovunque.

 

42. ADESSO è attimo di pace ecumenica che si ripete all’infinito perché origina nella Magnanimità divina che ci fa partecipi, magnanimi, dal cuore grande. Il gemellaggio Betlemme-Granada, culla del nostro sentire ecumenico:

  • con gesti di pace: hospitalitas = Cristo presente, sperimentato tra noi;

  • la fede: “Promessa dell’Eterno: la pace dove conviviamo” (Giussani);

  • ciò che è vero, rimane per sempre: Veritas Domini manet in aeternum” (1Pietro 1,25) 

43.ADESSO è far parlare un profeta, san Giovanni di Dio, quel suo vedere non ciò che accadrà dopo di lui, ma quel suo vedere oltre, in un’altra profondità.

  • Da una parte L’Europa del suo tempo si assomiglia tutta: più che lasciar parlare il sogno d’Isaia, sogno di lance che diventeranno falci, fa cantare le armi. Sogni di conquiste, di nuove terre, di ignote rotte marine…

  • Dall’altra, il Figlio dell’Uomo che lo aspetta al varco a Granada.

 In un attimo, come un ladro,

  • gli ruba tutto ciò che non è essenziale,

  • lo spoglia,

  • lo lascia povero perché non metta più il cuore nelle cose, nei mestieri che s’inventa di volta in volta, nel denaro.

  • Povero e nudo, per restituirlo alla verità e semplicità delle relazioni.

  • Gli fa capire che di niente ha bisogno se non di essere se stesso, non di due tuniche, non di borsa o calzari,

  • ma di una vocazione e di un Amico su cui appoggiare il cuore.

  • E lo spinge a calarsi nell’umano, a guardarsi in giro.

E cosa vede? Matti intorno a lui, relegato all’Ospedale Regio come pazzo, e più pazzi coloro che li assistono.

  • Lì si rende conto di possedere un tesoro: il desiderio di Dio.La con-versione è un’esperienza di violazione:Mi hai sedotto, Signore, mi hai fatto forza e hai prevalso, e io sentivo un fuoco chiuso in me” (Ger 20,7).

  • La passione per Dio si tramuta in compassione per l’uomo straziato.

  • Ogni suo ADESSO è un nulla fragile e glorioso, perché ha subito un trapianto di cuore: si muove, agisce con il Cuore di Dio.

  • Mentre sazia la fame di pane, trasmette fame di Cielo.

Se ascolto il profeta, mi faccio profezia per il mio tempo. Solo che “Dio vuole che il suo dono diventi nostra conquista” (S.Agostino).  a vedere parole incarnate,

 

44. ADESSO è un tornare nel deserto della desolazione di Granada. Non a sentire Giovanni di Dio, ma

  • a vedere parole incarnate,

  • A scrutare l’uomo che si muove con determinazione ma che conosce il dubbio, la fede inquieta,

  • che non smette di interrogarsi

  • che patisce delusioni,

  • ma non si arrende e genera cercatori di verità.

Al giovane Angulo che vorrebbe seguirlo, così scrive: “Mi sembra che andiate come una barca senza remo, infatti molte volte mi sorge il dubbio d’essere un uomo senza remo, perché siamo in due a non saper che fare, né voi né io. Ma Dio è quello che sa e rimedia, e Lui dia consiglio a tutti noi” (Lett. A Louis Bautista).

 

45. ADESSO è l’andare oltre le apparenze: Giovanni di Dio ha una povera apparenza. Aspetto, abbigliamento, immagine, figura, forma…lasciano a desiderare. Ma è affascinante. 

Scrive il Cruset:

 

  • Quest’uomo è, con piena evidenza, un uomo di Dio. E a Granada si diffonde il commento e l’accurata rievocazione di tutti gli avvenimenti della vita di Giovanni di Dio, di tutti i casi che la gente ricorda e conosce, che garantiscono la sua condotta, chiaramente connessa con il prodigioso.

  • E da questa rievocazione, che alimenta la fama di santità, sorge anche tutta una leggenda, perché i fatti si ampliano sulle labbra attonite;

  • leggenda che non è la vita del Santo, ma sì la chiara dimostrazione della sua qualità eccezionale. Perché quest’uomo è, evidentemente, un uomo di Dio.

  • Già lo aveva intravisto Giovanni d’Avila nella crisi esplosa nell’Eremo dei Martiri

  • già l’aveva compreso il prelato di Tuy quando lo aveva chiamato Giovanni di Dio

  • e lo dimostrava l’arcivescovo Guerriero con il suo aiuto senza riserva, nonostante la povera apparenza dell’uomo rasato e senza qualifica alcuna.

  • Dal momento del suo abbandono alla luce del Signore tutto sarà possibile in Giovanni di Dio. Prima no. Era un uomo come tanti, senz’alcun contatto con il soprannaturale.

  • E’ logico pensare che Dio faccia giungere le sue voci agli eletti.

  • Ma gli eletti son quelli che con la loro umana volontà abbandonano le strade del mondo e seguono la sua , con sforzo, con lotta, con il dolore di abbandonare tutto ciò che è placido.

  • Gli eletti non sono comodamente eletti per speciale simpatia, come potrebbe pensarsi se avessimo dato credito alle campane che suonano da sole a Montemaggiore.

  • Adesso, per la gente di Granata, tutto ha un senso, una spiegazione. Si sentono capaci persino di comprendere la crisi di Giovanni di Dio come una pazzia verso il divino.

  • Il corpo va dimagrendo, se ne sta andando, e cede il passo all’anima perché tutti possano contemplare.

Isaia:“Spunterà un nuovo germoglio:nella famiglia di lesse dalle sue radici…Non giudicherà secondo le apparenze, non deciderà per sentito dire. 4Renderà giustizia ai poveri e difenderà i diritti degli oppressi “ (11,1-3).

Goffi, sgraziati, taglie forti, carcasse ambulati, impacciati, rozzi…non devono temere. La razza è protetta!

 

45. ADESSO è un perenne rinnovarsi del Natale, un sogno gioioso pieno d’incoscienza di chi sa sperare e cantare al futuro, nonostante il mucchio di rovine, il mare di paure, il mondo di violenti che circonda ilvivere. I GLOBULI ROSSI sono angeli di Natale che si recano dai poveri di Dio con la scritta sulla maglietta: “Gloria e Pace”:

  • “vi annuncio una grande gioia”:

  • Oggi è nato per voi un Salvatore”

La missione di Giovanni di Dio è salvare. Chi? Il bambino, il neonato che è in ogni uomo, bisognoso di affidarsi a delle mani materne, che può vivere solo se amato. Degli amori, delle lacrime, delle speranze, nulla deve andare perduto, dal momento che Dio ora è dentro la carene e piange con chi piange, soffre con chi soffre….

 

Dal momento che il Verbo s’è fatto carne, i GLOBULI ROSSI di San Giovanni di Dio sono i collaboratori del processo inverso:

  • fare della carne un Evento:

  • la carne che diventa Verbo.

  • Qui c’è l’intenso abbraccio di Creatore e creatura, l’estasi della storia, il capovolgimento delle illusioni.

47. ADESSO è aiutare Dio a vivere, a essere vivo in questo mondo. Il Verbo incarnato mi dice che non intende fare da solo, ha bisogno delle mie mani per incarnarsi nelle case, nelle strade, nelle isole del dolore. Non basta la vita. Essa deve altresì risplendere. Anche il diamante se non è levigato, se non è aiutato, è solo una pietra, non un gioiello.

Giovanni di Dio, imitazione di Cristo,

  • si fa spalle per le pecore smarrite,

  • mani che lavano i piedi,

  • carne inchiodata dove spasima il dolore,

  • silenzio per ascoltare (preghiera e digiuno, morire a se stesso),

  • mattino di Pasqua che riaccende le speranze (Maria di Magdala, i due di Emmaus…)

  • nomi di sofferenti pronunciati con un amore che fa vibrare l’anima.

48. ADESSO è voce della Provvidenza. Quando si dice che “Dio è là dove la ragione si scandalizza, dove la natura si ribella, dove io non vorrei mai essere”(E. Ronchi), si afferma la pura verità. Il mio ADESSO è di stare in prima linea, a perdere la faccia per il Verbo che si è fatto carne.

Come?

Per Giovanni di Dio, sempre esposto, premuto dall’urgenza e mai solo, il Natale di ogni giorno è questo:

  • ” …Dovete sapere, fratello mio molto amato e molto diletto in Cristo Gesù, che son tanti i poveri che qui giungono, che io stesso molte volte ne resto spaventato, come si possano alimentare;

  •  ma Gesù Cristo provvede tutto e dà loro da mangiare, perché solo per la legna ci vogliono sette od otto reali ogni giorno; perché essendo la città grande e molto fredda, specialmente adesso d’inverno, son molti i poveri che giungono a questa casa di Dio;

  • perché fra tutti, infermi e sani e gente di servizio e pellegrini, ce ne sono più di centodieci;

  • perché essendo questa casa generale, vi ricevono generalmente gente d’ogni tipo e con ogni infermità;

  • sicché ci son qui rattrappiti, mutilati, lebbrosi, muti, pazzi, paralitici, tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; e senza contar questi, molti altri pellegrini e viandanti che qui giungono, e dàn loro fuoco e acqua e sale e recipienti per cucinare e mangiare;

  • e per tutto questo non c’è rendita;

  • ma Gesù Cristo provvede tutto perché non c’è nessun giorno in cui non occorrano per le provviste della casa quattro ducati e mezzo, e a volte cinque: ciò per il pane e carne e galline e legna, senza contar le medicine e i vestiti, che è un’altra spesa a parte;

  • e il giorno in cui non si trova tanta elemosina che basti a provvedere quel che ho detto, prendono a prestito e altre volte digiunano.

  • E in questo modo sono qui indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo, e debbo più di duecento ducati per camicie, zimarre e scarpe e lenzuola e coperte e per molte altre cose che occorrono in questa casa di Dio, e anche per l’allevamento dei bambini che abbandonano a noi.

  • Sicché, fratello mio, mi vedo così indebitato che molte volte non esco di casa a motivo dei debiti, e vedendo patire tanti poveri miei fratelli, e prossimi in tanta indigenza così di corpo come di anima, non potendoli soccorrere rimango molto afflitto;

  • comunque confido solo in Gesù Cristo che mi libera dai debiti, perché Lui conosce il mio cuore.

  • Sicché dico maledetto l’uomo che confida negli uomini e non solamente in Gesù Cristo: dagli uomini devi essere separato, lo voglia a no; ma Gesù Cristo è fedele e costante;

  • e poiché Gesù Cristo prevede tutto, a Lui siano rese grazie per sempre. Amen….”

Così ragiona il re accattone degli straccioni di Granada che ha fatto scuola nei secoli fino ai nostri giorni, erede la beata Madre Teresa di Calcutta.

 

49. ADESSO è uno sguardo di benevolenza verso il mondo. Occhi e cuore dilatati sull’oggetto della predilezione divina per cogliere la vita come servizio per amore: “E Dio vide che era cosa buona…E fu sera e poi mattina…”. Mondo fatto di cose ma, soprattutto di persone: “Faciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza…”

Del creato un sapiente rispetto. Sul mondo degli uomin un ADESSO di benevolenza, di comprensione, mai di condanna se non per il male in sè che egli sa compiere.

50. ADESSO è il “come” dei GLOBULI ROSSI. Il “come” è avverbio che non sta in piedi da solo. Rimanda oltre, domanda un altro:

  • Siate perfetti come il Padre mio,

  • Amatevi come io vi ho amato,

  • Siate misericordiosi come il Padre,

  • La Tua volontà in terra come in cielo,

  • E’ il continuo misurarsi con Dio e con il Vangelo per servire amorevolmente là dove la vita langue e minaccia di spegnersi.

51. ADESSO è commozione: il primo modo di muoversi è quello di commuoversi, cioè muoversi insieme alla Presenza che si è rivelata, alla Parola di Dio. Dio è la nostra defintività nel senso pieno della parola, non soltanto finalistico, ma proprio come definizione di noi. Si legge nel Genesi: “E Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”(Gen 1,26) (Giussani)

 

 

52. ADESSO è anche il mio tendere la mano quando mi comunico. Mi accosto alla mensa del Re. Egli mi invita ad essere un bambino che allunga la mano per una sorpresa. Io lo so che è il gesto di chi è povero e bisognoso di aiuto. Ma Lui non intende umiliarmi e mi allunga la Sua. Non mi toglie dai piedi con due spiccioli. Nel dono che porge c’è il diritto di sedermi con Lui sul trono regale. Se fosse per Lui potrei dimorare per sempre nella Sua casa. Io so soltanto una cosa: che quando mi chiede di stare, io scoppio in lacrime di gioia. E piango in latino e poi in italiano: “«vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus – Non sono più io che vivo: è Cristo che vive in me. La vita che ora vivo in questo mondo la vivo per la fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e volle morire per me.» (Gal 2,20).

Se mi rattrista la collezione di tanti ADESSO mancati, mi consola il rinnovarsi degli inviti senza rancori.  

 

53. ADESSO è tensione nel mio definirmi in Dio, nel suo mistero:

6

Cercate il Signore,
ora che si fa trovare.
Chiamatelo,
adesso che è vicino.
7

Chi è senza fede e senza legge
cambi mentalità;
chi è perverso
rinunzi alla sua malvagità!
Tornate tutti al Signore,
ed egli avrà pietà di voi!
Tornate al nostro Dio
che perdona con larghezza!
8

Dice il Signore:
“I miei pensieri non sono come i vostri
e le mie azioni sono diverse dalle vostre.
9

I miei pensieri e i vostri,
il mio modo di agire e il vostro
sono distanti tra loro
come il cielo è lontano dalla terra
(Isaia 55, 6-9)

  

Ne consegue che

  • Il riconoscimento del mistero è radice di tensione morale: sono in una posizione sempre volta a qualcosa d’altro, disponibile a correggerla man mano che penetro in una realtà più grande di me, quanto “il cielo e lontano dalla terra”.

  • Mi pongo di fronte al mistero come un povero: in nulla la mia sicurezza se non nel mistero.

Beato l’ADESSO in cui riuscirò ad affermare che divento vero per la pietà e misericordia di un altro, che “La mia salvezza è Cristo”:

  • per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21),

  •  “non sono più io che vivo, è Cristo che vive in me” (Gal 2,20).

E’ struggente la tensione missionaria dell’Apostolo verso i Galati: “Quando non conoscevate Dio eravate schiavi di dèi che in realtà sono soltanto degli idoli. 9Ma ora avete conosciuto Dio; anzi è Dio che vi conosce. Perché dunque volete ritornare a sottomettervi a forze che non possono salvarvi? Volete essere di nuovo i loro schiavi? (Gal 4,19).

 

54. ADESSO è un movimento che consiste nel cercare e contribuire a creare condizioni di vita che facilitino di questa comprensione: “La mia salvezza è Cristo”. La non razionalità naturalistica di tale espressione, evidenzia che c’è un oltre: la natura può partecipare alla coscienza di Dio. Non solo è ragionevole quindi, ma è somma ragione.

Un carisma è un dono di Dio, un dono fatto ad un uomo. La manifestazione è nel suo modo di pensare, parlare, agire. Nikolaus Lobkowicz, già preside dell’Università Cattolica di Eichstätt, nella prefazione in “Rischio Educativo”, riferendosi al carisma di Don Giussani, ci rivela anche il criterio di lettura del carisma di san Giovanni di Dio. Così scrive in proposito:

Noi cristiani tendiamo o a insistere ostinatamente, e perciò senza capacità di dialogo, sulle convinzioni che ci sono state trasmesse, oppure – di solito di nascosto e in qualche modo con la coscienza sporca – a fare l’occhiolino al “mondo”, che sembra offrirci frutti che a noi, in quanto cristiani sono proibiti.

La conseguenza è che percepiamo il nostro essere cristiani come una serie di prescrizioni, e nell’istante decisivo non capiamo perché dovremmo osservarle. “Non puoi…”, “Devi….”, queste sembrano essere le due norme principali alle quali noi cristiani ci atteniamo. Per questo soprattutto i giovani percepiscono troppo facilmente la Chiesa solo come un’istanza di dirette o indirette norme etiche che impedisce loro di fare quello che volentieri farebbero. Forse si può descrivere il fenomeno anche in questo modo: il cristianesimo non pare compiere nessuno dei desideri che realmente ci muovono. Così vi partecipiamo ma senza troppo entusiasmo…

Don Giussani ha opposto a questo atteggiamento una riflessione di tutt’altro genere: come io divento “me stesso”?

Ed ha portato le sue buone ragioni:

  • O facendomi trascinare dalle mode del tempo, e venendo per così dire, pilotato dall’esterno,

  • Oppure affidandomi a un’autorità;

  • Non però consegnandomi ciecamente a essa (come accade per le ideologie, e le sette, che praticano un divieto di pensare),

  • Bensì volendo verificare dove essa mi conduce – forse proprio verso me stesso -.

Verificare” non significa quindi un semplice “provare”; questo implicherebbe un impegno per nulla serio con l’autorità. Piuttosto significa paragonare ciò che essa propone, o – meglio – desidera, con la mia esperienza, con la concezione di me stesso e della realtà che mi circonda di cui dispongo, secondo la percezione che ne avevo prima dell’incontro con l’autorità e quella che ne ho ora.

In poche parole si tratta di seguire un’autorità domandandosi continuamente: mi sta conducendo verso il mio vero io, verso la mia intima libertà, una libertà che io sperimento realmente come tale?

In questo modo l’autorità agisce (quasi) come una proposta: “Prova una volta a considerare tutto quanto fa parte della tua esperienza dal punto di vista dell’essere cristiano, della tua possibile fedeltà al Signore”.

L’impegno strumento di verifica:

  • Tutto deve essere consapevolmente impostato come verifica”, come prova del valore della tradizione cristiana.

  • Non esiste niente di più importante oggi, che impegnare noi come parte viva della comunità della Chiesa, ma la comunità grande della Chiesa sarebbe una cosa lontana e astratta, se non emergesse là ove siamo.

  • Perciò non esiste nulla di più importante del contribuire a rendere presente o a far vivere la comunità della Chiesa nel nostro ambiente, attraverso la “crisi” del nostro impegno.

  • Chi non passa attraverso questo impegno o rimarrà cristiano senza dir nulla di nuovo, oppure se ne andrà via.

  • L’unico modo per non vivere “alienati” in questa società, così terribile nei suoi strumenti di invadenza, è avere il senso della storia, vivere genuinamente la propria “crisi”, impegnandosi adeguatamente con la tradizione in cui si è nati, con la proposta cristiana,

  • ed è magnifico che questa proposta, unica fra tutte le altre, abbia un carattere così concreto, così esistenziale: sia una comunità nel mondo, un mondo nel mondo, una realtà diversa dentro la realtà, e non diversa per interessi diversi, bensì per il modo diverso di realizzare i comuni interessi”.

Conclusione: “LUI è il cammino che educatore ed educando sono chiamati a percorrere insieme, ed è nel percorso comune, definito dalla meta decisiva del destino, che si impara come è fatta la strada” (Giussani p.49)

 

55. ADESSO è un amèn, ossia l’indicazione di punti fissi, un aiuto prezioso che utilizzava il popolo Ebraico per attraversare il deserto. Nella misura in cui della Parola di Dio è la bussola del mondo, si tratta di piantare dei paletti segnaletici che danno sicurezza al viandante: “Luce ai miei passi è la tua Parola”. 

 

56. ADESSO è l’antica canzone d’amore: “FateBeneFratelli”.

FaccioBeneAttenzione” è un ritornello aggiuntivo che si addice ad ogni annunciatore perché il messaggio sia credibile.

  • C’è una stretta coincidenza tra il messaggio che viene dal deserto per bocca di Giovanni il Battista e Giovanni di Dio: il primo grida alle folle: “Fate opere di conversione”, ossia “Dimostrate con i fatti che avete cambiato vita e non mettetevi a dire: “Noi siamo discendenti di Abramo”. (Luca 3,8).

  • L’appello del questuante di Granata è analogo: “Fate bene a voi stessi, fratelli, per amore di Dio”. La penitenza, il cambiamento di mentalità (metànoite), sono la carità.

 Per religiosi e laici sarebbe sconveniente gloriarsi per il casato, la nobile discendenza, il ramo di appartenenza, se non vi fosse anche l’imitazione del Servo geniale Giovanni di Dio.

 

57. ADESSO è un camminare insieme, un peregrinare operoso e orante verso la città di Dio, la celeste Gerusalemme, che si può ben dire la “nostra terra”, il “nostro paese”. Così si nutre la fede del popolo ebraico in cammino, la Ahavà . rabbà: 

Di un grande amore ci hai amati, Signore, nostro Dio;

 di una grande, infinita pietà ci hai fatto oggetto.

 Nostro Padre, nostro Re, in grazia dei nostri progenitori che hanno avuto fede in te e ai quali hai insegnato le tue leggi di vita, sii propizio anche con noi e istruiscici.

 Padre nostro, Padre misericordioso, clemente, abbi pietà di noi e dà al nostro cuore la facoltà di discernere e di comprendere, di ascoltare, di imparare e di insegnare, di osservare e di praticare con amore tutte le parole che studiamo nella tua Torah.

 Illumina i nostri cuori con la luce della tua Legge, avvinci il nostro cuore ai tuoi comandamenti e disponi il nostro animo all’amore e i al timore del tuo Nome, sì che non abbiamo mai da arrossire.

Noi fidiamo nel tuo Nome santo, grande e venerabile e perciò noi giubileremo e gioiremo per il tuo soccorso.

Riuniscici in pace dai i quattro angoli della terra e riconducici a testa alta nel nostro paese, poiché tu sei Dio, autore di salvezza, e noi hai scelto fra tutti i popoli e tutte le lingue e ci hai avvicinati al tuo Nome grande perché ti lodiamo e proclamiamo la tua unità con ardore.

Benedetto tu, Signore, che nel tuo amore eleggesti il tuo popolo Israele.

La meta e il centro di questo cammino dei popoli è Gerusalemme.

Verso di essa leviamo i nostri occhi, per la sua pace prega il nostro cuore.

Ma non per questo dimenticheremo l’immensa e urgente sofferenza del mondo “.

 

59. ADESSO è il momento propizio anche per chiedere il dono delle lacrime. Se penso che Dio avrebbe chiesto al Figlio di sacrificarsi anche se io fossi stato il solo peccatore in una terra di giusti, non basterebbero le lacrime di commozione:” vi assicuro che in cielo si fa più festa per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Luca 15,7).

 

60. ADESSO è  presa di coscienza che di fronte alla sfida della  post-modernità, in un mondo segnato dalla secolarizzazione e dall’indifferentismo, non vale né deplorare, né rimpiangere.

Meglio radicarsi in una profonda dimensione di interiorità e di preghiera, facendo della Parola ascoltata e meditata il rifrimento vivo del proprio esistere e  dell’Eucaristia l’ispirazione della propria vita.

La COMPAGNIA è chiamata a offrire prospettive di senso, a indicare che la storia ha un signficato e una direzione a partire dal disegno di Dio che in Gesù è orientata verso un’esplosione di speranza e di amore.

61. ADESSO è il coraggio della speranza che postula il richiamo alle virtù necessarie per questa perseveranza: l’amore alla verità, la sincerità conro ogni maniplazione o strumentalizzazione, l’abbandono fiducioso al Padre, la serenità del “servo inutile”…

Ma senza trascurare le grandi prospettive della vita di fede:

  • l’evangelizzazione,

  • l’apostolato che fiorisce nella compassione,

  • ‘intercessione,

  • l’apertura a quell’orizzonte escatologico sovente dimenticato e dal quale, invece “tutto va capito e giudicato”.

Se ogni storia di santità è un’incarnazione dell’unica Parola, per la COMPAGNIA la vicenda terrena dì Riccardo Pampuri,  nella semplicità della sua esistenza,  diviene icona di quel totale abbandono che è radice di ogni perseverare e resistere. Egli è testimone di un incrollabile “coraggio di sperare” che ci aiuta a partecipare alla lacerante carenza di fede e di speranza in cui  è oggi  immerso il nostro mondo occidentale.

62….

02 – ADESSO

adesso - testata di Primo Mazzolari -1 

 

Missione Consolata è "attiva" in tutto il mondo.  

“Ma adesso,

 

chi ha una borsa

 

la prenda,

 

e così una bisaccia;

 

chi non ha

 

spada, venda il

 

mantello

 

e ne compri una”

 

Luca, 22,36

melograno2 bocciolo

 

  

 

Shalôm !  

 

 

Shalom 800px-Shalom

 

  CASCATA

 

  

“HO FATTO UN SOGNO” 

 

 

Tutta la nostra vita è fatta di appelli, vocazioni, annunciazione, che Dio rivolge ad ogni ora del giorno ma anche della notte. Se in principio era il Verbo, ora Egli è un contemporaneo che abita fra noi. Se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.

 A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni. Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli.

Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita. Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.

Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria. Da che cosa ha riconosciuto l’angelo? Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?. Ognuno ha il diritto di chiedersi: da che cosa potrei riconoscere un angelo? Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio? E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria. Lei come ha fatto? Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente. Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria.  

In presenza di una parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose: quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro; l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.. Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51). Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funzione come il caffè liofilizzato istantaneo. Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta. 

Come si dirà più avanti, si diventa GLOBULI ROSSI (Fatebenefratelli laici) non tanto per scelta ma per accettazione di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione. Anche Giovanni di Dio si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente. 

A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:  

  • recettività e riflessione,
  • gioia e timore,
  • senso di Dio e buon senso umano.

Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Lasciarsi sconvolgere e pregare, leggere e riflettere le Scritture, conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti, è il solo modo ragionevole di procedere.  

  • Perché Dio interpella proprio me?

  • Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?

  • Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?

  • Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita? 

Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse: “Ha accolto Israele , suo servo…la sua misericordia di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.  

L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio.   Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo.

Gli altri ridono, prendono le distanze dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio.  

Come Maria e Giovanni di Dio, i GLOBULI ROSSI accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena.

La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla Mater Hospitalitatis, nel senso del suo Magnificat:

  • “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio, l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).  

  • “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)  

  • “Ha guardato a me che non sono niente: sperate con me, siate felici con me, tutti che mi udite. Cose più grandi di me stanno accadendo. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)

  •  “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,  è Lui che colma di beni, è lui…”   “Santo e misericordioso, santo e dolce, con cuore di madre verso tutti, verso chiunque” (Lc 1,50).  

  • “Ha liberato la sua forza, ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).  

  • “Coloro che si fidano della forza sono senza troni. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)  

  • “Ha saziato la fame degli affamati di vita, ha lasciato a se stessi i ricchi: le loro mani sono vuote, i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)

Essere GLOBULI ROSSI vuol dire cantare il Magnificat con la vita, ossia portare e trasfondere Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere, ossia:  

  • Che Dio ha attraversato i cieli,

  • Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso la terra e non viceversa,

  • Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci quanti capelli abbiamo in testa,

  • Che Dio ci conosce uno per uno, si ricorda il nostro nome,

  • Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,

  • Che a sognare con Lui i sogni si avverano,

  • Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!

  • Che Dio è totalmente a disposizione dell’uomo,

  • Che Egli prova più gioia nel dare che nel ricevere.

Se i GLOBULI ROSSI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito: che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza,che era al centro della Tôrah, il nuovo decalogo non è più prescrittivo di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma narrativo, descrittivo di un Dio che è per l’uomo.

Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo:

 “33…Invece un uomo della Samaria, che  

 1.    era in viaggio,

2.      gli passò accanto,

3.      lo vide,

4.      ne ebbe compassione.

5.      Gli andò vicino,

6.      versò olio e vino sulle sue ferite

7.      e gliele fasciò.

8.     Poi lo caricò sul suo asino,

9.      lo portò a una locanda

10. e fece tutto il possibile per aiutarlo.    

11. Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento,

12.  le diede al padrone dell’albergo

13. e gli disse:

14. ”Abbi cura di lui

15. e se spenderai di più

16. pagherò io quando ritorno “  

I GLOBULI ROSSI sottoscrivono il decalogo che è di ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: una terra fatta di prossimi.  

Già vedo la Compagnia dei GLOBULI ROSSI germinare dal midollo osseo della Cina. Donne e uomini, dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”.

Ci confermano che i pionieri o.h. sono già in avanscoperta a trattare con le Autorità Cinesi. Ma, per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi, tutti ancora in incubazione. E con la Cina, la sterminata Africa, L’America, l’Europa agonizzante…  

La fortuna è che tutto il Mondo può contare sulla stessa Messa, sulla EUCARISTIA, il Sacramentum Hospitalitatis!  

Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria: “Fai di me ciò che tu vuoi”. Il dopo si sa a priori come finirà:  ognuno non potrà che divenire un “Giovanni di Dio” contemporaneo con in testa la medesima profezia:   ” ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).    

ADESSO” DNA o.h. è il luogo ideale  per poterlo raccontare al mondo

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Melograno in fiore - Formato 800px-Melograno-fiore

Di buon mattino andremo alle vigne, vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano fiori, se fioriscono i melograni(Cantico dei Cantici  7,1).

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Dite ai giovani che il mondo esisteva già prima di loro,

e ricordate ai vecchi che il mondo esisterà anche dopo di loro. (Paolo VI) 

 

    LA MADRE DEL DIVINO AMORE

     madonna del divino amore  del divino amore

 Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.


Pietro è la nostra guida 

 

Martini il pastore 5fafb037536986ecb1e9b32618bd1e31

  CARLO MARIA MARTINI

  il Pastore

    E

  l’ispiratore

  

  

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ADESSO

          Vieni, Spirito Santo 

ADESSO

ADESSO

 

 

 Quelli del

Magnificat,

schiene a disposizione

di Dio … 

 San Giovanni di Dio, una schiena a sua disposizione

 

Se non ora quando ?  

 

“ADESSO” 

 

Se non io chi ?

 

 

SOTTO IL SEGNO DELLO SPIRITO    

 

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Non pensare allo Spirito Santo come a una colomba svolazzante ma come a una irradiazione dentro di noi di tutto quello che è generoso, vero, nobile, proveniente dalla vera Fonte di ogni generostà, bellezza e verità.

 Lo Spirito che ci rende possibile di vivere largamente e rettamente, umilmente e grandiosamente al di fuori e al di sopra di ogni nostro egocentrismo.

…Ogni spirito ha bisogno di un nutrimento un po’ diverso; l’unica cosa essenziale , l’unico fine è di ottenere Dio, che ciascuno possa avere Dio quanto è capace d’averne. Tutto il resto, inclusa la nostra Chiesa Cattolica, non è che un mezzo di raggiungere quello scopo” (Lina Trigona al fratello Neri) 

 

 Usami, Signore…Vorrei essere sempre

  • una favola per i bambini

  • un sogno per gli adolescenti

  • una inquietudine per i giovani

  • un fratello per gli adulti

  • una carezza per gli anziani

  • un elisir per i sofferenti

  • una benedizione per la mia città

  • un imitatore di SAM, il samaritano,

  • sulle orme di Maria:

 Visitazione della  Beata Vergine Maria

video:  Visitazione della Beata Vergine Mari

 

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PROFETI DEL NOVECENTO:HELDER CAMARA – Dario Scorza

CAMARA - ABBE PIERRE

Profeti del Novecento 

HELDER CAMARA

 (Fortaleza 1909 – Recife 1999)

 

                                                                 di Dario Scorza

Tre anni fa, la notte tra il 27 e il 28 agosto 1999, moriva a Recife Helder Camara, il “vescovo delle favelas” (le periferie degradate e immiserite delle città brasiliane). L’impegno, il coraggio e le vicende di questo umile vescovo che si faceva chiamare semplicemente “dom” ricordano la figura di Oscar Romero, il martire salvadoregno. Infatti, come Romero, anche dom Helder partì da posizioni integraliste (aderì al movimento cattolico di Plinio Salgano, un’associazione clerico-fascista); il suo integralismo venne premiato e Pio XII, nel 1952, lo nominò vescovo ausiliare di Rio de Janeiro.

L’incarico di vescovo, come accadde anche a Romero, lo convertì alla causa dei poveri. Nel 1955, con i fondi del Congresso eucaristico internazionale diede il via alla “crociata di San Sebastian”, un progetto per costruire un palazzo di appartamenti da dare ai poveri di una favela che, dopo, fu possibile buttare giù.

Non contento, dom Helder fondò il “Banco da Providencia”, per prestiti alle persone in difficoltà, e i cui utili servirono a sostenere servizi di vario genere: sanità, ambiente, istruzione, trasporti, orientamento professionale, assistenza giuridica, disoccupazione (1.500 posti di lavoro nel 1963).

Il 12 aprile 1964, Paolo VI lo nominava vescovo di Olinda e Recife. I segni del suo spirito profetico si manifestarono anche al Concilio Vaticano II: si diede anzitutto da fare perché le liste già redatte per la costituzione delle undici grandi commissioni fossero respinte ed il Concilio Ecumenico fosse realmente opera del collegio episcopale e non della Segreteria di Stato.

In quel tempo fu promotore – insieme al cardinale Giacomo Lercaro – del gruppo della “Chiesa dei poveri”: una cinquantina di vescovi dei cinque continenti che a margine dell’Assise conciliare si riunivano per riflettere sul rapporto tra Cristo e i poveri e la necessità per la Chiesa di conformarsi al Cristo povero, liberandosi da ogni compromesso terreno.

Per la chiusura del Concilio, dom Helder propose che i capi di tutte le religioni fossero riuniti in piazza San Pietro per una preghiera veramente ecumenica: così non fu, ma precorrendo i tempi anticipò nel sogno quel che sarebbe successo ad Assisi il 27 ottobre 1986.

Tornando alle affinità con Oscar Romero, anche dom Helder denunciò ripetutamente le violenze della dittatura militare, che dal 1964 al 1985 insanguinò il Brasile (nel 1970 accusò apertamente il governo di torturare i prigionieri politici) e per questo subì minacce e intimidazioni, che si spinsero, nel 1969, fino all’assassinio di uno dei suoi più stretti collaboratori, padre Enrique Pereira Neto.

Ma dom Helder (come Romero), non si lasciò intimidire e anzi portò la sua battaglia contro la povertà sugli scenari internazionali.

Nel 1970 con Ralph Abernaty – il successore di Martin Luther King – sottoscrisse un appello comune in cui tra l’altro si dice: «Per far fronte al pericolo costante di una guerra mondiale, dobbiamo costruire un movimento mondiale per la pace. Per far fronte al problema della povertà, dobbiamo istituire una lotta mondiale contro la miseria e l’ingiusta ripartizione delle ricchezze…».

Il regime militare tenterà in ogni modo di boicottarlo (alla stampa venne vietato di pronunciare il suo nome) e di screditarlo (gli affibbiò l’epiteto di “vescovo rosso”) e la sua candidatura al premio Nobel per la Pace venne deliberatamente ignorata. Questa campagna diffamatoria riscosse un certo successo anche negli ambienti ecclesiastici e gli costarono l’elezione a cardinale.

Dom Helder ha sempre dichiarato di non aver bisogno di Marx per rivendicare giustizia per i fratelli poveri, perché gli bastava il Vangelo. Fu Giovanni Paolo II a rompere l’oscuramento imposto dal governo sui mezzi d’informazione, abbracciandolo durante il primo viaggio pastorale in Brasile e salutandolo come “fratello dei poveri e fratello nostro”.

Ma la “normalizzazione” e il moderatismo ecclesiastico hanno colpito anche la sua opera: infatti il successore di dom Helder ha progressivamente smantellato tutte le strutture pastorali che lui aveva creato in vent’anni.

HELDER CAMARA LA VOCE DEGLI UOMINI SENZA VOCE

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LA VOCE DEGLI UOMINI SENZA VOCE

 

Alcuni brani tratti dal libro-intervista Interrogativi per vivere (Cittadella, 1984)

 

Lei vede tanta miseria, tante ingiustizie e tante poche forze impegnate a combatterle: come può essere così sorridente, gioioso, ottimista?
 

«Nel mio paese e dovunque io vada, è vero che incontro la miseria, il dolore, la violenza, l’odio. Ma è vero anche che incontro folle innumerevoli di uomini e donne, di giovani di ogni età che non accettano questa situazione, che hanno sete di giustizia e di pace, che sono pronti a tutto per costruire un mondo più sano e più fraterno. Questo mi dà un coraggio enorme!».
 

Cosa ne pensa della diminuzione continua della pratica religiosa?
 

«Perché parlare sempre di “pratica religiosa” e mai di “pratica evangelica”, fatta di amore e coraggio, di servizio agli altri? Forse questa pratica non è abbandonata. Dovunque io vada la vedo operante e sono ottimista. Se i giovani vanno meno in chiesa è forse perché non vi trovano abbastanza riuniti la vita e il vangelo. E’ compito delle comunità cristiane far ricongiungere la pratica evangelica con quella religiosa».
 

Le ingiustizie, conseguenze del peccato, non sono volute da Dio? Perché Dio ha creato gli uomini peccatori? Perché permette l’ingiustizia, la sofferenza?
 

«Dio, saggezza infinita, sapeva molto bene, decidendo di creare al di fuori di sé, che lui, perfezione suprema, poteva creare solo il finito, il limitato, l’imperfetto. Ma egli ha deciso di creare. E la creazione sarà per sempre la grande testimonianza della sua audacia e della sua umiltà! Attenzione! Dio non ha creato il peccatore: ha creato l’uomo, che commette il peccato.
Perché Dio non impedisce all’uomo di commettere il peccato? Perché non si comporta come gli uomini, che fanno finta di dare la libertà a condizione che la loro volontà sia perfettamente rispettata.
Per fortuna Dio ci conosce molto meglio di quanto ci conosciamo noi stessi. Sa che in questo mondo c’è molta più debolezza che cattiveria. A proposito delle calamità che succedono sulla terra e che uccidono migliaia di uomini, Dio ci dà l’intelligenza necessaria per vincerle».
 

Ma le malattie, gli infortuni, i lutti, tutte queste sofferenze “naturali”?
 

“Mons. Veuillot, quando ha conosciuto egli stesso la sofferenza ha raccomandato ai suoi sacerdoti di non parlarne mai senza sapere… Quando partirò per l’eternità, vorrei portare con me domande da porre, ipotesi da verificare… i grandi misteri per me saranno sempre incomprensibili, malgrado gli sforzi di Dio per farsi capire completamente… Il Signore ha incontrato la sofferenza, ha pianto, ha avuto pietà. Ha cercato di guarire, di dare da mangiare, di consolare, ha persino restituito un figlio ai suoi genitori. Quando lui stesso ha conosciuto l’agonia ha chiesto pietà. Accettando di creare l’universo al di fuori di sé, nostro Padre ha accettato di farsi rimproverare di aver dato vita all’imperfetto. Ma lui ha dato all’uomo il potere e la responsabilità di non rassegnarsi alla sofferenza e al dolore innocente, ma di combatterli. E’ il nostro compito».
 

Non pensa che sia stato l’uomo a creare Dio, piuttosto che il contrario?
 

«Voltaire ha scritto: Dio creò l’uomo a sua immagine, e l’uomo lo ha ricambiato. In realtà noi abbiamo spesso sfigurato Dio facendo di lui la risposta alla nostra ignoranza, la compensazione alla nostra impotenza, la consolazione alle nostre angosce. E i potenti si sono serviti di lui per giustificare il loro dominio, le loro ambizioni. Oggi siamo più attenti a queste insidie. I non-credenti, ponendoci interrogativi come questi ci hanno aiutato a rispettare meglio Dio».
 

Siamo in molti ad applaudirla nel luoghi dove lei passa. Ma in quanti saremo domani ad accettare di lavorare solo trentacinque ore alla settimana, con perdita di salario, per condividere il lavoro?
 

«Dio lo sa ed è il suo segreto. Ma il numero non è la cosa più importante. Penso sempre che tutto il cielo può riflettersi in una sola goccia d’acqua».
 

E’ veramente indispensabile l’esistenza di Dio e l’essere cristiani per combattere l’ingiustizia? Non crede che si potrebbero raggiungere gli stessi scopi anche senza fare riferimento a Dio?
 

«Si rimprovera talvolti ai cristiani di non amare l’uomo per se stesso, ma per Dio. Ma se sono sinceri, anche senza volerlo, essi onorano veramente l’uomo. Parallelamente, quelli che amano l’uomo per lui stesso, senza alcun riferimento a Dio, se sono sinceri, anche senza volerlo onorano veramente il nostro Padre. Allora io dico: no, la condivisione della speranza non esige la condivisione della fede. I credenti sanno da dove viene e dove li impegna la loro speranza. Essi hanno maggiori responsabilità. I non credenti hanno in comune con i credenti il fatto che il Signore, invece, crede in loro; certo, possono e devono lavorare insieme».

LE PAROLE DI DOM HELDER CAMARA

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Le parole di dom Helder

   

«Se do da mangiare ai poveri mi chiamano santo;

se domando perché i poveri non hanno da mangiare,

mi chiamano comunista».

 

«Se, per mettersi in cammino i cristiani aspettano sempre i vescovi e i vescovi aspettano sempre i cristiani, la Chiesa non avanzerà mai né aiuterà il mondo a procedere sul cammino della pace!»

 

«Sono convinto che noi non onoriamo sufficientemente l’intelligenza e l’immaginazione creatrice del Signore quando crediamo che egli abbia creato miliardi di astri, milioni di volte più grandi della terra, solo per brillare da lontano e fare nella notte, la gioia degli occhi degli uomini.

Il Signore, certo, ha seminato la vita in quest’universo di mondi: vita intelligente e libera a livello della nostra, a livello inferiore e a livello superiore della vita umana….

Quando i veri sbarchi cominceranno, da qualche parte, l’uomo potrà finalmente capire la sua piccolezza e l’impiego avaro e meschino che tanto spesso fa del dono della vita, dell’intelligenza e delle libertà divine alle quali gli è stato offerto di partecipare»

 «Qual’è la cosa più urgente: coscientizzare i ricchi restando uno di loro, fra loro, o vivere con i più poveri per aiutarli a svilupparsi?

Tutto è urgente.

Ma non tutto è possibile a tutti. Ciascuno deve sapere quello per cui il Signore lo ha meglio preparato e disposto. Solo chi si pone questo interrogativo può rispondere, con il consiglio di quelli che lo conoscono bene, e la sua risposta sarà valida solo per lui».
 

«Mi chiedono che importanza hanno i viaggi del Papa nei paesi a regime dittatoriale, dato che dopo la sua partenza sembra che la repressione sia rinforzata. E’ vero che gli uomini che sono al potere cercano di servirsi del papa, per esempio mostrandosi alla televisione con lui.

Ma il popolo sente quello che lui dice. Anche se in seguito la dittatura si crede pi forte, anche se aumenta la sua pressione, il Santo Padre ha seminato la speranza, ha rinnovato le ragioni di vivere, ha riunito i coraggi dispersi».
 

«La Chiesa ha tanto paura della parola “liberazione” perché forse alcuni non hanno capito la formula “teologia della liberazione”: hanno inteso dire che era marxista o qualcosa del genere.

Altri hanno compreso bene che essa era una riscoperta della forza rivoluzionaria dell’amore di Dio nella storia degli uomini, e questo gli è sembrato pericoloso. C’è quindi un grande dibattito sulla teologia della liberazione. Ma nessuno può negare che Cristo vuole che tutti i cristiani s’impegnino per la liberazione di tutti i fratelli.

La promozione umana, la lotta contro le cause delle ingiustizie, la conquista della dignità costiuiscono per gli uomini il modo di cooperare alla salvezza e alla redenzione per le quali il Signore ha dato la sua vita».
 

«Se a mio parere il Papa non dovrebbe essere più semplice nel suo modo di vestire e nel suo ambiente prima di parlare della miseria dei popoli? Le cose sono già molto diverse da come erano solo trent’anni fa. I nostri papi si sono già liberati da soli, per quanto hanno potuto della tiara, della sedia gestatoria, dei fuenrali principeschi…

Giovanni Paolo II non è più prigioniero del Vaticano. Viaggia, visita i sacerdoti e le parrocchie della sua diocesi.

Allora ho tutta la libertà di pensare e anche di sperare che domani le cose saranno ancora più diverse e che la Chiesa troverà il coraggio e il modo di liberarsi dall’ingranaggio del denaro e il papa di liberarsi dagli obblighi di un capo di Stato, con la sua guardia folcloristica, i suoi diplomatici, il suo protocollo…

io credo che anche se non troviamo questo coraggio e questo modo, perché non è facile, Dio saprà di nuovo strapparci alle abitudini della Storia!»

Da “ADESSO  on line”

La scomparsa di un profeta:HELDER CAMARA – Ciro Miele

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La scomparsa di un profeta

 

 di Ciro Miele

«Caro arcivescovo Helder Camara,  fratello dei poveri e mio fratello».

Con queste parole Giovanni Paolo II si rivolse abbracciandolo davanti a folle di contadini, a quel vescovo minuto, dagli occhi grandi e dal cuore immenso, scomparso alcuni giorni fa.
 

Il mondo perde un grande profeta. Uomini così se ne vanno lasciando dietro di se quella forza impetuosa della profezia che non smette e non smetterà mai di importunare le coscienze addormentate.
 

I poveri stavano bene con lui perché era egli stesso povero, nell’aspetto,e nel suo relazionarsi. Sì, perché più che parlare dei poveri bisogna mettersi addosso la loro camicia, trapiantarsi dentro i loro occhi, il loro modo di vedere. E questo dom Helder lo aveva capito.
 

Un impegno e anche una vocazione quella sua di far capire ad oppressi ed oppressori, parteggiando per gli uni e amando anche gli altri, in quella zona del Nordeste del Brasiele, così povera e dove il contrasto tra poveri e ricchi stride fastidiosamente, che «Dio, avendo creato tutto e ciascun uomo a sua immagine e somiglianza, non ammette, accanto a uomini-uomini, uomini-cactus, ombre di uomini…».
 

Parole forti a volte irrise a volte cancellate dal cuore e dalla mente perché scomode. Del resto proprio lui aveva affermato che «il mondo d’oggi ha pochi profeti e irride il profetismo».
 

Vigore nel suo ministero episcopale ma anche sofferenza per le frequenti accuse che gli venivano. «C’è chi mi accusa – scriveva – di essere sovversivo, rosso, comunista, e lo fa per gioco o per malizia: ma c’è anche chi lo fa in buona fede ed arriva al punto di pregare per la mia conversione… Ma io non credo alla violenza, non credo all’odio, non credo alle rivoluzioni armate. Non ho bisogno del marxismo: il Vangelo mi dà tutto ciò che il marxismo potrebbe darmi. Inutile allarmarsi: non predico l’odio, predico l’amore».
 

E il suo progetto di cristiano, di vescovo non era limitato al solo Brasile. Ad un giornalista, una volta disse: «L’America latina è il continente dove lo sfruttamento dell’uomo presenta forse il più alto tasso di disuguaglianza. E qui non sempre la voce di Dio ha saputo levarsi alta e chiara a denunciarlo».
 

Non so se anche per noi non sia giunto il momento di riflettere a lungo, credenti e non, sulla nostra «scelta preferenziale per i poveri».
 

Occorre che cominciamo a porre, con spirito profetico, segni di grande speranza consapevoli che, come affermò un altro grande vescovo dei poveri, monsignor Romero «incarnare la giustizia dei poveri significa annunciare la Buona Notizia».
 

(da Adesso n.6 – settembre 1999)

 

 

EUCARESTIA: COMUNIONE O ATTO DI ESCLUSIONE? – Marcelo Baros

EUCARESTIA:

COMUNIONE O ATTO DI ESCLUSIONE?

 

LETTERA APERTA DEL MONACO

MARCELO BARROS AL PAPA

 

 

DOC-1374. GOIÁS VELHO-ADISTA.

 

Sono molto critici i commenti sull’ultima enciclica papale, “Ecclesia de Eucharistia”, da parte del monaco benedettino p. Marcelo Barros, priore del Monastero dell’Annunciazione a Goiás Velho, nello Stato brasiliano di Goiás. Commenti che il noto teologo della liberazione brasiliano, da sempre attivo nel campo dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso, avanza direttamente a Giovanni Paolo II, in una lettera a lui personalmente rivolta. Con accenti assolutamente schietti, che molto di rado si incontrano in una lettera al papa, Marcelo Barros finisce per delineare il volto di una Chiesa più umana, più solidale, più aperta alla ricchezza delle differenze. Di seguito la sua coraggiosa lettera, in una nostra traduzione dal portoghese.

 

Caro fratello Giovanni Paolo II,

 

 

 

nel mondo intero si è data notizia che il 17 aprile, giovedì santo, lei ha divulgato la sua 14.ma enciclica: Ecclesia de Eucharistia. Negli ultimi anni, il Vaticano ha pubblicato tanti documenti che uno in più non farebbe molta differenza. Ma questa lettera sull’eucarestia nella sua relazione con la Chiesa sta provocando molte discussioni e sofferenze nei gruppi ecumenici e io sento personalmente di rappresentare molti cristiani nel cercare di comprenderla e di parlare con lei di questo. Pertanto, mi prendo la libertà di commentarla e di farle alcune domande. In primo luogo, vorrei ringraziarla ed evidenziare il valore della sua testimonianza di fede e di amore per il ministero. È cosa buona sapere come lei interpreti la fede e la missione della Chiesa. Sulla base di questo stesso amore, tenterò di riassumere alcuni punti su cui mi piacerebbe parlare con lei.
1 – La Chiesa vive dell’eucarestia o dell’amore solidale al popolo?

“L’Eucarestia è il nucleo stesso del mistero della Chiesa” (n. 1). Questo è vero a livello di segni. I sacramenti sono segni efficaci che contengono ciò di cui sono segno, ma non smettono di essere segni. Non sarà che questa lettera confonde il segno con la realtà? Dire che l’eucarestia è il nucleo del mistero della Chiesa non è come affermare che l’asse portante dell’amore tra due persone è la tenerezza del corpo? Il nucleo del mistero della Chiesa è l’eucarestia o la solidarietà, traduzione del termine greco agape? Non è più corretto dire che la Chiesa vive dell’amore solidale, del servizio e della testimonianza del Regno di Dio e che questo si esprime come segno nell’eucarestia e negli altri sacramenti?
La lettera dedica un paragrafo (il 20) alla relazione tra l’eucarestia e “la responsabilità nei riguardi della terra”. Dice che, nel quarto Vangelo, il racconto del lavaggio dei piedi “illustra il profondo significato del sacramento”. Ricorda che Paolo definisce “indegna” la comunione di una comunità che partecipi alla Cena in un contesto di discordia e di indifferenza nei confronti dei poveri (cfr 1 Cor 11). Ma tocca questa relazione tra eucarestia e giustizia solo alla fine del capitolo 1, come se fosse una conseguenza dell’eucarestia e non il suo presupposto fondamentale. Cosa denota questo come visione della Chiesa e della fede?

2 – La Messa, sacrificio a quale Dio?

Nella lettera, lei cita varie volte il Concilio Vaticano II e alcuni documenti del magistero romano recente, ma la dottrina che vi è espressa sull’eucarestia è quella del Concilio di Trento nel XVI secolo, che lei ritiene attuale e propone come riferimento dogmatico per tutta la Chiesa (n. 9). Poiché lei conosce tutto il lavoro teologico che, negli ultimi secoli, è stato elaborato sull’eucarestia, deduco che lei, semplicemente, non ritiene importante questa evoluzione. Anzi, persino nel linguaggio arretra rispetto al Vaticano II. Parla di “santo sacrificio della messa” e non di Cena del Signore, così come chiama i ministri sacerdoti e non presbiteri.
La teologia è chiara: “La missione rende presente il sacrificio della croce. Non lo ripete, né lo moltiplica. Quello che si ripete è la celebrazione memoriale” (n. 12). Se è così, non sarà che oggi il linguaggio sacrificale non è il più adeguato per esprimere la verità del memoriale? Non sarà ostaggio di una cultura, presente nel Nuovo Testamento, legata al giudaismo dell’epoca e ad altre religioni? Come si può parlare, oggi, di Dio Amore se si tratta di un Padre che ha bisogno che il Figlio muoia per riconciliarsi con l’umanità? La fede non è più ampia della sua spiegazione in concetti teologici, sempre legati a una determinata cultura? Perché imporre a tutti un’interpretazione della fede come se fosse la fede stessa, soprattutto quando questo modo di parlare dell’eucarestia non dice più niente a molti cattolici e ci divide dai fratelli delle altre Chiese che, in passato, sono già state condannate per questo? Non sarebbe più in accordo con la fede nell’eucarestia seguire il consiglio di papa Giovanni XXIII e affermare la fede in una maniera che unisca i fratelli e non li divida?

3 – Celebrazione eucaristica domenicale e celibato

Lei insiste sul fatto che l’eucarestia è essenziale e dipende dal sacerdote ordinato che la celebra. Ripete che le comunità non possono celebrarla senza il prete e che i culti domenicali senza prete non sostituiscono l’eucarestia. In Brasile, sono migliaia le comunità cattoliche che la domenica non hanno il prete e celebrano il culto della Parola. Lei sa perché tutte queste comunità non hanno il prete e perché alcune ricevono la visita di un prete due volte all’anno. È per il fatto che lei non accetta di aprire la questione del celibato obbligatorio e di ordinare uomini sposati, degni e preparati per il ministero. E non riconosce la validità del ministero dei preti che si sono sposati, i quali, con gioia, accetterebbero di esercitare il ministero. Senza parlare del fatto che, in America Latina, la Chiesa cattolica è l’unica delle Chiese occidentali storiche che non accetta di ordinare donne. Cosa è per lei più importante: l’eucarestia domenicale, come insegna nell’enciclica, o mantenere come legge prassi latina del celibato obbligatorio?

4 – Cena di inclusione e di amore

Lei lega l’eucarestia alla persona di Gesù per affermare il suo “sacrificio” ma non fa riferimento alla sua vita concreta. Non ricorda come Gesù abbia mangiato con i peccatori e con gente di malaffare. Ricorda come norma che si può avvicinare all’eucarestia solo chi sia libero da peccati gravi e noi sappiamo cosa la Chiesa ha considerato peccato grave. Lei stesso ha dato l’esempio nei suoi tanti viaggi per il mondo. Nel pieno della dittatura cilena, ha celebrato l’eucarestia nel palazzo presidenziale e ha dato la comunione al generale Pinochet perché, malgrado il sangue versato dagli oppositori che egli aveva potuto trucidare, è sposato in chiesa ed è contro il divorzio. Lei insegna che per fare la comunione è necessario confessarsi e questo presuppone la confessione individuale a un sacerdote ordinato. Mi piacerebbe che lei mi aiutasse a scoprire questa esigenza nei Vangeli o anche nella prassi della Chiesa primitiva. Quello che leggo è che Gesù dice: “sono venuto per i peccatori e non per i giusti”. Le mense alle quali egli partecipava erano segnali di inclusione e della profezia del Regno di Dio che accoglie tutti, soprattutto gli esclusi e i diseredati. A causa della nozione di sacerdozio che la nostra Chiesa ha sviluppato, lei ripete ciò che già appariva nella dichiarazione Dominus Iesus e distingue i cristiani gli uni dagli altri. Riconosce come “Chiese” solo le ortodosse e chiama la Chiese evangeliche “comunità ecclesiali”. E proibisce ai cattolici di accostarsi alla comunione in celebrazioni eucaristiche di queste chiese “per non avallare ambiguità su alcune verità di fede” (n. 44). Cosa ha a che vedere questa nozione di Chiesa con l’ecclesiologia del Concilio Vaticano II? Come continuare il cammino ecumenico con quest’altro passo indietro? Perché disconoscere e disprezzare gli accordi ecumenici già raggiunti tra alcune Chiese? Il Documento di Lima sul battesimo, l’eucarestia e il ministero (1983) è ignorato. L’accordo con la Chiesa luterana sulla giustificazione è praticamente passato sotto silenzio. Perché? È più importante la chiarezza intellettuale o la carità e la testimonianza dell’amore? La “chiarezza su alcune verità di fede” è più importante dell’accoglienza mutua e dell’unità reale vissuta da cristiani che la pensano in maniera differente ma celebrano con grande rispetto e affetto il memoriale del Signore, in questo contesto di un mondo diviso e nel quale le religioni rappresentano forze di opposizione e non di unità?
Ho letto in una rivista italiana che questa lettera sarebbe stata diretta specialmente ai cattolici tedeschi che hanno praticato l’ospitalità eucaristica e l’intercomunione. Pochi giorni prima della divulgazione della sua lettera, essi hanno persino pubblicato un importante documento mostrando come sia stato valido questo loro cammino. Come argomento contrario all’intercomunione lei dice che l’eucarestia ha senso solo quando esprime l’unità già vissuta. È interessante che, nel campo dell’ecumenismo, lei insista su questa esigenza di unità già realizzata quando non esige la stessa cosa parlando della giustizia e dell’impegno a favore della vita sul piano sociale. Ma anche se questo argomento è vero, perché non considerare questo cammino di alcuni gruppi come esperienze pilota che possono essere utili a tutta la Chiesa?

5 – “Riceviamo dal Signore anche quello che insegniamo”

Alla fine, in relazione all’Eucarestia, cosa mi impegno con lei a credere e testimoniare? Quello che ha scritto Paolo nella lettera ai Corinzi: che nella notte in cui fu tradito, Gesù cenò con i suoi discepoli e mettendo in relazione questo pasto con la cena pasquale distribuì il pane e il vino ai discepoli significando l’offerta della sua vita, la passione che di lì a poche ore avrebbe vissuto. I primi cristiani chiamavano l’eucarestia “condivisione del pane” e certamente non a caso. È bene ricordarlo al popolo brasiliano in questo momento in cui il governo federale propone il progetto Fame Zero.
“Mangiare è un gesto fondamentale della vita. Per il popolo biblico, i pasti hanno uno spazio considerevole. Un elemento culturale fondamentale per l’israelita è il carattere relazionale del pasto. Questo appare nella benedizione dei figli riuniti intorno alla mensa (Sal 128,3). Alla mensa, mangiando con i tre uomini misteriosi che gli fanno visita, Abramo riceve l’annuncio della nascita di Isacco (Gen 18). È alla mensa che Èlkana distribuisce i suoi beni tra le due donne e Anna decide di chiedere a Dio che la liberi dalla sterilità (1Sam 1, 1-8). È alla mensa che il levita di Efraim cerca di riequilibrare i legami familiari scossi dalla fuga di sua moglie (Gdc 19, 4-8). David e Abner si riconciliano attorno a una mensa (2Sam 3, 20). È a partire dalla realtà quotidiana del mangiare insieme che Dio si rivela e ci dice il suo progetto” (A. Marchadour, La Pâque: son évolution jusqu’au temps de Jésus, in L’eucharistie dans la Bible, Cahiers Èvangile, 37, pp. 6-7). Prima di dare la parola dell’alleanza a Mosè, Dio gli dà l’alimento ed esige che lo mangi, riunita, ogni famiglia (Es 16 e poi Es 19; L. Monloubou, L’Ancien Testament à table, in L’Eucaristie dans la Bible, Cahiers Èvangile, pp. 5ss). I rabbini insegnano: “A partire dalla distruzio-ne del tempio, ogni mensa in ogni casa è diventata un altare” (Talmud, Pesachim 4b).
I pasti hanno uno spazio importante nella vita di Gesù. È in un pranzo che egli conosce più in profondità Levi, il discepolo, Marta e Maria, il fariseo Simone, Zaccheo, i discepoli di Emmaus e altri personaggi della sua vita quotidiana. Questi pasti presi con il suo gruppo hanno una tale importanza che quando mancano, due volte, il Vangelo riferisce la lamentela: “Non avevano tempo neppure di mangiare” (Mc 3,30 e 6, 31). E la prima accusa che gli avversari lanciarono contro Gesù fu: “Mangia con i peccatori” (cfr. Lc 15,2).
“Durante i pasti, Gesù si rivela e rivela un volto di Dio” (Jacques Guillet, Jésus dans la foi des premiers disciples, Desclée de Brouwer, 1995).
Il Consiglio ecumenico delle Chiese e la Commissione Fede e Costituzione hanno lavorato anni e anni per arrivare a un consenso tra le Chiese storiche sul Battesimo, l’Eucarestia e il Ministero. Hanno ottenuto che le Chiese firmassero il “Documento di Lima” (1983) nel quale il capitolo sull’Eucarestia inizia così: “I pasti che Gesù ha condiviso durante il suo ministero terreno, e dei quali abbiamo notizia, proclamano e rappresentano la prossimità del Regno: la moltiplicazione dei pani ne è un segnale. Nell’ultima cena, la comunione del Regno è stata messa in relazione con la prospettiva delle sofferenze di Gesù. Dopo la sua resurrezione, il Signore manifestò la sua presenza e si fece conoscere dai suoi discepoli allo spezzare il pane. L’eucarestia si trova, così, sulla linea della continuità dei pasti che Gesù ha preso con i suoi e significa la partecipazione all’atto di donare la vita a servizio di tutti come fece Gesù e la testimonianza del Regno di Dio”.

 


Forse lei si meraviglierà che io non mi riferisca al sacrificio. Lavorando contro la pena di morte nel mondo di oggi e cercando di testimoniare che Dio è Pace e dono di vita, penso che dovremmo sostituire questa categoria del sacrificio con una equivalente che dia risalto all’offerta di Gesù ai suoi e alla fedeltà al progetto del Padre, al suo affidare la sua vita a Dio e a come sulla croce egli ci ha rivelato un nuovo volto di Dio. Secondo il quarto Vangelo, quando, nell’orto degli ulivi, egli domanda ai soldati: “Chi cercate?” e questi gli rispondono: “Gesù il nazareno!”, egli risponde loro con il nome con il quale Dio si rivela a Mosè nel rogo ardente: “Sono io” o “Io sono”. E, secondo il Vangelo, quei soldati, che non sono specialisti in mistica, cadono terrorizzati di fronte al Nome.

  

Celebrare la Cena è dare testimonianza a un Dio Amore che dà la sua vita a tutti gli uomini e le donne, perdona tutti e non esclude nessuno dalla sua vita. Per me non esiste pienamente Cena del Signore se manteniamo privilegi o esclusioni come quella delle donne dai servizi ministeriali e dei laici considerati “meno capaci di consacrare” dei presbiteri ordinati. Il sacrificio di Gesù, se si può ancora parlare di sacrificio, è stato l’offerta della sua vita “per l’unità di tutti i figli e le figlie di Dio dispersi per il mondo” (Gv 11, 52). Questo è il suo sacrificio: che, come insegna Sant’Agostino, pone fine a tutti i sacrifici.

  

A partire da esso, non è più necessario alcun sacrificio. “La nuova alleanza annunciata dai profeti Ezechiele e Geremia parla dello Spirito di Dio versato nei nostri cuori, in templi di carne invece che in templi di pietra, ma non parla di sacrificio o di sangue versato. Si può vedere questo in Geremia (da 31, 31 in avanti) e in Eze-chiele 36″ (S. Legasse, L’Eucharistie, nouvelle alliance, in idem, p. 33).

 

 

 

Con molta gioia, lei scrive nella sua lettera: “Annunciare la morte del Signore ‘fino alla sua venuta’ (1Cor 11, 26) include, per quanti partecipano all’Eucarestia, l’impegno a trasformare la vita, in modo tale che questa diventi, in certo modo, tutta eucaristica” (n. 20). E poi cita S. Agostino, in una delle sue belle omelie per i neobattezzati nella notte di Pasqua: “L’apostolo dice: ‘voi siete il corpo di Cristo e le sue membra’ (1 Cor 12, 27). Se siete il corpo di Cristo e le sue membra, è il vostro sacramento che è collocato sulla mensa del Signore; è il vostro sacramento che ricevete (…). Cristo Signore (…) ha consacrato nella sua mensa il sacramento della nostra pace e della nostra unità” (n. 40).

6 – Domanda finale

Formato nella teologia e nella spiritualità del Concilio Vaticano II, la riconosco come vescovo di Roma e primate dell’unità tra le Chiese ma non come un supervescovo o un definitore della fede delle persone. Accetto il primato del papa come ministero amato da Dio, ma questo non include la nomina dei vescovi, né la definizione di un diritto universale, o di un catechismo a cui tutti i cattolici del mondo devono credere. Perché imporre a tutte le Chiese un modello unico di ministeri e un’unica liturgia: quella romana? Non sarebbe più in accordo con la verità dell’eucarestia promuovere la vita e la libertà di tutti? Sarebbe una testimonianza: crediamo che, così come molte spighe formano un solo pane, Dio fa della diversità delle Chiese e della varietà delle celebrazioni l’unità di una sola comunione.

Lascio a lei e ai fratelli che leggeranno queste righe tali domande e continuo a pregare per la nostra Chiesa perché sia, come hanno affermato un giorno i vescovi dell’America Latina: “una Chiesa autenticamente povera, missionaria e pasquale, slegata da ogni potere temporale e coraggiosamente impegnata nella liberazione di ogni essere umano e di tutta l’umanità” (Medellín 5, 15).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da ADISTA del 7.6.2003

01 – DEPORRE I POVERI DALLA CROCE:Cristologia della Liberazione

 

DeporreIPoveriDallaCroce 

Commissione Teologica Internazionale

della ASSOCIAZIONE ECUMENICA

DI TEOLOGI/GHE

DEL TERZO MONDO

  

José María VIGIL (organizzatore)

Commissione Teologica Internazionale

della Associazione Ecumenica di Teologi/ghe del Terzo Mondo

ASETT / EATWOT

Versión 1.1

 

DEPORRE I POVERI DALLA CROCE:Cristologia della Liberazione.

Prima edizione digitale in italiano (versione 1.0): 1 giugno de 2007

ISBN – 978-9962-00-240-6

 

  • José María VIGIL (organizzatore).

  • Commissione Teologica Internazionale della

  • ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo

  • (EATWOT, Ecumenical Association of Third World Theologians).

  • Prologo di Leonardo BOFF

  • Epilogo di Jon SOBRINO

  • Copertina e poster di Maximino CEREZO BARREDO

  • Traduzione in italiano a cura di ADISTA (www.adistaonline.it)

  •  

© Questo libro digitale appartiene alla Commissione Teologica Internazionale  della ASETT-EATWOT, che lo mette a disposizione gratuitamente, e ne autorizza e raccomanda la condivisione, la stampa e la diffusione senza fini di lucro.

Questo libro è stato realizzato in due formati: uno pensato per essere letto al computer, e che può anche essere stampato a bassa risoluzione; l’altro ad alta risoluzione per stampa professionale (per “stampa digitale” o anche offset).  

Entrambi i formati sono disponibili agli indirizzi:

http://www.eatwot.org/TheologicalCommission

 http://www.servicioskoinonia.org/LibrosDigitales

 Agli stessi indirizzi si possono trovare le edizioni digitali del libro in spagnolo (originale) e inglese. 

Vi si trova anche un poster de 45 x 65 cm con l’immagine di copertina di questo libro (anche in portoghese, inglese, tedesco e italiano). 

Un’edizione cartacea in portoghese è disponibile in Brasile per i tipi dell’editrice Paulinas di São Paulo (www.paulinas.org.br).

 Un servizio della

Commissione Teologica Internazionale della ASETT, Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo (EATWOT, Ecumenical Association of Third World Theologians).

 

INDICE

 

Presentazione dell’edizione italiana, Carlo Molari . . . . . . . . . . . . . . 11

Prologo, Deporre i Poveri dalla Croce, Leonardo BOFF. . . . . . . . . . . . . . 13

Presentazione, José María VIGIL. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1 5

Presentazione della seconda edizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18

Domande alla CDF. A seguito della Notificazione su Jon Sobrino.

Tissa BALASURIYA, Colombo, Sri Lanka. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19

Gesù di Nazareth, Orixá della Compassione.

Marcelo BARROS, Goiâs, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23

Cristologia a partir del Nazareno.

Leonardo BOFF, Petrópolis, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

Primato dei poveri nella missione di Gesù e della Chiesa.

Teófilo CABESTRERO, Guatemala, Guatemala . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 37

Gesù, i poveri e la teologia.

Oscar CAMPANA, Buenos Aires, Argentina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45

I poveri, la Chiesa e la Teologia.

Víctor CODINA, Santa Cruz, Bolivia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 55

Reflessioni sulla Notificazione a Jon Sobrino.

José COMBLIN, João Pessoa, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 63

La cristologia e la spiritualità che ci nutrono.

CONFER de Nicaragua, Managua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71

Il Gesù della storia, i Cristi della fede e la speranza di un altro mondo

Lee CORMIE, Toronto, Canadá . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

Analisi della ‘Notificazione’ da una prospettiva biblica.

Eduardo DE LA SERNA, Quilmes, Argentina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 85

Gesù Cristo come chakana. Cristologia andina della liberazione.

José ESTERMANN, La Paz, Bolivia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95

Gesù Cristo Liberatore: Cristologia in America Latina e nei Caraibi.

Benedicto FERRARO, Campinas SP, Brasile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 105

Visione globale di Gesù Cristo. Riflessioni sull’uso della Bibbia.

Eduardo FRADES, Caracas, Venezuela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

La apostolicità dell’opzione per i poveri.

Luis Arturo GARCÍA DÁVALOS, México DF, Messico. . . . . . . . . . . . . 123

Cristologie plurali.

Ivone GEBARA, Camaragibe, Pernambuco, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . 131

I Vangeli e le formule degli antichi concilii: testo e contesto.

Eduardo HOORNAERT, Salvador BA, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 137

Provocazione cristologica.

Diego IRARRÁZAVAL, Santiago, Cile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 143

Una cristologia liberatrice è una cristologia pluralista, e con grinta!

Paul KNITTER, Nueva York, Stati Uniti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147

La riscoperta del Regno nella teologia.

João Bautista LIBÂNIO, Belo Horizonte, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151

Un certo Gesù.

José Ignacio y María LÓPEZ VIGIL, Lima / Managua . . . . . . . . . . . . . 159

Un insegnamento nuovo, dato con autorità.

Carlos MESTERS, São Paulo, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 165

Riflessioni sul caso Jon Sobrino. Conflitto tra teologie diverse.

Carlo MOLARI, Roma, Italia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171

La Notificazione a Jon Sobrino.

Ronaldo MUÑOZ, Santiago, Cile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Metodo ermeneutico sotto sospetto.

Alberto PARRA, Bogotá, Colombia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 183

Jon Sobrino e la Teologia della Liberazione.

Aloysius PIERIS, Kelaniya, Sri Lanka. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 193

Il Signore dei Miracoli.

Richard RENSHAW, Montreal, Canadá . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 197

Una Chiesa di Notificazioni.

Jean RICHARD . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203

In quale Gesù crede la Chiesa?

Pablo RICHARD, San José, Costa Rica.. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 211

Tra elegie ed eresie

Luis RIVERA PAGÁN, Princeton, New Jersey, Stati Uniti. . . . . . . . . . . 217

Gesù, costituito Figlio di Dio dalla resurrezione (Rm 1,4).

José SÁNCHEZ SÁNCHEZ, Ciudad Guzmán, Jalisco, Messico. . . . . . 223

I Cristi occultati. Cristologia(e) a partire dagli esclusi.

Stefan SILBER, Potosí, Bolivia / Würzburg, Germania . . . . . . . . . . . . . 231

La centralità del Regno di Dio nella Cristologia della liberazione.

Ezequiel SILVA, Buenos Aires, Argentina . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 239

Considerazioni previe ad una risposta che deve essere costruita.

Afonso Maria Ligório SOARES, São Paulo, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . 251

Teologia del martirio.

José SOLS, Barcellona, Spagna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 261

Per una Chiesa versus populum.

Pablo SUESS, São Paulo, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267

Cosa c’è dietro la Notificazione su Jon Sobrino.

Jung Mo SUNG, São Paulo, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 275

Il privilegio e il pericolo del «luogo teologico» dei poveri nella Chiesa.

Luiz Carlos SUSIN, Porto Alegre, Brasile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281

La sfida di una cristologia in chiave pluralista.

Faustino TEIXEIRA, Juiz de Fora MG, Brasile. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 287

Considerazioni sulla Notificazione.

Pedro TRIGO, Caracas, Venezuela . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 295

Cristologie contingenti.

José María VIGIL, Panamá, Panama . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 301

Epilogo, Jon SOBRINO, San Salvador, El Salvador. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305

 

· 11

Presentazione dell’edizione italiana

I libri di Jon Sobrino presi in esame dalla Congregazione per la Dottrina della fede (Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth (Cittadella, Assisi 1995) e La fede in Gesù Cristo. Saggio a partire dalle vittime, (ib. 2001) hanno avuto ampia risonanza e utilizzazione anche in Italia. È stata appunto la larga diffusione delle due opere a preoccupare la Congregazione, che nel 2001 ha iniziato un loro esame con procedura di urgenza. La valutazione della Congregazione si è concretizzata in un lungo elenco di affermazioni giudicate pericolose ed erronee. Esse furono comunicate all’autore tramite il Superiore generale dei Gesuiti nel luglio 2004. L’autore ha risposto nel marzo 2005 chiarendone il senso e mostrandone la corrispondenza con la tradizione ecclesiale. Ma le risposte non sono state giudicate sufficienti dalla Congregazione che ha ritenuto necessario pubblicare una Notificazione per mettere in guardia i fedeli degli errori e ambiguità contenuti nei due volumi.

La Notificazione porta la data del 26 novembre 2006, ma è stata pubblicata solo nel marzo 2007 ed è accompagnata da una Nota esplicativa che sottolinea alcuni punti sui quali forse si è concentrato maggiormente il dibattito fra i Consultori e che forse spiega anche il ritardo della pubblicazione del documento. Secondo la Congregazione i due volumi “presentano, in alcuni passi, notevoli divergenze con la Fede della Chiesa”1; sicché, a suo giudizio, “diverse proposizioni… possono nuocere ai fedeli, a causa della loro erroneità o pericolosità”2.

È importante ricordare che non sono state prese misure disciplinari nei confronti dell’Autore, né gli è stato vietato l’insegnamento.  lettera a P. Kolvenbach, Preposito Generale dei Gesuiti, Jon Sobrino ha riaffermato la sua fedeltà alla chiesa ma ha ritenuto doveroso difendere le posizioni di fondo sostenute nei due libri, confortato anche dall’opinione di molti teologi che li considerano fedeli alla dottrina della fede. Egli ha potuto attestare al suo superiore di aver fatto leggere i suoi libri a numerosi teologi cattolici, “rispettosi della chiesa”, esperti in cristologia e di aver ricevuto da tutti valutazioni positive: “Il loro giudizio unanime è che nei miei due libri non c’è niente che non sia compatibile con la fede della Chiesa”. “Non hanno trovato errori dottrinali né affermazioni pericolose. Allora non riesco a capire come la notificazione legge i miei testi in modo tanto diverso e persino contrario”.

Questa convergenza non è un semplice dato di cronaca, costituisce infatti un luogo teologico e vale come criterio di verità, anche se con valore di probabilità. L’opinione concorde dei teologi infatti costituisce un riferimento veritativo che anche il Magistero è tenuto a considerare. Essa, infatti, nella terminologia scolastica, costituisce uno dei luoghi teologici “dichiarativi”, che riguardano “la conservazione, l’interpretazione e la trasmissione del deposito rivelato”3. Ciò tanto più vale quanto ampia è la convergenza dei teologi nel mondo e la solidità dell’esperienza di fede alla quale si richiama e su cui riflette.

Credo quindi che sia da salutare con gioia questa edizione italiana in Internet dell’opera: Deporre i poveri dalla croce: cristologia della liberazione. Essa, composta velocemente per testimoniare la solidarietà dei teologi del terzo mondo, esprime una convergenza significativa sulla cristologia di Jon Sobrino, che costituisce già di per se stessa un orientamento praticabile per la riflessione teologica.

Carlo MOLARI

Roma, Italia

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Note:

1 Notificazione n. 1.

2 Nota n. 1.

3 Micron C.-Narcisse G., Luoghi teologici, in Dizionario critico di teologia, Borla/Città nuova,

Roma 2006 p. 786. La terminologia risale a Melchior Cano, De locis theologicis (1714).

Presentazione dell’edizione italiana

· 13

 

Boff Leonardo 2Prologo

Deporre i poveri dalla croce:

Cristologia della Liberazione

 

Il fratello che è aiutato dal fratello è come una città inespugnabile”

(Pr 18,19): questa è l’esperienza che noi teologi e teologhe vogliamo

trasmettere al nostro fratello Jon Sobrino, sottoposto a una penosa

tribolazione a causa della sua riflessione e meditazione della fede, che è

quello che si chiama “teologia”. Che egli si senta, con il nostro appoggio

di fratelli e sorelle, forte come una fortezza.

Un debole più un altro debole non fanno due deboli ma un forte,

perché la solidarietà genera forza e crea la solidità della fraternità. Per

quanto individualmente deboli, siamo molti al suo fianco, costituendo

la forza del sacramentum fraternitatis, il sacramento della fraternità.

Manifestiamo la nostra fraternità, facendo quello che Jon Sobrino ha

sempre fatto con serietà e compassione: pensare la fede in Cristo nel

contesto dei popoli crocifissi. Questo è stata sempre, questo è, e, soprattutto,

questo è determinata a continuare ad essere, la nostra “cristologia

della liberazione”, quella che tutti noi scriviamo, facciamo e viviamo: sì,

una teologia militante, che lotta per “far scendere dalla croce i poveri”,

senza pretese neutralità o ipocrite equidistanze.

Tutti i lavori che compongono questo libro digitale colgono

l’occasione propizia offerta dalla notificazione vaticana su alcuni punti

della sua cristologia, per portare avanti quello che, a nostro giudizio, egli

ha scritto, da parte sua, in maniera tanto pertinente, ortodossa e ortoprassica,

sul significato della fede in Gesù Cristo a partire dall’umanità

umiliata di milioni di fratelli e sorelle delle nostre società periferiche.

Jon Sobrino ci ha insegnato come le Chiese possono unire le forze nella

resurrezione di questi crocifissi.

14 ·

Abbiamo coscienza della limitatezza dei nostri lavori. Non

sono niente di fronte alla ricchezza che è Cristo. “Tacete, raccogliete

l’Assoluto”, diceva Kierkegaard in riferimento a Cristo. Ma se, malgrado

ciò, parliamo, non lo facciamo su Cristo come un oggetto che ci sfida,

ma a partire da Cristo come Colui che è il nostro Liberatore e la nostra

Speranza che c’è ancora salvezza per il mondo, soprattutto per gli ignorati

emarginati delle nostre società.

Facciamo nostre le parole di San Giovanni della Croce, mistico

ardente. “Molto c’è da approfondire in Cristo, essendo egli come una

ricca miniera con molte cavità piene di tesori, e per quanto si scavi non

si giunge mai alla fine né si arriva ad esaurirla; al contrario, si vanno

scoprendo in ogni cavità nuovi filoni e nuove ricchezze, qui e lì, come

testimonia San Paolo quando dice dello stesso Cristo: in Cristo sono

nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza (Col 2,3)”.

Pasqua 2007

Leonardo BOFF

Petropolis, Brasile

 

Presentazione

Fin dal primo momento, la Commissione Teologica Internazionale

della ASETT ha ritenuto opportuno prestare questo servizio di coordinamento

ai teologi e teologhe interessati a far giungere la loro parola

all’opinione pubblica, in occasione della preoccupazione suscitata in

non pochi ambienti dalla “Notificazione” vaticana su due opere del

nostro fratello e compagno Jon Sobrino. La problematica che entrava

in gioco e la teologia che risultava colpita non erano quelle di un singolo

teologo, ma il pensiero, la teologia e la fede di molti di noi teologi

e teologhe che condividiamo pratica, missione e speranza in tutto il

mondo, nella prospettiva dei poveri. Era perciò necessario che qualcuno

prendesse l’iniziativa e creasse una piattaforma per esprimerci insieme

e con voce potente.

Ci siamo proposti prima di tutto agilità: superare la proverbiale

lentezza delle nostre reazioni rispetto agli avvenimenti che richiedono

una nostra parola. Avremmo dovuto uscire a “un mese esatto” dalla

pubblicazione della Notificazione, come una comunità teologica che è

viva, e sveglia, e si sa muovere al ritmo dei nuovi tempi.

Abbiamo deciso di rivolgerci questa volta all’opinione pubblica,

all’uomo e alla donna della strada, che hanno bisogno di una parola

rapida e “in tempo”, prima che l’incessante attualità imponga nuovi

temi a scapito delle preoccupazioni che ci riguardano. E avremmo

dovuto farlo, poi, con una parola rivolta alla strada, senza complicazioni

e tecnicismi, senza la preoccupazione paralizzante di chi cerca di limare

tutti gli artigli che possano impigliarsi nelle sete sottili dei censori.

16 · Presentazione

L’urgenza e il dovere di esprimerci non era solo per solidarietà nei

confronti di un compagno, ma per responsabilità di chi sente messa in

discussione pubblicamente la teologia a cui ha consacrato la propria vita

e nella quale ha espresso la propria fede. Era la cristologia della liberazione,

un ramo della già veterana perseguitata teologia della liberazione.

Un teologo/a responsabile non può tacere o guardare da un’altra parte

mentre si mette nuovamente in discussione la nostra teologia, e la nostra

fede, giacché queste non si possono separare.

Abbiamo offerto allora queste pagine a ogni teologo/a che avesse

voluto servirsi di esse per dire la propria parola. Gli abbiamo chiesto

semplicemente di conformarsi, nella misura del possibile, a questi criteri,

dimenticando, per una volta, tanto l’Accademia quanto l’Inquisizione.

Il risultato è quello che il lettore ha sul suo schermo, o eventualmente

nelle sue mani: ha messo mano all’opera un insieme di più di 40

persone di diversi luoghi della geografia del Terzo Mondo spirituale, che

si porta nel cuore, indipendentemente dal luogo in cui si abita. Sono

testi con prospettive libere, diverse, creative. In ogni caso, praticamente

tutti vanno oltre la Notificazione, con la quale nessuno considera necessario

entrare in polemica, e, semplicemente, danno testimonianza di

quello che credono e che pensano, senza guardare indietro, muovendo

piuttosto passi in avanti, proseguendo nel lavoro teologico.

Da subito annunciamo una parola più approfondita, più studiata

e, questa volta sì, elaborata con speciale preoccupazione teologica, di

fronte all’Accademia e alla comunità teologica mondiale: ci proponiamo

di realizzare una “Consultazione sulla Cristologia della Liberazione”,

come un nuovo servizio alla comunità teologica. Crediamo che la congiuntura

attuale la giustifichi.

Siamo grati per i molti messaggi di congratulazioni e di appoggio

che abbiamo ricevuto da parte di tante persone che hanno gradito che

prendessimo questa iniziativa e ci incaricassimo di offrire questo servizio.

Ringraziamo anche le persone che non hanno potuto collaborare a

causa del fatto questa iniziativa ha coinciso con un periodo di intenso

impegno. Sarà per un’altra volta. Per noi in ogni caso è stata una gioia e

un grande onore poter renderci utili.

Per il resto, questa volta stiamo sperimentando un nuovo metodo

di arrivare al pubblico, mediante un libro digitale, libero e gratuito, che

può essere regalato e inviato da chiunque per posta elettronica e che

· 17

potrà anche essere stampato su carta mediante il procedimento chiamato

docutec” o “stampa digitale”, un metodo che permette di stampare

su carta quantità minime di esemplari (5, 10, 20…), a un prezzo praticamente

uguale a quello di un libro normale. Con ciò pensiamo di porre

il libro – su carta – alla portata dei gruppi più piccoli e più distanti dalla

rete di case editrici e librerie, senza altra condizione che quella di trovare

un servizio di “stampa digitale”.

Dove trovare questo libro, come libro digitale o come originale ad

alta risoluzione per stamparlo con il citato metodo di “stampa digitale”,

è indicato sopra.

Ci sentiamo molto felici di aver potuto offrire questo servizio.

Dal ciberspazio, 15 aprile 2007

José María VIGIL

Coordinatore della Commissione Teologica Internazionale della ASETT/EATWOT

 

Presentazione della seconda edizione

Il primo aprile del 2007 abbiamo invitato i teologi e le teologhe a

partecipare alla stesura di questo libro. Quindici giorni dopo, il 15 aprile,

a trenta giorni esatti dalla pubblicazione della Notificazione, il libro era

già nel ciberspazio a disposizione del pubblico. È stato realizzato dunque

in appena 15 giorni.

E quindici giorni dopo la sua pubblicazione telematica, abbiamo

contato più di cinquemila visite di persone che lo hanno portato nel

proprio computer e numerosi gruppi ed individui ci hanno informato

di aver proceduto alla stampa digitale dell’opera.

L’integrazione a queste pagine dei contributi di alcuni teologi

giunti in ritardo e soprattutto l’integrazione di Jon Sobrino con il suo

epilogo ad hoc fanno sì che questa meriti di essere considerata come una

seconda edizione digitale.

Ringraziamo tutti per l’accoglienza entusiasta e l’interesse teologico

suscitato. Ci rallegra vedere che “siamo milioni” a condividere questo

carisma e questa passione, espressione viva della sequela di Gesù, che

oggi senza dubbio continua ad implicare il compito di “deporre i poveri

dalla croce”.

Restiamo a completa disposizione della comunità teologica.

30 aprile 2007

José María VIGIL

Commissione Teologica Internazionale della ASETT/EATWOT

· 19

Domande alla Congregazione per la

Dottrina della Fede

A seguito della Notificazione su Jon Sobrino

 

La Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf) ha pubblicato

una Notificazione sulle opere teologiche del gesuita Jon Sobrino di El

Salvador. Si tratta della prima azione di rilievo da parte del cardinale statunitense

William Levada, come prefetto della Cdf in sostituzione del

cardinale Joseph Ratzinger. Essa mette in guardia i cattolici da possibili

errori su diversi dogmi della dottrina cattolica.

La Congregazione per la Dottrina della Fede ha l’obiettivo

di salvaguardare la fede e di promuovere lo sviluppo teologico. La

Notificazione tratta questioni di cristologia tra cui la personalità di Gesù

Cristo e il suo ruolo nella salvezza umana. Essa critica gli scritti di Jon

Sobrino, sottolineando come alcune delle sue posizioni siano erronee

rispetto agli insegnamenti della Chiesa cattolica. Senza commentarle

direttamente, si possono sollevare brevemente alcune questioni riguardo

alla teologia dogmatica tradizionale della Chiesa che sono problematiche

nel nostro contesto asiatico e in qualche misura anche altrove. Ciò

potrebbe portare qualche luce (o ulteriori problemi) al dialogo che si sta

producendo in quest’occasione.

L’insegnamento dogmatico della Chiesa riguardo a Gesù Cristo e

al suo ruolo di redentore unico e universale del genere umano si fonda

sul presupposto che tutto il genere umano si trovi nel peccato originale

e non possa salvarsi da solo dalla condanna alla dannazione eterna. È

solo la grazia di Dio meritata per noi da Gesù Cristo che può realizzare

la riconciliazione di Dio con gli uomini, individualmente e collettivamente.

Inoltre, fa parte della dottrina il fatto che l’adesione alla Chiesa

20 · Tissa Balasuriya

è essenziale alla salvezza anche a causa del peccato originale (cfr XVI

Concilio di Cartagine 418; Secondo Concilio di Orange 529, Concilio

generale di Firenze 1442; Concilio di Trento: Decreto sul peccato originale,

1546).

A questo riguardo possono essere rivolti alla Cdf alcuni importanti

rilievi:

1) Esiste un problema di natura scientifica, riguardo al monogenismo

e al presupposto che ne consegue, cioè che tutta l’umanità proviene

dai due primi genitori, Adamo ed Eva.

2) Un’altra questione è quella delle fonti della rivelazione divina

e della loro interpretazione esegetica, compreso il fatto di prendere alla

lettera, come verità storica fattuale, la descrizione del Genesi.

3) Si vorrebbe rivolgere alla Cdf una domanda di ordine generale

per avere una delucidazione sulla dottrina cattolica. Come possiamo

proporre come dottrina cattolica il fatto che tutti coloro che non sono

appartenuti alla Chiesa sono stati destinati alla dannazione eterna?

Questa non era forse dottrina della Chiesa fino a qualche decennio fa?

È conciliabile con l’insegnamento di Gesù che Dio è amore? Questa

dottrina non è forse inaccettabile per coloro che non appartengono alla

fede cristiana?

4) Questa dottrina e questo pensiero non hanno forse dato una

direzione sbagliata alla Chiesa, spingendola verso un atteggiamento

intollerante nei confronti delle altre fedi? Non è solo con il Concilio

Vaticano II che la Chiesa ha accettato la libertà religiosa, accettando le

altre fedi come possibili percorsi verso la salvezza? In questa prospettiva,

la maggior parte degli asiatici è stata considerata al di fuori della

salvezza. Forse è questa la ragione per cui il cristianesimo è accettato

soltanto dal 2% della popolazione in Asia (escludendo le Filippine)?

5) La Notificazione fa spesso riferimento alla preoccupazione

della Chiesa per i poveri, specialmente da parte di membri santi che si

impegnano in atti di misericordia nei loro confronti. Ma il tema che Jon

Sobrino sottolinea è un altro: la giustizia sociale. La Chiesa non è stata

forse in generale dalla parte degli oppressori durante secoli di colonialismo

e schiavitù, e, anche ora, non è parte della dominazione maschile?

6) La Notificazione critica questa affermazione di Sobrino:

I poveri nella comunità interpellano la fede cristologica e danno

ad essa la sua direzione fondamentale… La Chiesa dei poveri… è il luogo

ecclesiale della cristologia perché è una realtà configurata dai poveri. Il

Domande alla Congregazione per la Dottrina della Fede · 21

luogo sociale è così il più decisivo per la fede, il più decisivo nel dare

forma al modello di pensiero della Cristologia, e ciò che esige e facilita

la rottura epistemologica”.

La Notificazione, criticando questa posizione, presenta la fede

della Chiesa come norma primaria per valutare gli scritti teologici: “Il

luogo teologico fondamentale può esser solo la Fede della Chiesa; in

essa trova la giusta collocazione epistemologica qualunque altro luogo

teologico. Il luogo ecclesiale della Cristologia non può essere la ‘Chiesa

dei poveri’, ma la Fede apostolica trasmessa dalla Chiesa a tutte le generazioni”.

Una domanda che ci poniamo specialmente nella regione asiatica

è: come può l’insegnamento tradizionalmente esclusivista della Chiesa

riguardo alle altre religioni e alla salvezza conciliarsi con l’amore universale

e la volontà salvifica di Dio? Eppure questa è stata proprio la visione

ristretta sostenuta dalla Chiesa per molti secoli fino al cambiamento

sopravvenuto con il Concilio Vaticano II (1962-1965).

La Notificazione della Cdf afferma che Gesù come Dio-uomo

fin dal concepimento nel grembo della Madre di Dio ha goduto della

visione beatifica di Dio. La Chiesa che riceve la rivelazione da un Gesù

onnisciente come può proporre dottrine erronee come “fuori della

Chiesa non c’è salvezza”? Come può essere un insegnamento così

inaccettabile della Chiesa il corretto luogo epistemologico per il discernimento

della fede della Chiesa?

Papa Giovanni Paolo II ha chiesto scusa in più di 100 occasioni

per ingiustizie commesse anche con la violenza dai figli e dalle figlie della

Chiesa contro altre persone, nel perseguimento di ciò che ritenevano

essere la verità. Egli ha capito che la dottrina ecclesiale aveva contribuito

molto a fraintendimenti e conflitti come le Crociate e le invasioni coloniali.

Ha fatto appello alla purificazione della memoria e ad un’apertura

alle altre religioni come nei giorni di preghiera ad Assisi.

Forse le risposte della Cdf a queste domande potrebbero aiutare

i lettori di Jon Sobrino a collocare le sue ricerche teologiche in questo

contesto, e potrebbero aiutare la stessa Cdf a definire il suo ruolo storico

nel XXI secolo, nel quadro di una diffusa secolarizzazione, soprattutto

in Occidente, e nel-l’ambito delle nostre culture, caratterizzate dalla

pluralità religiosa. Una risposta pubblica a queste domande sarebbe utile

per molti, compresi i teologi come Jon Sobrino, che studiano il rapporto

tra le relazioni interreligiose e la giustizia sociale. In questo la Cdf può

dare un contributo positivo alla purificazione della teologia cristiana e

22 · Tissa Balasuriya

all’armonia interreligiosa e alla giustizia nel mondo. Vorremmo invitare

la Cdf a contribuire allo sviluppo della teologia in una direzione che

non allontani le persone di buona volontà dalla Chiesa e invitare tutti a

costruire il regno di Dio sulla terra, secondo i carismi di ciascuno.

Tissa BALASURIYA

Colombo, Sri Lanka

 

Gesù di Nazareth, Orixá della Compassione

 

Elementi di una cristologia afro-brasiliana

 

Marcelo Barros

Marcelo Barros è considerato uno dei maggiori biblisti e teologi dell’America Latina. è il priore benedettino del Monastero dell’Annunciazione di Goias, una cittadina rurale nel centro del Brasile, a circa 300 km da Brasilia, vicina al Mato Grosso.
Marcelo ha lavorato a stretto contatto con Helder Camara per quattro anni soprattutto sulla pastorale indigena e sui temi dell’ecumenismo.
E’ stato per otto anni referente della pastorale della terra dove ha potuto rendersi conto delle condizioni di estrema povertà ed emarginazione dei contadini rurali e ha sostenuto le battaglie del movimento “Sem terra”.
Marcelo Barros ha scritto trenta libri sui temi della spiritualità, della pace, della giustizia e delle sfide che attanagliano la Chiesa.
E’ un esperto di cinema e ha partecipato come oratore al festival del cinema di Recife.

 

Malgrado il rigoroso e prolungato inverno ecclesiastico e i fondamentalismi, espressi nelle Notificazioni del Vaticano, così come in sinodi confessionali che hanno deciso di rompere con organismi ecumenici, viviamo, in America Latina, un momento nuovo di rivalorizzazione delle religioni afroamericane e amerindie.

 

Da loro, la persona di Gesù Cristo era rispettata e temuta, ma da lontano. Il dialogo con i cristiani di cultura afro che cercano di avvicinarsi a Gesù, e la loro esperienza di fede della tradizione dei loro antenati, ha cambiato questa realtà. Tanto le comunità delle religioni autoctone, quanto i gruppi cristiani di cultura afro, cominciano a reinterpretare la fede, trasmessa dal cristianesimo imposto dai colonizzatori. Questo cambia il modo in cui il Candomblé e la Umbanda cominciano a guardare a Gesù Cristo, e l’espressione di fede delle stesse comunità cristiane popolari che si inseriscono più in profondità nell’insieme della popolazione di matrice africana e convivono in forma molto più giusta con le credenze e i rituali autoctoni.

 

Mi propongo qui di parlare di elementi cristologici latenti nelle diverse devozioni del cattolicesimo popolare. Affronterò anche l’evoluzione che attualmente esiste nel modo che hanno le comunità di Candomblé di vedere Gesù, ma mi dilungherò di più a proposito dell’espressione di fede delle comunità di matrice africana che appartengono alle Chiese cristiane.

 

 

1. Uno sguardo sul cattolicesimo attuale e popolare I colonizzatori portarono con sé dall’Europa un cristianesimo profondamente sincretico, “risultato di una sintesi fra l’antica esperienza religiosa dei greci, dei romani e dei barbari, e la tradizione giudeocristiana”.

 

Gli antichi concili che definirono la fede cristologica vigente nel cristianesimo, ben oltre gli interessi politici del momento, si collocarono in questo sforzo di esprimere la fede per i nuovi popoli che entravano nella Chiesa. Oggi, una prima constatazione necessaria è che la fede cristiana, vissuta dalle comunità cattoliche ed evangeliche, non si esprime più esattamente con la stessa formulazione consacrata negli antichi concilii.

 

Il Brasile è uno dei pochi Paesi del mondo nei quali la dottrina spiritista conserva molta vitalità. In questo calderone di culture ed espressioni teologiche, termini come “figlio di Dio” e “incarnazione” hanno significati diversi da quelli che ha loro consegnato la tradizione ecclesiastica. Figlio di Dio, sì, però una madre de santo mi ha chiesto: “Perché ‘unico’? Il buddismo tibetano dice che il Dalai Lama è l’incarnazione del Budda della compassione, e non ho difficoltà a crederlo. Dio ha tanti modi di manifestarsi. Allora, perché dire che solo Gesù è il figlio di Dio?”- Allo stesso modo, quando nelle fasce sociali più umili si parla di “incarnazione”, le persone facilmente la intendono come una specie di “prima incarnazione”. Niente a che vedere con il dogma cristiano espresso nei vecchi concili della Chiesa.

 

In sé questa realtà del cristianesimo popolare non è del tutto diversa nemmeno dal cristianesimo ufficiale. Il modo stesso in cui – molto spesso – papi, vescovi e pastori si esprimono su Gesù mescola elementi di Nicea e Calcedonia con miti che il cristianesimo popolare ha inconsciamente assorbito. Tutti i cattolici iniziano le preghiere dicendo “ nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, e le Chiese antiche continuano a rivolgere preghiere liturgiche al Padre, attraverso il Figlio e nell’unità dello Spirito. Tuttavia questa teologia liturgica pare poco assorbita dalla pratica devozionale. Un’analisi, anche rapida o superficiale, delle raccolte di inni cattolici ed evangelici utilizzati nelle nostre parrocchie e diocesi, rivela non solo una specie di monismo cristologico (un Cristo Dio preso in sé, nel quale l’umano è entrato solo come rivestimento transitorio), ma anche, quel che è peggio, una religione il cui Dio è un Cristo senza riferimento diretto e vivo con il Padre.

 

Anche le preghiere e gli inni ufficiali della liturgia contengono espressioni dubbie e poco ortodosse. Vediamo ad esempio questa preghiera del sabato santo nell’attuale Liturgia delle ore: “O Dio Gesù di Nazareth, Orixá della Compassione dell’universo, che domini tutti i confini della Terra e che hai voluto essere rinchiuso in un sepolcro, libera dall’inferno il genere umano e

dagli la gloria dell’immortalità”.

 

Recitando questa preghiera, qualcuno ricorderà Moltmann e la sua tesi sul “Dio crocifisso”, secondo la quale il Padre è sulla croce con Gesù. Ma queste preghiere liturgiche non sono dirette al Padre. Sono tutte destinate a Gesù. Una conoscenza maggiore e più critica della storia, così come la sfida del pluralismo culturale e religioso ci offrono ragioni teologiche e pastorali per mettere in discussione le espressioni cristologiche degli antichi concili, già diverse dalla fede espressa nel Nuovo Testamento la quale, in sé, è diversa dal modo in cui il movimento di Gesù proponeva la fede nel primo periodo. D’altra parte, la maggioranza delle nostre comunità religiose, comprese quelle non popolari, mantengono un’espressione di fede in Gesù che non arriva a essere quella dei concili. È più mitica, meno umanizzata e meno capace di dialogare con altre espressioni della fede.

 

Per questo, diventa ancora più urgente ed essenziale il lavoro di incontro con altre forme di credere e parlare di Gesù. Anche in mezzo alle ambiguità inerenti al tema, intendo approfondire alcuni elementi cristologici che mi paiono propri, o almeno più caratteristici, di molte persone e anche di comunità che vivono la fede cristiana a partire dalle culture afrobrasiliane.

 

  1. Una spiritualità popolare di alleanza

 

Molte volte, nella teologia e nella pastorale, il cattolicesimo popolare nelle sue diverse forme è stato accusato di superstizione, perfino di una certa idolatria. In tempi di Crociata da parte di un Cristocentrismo dogmatico, resta interessante osservare che molti gruppi, appoggiati direttamente da Roma e dalla maggioranza della gerarchia ecclesiastica, centrano molto di più la loro fede sulla devozione mariana e sul culto dei santi che su Gesù.

 

In questi ultimi decenni ci siamo accorti che, così facendo, i fedeli del cattolicesimo più popolare ripropongono la spiritualità dell’alleanza avanzata dalla fede biblica. Dal momento che, nella versione della fede che hanno ricevuto, Dio pareva loro distante e separato dalla vita, essi hanno approfondito un’alleanza di intimità con le manifestazioni divine che sono loro sembrate più vicine. I santi e le sante della devozione popolare sono diventati “manifestazioni di Dio” allo stesso modo in cui nella cultura biblica si parla della Torà (parola), della Shekinà (Tenda), della Hokmà (Sapienza), della Gloria e anche dell’“Angelo del Signore”.

 

Questo tipo di versione religiosa della fede cristiana esiste nelle più diverse fasce del cattolicesimo popolare, di matrice nera, indigena o anche di tradizione europea. In un certo senso, è presente in alcune devozioni in Europa e America del Nord. Indubbiamente, in America Latina, questa teologia popolare deriva dalle culture africane e indigene.

 

Nella fede Ioruba e nella religione venuta dall’Angola, come in molte comunità indigene, la relazione di intimità con Dio avviene attraverso le manifestazioni divine nella natura (il Candomblé parla di Orixás, la tradizione angolana di Iqueces). La persona, consacrata a questo o quel orixá, ha una relazione talmente intima con lui che lo riceve e ne viene trasformato/a. Il Senhor do Bonfim in Salvador (Bahia, Brasile) o il Bom Jesus da Lapa o Jesus de Pirapora sono santi come tutti gli altri. Però, in quanto santi, sono manifestazioni dell’amore divino.

 

Proteggono i loro devoti e li accompagnano nella vita. Da quando, a partire dagli ultimi decenni, le religioni afro sono valorizzate e non hanno più bisogno di nascondersi o travestirsi, le persone hanno più libertà di adorare gli orixás in sé, senza aver bisogno di porre mano al sincretismo per dire che Iemanjá è Nostra Signora. Con questa libertà, molti fedeli degli orixás si sono separati e hanno smesso di essere Chiesa. Ma moltissimi di quelli che onorano gli orixás vorrebbero continuare a essere devoti di Gesù Cristo. In ogni caso, questo Gesù è ricevuto e creduto a partire da una cultura religiosa propria e

originale. La storia raccontata nei vangeli e la predicazione tradizionale dei padri e dei pastori sono prese in considerazione e anche incorporate: “Gesù è figlio di Maria vergine, ha sofferto per noi, fu crocifisso per salvarci”, sono dati conosciuti, ma sono compresi a partire da una cosmovisione peculiare. In questo contesto di condanne e dibattiti cristologici, è bene che conosciamo queste cristologie popolari, principalmente nella relazione fra Gesù e gli Orixás.

 

3 Gesù e Kanambe

 

Quando sono stato in Kenya, nel gennaio 2007, ho cercato di conoscere qualche espressione attuale delle religioni africane antiche e di vedere come questo mi potesse aiutare a capire meglio le tradizioni afrobrasiliane. Mi hanno portato a un centinaio di chilometri da Nairobi per conoscere una comunità tradizionale del popolo Kamba.

 

Lì ho conosciuto una donna anziana, sacerdotessa della tradizione di Gesù di Nazareth, Orixá della Compassione · 27

Kanambe, la dea dell’acqua. Dopo aver ascoltato come esprimeva la

sua fede nella religione tradizionale, mi sono stupito quando mi hanno

detto che là erano tutti cristiani, anche quella sacerdotessa che, molte

volte, nelle messe, è chiamata dal sacerdote per benedire il suo popolo.

Allora ho chiesto come formulasse la relazione fra religione tradizionale

e fede cristiana. A quel punto è lei a essersi stupita, e mi ha risposto

con parole ed espressioni per me sorprendenti. Ho tradotto così la

sua risposta: “Non c’è nessuna difficoltà a collegare Gesù e Kanambe.

Gesù Cristo ci rivela Dio presente nella storia, nei fatti della vita e nelle

persone, e ci aiuta a scoprire che Kanambe è la manifestazione di Dio

presente nella natura, nella terra e nell’acqua. Non entrano in conflitto,

i due ordini, anzi si compenetrano. Gesù è come una specie di pienezza

della fede in Kanambe, però non è qualcosa che la svuota o la sostituisce

con una specie di “cultura cristiana occidentalizzata”; al contrario, la

valorizza e le dà densità storica”.

È chiaro che questa espressione di fede da parte di quella cristiana

africana non sarebbe mai accettata da una cristologia secondo la quale

Gesù è unico, e che, come tutti i colonizzatori, sostituisce tutto quel che

c’era prima, proponendosi come riferimento esclusivo di fede. Di fatto,

l’anziana mi ha raccontato della difficoltà che incontra a valorizzare la

cultura tradizionale (non la chiamano religione) del suo popolo quando

arrivano alcuni gruppi neopentecostali che esigono l’abbandono anche

degli abiti, dei costumi, della musica e delle danze culturali del popolo.

Il dialogo con quella sacerdotessa africana mi ha aiutato a capire meglio

la sapienza del sincretismo afrobrasiliano. Il cui processo o rivoluzione

è riassumibile in tre fasi.

4. Dal Senhor do Bonfim all’Orixá Gesù di Nazareth

La mirada a Cristo vissuta dai discendenti degli schiavi, ha conosciuto

un’evoluzione completa con almeno tre tappe o livelli:

1. Tributo al Senhor do Bonfim

Nei tempi andati, la devozione a Gesù come Senhor do Bonfim,

Bom Jesus da Lapa e altre, rappresentavano una specie di tributo che il

nero doveva pagare al dio bianco, che non era amico dello schiavo o del

suo discendente, ma che doveva essere adulato e corteggiato affinché

non lo castigasse, dal momento che era un dio forte che proteggeva il

signore bianco. Sono di quel tempo le promesse che richiedevano sacrifici

e sofferenze, come fare salite in ginocchio, umiliarsi in pubblico,

non mangiare in certi giorni sacri, non bere neppure acqua ecc.

28 · Marcelo Barros

2. Il sincretismo con Orixás tradizionali

Con la fine ufficiale della schiavitù, nessun Paese indennizzò gli

ex schiavi né si preoccupò di come questo popolo potesse sopravvivere,

abbandonato alla propria sorte. A partire da allora, le comunità nere

iniziarono lentamente a riappropriarsi dei simboli della propria religione.

Per quelli che erano cristiano questo produsse una certa evoluzione

nella cristologia. Non avevano più bisogno di guardare al Senhor do

Bonfim o al Bom Jesus da Lapa come agli dei del padrone bianco.

Questi non smisero di essere bianchi e di rappresentare simboli legati al

colonizzatore. Ma ora potevano essere realmente riappropriati da parte

delle comunità di cultura afro. Per spogliarli degli abiti schiavisti, i fedeli

neri e i loro discendenti, inconsciamente, li legarono a Oxalá o a Xangô.

Furono in molti a farlo, non per ignoranza o perché li confondessero

con orixás, ma perché avevano bisogno di questa identificazione (come

per i latinoamericani impegnati nella rivoluzione, la stessa figura del Che

Guevara viene accostata a quella di Gesù Cristo). È la cristologia del

sincretismo di confusione o di riappropriazione.

3. L’orixá Gesù di Nazareth

Negli ultimi tempi siamo passati a un altro livello nella cristologia

afrobrasiliana. Dagli anni successivi al Concilio Vaticano II molte persone

delle comunità afro partecipano a gruppi biblici e comunità ecclesiali

di base. In questi ambienti si impara a valorizzare il Gesù storico. Il

contatto con i vangeli permette di conoscere meglio Gesù di Nazareth

nella sua storicità umana. Questa conoscenza è passata nelle comunità

e anche in elementi del culto e della fede comune. D’altra parte, così

come Xangô, Ogum, Oxalá e Oxossi erano stati antenati, re o principi

degli antichi regni Ioruba ed erano diventati orixás, associati al fuoco,

al ferro, alla terra e alla foresta vergine, così le comunità nere iniziano a

vedere Gesù Cristo come qualcuno che visse in toto l’esistenza umana

e, a partire dalla sua morte, fu assunto da Dio e diventò divino. È come

un orixá. È un uomo che, avendo vissuto in modo giusto e santo, è stato

divinizzato, come ogni persona umana è chiamata a essere.

5. L’originalità di Gesù di Nazareth

Esprimere per concetti la propria fede è difficile, ma pretendere

di esprimere la fede degli altri è praticamente impossibile senza rischiare

di essere ingiusti e riduttivi. Nel caso delle culture afrobrasiliane è

ancora più complesso, a causa della diversità delle espressioni culturali,

e per il fatto che sono tradizioni orali. Comunque sia, tutti questi modi

Gesù di Nazareth, Orixá della Compassione · 29

di vivere la fede si sono formati in dialogo con la tradizione cristiana

popolare, o anche vi si sono inserite, e con l’esigenza di relazionarsi con

la persona e la missione di Gesù Cristo.

C’è di tutto. Si può concludere con una cristologia propria della

devozione del “Signore Morto”, un’altra cristologia del Gesù mitico

delle narrazioni orali che, nel popolo, formano una sorta di nuovi vangeli

apocrifi, pieni di storie che le persone raccontano su “quando Gesù

e san Pietro andavano per il mondo”. Quasi tutti i santuari popolari nascono

da racconti fantastici legati ad apparizioni di immagini o miracoli

straordinari. La maggioranza di questi sono santuari dedicati a “Nostra

Signora” che, in America Latina, sostituisce il culto della Madre Terra

o della dea della fecondità. Ma in Brasile ve ne sono alcuni dedicati a

Gesù, come il Bom Jesus de Pirapora, Bom Jesus da Lapa e altri. Tutti

si riferiscono a un Gesù umano e compassionevole (Bom Jesus) rappresentato

durante la sua passione, come la figura della solidarietà. Per il

fatto di essere espressioni di fede vissute da una maggioranza di persone

povere e sofferenti, la figura di Gesù appare sempre come il Cristo

sofferente e umiliato. La Croce riceve una spiegazione di solidarietà:

Diede la vita per noi” (si è consegnato ai nemici al posto dei discepoli),

più che una giustificazione di carattere sacrificale (si è offerto al Padre

ed è morto per i nostri peccati).

Queste espressioni di fede vengono da persone non legate alla

cultura occidentale. Il loro tentativo di sintesi cristologica, quando c’è,

non è quello di legittimare poteri gerarchici o di dominio di persone su

altre persone (ci sono cristologie ufficiali pensate per questo, e nascondono

questo fatto). Per questo sono cristologie a partire dal basso, e

legate alla vita di chi soffre. Sono cristologie narrative e frammentarie

che, non essendo di carattere dogmatico (raccontano storie, non affermano

dogmi) non hanno timore di apparire incomplete. Al contrario

di qualunque tendenza di un cristocentrismo esclusivista, Gesù è considerato

il Cristo (l’unto del Signore), ma non è isolato dai suoi fratelli e

sorelle. Né dalle forze della natura che sono sacramenti divini, né dalle

persone che, come Gesù, sono per il popolo Cristi o consacrati. Dal

cammino liberatore queste comunità imparano che la stessa persona

e la missione di Gesù possono essere riassunte nelle sue stesse parole:

Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv

10,10).

Nel 1996 a Bogotá, il II Incontro continentale dell’Assemblea

del popolo di Dio ha proposto l’approfondimento di una spiritualità

macroecumenica. Si trattava di rileggere la propria fede in modo da

30 · Marcelo Barros

unirci a tutte le credenze, anziché dividerci. In definitiva, non era questa

la proposta pastorale di papa Giovanni XXIII? Il documento conclusivo

del II Incontro dell’Assemblea del Popolo di Dio dice: “Riconosciamo

la vita come espressione massima dell’amore di Dio per tutti gli esseri,

e proteggiamo la vita dei nostri popoli e della natura che ci circonda!

Davanti alla mondializzazione degli idoli di morte preconizzata dal

sistema socioeconomico mondiale, proclamiamo la mondializzazione

di questi segni della divinità come dono della vita e presenza creatrice

nell’universo. Confessato in mille nomi, rivelandosi a noi con mille volti,

attraverso soprattutto le religioni indigene e afroamerindie, come anche

la fede cristiana dei nostri popoli latinoamericani, il mistero divino è

sempre più grande di tutte le nostre confessioni, e più bello delle nostre

immagini, e unico nei più diversi incontri e nelle più diverse forme di

manifestazione. Come appartenenti alla sua famiglia, l’amore divino ci

vuole vivi e liberi, plurali e uniti, felici, in questo momento, in questa

casa comune della Terra Pachamama, e sotto il tetto luminoso del sole,

della luna e delle stelle. Ispirati dallo Spirito divino, diciamo no al fatalismo

di una presunta fine della storia, e lottiamo contro ogni forma di

esclusione, prepotenza, paura e morte”.

Quest’affermazione può essere letta come sintesi di una cristologia

macroecumenica, nel senso che riconosce nella persona e nella missione

di Gesù Cristo questo tipo di testimonianza. Come dice Leonardo

Boff: “È necessario armarsi di coraggio per una nuova e sorprendente

prova di incarnazione della fede cristiana. È giusto che Cristo parli le

nostre lingue, si rivesta dei nostri colori, sia celebrato con le nostre

danze e lodato nel nostro corpo, realtà con le quali il popolo nero ha

arricchito la nazione brasiliana”.

Marcelo BARROS

Monaco benedettino della Comunità di Goiâs,

consigliere delle CEBS e del MST.

Goiâs, Brasile

UNA SCUOLA DI TEOLOGIA POPOLARE – DI LEONARD BOFF

 

Boff Leonardo 2Una lezione particolare

 DI LEONARD BOFF

 

            Agli inizi degli anni ’80, il cardinale di Rio de Janeiro, dom Eugênio Sales accusava il teologo francescano Leonardo Boff di gravi errori presenti – secondo lui – nel libro “Chiesa: carisma e potere”.

 

            Agli inizi degli anni ’80, il cardinale di Rio de Janeiro, dom Eugênio Sales accusava il teologo francescano Leonardo Boff di gravi errori presenti – secondo lui – nel libro “Chiesa: carisma e potere”.

            Il 15 maggio 1984, Ratzinger inviò una lettera segreta a Boff, nella quale affermava che le sue tesi non poggiavano né sulla rivelazione, né sulla tradizione, né sul magistero. Le sue riflessioni erano forse di natura ideologica e di ispirazione marxista? Aveva ancora come criterio direttivo la fede? Ammettendo il primato della prassi, come costruire una escatologia cristiana e non una semplice utopia rivoluzionaria estranea alla Chiesa?

            Boff rispose il 24 agosto del 1984, sostenendo che i suoi studi si ispiravano al Concilio Vaticano II. Qualche mese dopo fu convocato a Roma dallo stesso Ratzinger che era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. L’interrogatorio avvenne nella stessa sala in cui l’inquisizione aveva interrogato Galileo Galilei. Boff era accompagnato da due angeli custodi di valore, che erano anche suoi confratelli francescani: il cardinale Evaristo Arns e il cardinal Aloísio Lorscheider.

            Riassumendo in alcune battute, le cose andarono così.

            – Se vuole leggere le sue spiegazioni ad alta voce – disse Ratzinger – può farlo. Sono 50 pagine. Dopo parleremo dei problemi.

            Boff scelse di leggere il testo tutto intero. Durante l’intervallo per il caffè, Ratzinger disse:

            – L’abito le sta molto bene. Così, lei può dare un segnale al mondo.

            – È difficile indossarlo in Brasile, fa troppo caldo – disse Boff.

            – Ma così le persone vedrebbero la sua devozione e la sua pazienza e direbbero che sta pagando per i peccati del mondo.

            – Abbiamo senza dubbio bisogno – contestò Boff – di segnali di trascendenza, ma questi non passano attraverso l’abito, ma attraverso il cuore.

            – Ma il cuore non si può vedere. È necessario invece vedere qualcosa – commentò Ratzinger.

 

            Si racconta che durante la discussione il cardinale Paolo Evaristo Arns abbia fatto notare al prefetto della congregazione per la dottrina della fede che, in Brasile, decine di persone insegnavano le stesse cose contestate a Boff. Ratzinger avrebbe risposto: “Ma padre Leonardo le insegna in modo comprensibile anche per il popolo”. A questo punto, il cardinale di San Paolo, raccolte le sue carte, avrebbe lasciato la sala.

            Com’era fallito in precedenza un tentativo di mediazione della CNBB, così anche questo colloquio si concluderà con la condanna a un anno di silenzio.

            Alla fine del colloquio, Boff presentò a Ratzinger una sottoscrizione di 50.000 firme di membri delle comunità di base, a favore della teologia della liberazione.

 

            Non saprei dire se esiste un legame tra l’osservazione di Ratzinger e la scuola di teologia popolare. Sta di fatto che due anni dopo, nel 1986, fu istituito il corso di teologia popolare. Tutti gli anni, in estate, il teatro della PUC si riempie di ragazzi che stanno ore e ore ad ascoltare teologhe e teologi. Quest’anno siamo giunti alla ventesima edizione. Cito soltanto alcuni temi: introduzione all’antico testamento, esodo, Cristologia, laici e ministeri; fede e politica, culture oppresse; ecologia: curare la vita e l’integrità della creazione; educare alla giustizia, alla solidarietà, alla pace…

            Invitato da amici, il 18 gennaio u.s., mi sono lasciato vincere dalla curiosità.

            A San Paolo pioveva a dirotto. Credevo di essere uno tra i pochi coraggiosi. Invece mi sbagliavo. Alle 8,05 il teatro era già pieno. Centinaia di giovani cantavano una preghiera di ringraziamento. Chiamavano Dio “Olorun”, come si usa nel Candomblé: “Invia il tuo spirito, Olorun, e rinnova la faccia della terra”. Pensavo fra me e me che ha ragione il Dalai Lama quando dice che non è più il momento di convertire nessuno, che ognuno si tenga la religione che ha sempre professato, bisogna lottare insieme per la giustizia e la pace nel mondo nel mondo.

Al posto dello schermo grande per la proiezione di filmati, c’era un quadro enorme, la festa della vita, libero commento alle intuizioni di Lovelock: la terra come Gaia, un vero grande superorganismo, la Madre Terra, che non è dunque soltanto un ripiano che sostiene la vita vegetale e animale, ma è essa stessa un essere vivente, nata per vivere a lungo e oggi di fatto in condizioni di salute disastrose. Parecchi anni fa, fu chiesto allo scrittore Asimov qual era secondo lui il messaggio che gli astronauti potevano portarci dallo spazio. Rispose che la terra vista di fuori è un tutt’uno con l’umanità. Bisogna uscire dalla terra per amare la terra.

            I due autori del quadro si sono ispirati a tante opere celebri, a cominciare dalla mano di Dio creatore (cappella Sistina) che si vede chiaramente in alto a destra. Invece che un Adamo svogliato vediamo una figura femminile slanciata che accoglie e trasmette l’invito alla vita: i suoi capelli argentati diventano fiumi che bagnano la superficie della terra; i seni prorompenti sono l’altra sorgente di vita, di quella che appare, vegetale e animale, e di quelle che non appare immediatamente come microbi e batteri. C’era un punto un po’ più oscuro: rappresentava una fogna che tenta pericolosamente di soffocare la vita. Anche l’imbottigliamento dell’acqua significa che noi stiamo usando la terra, stiamo spremendola, essa è soltanto un mezzo per produrre, ma è arrivata l’ora, anzi è già passata, di metterci al servizio della terra. Il quadro aveva qualche smagliatura, perché terminato nella Cidade de Deus, a Rio de Janeiro, sotto una grandine di colpi di mitraglia, che gli autori lì per lì attribuirono al carattere festaiolo del popolo carioca. (Trentadue sparatorie in un sol giorno son più che una festa del santo patrono).

            Boff è arrivato puntuale e le 8.30, zoppicando per un’operazione al ginocchio, ma assicurando tutti che non è ancora vecchio perché gli mancano due anni per arrivare a 70.

            Innanzitutto ha spiegato, con ‘aiuto di filmati, che cos’è la CHARTA DELLA TERRA, alla cui stesura ha partecipato, nel 2002, come unico rappresentante (eretico) del cristianesimo. Ne invio una mia traduzione a parte. L’attenzione degli studenti era totale. Poi, in varie riprese, il suo tema: ECOLOGIA: TEOLOGIA E SPIRITUALITÀ.

            La parola “Ecologia” – ricorda – è stata coniata nel 1866 da Ernst Heckel. “Oikos” suggeriva già qualcosa come ” casa comune”, ” comunità di vita”, Tellus Mater, dicevano i latini, ma bisognava arrivare al 1970 perché si facesse un check up alla terra. Il responso dei medici è stato che la terra è profondamente malata. La malattia si chiama progresso. Se vogliamo sopravvivere, se vogliamo lasciare qualcosa dopo di noi, dobbiamo perseguire un progresso sostenibile. Attenzione però che per molti “attuali sfruttatori”, il progresso sostenibile è soltanto un paravento per continuare a sfruttare la terra come un magazzino inesauribile.

            L’ecologia non studia gli esseri in se stessi, pietre, piante, animali e umani. Studia le relazioni esistenti tra di loro. È la scienza delle relazioni, come diceva già il creatore del termine “ecologia”. Il paradigma che ci è pervenuto da Galilei e da Newton, paradigma che parcellizzava la realtà, va rivisto con l’aiuto di questa nuova scienza, che è un insieme articolato di conoscenze, di valori e di utopie che ridefiniscono il senso dell’universo, dell’essere umano, della società, dei processi produttivi, delle istituzioni, della cultura e della religione. In pratica è una sfida alla teologia, all’interno di questo nuovo paradigma.

 

            NUOVA COSMOLOGIA

 

            L’universo proviene dal caos primordiale, dal big bang. Ma espandendosi, supera il caos, crea ordine e equilibri dinamici, diventa sempre più complesso e si organizza. Raggiunto un certo livello avanzato di complessità e organizzazione, la vita irrompe come autoorganizzazione della materia complessa. Questo accadde circa 3,8 miliardi di anni fa.

            Continuando a espandersi e a diventare sempre più complesso, nacque la vita umana come sottocapitolo del capitolo vita, circa 7 milioni di anni fa. Nato in Africa, l’essere umano si è propagato per tutta la terra creando società, culture e imperi. Oggi, sta ritornando da questo lungo pellegrinaggio e inaugura la fase planetaria e globalizzata della sua storia. Ci troviamo tutti nella casa comune, il pianeta terra. È  il nostro tempo presente. L’evoluzione non è lineare. Avanza,  indietreggia, si ferma ma, guardando indietro, le direzione è chiara, sempre avanti e in alto.

            L’energia diventa materia, il caos e si organizza, il semplice diventa complesso. Da un essere complesso sorge la vita e dalla vita la coscienza. Dice Stephen Hawking: “Nell’universo tutto ha avuto bisogno di equilibri sottilissimi per rendere possibile lo sviluppo della vita; per esempio, se la carica elettrica dell’electron fosse stata di poco differente, avrebbe rovinato l’equilibrio della forza elettromagnetica gravitazionale nelle stelle: o esse sarebbero state incapaci di bruciare l’idrogeno o l’elio, oppure non sarebbero esplose. In un caso o nell’altro, la vita non potrebbe esistere”.

 

            DIO  NELLA NUOVA COSMOLOGIA

 

            Che cosa c’era prima delle big bang? Chi ha dato l’impulso iniziale? Chi sostiene l’universo come un tutto? Il nulla? Ma dal nulla non viene nulla.

            Prima del big bang esisteva l’inconoscibile, il mistero. Ogni religione ha chiamato con un nome equivalente al nome di “Dio”.

            Una seconda domanda: perché esiste esattamente questo universo e perché noi viviamo? Non soltanto le persone religiose, ma anche gli scienziati si domandano che cosa avesse in mente Dio nel creare l’universo. Qual era suo programma? Solo così daremmo un senso all’universo e una soluzione a tutti i nostri problemi.

            Dal punto di vista religioso possiamo dire che Dio crea l’universo perché altri partecipino della sua vita superabbondante.

 

            COME CHIAMARE IL DIO DELLA NUOVA COSMOLOGIA

 

            Il primo nome che viene in mente è “Energia” suprema, cosciente, ordinatrice, sostenitrice, amorosa. L’energia e la realtà più misteriosa, anteriore all’universo che conosciamo.

            Possiamo comprendere Dio anche come una “Passione” infinita di comunione e espansione, che crea il tempo, lo spazio, l’informazione e la materia, cioè tutti gli esseri nella misura in cui si espande indefinitamente.

            Dio irrompe come “Spirito” che trapassa il tutto e ogni parte.

            Egli appare come “Futuro” assoluto, il punto “Omega” della realizzazione di tutte le promesse presenti nell’evoluzione lanciata in avanti.

            Tutte le cose comunicano tra loro e comunicano pertanto con la fonte originaria. Dio è un  “Dio-comunione”, un Dio-relazione. Questa constatazione apre lo spazio per comprendere l’esperienza cristiana di Dio come Trinità.

 

            PANENTEISMO: DIO IN TUTTO E TUTTO IN DIO

 

            La teologia moderna ha creato il termine PANENTEISMO, che significa Dio in tutto e tutto in Dio. Da non confondere con il panteismo che afferma che tutto è Dio e Dio è tutto. Il panteismo sostiene che Dio e mondo sono identici; che il mondo non è creatura di Dio ma il modo necessario di esistere di Dio stesso. Il panteismo non accetta differenze. Tutto è identico. Tutto è Dio. Se tutto è Dio ed Dio è tutto, allora è indifferente se mi occupo di bambini e bambine di strada assassinati a Rio de Janeiro, oppure di carnevale o di sport o di indigeni in estinzione o di portatori di Hiv.

            Tutto ciò è manifestamente un errore. Una cosa non è l’altra. Ci sono differenze in questo mondo. E queste sono rispettate solo dal panenteismo e non dal panteismo. Tutto non è Dio. Ma Dio sta in tutto e tutto sta e in Dio. Uno non è l’altro. Ma non stanno separati o chiusi. Sono aperti uno all’altro. A causa di questa mutua presenza, viene superata la semplice trascendenza e la pura immanenza. Dio e mondo diventano reciprocamente trasparenti. Bene diceva Theilard de Chardin: “Il grande mistero del cristianesimo non è l’apparizione, ma la trasparenza di Dio nell’universo. Oh! Sì, Signore, non soltanto il raggio che affiora, ma il raggio che penetra. Non la vostra epi-fania, Gesù, ma la vostra Dia-fania”. Lo stesso Theilard  in un’altra preghiera: “Nuovamente, o Dio, quale di queste due beatitudini è più preziosa: il fatto che tutte le cose stiano in contatto con te? Oppure che tu sia così universale che io ti scopra e ti senta in ogni creatura?”

            L’universo in cosmogenesi ci invita a vivere l’esperienza che soggiace al panenteismo: in ogni manifestazione anche minima dell’essere, in ogni movimento, e in ogni espressione di vita, di intelligenza e di amore, siamo implicati con il mistero dell’universo in processo. Le persone sensibili al sacro e al mistero testimoniano che “In lui viviamo, ci moviamo e esistiamo” (At 17,28). Trasformare questi contenuti in un’esperienza e in commozione è ciò che dà origine alla spiritualità.

 

            LA SANTISSIMA TRINITÀ

COME COMPLESSO DI RELAZIONI INCLUDENTI.

 

            Il discorso ecologico ci offre la possibilità di parlare di Dio come Trinità di persone. Quando i cristiani parlano che Dio è Trinità, padre, figlio e spirito santo non stanno sommando i numeri  1 + 1 + 1 = 3. Se si tratta di numeri, allora Dio è uno solo e non Trinità. Con la Trinità noi cristiani non vogliamo moltiplicare Dio. Quello che vogliamo esprimere è l’esperienza singolare che Dio è comunione e non solitudine. Bene diceva Giovanni Paolo II a Puebla in Messico nel 1979: “È stato già detto, con belle e profonde parole, che il nostro Dio nel suo mistero più intimo non è una solitudine ma una famiglia, perché porta in sé stesso la paternità, la filiazione e l’essenza della famiglia che  è l’amore; questo amore, nella famiglia divina è lo Spirito Santo”.

            Se Dio è comunione e relazione, allora tutto nell’universo vive in relazione e tutto sta in comunione con tutto e in tutti i punti e in tutti momenti. Tutto emerge come sacramento della Santissima Trinità.

 

            LO SPIRITO SANTO ABITA LA CREAZIONE

 

            Uno dei nomi di Dio è Spirito. Lui riempì la terra e rinnova tutte le cose. Niente di più ecologico di questa affermazione. Così, lo Spirito è presente nella prima creazione (Gn 1,2). È presente in Gesù di Nazareth: “Maria rimase incinta per opera dello spirito santo” (Mt 1,20). Luca dice che lo spirito ha fissato la sua abitazione in lei e per questo quello che nasce è santo e figlio di Dio (cfr. Lc 1,35). È lo spirito che risuscita Gesù dai morti, che dà origine alla chiesa, la comunità che porta l’eredità di Gesù nella storia. Nella comunità umana dona la diversità di talenti: ” c’è diversità di doni, ma uno stesso spirito” (1Co 12,4).

            Così avviene nell’ecologia: c’è una diversità di energie, di particelle, di esseri, di forme di vita e di intelligenza. Ma esiste un solo corpo, una sola terra. Quello che vale per la comunità di fede, vale per la comunità cosmica, planetaria e umana: “A ciascuno è data la manifestazione dello spirito in vista del bene comune” (1Co 12,7) che mai è soltanto umano, ma onnincludente e cosmico.

            Lo spirito è fattore di comunione e di comunicazione. Come nella Pentecoste tutti udivano nella propria lingua lo stesso messaggio di liberazione (At 2,11), così la diversità delle energie e degli esseri  rimandano alla stessa fonte creatrice, al dominus vivificans, il signore che tutto vivifica come si recita nel credo cristiano.

            Per i cristiani non è nessuna novità parlare dell’Incarnazione del verbo. Ma sono poco abituati a sentir parlare dell’abitazione dello spirito nella creazione. Così come il Figlio “diventa carne e mette la sua tenda tra di noi” (Gv 1,14), così lo Spirito Santo “Ha piantato la sua tenda”- e attraverso Maria (cf Lc 1,35) -  “ha fissato la sua dimora” nell’universo.

            Dire che ha piantato la sua tenda e abita la creazione significa che partecipa delle avanzate e dei regressi che possono succedere…

            Dall’oriente ci viene una piccola poesia che traduce questo pan-spiritualismo: “Lo spirito dorme nella pietra, sogna nel fiore, si sveglia nell’animale e sa che sta sveglio nell’essere umano”.

 

            IL CRISTO COSMICO

 

            Appartiene essenzialmente alla fede cristiana la proclamazione che il figlio di Dio si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14). Detto in termini cosmologici e ecologici, significa che lui è fatto con gli stessi elementi con i quali tutti gli esteri e corpi sono composti. Il nostro sistema solare, la terra, ogni essere e ogni persona contiene materiale riciclato dalle antiche stelle. Il corpo di Gesù non fa eccezione. Il concilio Cristologico di Calcedonia (451) afferma dogmaticamente che Gesù nella sua umanità è consustanziale a noi, nel corpo e nell’anima. Come qualsiasi essere umano lui è figlio dell’universo e della terra. È  membro della famiglia umana. L’essere umano è quell’essere per il quale il cosmo stesso arriva alla sua autocoscienza e alla scoperta del sacro, il luogo biologico-antropologico dell’irruzione della divinità dentro la materia. Questa realtà ci fa capire perché l’incarnazione non è un affare esclusivo di Gesù, ma interessa tutti gli umani. Tutti, per il fatto di essere sorelle e fratelli di Gesù, sono chiamati ad essere assunti, ognuno a modo suo dal verbo. L’incarnazione appare come un processo ancora in corso. Il verbo continua e ad emergere dalla materia del mondo e dalla massa umana fino a vivificare l’intero universo è introdurlo nel regno della Trinità.

            L’incarnazione radica Gesù nel cosmo. Ma lo limita pure con lacci spazio-temporali. L’incarnazione è sempre limitazione e abbassamento (kenosi). Lui è giudeo e non romano. È uomo e non donna. Nasce nell’era dell’homo sapiens sapiens e non dell’australopiteco, sotto Tiberio Augusto e muore sotto Ponzio Pilato.

            Con la risurrezione però sono sciolti tutti lacci dello spazio e del tempo. Cristo raggiunge una dimensione cosmica. L’evoluzione si trasforma in vera rivoluzione.

            Il Cristo cosmico assurge pertanto a motore dell’evoluzione, come suo liberatore e come colui che porta alla pienezza. San Paolo dice che “Cristo è tutto in tutte le cose” (Col 3,11)  e ” tutto sussiste in lui” (Col 1,16). Senza di lui le cose sarebbero un tronco senza testa. Si dice giustamente nella lettera agli efesini “di unire sotto una sola testa tutte le cose in Cristo” (1,10). Lui ricapitola tutto.

            Il testo più espressivo di questa Cristologia cosmica si trova in un ‘agrafon’ del Vangelo copto di San Tommaso: “Io sono la luce che sta sopra tutte le cose; io sono l’universo; l’universo è uscito da me e l’universo è ritornato a me; spacca la legna e io sono lì dentro; alza una pietra e io sto lì sotto”.

            Qui si apre lo spazio per un’esperienza ineffabile di comunione con il Cristo totale, attualizzata continuamente dal mistero dell’Eucaristia. L’ostia e il vino non sono soltanto una porzione di materia, un pezzo di pane  un po’ di vino che stanno sopra l’altare. Per la fede nel Cristo cosmico e l’inabitazione dello Spirito, l’universo intero si trasforma in ostia e in vino per essere il corpo cosmico di Cristo.

 

            SPIRITUALITÀ ECOLOGICA

 

            Queste riflessioni teologiche si basano su una spiritualità ecologica, cioè un’esperienza di Dio a contatto con la natura e l’universo. Una cosa è la teologia, altra cosa è la spiritualità. La teologia pensa e lavora con concetti. La spiritualità sperimenta e lavora con emozioni profonde. Quando passiamo dalla testa al cuore, in quel momento sorge la spiritualità. Spiritualità  non è pensare Dio nell’universo, è sentire Dio presente in tutte le cose. Una buona porta d’ingresso per un’esperienza spirituale ecologica e cosmica e la visione del globo terrestre riprodotto dai mezzi di comunicazione.

            Gli astronauti ci hanno trasmesso quest’immagine e ci hanno lasciato testimonianze ispirate.      James Irwin diceva partendo dalla luna: “Quell’oggetto vivo così bello e così caldo appare fragile e  delicato. Contemplarlo cambia le persone, perché si comincia ad apprezzare la creazione di Dio e a scoprire l’amore di Dio “. Un altro astronauta Gene Cernan confessava: “Io sono stato l’ultimo uomo a mettere piede sulla luna nel dicembre 1972. Dalla superficie della luna io guardavo con timore reverenziale verso la terra su uno sfondo di azzurro molto scuro. Quello che io vedevo era troppo era bello per essere catturato, troppo spirituale, pieno di finalità per essere frutto di un puro accidente cosmico. Io mi sentivo interiormente obbligato a lodare Dio. Dio deve esistere, perché è stato creato quello che io avevo il privilegio di contemplare”. Spontaneamente sorge nell’essere umano la venerazione e il rendimento di grazie. E per questo che lui esiste nell’universo.

            A vedere la terra dal di fuori, l’essere umano si sveglia alla comprensione che lui e la terra formano una unità e che questa unità appartiene a un’altra maggiore, a quella solare e questa a sua volta ad un’altra unità ancora maggiore, quella galattica e questa ci rimanda all’universo intero e l’intero universo ci rimanda a Dio.

            “Da lassù, osservava l’astronauta Gene Cernan “non si vedono le barriere del colore della pelle, della religione e della politica che qui in basso dividono il mondo. La terra e l’umanità formano una cosa soltanto “. Tutto è unificato nell’unico pianeta Terra.

            Abbracciando il mondo, la terra e le cose, stiamo abbracciando Dio, entrando in comunione con lo Spirito, stiamo agendo nei processi naturali e storici e con il Cristo cosmico che sta sospingendo l’evoluzione verso il suo culmine nel seno del regno della Trinità. San Francesco d’Assisi ci serve come punto di riferimento. Lui ha vissuto un questa spiritualità ecologica e cosmica. Riusciva a vedere in ogni essere della creazione un fratello e una sorella. Umilmente si collocava accanto a loro e mai sopra di loro, vivendo una profonda comunione di identificazione e di commozione.

            Abbiamo bisogno di questa spiritualità ai giorni nostri, perché ci aiuta ad aver cura della terra e di tutto quello che essa contiene e ci permette pure di avere esperienza di Dio nel modo che lui vuol essere incontrato, conosciuto e servito, in questa fase storica che ci ha portato un nuovo stato di coscienza e ci ha fornito tante conoscenze sull’universo e sulla nostra missione all’interno di questo.

 

 

 

Teólogo Leonardo Boff
3 min 49 sec – 26 lug 2007
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[...] Il Vaticano, preoccupato per l’inspirazione marxista del movimento, lottò fortemente contro questa tendenza attraverso la Congregazione della Dottrina della Fede, capeggiata dal Papa attuale, che visita un Brasile, nel quale la Teologia della Liberazione si suppone che abbia perso la sua forza iniziale. “Come tutti i movimenti, ha avuto un momento per nascere, crescere, indebolirsi e sparire”, afferma l’arcivescovo di São Paulo, Odilio Scherer, il quale dà ad intendere che il movimento è finito. Ma Boff dichiara: “Lo stesso Vaticano sa di aver perso la battaglia. I due documenti del 1984 e 1986 non hanno frenato il movimento. E’ nato ascoltando il grido degli oppressi e oggi questo grido si è trasformato in clamore [...]

 

La visita del Papa ad Aparecida

Teologia della Liberazione è sempre viva, affermano Boff e Casaldáliga

(Traduzione di Fausto Marinetti) *

Estadão 05 maggio 2007

RIO – La Teologia della Liberazione, che Benedetto XVI ha combattuto prima di essere eletto, continua viva, così come persistono ancora le disuguaglianze dell’America Latina che l’hanno generata. L’attualità di tale teologia d’ispirazione marxista, che ha messo i poveri come la priorità della Chiesa cattolica in America Latina, viene evidenziata dai suoi rappresentanti più significativi: Leonardo Boff e mons. Pedro Casaldáliga. Per il segretario generale del Forum Mondiale della Teologia e Liberazione, il cappuccino Luiz Carlos Susin, la Teologia della Liberazione non solo è viva, ma si è estesa in Africa e in Asia.

Questa corrente, adottata dai sacerdoti dell’America Latina, ebbe il suo auge negli anni 70, specialmente nei paesi con gravi problemi di povertà o che erano sotto la dittatura o in guerra civile. Il Vaticano, preoccupato per l’inspirazione marxista del movimento, lottò fortemente contro questa tendenza attraverso la Congregazione della Dottrina della Fede, capeggiata dal Papa attuale, che visita un Brasile, nel quale la Teologia della Liberazione si suppone che abbia perso la sua forza iniziale. “Come tutti i movimenti, ha avuto un momento per nascere, crescere, indebolirsi e sparire”, afferma l’arcivescovo di São Paulo, Odilio Scherer, il quale dà ad intendere che il movimento è finito. Ma Boff dichiara: “Lo stesso Vaticano sa di aver perso la battaglia. I due documenti del 1984 e 1986 non hanno frenato il movimento. E’ nato ascoltando il grido degli oppressi e oggi questo grido si è trasformato in clamore.

Casaldaliga afferma che l’opzione della Chiesa per i poveri non perde la sua attualità in un’America Latina che ha ancora 205 milioni di sventurati: “Credo fermamente che la Teologia della Liberazione continua ad essere viva in molte menti, testi e in molte comunità. Sono convinto che si sta rinnovando con nuovi apporti. Adesso, oltre ai poveri, la Chiesa ha fatto propria anche la causa del negro, dell’indio, della donna”. Susin ritiene che si è ramificata non solo per includere questi nuovi “soggetti storici”, ma anche altri orizzonti: Cina, India e Africa. “La Teologia ha acquisito tematiche speciali, che dialogano tra loro”.

Per Casaldáliga, che ha scelto di restare in Amazzonia per stare vicino ai poveri, nonostante l’età, la Teologia potrà ricevere nuovo impulso nella 5ª Conferenza del Celam, evento inaugurato da Benedetto XVI ad Aparecida, S. Paolo. “La recente notifica del Vaticano a Jon Sobrino e la preparazione del Celam hanno rimesso tale Teologia sulle prime pagine. E’ possibile procedere (ad Aparecida) e la affermeremo di nuovo con chiarezza, con convinzione, preparati a tutte le conseguenze”. Sobrino, gesuita spagnolo che vive a El Salvador, e che con i suoi testi sul Gesù storico e umano si è trasformato in uno dei principali teologi della liberazione, è stato recentemente ammonito dal Vaticano. Ma, al contrario di quello che succedeva quando l’attuale pontefice dirigeva la Congregazione della Dottrina della Fede, questa ammonizione non include una punizione. “La notificazione contiene delle osservazioni, ma non proibisce niente. La stiamo interpretando al meglio, perfino come un invito al dialogo. Ci aspettiamo che ci possa essere una discussione e pare che il papa abbia già detto, in due o tre occasioni, che è favorevole a un dibattito teologico”, dice Susin. Boff non la pensa così: “Abbiamo paura che ad Aparecida il papa rinnovi i suoi avvertimenti alla Teologia della Liberazione. Come cristiani rispetteremo sempre la figura del Papa. Ma sappiamo che ha condannato più di cento teologi e ha scritto dei testi duri, quasi fondamentalisti sulle chiese e le religioni e ha controllato le conferenze episcopali progressiste. Per questo è difficile amarlo”.

* IL DIALOGO. Mercoledì, 16 maggio 2007

DeporreIPoveriDallaCroceVersione 1.0
1 giugno 2007

«Deporre i Poveri dalla Croce: Cristologia della Liberazione»

Commissione Teologica Internazionale della Asett,
Associazione Ecumenica dei Teologi/ghe del Terzo Mondo
(Eatwot, Ecumenical Association of Third World Theologians)

José María VIGIL (org.)
Prologo di Leonardo BOFF
Epilogo di Jon SOBRINO
Copertina di CEREZO BARREDO
Traduzione a cura di ADISTA

ISBN:978-9962-00-240-6
Pagine: 306
 

Più di 40 co-autori: Leonardo BOFF (prologo), Tissa BALASURIYA, Marcelo BARROS, Teófilo CABESTRERO, Oscar CAMPANA, Víctor CODINA, José COMBLIN, CONFER de Nicaragua, Lee CORMIE, Eduardo DE LA SERNA, José ESTERMANN, Benedito FERRARO, Eduardo FRADES, Luis Arturo GARCÍA DÁVALOS, Ivone GEBARA, Eduardo HOORNAERT, Diego IRARRÁZAVAL, Jung Mo SUNG, Paul KNITTER, João Batista LIBÂNIO, María y José Ignacio LÓPEZ VIGIL, Carlos MESTERS, Carlo MOLARI, Alberto PARRA, Aloysius PIERIS, Richard RENSHAW, Jean RICHARD, Pablo RICHARD, Luis RIVERA PAGÁN, José SÁNCHEZ SÁNCHEZ, Stefan SILBER, Ezequiel SILVA, Alfonso Mª Ligório SOARES, José SOLS LUCIA, Paulo SUESS, Luiz Carlos SUSIN, Faustino TEIXEIRA, Pedro TRIGO, José María VIGIL, e Jon SOBRINO (epilogo).

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COME TRASFIGURARE L’AMORE SPONSALE – Don Franco MANENTI

 

transfiguration

La trasfigurazione di Gesù

(Lc 9,28-36)

SESSIONE ESTIVA 2006 – Don Franco MANENTI  

 

«La trasfigurazione dell’uomo avviene proprio quando si legge figlio nel Figlio» (C.M. Martini)

 

Due premesse

 

1. Il contesto della lectio è quello di un “pellegrinaggio alle sorgenti”, che un gruppo di credenti sposati intende compiere. Nello scritto che illustra il senso del pellegrinaggio si precisa che le “sorgenti” cui s’intende ritornare, in realtà non sono tante, ma una e unica, Gesù Cristo, indicato, appunto come la “Sorgente”. La precisazione giustifica la scelta di porsi in ascolto della parola di Gesù. Un ascolto che nell’itinerario del pellegrinaggio è inteso e vissuto come “sosta”, che consente «di confrontarsi sulla realtà del Matrimonio nel progetto di Dio, il “mistero grande” di cui parla S. Paolo, per un attento discernimento del sacramento celebrato».

 

Il “mistero grande”, di cui parla l’Apostolo nella sua esortazione agli sposi di Efeso (5,21-32), fa riferimento “a Cristo e alla Chiesa”, alla loro relazione, descritta con un linguaggio sponsale (vv 25-27) e indicata come “esempio” da imitare e “sorgente” cui alimentare la loro relazione sponsale.

 

Potrebbe suscitare qualche interrogativo la proposta del brano della trasfigurazione di Gesù, quale testo della lectio: questa pagina evangelica cosa ha da dire ai discepoli di Gesù che sono stati chiamati a vivere il “mistero grande” del matrimonio?

 

La risposta all’interrogativo ci viene data da un testo di S. Paolo: «Tutti noi, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati (o trasfigurati) in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).

 

Il testo paolino dice quanto accade nell’esistenza dei cristiani: la gloria del Signore – il Signore nel suo disporsi benevolo verso di noi – ci trasforma a immagine sua, attraverso l’opera dello Spirito Santo.

 

Questa trasformazione avviene contemplando il volto glorioso di Cristo. Questo testo letto dagli sposi: l’amore che Cristo ha verso la sua Chiesa (“la gloria del Signore”) trasforma gli sposi mediante il suo Spirito (la grazia del sacramento, inesauribile risorsa), così che il loro amore rappresenti sempre più da vicino il “mistero grande” dell’amore di Cristo per la Chiesa (“trasfigurati in quella medesima immagine”).

 

Gli sposi sono in grado di fare questo nella misura in cui contemplano (“riflettendo come in uno specchio”) “il mistero grande” dell’amore sponsale di Cristo che trasfigura la sua Chiesa.

 

2. Prima di iniziare la lectio voglio proporvi un pensiero di una monaca carmelitana, che suggerisce come deve essere il nostro ascolto: «Egli sempre ci precede. Per capirlo e accettarlo, solo la sobrietà dell’ascolto, povero e consapevole della propria creaturalità».

 

E l’ascolto consapevole della propria creaturalità è bene indicato dal salmista che implora Dio di rivolgergli la sua parola: «A te grido, Signore; non restare in silenzio, mio Dio, perché, se tu non mi parli, io sono come chi scende nella fossa» (Sal 28,1)

Trasfigurazione 144 

 

Leggiamo il testo

 

«28Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. 29E, mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. 30Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia, 31 apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme. 32Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui. 33Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: “Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Egli non sapeva quel che diceva. 34Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all’entrare in quella nube, ebbero paura. 35E dalla nube uscì una voce, che diceva: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo”. 36Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto».

 

 

La struttura del racconto

 

Il racconto presenta un’introduzione (v 28), una conclusione (v 36) e nel mezzo tre momenti (vv 29-35).

- L’introduzione situa l’episodio dal punto di vista cronologico (quando accade): «Circa otto giorni dopo questi discorsi» (i discorsi cui fa riferimento l’evangelista sono la confessione di Pietro [vv 18-21] e l’annuncio da parte di Gesù della sua morte e risurrezione [v 22], seguito dalla catechesi sulla sequela [vv 23-27]); lo localizza (dove accade): «sul monte» (luogo della rivelazione di Dio nella Bibbia: Es 19,16; 24,15); presenta i protagonisti (chi è all’opera): Gesù, Pietro, Giovanni e Giacomo, la voce proveniente dalla nube.

- Il 1° momento (vv 29-31). È il momento della trasfigurazione vera e propria. Solo Luca evidenzia che Gesù sta pregando («mentre pregava»). Anche prima di scegliere i Dodici Gesù si reca sulla montagna a pregare (6,12). Nel vangelo di Luca la preghiera segna i momenti cruciali della vita di Gesù: prima di ricevere il battesimo (3,21), prima della confessione di Pietro (9,20), del primo annuncio della passione e risurrezione (9,22), sul monte degli Ulivi (22,39-46) e sulla croce (23,34.46).

 

La trasfigurazione di Gesù è segnalata nel volto («il suo volto cambiò di aspetto») e nella veste («la sua veste divenne candida e sfolgorante»). La veste candida è segno della vittoria, della gioia, di una realizzazione piena e richiama la figura del Figlio dell’uomo del profeta Daniele, glorioso e vincitore

Io continuavo a guardare, quand’ecco furono collocati troni e un vegliardo si assise. La sua veste era candida come la neve e i capelli del suo capo erano candidi come la lana; il suo trono era come vampe di fuoco con le ruote come fuoco ardente», 7,9)

 

Gesù dialoga con Mosè ed Elia (v 30), due personaggi di rilievo nella tradizione biblica. Il primo è il capo che guida Israele fuori dall’Egitto, la terra della schiavitù e il mediatore della legge di Dio (cfr Lc 2,22; 5,14; 9,30.33; 16,29.31; 20,28.37; 24,27.44). Il secondo è un profeta che svolge un ruolo determinante nel ricondurre Israele al culto di Jahvè, ristabilendo l’alleanza (Lc 1,17; 4,25. 26; 9,8.19.30.33). Mosè rappresenta l’esperienza della legge, mentre Elia quella del profeta (Lc 16,16; 24,27.44).

 

Solo Luca segnala il contenuto della conversazione: «Parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (v 31). Il termine “dipartita” traduce il vocabolo greco exodos, presente solo in Luca e che interpreta il cammino di Gesù verso Gerusalemme (9,51-24,53), dove subirà la morte, nella prospettiva dell’omonimo libro veterotestamentario. L’ “esodo” di Gesù non si esaurisce nella sua morte, ma si compie in modo definitivo con l’ascensione al cielo. Gerusalemme è la città della realizzazione delle promesse messianiche. Il cammino di Gesù, quindi, verso Gerusalemme compie le attese salvifiche annunciate dalla tradizione biblica.

I

l 2° momento (vv 32-33) presenta la reazione dei discepoli. L’evangelista segnala anzitutto che i discepoli sono “oppressi dal sonno” (v 32). Il sonno indica la distanza e l’estraneità rispetto a quanto sta accadendo. Come nell’orto degli ulivi, quando Gesù avverte la drammaticità della decisione di compiere la volontà del Padre, mentre i discepoli si addormentano (Lc 22,45). Nonostante il sonno, che li opprime, i discepoli “vedono la gloria” di Gesù.

 

L’estraneità dei discepoli emerge anche dalle parole di Pietro («Maestro è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende una per te, una per Mosè e una per Elia»), biasimate dal narratore («Egli non sapeva quel che diceva»). Nonostante la trasfigurazione di Gesù e il fatto che i discepoli “vedono la sua gloria”, Pietro continua a considerare Gesù come “Maestro”. La sua richiesta poi vuole rendere permanente sulla terra la situazione celeste ed esprime la paura di scendere dal monte, per seguire Gesù verso Gerusalemme.

 

Il 3° momento (vv 34-35) offre una parola di rivelazione, che commenta e spiega quanto è accaduto.

 

La nube fa parte delle teofanie (cfr Es 19,9.16; 24,15-18; 40,34-35; 2Mac 2,8); è il segno della potente presenza di Dio durante il cammino del popolo nel deserto (Es 13,21; Sal 78,14; 105,39); suscita nei discepoli la paura tipica delle scene di rivelazione, dove l’uomo si sente inadeguato (cfr Es 4,10; Is

6,5; Ger 1, 6). La voce proveniente dalla nube è una comunicazione da parte di Dio, proclama Gesù come “Figlio eletto” e rivolge un’esortazione – un imperativo – ai discepoli («Ascoltatelo!»). La proclamazione di Gesù come “Figlio eletto” riprende quella del battesimo al Giordano («Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto», Lc 3,22). Prima d’intraprendere il cammino verso Gerusalemme, il Padre conferma nuovamente Gesù nella sua condizione filiale. La relazione singolare tra Gesù e il Padre, emersa, all’inizio del brano, nella presentazione di Gesù in preghiera, è ora esplicitata dalla rivelazione celeste.

 

L’imperativo finale – «Ascoltatelo!» -, che appartiene alla tradizione biblica, soprattutto alla tradizione deuteronomica, dove il popolo viene invitato a essere uditore della parola di Dio («Ascolta, Israele…», Dt 6,4), va compreso nel contesto dell’opera lucana (5,1.15; 6,18.47. 49; 7,22.29). Nella parabola del seminatore (8,4-15) il seme che cade nella terra buona rappresenta coloro che, «dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza», v 15).

 

L’ascolto della parola è quindi il primo passo della fede, che deve poi maturare con l’attuazione della parola nella perseveranza. L’invito all’ascolto è collegato con la constatazione che Gesù resta solo. L’unica voce che i discepoli sono chiamati ad ascoltare è quella di Gesù.

 

La conclusione (v 36) segnala il silenzio dei discepoli, che nel racconto lucano, non è imposta da Gesù, come in Matteo e Marco, ma scelta dai discepoli («Essi tacquero…»).

 

Meditiamo la Parola

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Riprendiamo la domanda iniziale: questa pagina evangelica cosa ha da dire ai discepoli di Gesù che sono stati chiamati a vivere il “mistero grande” del matrimonio?

 

Una prima risposta la troviamo osservando Gesù trasfigurato.

 

Gesù si trasfigura “mentre pregava”. Il contatto prolungato con Dio trasfigura Gesù, ognuno di noi, perché ci rende partecipi della sua gloria. E’ l’esperienza che fa Mosè (cfr Es 34,29) e che possiamo fare anche noi (cfr 2Cor 3,18). Nell’episodio della trasfigurazione il contatto prolungato con Dio è

realizzato nella preghiera. La preghiera consente l’incontro prolungato con Dio che ci trasfigura, perché ci apre a lui, ci permette di superare le nostre resistenze e paure; ci trasforma – ci conferisce – secondo la stessa “forma” di Gesù, il Figlio.

 

Il contatto prolungato con Dio nella preghiera, “trasfigura” due sposi, li rende capaci di amarsi con il suo stesso amore, conferisce al loro amore la “forma” dell’amore con cui Gesù ama la Chiesa.

 

La preghiera (normalmente) non cambia le situazioni, non le “trasfigura”, può però cambiare noi, “trasfigurare” noi. Nella preghiera oltre e più che chiedere al Signore di cambiare le situazioni che ci inquietano e ci deprimono, bisogna imparare a chiedere che cambi noi, il nostro cuore, perché impariamo a desiderare quello che Lui desidera e a volere quello che Lui vuole, anche in quelle situazioni per nulla gratificanti. Mi pare possa essere intesa così la richiesta del “Padre nostro”: “Sia fatta la tua volontà”.

 

Una seconda risposta la troviamo osservando i discepoli, la loro fatica a entrare nel “mistero” di Gesù, a seguirlo, a lasciarsi trasfigurare.

 

Scorrendo il cap 9 notiamo come i discepoli sono chiamati a entrare nel mistero di Gesù, a cogliere il senso della sua persona («Voi chi dite che io sia?») e il senso della loro sequela («Chi vuol venire dietro a me…»). Devono imparare questo anche se sono già andati nei villaggi “annunziando la buona

novella e operando guarigioni” (vv 1-6), anche se con Pietro hanno risposto alla domanda di Gesù sulla sua identità (“il Cristo di Dio”, vv 18-22), anche se si considerano “seguaci di Gesù” (vv 49-30).

 

Il card Martini parla di un passaggio “dal ministero al mistero di Gesù”, un passaggio non facile.

 

Tre le piste che attestano la fatica dei discepoli a entrare nel mistero di Gesù.

 

La prima è costituita dal sonno che opprime («erano oppressi dal sonno»). L’evangelista non dice solo che erano assonnati, ma che il sonno li opprimeva, li appesantiva, rappresentava un peso insostenibile.

 

La seconda pista riguarda le parole di Pietro («E’ bello per noi restare qui, facciamo tre tende…», giudicate dal narratore con severità («non sapeva quel che diceva»). La visione suscita l’entusiasmo, che sembra indicare il superamento della situazione difficile, insostenibile.

 

L’incomprensione di Pietro si manifesta anzitutto nel fatto che parla. Di fronte a Dio l’uomo è invitato a stare in silenzio e ad ascoltare («Mosè e i sacerdoti leviti dissero a Israele: “Fa silenzio e ascolta Israele. Oggi sei diventato il popolo del Signore tuo Dio. Obbedirai quindi alla voce del Signore tuo Dio

e metterai in pratica i suoi comandamenti e le sue leggi che oggi ti do», Dt 27,9-10). Il secondo motivo è dato da quanto Pietro dice («Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia»). La proposta di costruire capanne si pone in alternativa al colloquio tra Mosè, Elia, Gesù sul cammino da portare a compimento a Gerusalemme.

 

La terza pista fa riferimento alla paura dei discepoli a entrare nella nube, cioè a entrare nella relazione con Dio, a stare di fronte a lui. L’entusiasmo precedente lascia il posto alla paura che blocca ogni movimento. Più avanti l’evangelista parlerà nuovamente della paura dei discepoli: «Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: “Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini”. Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento» (9,43-45).

 

Rileggiamo la nostra esperienza alla luce dell’atteggiamento di Pietro e dei suoi amici.

 

  • - «Erano oppressi dal sonno». Il sonno che opprime rimanda alle situazioni della vita, della nostra relazione sponsale, della famiglia, che ci schiacciano come pesi insostenibili, ci angosciano, a tal punto da suggerirci di lasciar perdere, di rinunciare a rimettere ordine nel nostro cuore, a dedicarci alle nostre relazioni, a trovare una soluzione ai disagi, a guarire una relazione ferita.

  • - «E’ bello per noi stare qui…». Quella di Pietro è una reazione immediata, emotiva, del discepolo che si trova bene con Gesù ed è esposto alla tentazione di risolvere la relazione con il Signore in questo momento gioioso, rassicurante, dimenticando la croce, il cammino verso Gerusalemme.

 

Anche noi siamo esposti alla stessa tentazione, quella cioè di fissare lo sguardo solo sul volto luminoso del Gesù della trasfigurazione, distogliendolo dall’altro volto, quello del Gesù della croce, che, come annota il profeta Isaia, «Non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per trovare in lui diletto, disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato», 53,2-4).

 

E’ la tentazione di voler restare sul monte delle esperienze belle, pacificanti, dove ci sembra di aver capito tutto del Signore, della Chiesa, di noi stessi, degli altri, del matrimonio, della nostra sposa, del nostro sposo, dei nostri figli e di non scendere nella pianura della vita quotidiana, fatta dei ritmi e dei gesti sempre uguali, delle solite persone, della fatica che facciamo con noi stessi e con gli altri, della fatica che facciamo a trovare il tempo per la preghiera, ad

alimentare il desiderio d’incontrare il Signore di ascoltare la sua parola con cuore attento e libero, a far ripartire la comunicazione sponsale.

 

Ci poniamo una domanda: in quali situazioni del nostro cammino di credenti ci ritroviamo nella reazione di Pietro («E’ bello per noi stare qui»), cerchiamo di abbandonare il quotidiano faticoso, piatto, monotono, per nulla “bello”, della nostra sequela di discepoli?

 

- La paura dei discepoli dice la loro distanza da Dio, da Gesù, dal suo modo d’intendere la vita, di salvarla, di essere Figlio. Non si tratta qui dell’estraneità, della distanza di quelli che stanno “fuori”, di chi non è credente, ma dei discepoli, di chi sta con Gesù, lo segue.

     

Luca parla di paura a “entrare nella nube”, ad accettare cioè una relazione con Dio, con Gesù, che agli occhi dei discepoli percorre strade diverse da quelle immaginate da loro, esprime desideri diversi dai loro. Al riguardo l’evangelista segnala che il giorno seguente la trasfigurazione (v 37), dopo che Gesù ha rivelato che sta per essere consegnato in mano agli uomini» (v 44), «sorse una discussione tra di loro [i discepoli], chi di essi fosse il più grande» (v 46). La stessa discussione si riapre durante l’ultima cena (Lc 22,24-27), dove i discepoli restano impermeabili al desiderio di Gesù di mangiare la sua Pasqua con loro («Ho ardentemente desiderato di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione», 22,15) ed estranei alla sua offerta («Questo è il mio corpo che è dato per voi… questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi», 22,19s).

 

L’estraneità dei discepoli diventa nostra quando alimentiamo desideri diversi, distanti da quelli di Gesù, che sono desideri di prossimità, di dono di sé, di servizio, di cura dell’altro; quando vogliamo salvare la vita a modo nostro, non nel modo indicato e realizzato da Gesù, che è il modo del Figlio, che riceve la vita dalle mani del Padre, la decide ogni giorno col Padre e la riconsegna a lui.

Una terza risposta ci è offerta dalla Dio Padre che parla nella nube.

 

Di fronte a questa situazione che sembra senza via d’uscita, è Dio stesso a indicare il percorso che consentirà ai discepoli di “entrare nel mistero” di Gesù: «Questi è il Figlio mio l’eletto; ascoltatelo». “Questi è il Figlio mio”. L’aggettivo “questi” indica che il Gesù che sta davanti a loro trasfigurato, conosciuto dai discepoli come colui che sta andando a Gerusalemme per morire e che alcuni giorni prima aveva esortato quanti desideravano seguirlo, a rinnegarsi, a prendere la propria croce ogni girono, a perdere la propria vita, è il Figlio nel quale Lui si riconosce.

 

Ascoltatelo”: seguitelo nel suo cammino verso la croce, accoglietelo, fidatevi di lui, fate quanto vi dice, fate come lui, lasciatevi modellare da lui. Questo è il culmine della “divinizzazione” che il Padre ha pensato per ogni uomo, della “trasfigurazione” di noi secondo l’immagine del Figlio.

 

Agli sposi, quando sono oppressi da situazioni pesanti e sono tentati di percorrere altre strade nel proprio cammino di discepoli, di sposi, strade più rassicuranti, che sembrano garantire il cuore, Dio Padre dice di ascoltare Gesù, di fare come lui, di accoglierlo con fiducia nel loro amore, di imparare da lui ad amarsi, ad amare l’altro/a, anche quando ai propri occhi appare non amabile, mette alla prova, conferendo all’amore la figura del gesto gratuito, del dono di sé, prima che del dono di qualcosa.

 

Il tempo della prova, che accompagna ogni vicenda sponsale, abitato ascoltando il Signore Gesù, non avvilisce più due sposi e il loro amore, ma li può “trasfigurare” secondo la stessa immagine di Gesù e del suo amore.

 

Accostare con frequenza il libro delle Scritture Sante, per ascoltare quella Parola che è Gesù, le parole di Gesù e le parole che riferiscono di Gesù: questa è la strada che “trasfigura” l’amore sponsale tra un uomo e una donna secondo l’immagine dell’amore sponsale di Gesù per la sua Chiesa.

MEDICINA & PERSONA – Compagnia delle Opere

Non vogliamo genericamente richiamarci
alla necessità di « umanizzare » la medicina,
ma ricordarci
che solo accettando integralmente
la sfida della cura e il mistero della persona
si può usare correttamente la tecnologia.

 

CHI SONO E COSA FANNO

 

Medicina e Persona

  • Medicina e persona intende promuovere i valori di libertà, professionalità, sussidiarietà e attenzione ai bisogni della persona nel settore sanitario.

    Essa si propone quindi di fornire strumenti culturali ed informativi adeguati ad approfondire le motivazioni originali dell’attività professionale.

    Per questo intende:

    • promuovere una conoscenza ed un giudizio critico sul contesto sociale e lavorativo in cui sono quotidianamente impegnati gli operatori sanitari;

    • favorire incontri tra esperienze umane e professionali significative, caratterizzate da una passione per l’autenticità dell’esperienza dell’uomo nell’ambito sanitario.

    L’associazione si riconosce nei valori e nei principi che guidano l’attività della associazione Compagnia delle Opere con sede in Milano, alla quale aderisce con riferimento specifico al settore sanitario.

    L’associazione collabora con l’omonima Medicina e Persona di Milano.

    icità dell’esperienza dell’uomo nell’ambito sanitario.

L’associazione si riconosce nei valori e nei principi che guidano l’attività della associazione Compagnia delle Opere con sede in Milano, alla quale aderisce con riferimento specifico al settore sanitario.

L’associazione collabora con l’omonima Medicina e Persona di Milano.

HO FATTO UN SOGNO – I HARD A DREAM – Angelo Nocent

 

Tanto si ha lo Spirito Santo,

quanto si ama la Chiesa.

“Se vedi la carità, vedi la Trinità.” (S.Agostino)

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Agostino e la madre Monica

 

Questa è un‘avventura dello spirito iniziata così:

 

I HARD A DREAM

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HO FATTO UN SOGNO

 

santa-teresa-di-gesu-bambino-e-san-riccardo-pampuri-f1cd_11-150x150Tutta la nostra vita è fatta di appelli, vocazioni, annunciazioni, che Dio  rivolge  ad  ogni  ora del  giorno  ma  anche  della  notte.

Se in principio era il Verbo, ora Egli è un contemporaneo che abita fra noi. Se di messaggi, vocazioni, annunciazioni, sollecitazioni, inviti è piena la nostra vita, senza l’illuminazione del Vangelo, il rischio è di non accorgercene.

A fare attenzione, non è difficile avvertire che la nostra vita è piena di angeli, di messaggeri, di apparizioni.

Ma è solo l’esperienza religiosa dei primi testimoni che può aiutarci a identificarli. Il modo migliore di leggere il Vangelo è proprio quello di pensare che tutto quanto vi si trova, capita anche nella nostra vita.

Ciò che è accaduto ai primi testimoni, succede anche ai nostri giorni.

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Il modello ideale di lettura del Vangelo è Maria.

 

Da che cosa ha riconosciuto l’angelo?

 

  • Come è giunta alla certezza che quel messaggio veniva da Dio?
  • Ognuno ha il diritto di chiedersi: da che cosa potrei riconoscere un angelo?
  • Da che cosa riconoscere che un pensiero, un incontro, un avvenimento vengono da Dio?

E’ un problema vitale, lo stesso che dovette risolvere Maria.

Lei come ha fatto?

In presenza di una parola di Dio, ci sono due attitudini pericolose:

  • quella di rifiuto, del lasciar perdere perché non ci si vede chiaro;
  • l’altra, di capirci tutto, dell’evidenza, della non meraviglia, dello scontato.

 

  San Giovann di Dio con la Madonna

 

Ave Mater fon Amoris

Anzitutto, non si è lasciata indurre a credere immediatamente. Ha riflettuto, si è interrogata, ha messo in questione questa vocazione straordinaria. Ma il solo modo ragionevole è quello assunto da Maria: “Ella non capiva ciò che egli diceva, ma conservava tutte quelle cose e se le ripeteva nel cuore” (Luca 2,51). Tutto avviene nel tempo, col tempo, mettendovi del tempo, perché il discernimento dello Spirito non funziona come il caffè liofilizzato istantaneo.

san-giovanni-di-dio-in-ascolto-new-8-199x300Poi Maria ha consultato le scritture. Tutti i testi di Luca come anche di Matteo, sono citazioni di profeti ed il Magnificat ci dice come Maria vedeva la sua vocazione: nella linea di tutti quei poveri, di tutte quelle fecondità che l’avevano preceduta.

Come si dirà più avanti, si diventa GLOBULI ROSSI non tanto per scelta ma per accettazione di una chiamata dall’alto, nel consenso quotidiano di un destino che oltrepassa la nostra previsione e immaginazione.

Anche san Giovanni di Dio, l’ispiratore della Compagnia, si è trovato coinvolto in un progetto talmente più grande di lui da sembrare folle il progetto e più folle il consenziente.

A chi accetta di inoltrarsi in questa avventura umana e divina è richiesto di muoversi nella logica della fede:

 

  • recettività e riflessione,
  • gioia e timore,
  • senso di Dio e buon senso umano.

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 L’ Annunciazione di Giovanni di Dio

Le grazie di Dio talvolta giungono come tegole sulla testa. Come reagire?

  • Lasciarsi sconvolgere e pregare,
  • leggere e riflettere le Scritture,
  • conservare e ruminare dentro l’anima gli avvenimenti.

E’ il solo modo ragionevole di procedere.

Perché Dio interpella proprio me?

  • Perché mi fa rivivere tutte le angosce dei poveri, dei perseguitati, delle sterili, degli esseri duramente abbandonati da Dio nel quale hanno messo la loro fiducia?
  • Degli innocenti calpestati, accusati, respinti?
  • Dei sofferenti senza via d’uscita, degli angosciati dalla vita?
  • Perché ?

Maria scopre che dietro c’è la fedeltà di Dio, il suo stare ai patti, il suo mantenere le promesse: “Ha accolto Israele , suo servo…la sua misericordia  di generazione in generazione verso coloro che si fidano di Lui”.

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L’angelo in carne ed ossa che Maria ha incontrato è Elisabetta, una donna anziana che aveva sofferto come lei e che l’ha incoraggiata a credere, lei così giovane è già così coinvolta nei destini di Dio. Anche Giovanni di Dio quando riconosce la sua annunciazione canta il Magnifica a modo suo.

 

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Gli altri ridono, prendono le distanze  dall’impazzito. Lui invece vede realizzarsi le promesse di Dio proprio là dove non aveva sperimentato che i suoi tormenti e disagi assieme a quelli di sventurati suoi simili internati e incatenati nel manicomio. I GLOBULI ROSSI accettano di associarsi alle follie di Dio, ai suoi progetti grandiosi. Presi singolarmente, essi sono piccola cosa. Messi insieme, diventano trasportatori di ossigeno nel tessuto umano in preda all’anemia, a rischio di cancrena. La loro determinazione al “servizio trasporto ossigeno” la imparano dalla Mater Hospitalitatis, nel senso del suo Magnificat:

  1. “Cerco nel cuore  le più belle parole per il mio Dio, l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).
  2. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)
  3. “Ha guardato a me che non sono niente: sperate con me, siate felici con me, tutti che mi udite. Cose più grandi di me stanno accadendo. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)
  4. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva,  è Lui che colma di beni, è lui…” “Santo e misericordioso, santo e dolce, con cuore di madre verso tutti, verso chiunque” (Lc 1,50).
  5. “Ha liberato la sua forza, ha imprigionato i progetti dei forti”  (Lc 1,51).
  6. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)
  7. “Ha saziato la fame degli affamati di vita, ha lasciato a se stessi i ricchi: le loro mani sono vuote, i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)

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 Essere GLOBULI ROSSI vuol dire cantare il Magnificat con la vita, ossia portare e trasfondere Vangelo, le gioiose notizie che tutti devono venir a sapere. E sono tante:

  • Che Dio ha attraversato i cieli,
  • Che l’emoglobina, ossia l’amore, scende dal cielo verso la terra e non viceversa,
  • Che Lui ci conosce così bene che sarebbe capace di dirci quanti capelli abbiamo in testa,
  • Che Dio ci scruta uno per uno e si ricorda il nostro nome,
  • Che ci incoraggia a respirare meglio con il Suo respiro,
  • Che a sognare con Lui i sogni si avverano,
  • Che a vivere la Sua vita, non c’è nulla da perdere, anzi!
  • Che Dio è totalmente a disposizione dell’uomo,
  • Che Egli prova più gioia nel dare che nel ricevere.

Se i GLOBULI ROSSI si fanno guidare da Maria percepiscono ciò che Lei per prima ha intuito dalle confidenze dello Spirito:

  • che, rispetto al decalogo della Antica Alleanza, al centro della Tôrah, il nuovo decalogo non è più prescrittivo di comportamenti dell’uomo verso Dio e i fratelli, ma narrativo, descrittivo di un Dio che è per l’uomo.
  • Decalogo che Luca illustra con meticolosità nella parabola del buon samaritano, dove in quella catena di verbi è evidente che il contare di Dio non si ferma a dieci ma sconfina alla grande quando s’impegna con l’uomo che incontra sulla Gerusalemme-Gerico del mondo:

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 Giovanni di Dio si fa Cireneo che porta la croce degl’altri.

Questi sono verbi da memorizzare e sui quali riflettere:

  1. …Invece un uomo della Samaria,

  2. che era in viaggio,
  3. li passò accanto,
  4. lo vide,
  5. ne ebbe compassione.
  6. Gli andò vicino,
  7. versò olio e vino sulle sue ferite
  8. e gliele fasciò.
  9. Poi lo caricò sul suo asino,
  10. lo portò a una locanda
  11. e fece tutto il possibile
  12. per aiutarlo.
  13. Il giorno dopo tirò fuori due monete d’argento,
  14. le diede al padrone dello albergo
  15. e gli disse:
  16. ”Abbi cura di lui
  17. e se spenderai di più
  18. pagherò io quando ritorno .“

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Giovanni di Dio Samaritano 

I GLOBULI ROSSI sottoscrivono “LA PARABOLA” che è per ogni credente, anzi, riguarda ogni uomo che sogni il sogno di Dio: una terra fatta di prossimi. Già vedo la Compagnia dei GLOBULI ROSSI germinare  dal  midollo  osseo  della  Cina….  Donne  e  uomini,  dalle campagne alle città, dagli ospedali alle trascurate periferie, muoversi in direzione delle persone più “anemiche”. Ci confermano che i pionieri o.h. (i Fatebenefratelli) sono già in avanscoperta a trattare  con  le  Autorità  Cinesi. Ma,  per un Paese così sterminato, dovranno seguire consistenti rinforzi,  tutti  ancora  in  incubazione.  E con la Cina, l’Asia, la sterminata Africa…Ma anche i Paesi dell’Est Europeo…La fortuna del pianeta è che tutto il mondo può contare sulla stessa Messa, sulla EUCARISTIA, il Sacramentum Hospitalitatis!

 

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 Giovanni di Dio, soldato, soccorso dalla Vergine

Chi incappa in un’annunciazione, trovi il coraggio di rispondere come Maria:“Fai di me ciò che tu vuoi”.Il dopo si sa a priori come finirà: non potrà che diventare  un Giovanni di Dio contemporaneo con in testa la medesima profezia:”ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47).

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San Giovanni d’Avila l’ispirato consigliere di  San Giovanni di Dio

 

 

ALLA CITTA’ DI MILANO – 7 Dic.2008 – Card. Dionigi Tettamanzi

 Fra Sergio Schiavon oh - Dionigi Tettamanzi

160° video – Solennità di SantAmbrogio anno 2008 – La città rinnovata dal dialogo

 

Fare clic con il pulsante destro del mouse qui per scaricare le immagini. Per motivi di riservatezza, il download automatico dell'immagine da Internet non è stato eseguito. Solennità di SantAmbrogio anno 2008 - La città rinnovata da

 Solennità di SantAmbrogio anno 2…

 

L’UOMO SAPIENTE E GIUSTO

È LUOMO DEL DIALOGO


Il dialogo non è uno tra i tanti atteggiamenti che luomo può assumere e vivere, ma è un fatto fondamentale, costitutivo, oso dire ontologico, della sua umanità. Il dialogo deve essere assunto come atteggiamento stabile nelluomo: non sempreè dote innata, bensì più spesso – è virtù che luomo sapiente sa ricercare e coltivare, anche a prezzo di fatica. Così santAmbrogio scrive delluomo sapiente, commentando il versetto biblico
«Lo stolto muta come la luna» :

«Il sapiente non è abbattuto dal timore, non è mutato dal potere, non è esaltato dalla prosperità, non è sommerso dalla sventura. Dove cè la sapienza, cè la virtù dellanimo, ci sono la costanza e la fermezza. Il sapiente, dunque, è immutabile nellanimo, non è diminuito né accresciuto dal mutar delle cose né vacilla come un bimbo così da essere sballottato da ogni vento di dottrina, ma rimane perfetto in Cristo, fondato nella carità, radicato nella fede. Il sapiente dunque ignora i cedimenti delle cose e non sa essere mutevole danimo, ma risplenderà come il sole di giustizia, che rifulge nel regno di suo Padre» .

Di nuovo, anche questanno, ci guida nelle nostre riflessioni il paradigma delluomo sapiente secondo Cristo, un uomo che in momenti a volte oscuri e critici resta immutabile nellanimo, non viene sballottato da ogni mutevole pensiero o dottrina, ma permane radicato nella sua fede e nella sua carità, segue sempre la bussola della giustizia.

È certamente un ideale forte, questo, in un tempo di ideali deboli e sfocati, ma luomo che vediamo dedito al dialogo non può che essere così, libero e ben saldo nella  sapienza.

Questa non è patrimonio esclusivo dei colti o degli studiosi, ma è per tutti, anche per i poveri, i semplici, gli umili, perché o riconoscono i credenti scaturisce dalla sapienza di Cristo.
Essa ci aiuta a distinguere, a capire in profondità il tempo,a discernere ciò che è bene da ciò che è male, a dare il vero peso alle realtà e alle vicende della vita, a muoversi secondo le ispirazioni che Dio suscita nella coscienza, a confrontarsi con gli altri. Una sapienza che è profondamente alleata con la giustizia, come ci ricorda santAmbrogio nel suo libro sui Doveri:

«Risulta dalla Scrittura divina, più antica dei filosofi,
che la sapienza non può esistere senza la giustizia, perché
dove si trova una si trova anche laltra. Con questa sapienza
Daniele smascherò le menzogne di una falsa accusa per mezzo
di un interrogatorio approfondito, sicché le risposte
dei calunniatori si contraddissero tra loro.

Fu compito della prudenza smascherare i colpevoli con la testimonianza della loro stessa voce, ma fu anche compito della giustizia mandare al supplizio i colpevoli e salvare linnocente» .

E, dunque, la sapienza costruisce percorsi di giustizia, regola la vita sociale, difende linnocente, tutela il più debole. Non è oggi questo uno dei compiti primari della civiltà e delle istituzioni? E di ciascuno di noi, che non si esercita in un amore generico bensì si fa operatore di giustizia e, per ciò stesso, diventa costruttore di pace e di speranza?

Luomo sapiente e giusto sta saldo nel suo cuore, come ancora scrive il nostro patrono:

«State dunque saldi nel vostro cuore, affinché nessuno
vi faccia vacillare, affinché nessuno possa farvi cadere.
In voi non ci sia pigrizia, non ci sia bocca maligna, lingua
piena damarezza.

Non vogliate sedere in unassemblea
di uomini vani.

Non vogliate ascoltare i detrattori del
prossimo, perché, mentre ascoltate gli altri, non siate indotti
a criticare anche voi il prossimo .

Sta ritta invece la vedetta
previdente, la sentinella vigilante, che monta di guardia
allaccampamento. Chi sta ritto, sta attento a non cadere;
chi sta ritto, non sa criticare; infatti le dicerie sono proprie
degli sfaccendati, per opera dei quali si seminano le critiche,
si diffonde la malignità» .

Come non riconoscere in quest’uomo saldo nel suo cuore luomo del dialogo: l’uomo che non accetta le insinuazioni maligne; luomo vigilante, che sta di sentinella perché la sua sapienza non cada, per non divenire iniquo, per amare il suo prossimo?

Cristo stesso si offre a noi come mirabile esempio di uomo in dialogo: con il Padre anzitutto, con le persone del suo tempo, con chi gli era discepolo, con chi lo minacciava, con chi aveva visioni della vita e della storia differenti dalla sua. Un dialogo che in Gesù, pienezza di verità e sapienza incarnata, è appassionato e rispettoso appello alla libertà dellaltro, perché decida sempre per il vero e per il bene.

Canti: Primi Vespri della solennità di SantAmbrogio 

 

 Luomo sapiente e giusto sta saldo nel suo


SPIRITUALITA’ DEI FATEBENEFRATELLI

 

 

Il cammino di ospitalità

 

 

secondo lo stile

 

 

di San Giovanni di Dio

 

 

 

 

 

 

Traduzione di Silvia Farina


 

1. L’opera che “tanto pietosamente iniziò quel benedetto uomo Giovanni di Dio”[1] “attorno all’anno 1538, a Granada, in una povera casa presa in affitto[2] continua a vivere; il suo spirito ed il suo carisma palpitano nel nostro mondo da oltre 465 anni. La sua fecondità e la sua capacità trasformatrice sono tali che uomini e donne di diversi popoli, continenti, razze ed epoche lo riconoscono come “padre spirituale”. Mossi dal suo spirito, questi uomini e donne portano avanti progetti di accoglienza, aiuto, salute e riabilitazione a favore dei più bisognosi[3].

2. Viviamo in un’epoca non solo di cambiamenti, ma in un vero e proprio cambio d’epoca. Le forme di pensare, di agire e di vivere dell’immediato passato sono ormai obsolete ed anacronistiche; vecchi metodi ed istituzioni perdono la loro efficacia. Per questo, l’eredità ricevuta da Giovanni di Dio, oltre ad essere accolta con venerazione, deve essere tradotta in nuove espressioni, vissuta in forme culturali nuove e sentita con nuovo ardore.

1. Il cambio d’epoca

3. Il cambio d’epoca ci riguarda da diverse angolazioni: la globalizzazione e la regionalizzazione, la post-modernità e la sua influenza sulla Chiesa e sull’Ordine.

Ø Globalizzazione e regionalizzazione: Il nostro tempo si distingue per la globalizzazione (creazione di grandi reti mondiali); ma anche per la regionalizzazione (affermazione di valori autoctoni, locali, culturali, peculiari). Entrambi gli sviluppi contengono aspetti positivi, ma anche negativi. Una globalizzazione umanizzante, solidale e non al servizio di una sola parte dell’umanità, offre possibilità inedite per promuovere la comunione tra le nazioni, i diversi gruppi umani e le persone. Una regionalizzazione che non tende alla chiusura e al radicalismo, può apportare al nostro mondo ricchezze e prospettive inimmaginabili sino ad oggi. Anche il nostro carisma si globalizza e si regionalizza continuamente prendendo corpo in diversi luoghi e culture. In un mondo in cui la globalizzazione economica è causa di pesanti discriminazioni e produce innumerevoli vittime, noi sentiamo in modo particolare il dovere di mettere in pratica la chiamata della Chiesa a globalizzare la solidarietà, la compassione e la carità. Nello stesso modo ci sentiamo chiamati a difendere i valori locali e il valore della individualità di ogni persona, in special modo di quelle che sono emarginate dalla società globalizzatrice.

Ø La post-modernità: la cosiddetta ‘postmodernità’ è un’altra caratteristica del cambio d’epoca che stiamo vivendo. Di solito la si descrive come uno “stato mentale” comune, globalizzato, presente in una forma o nell’altra in tutti i popoli della terra. Il pensiero postmoderno ci indica chiaramente che sono finiti i tempi del totalitarismo, dell’assolutismo, delle visioni dogmatiche, del patriarcalismo e che è definitivamente tramontata la visione eurocentrica del mondo, che cercava di spiegare e di controllare tutto. La mentalità postmoderna si trova soprattutto nelle nuove generazioni, anche se ci riguarda tutti, e ci suggerisce di optare per spiegazioni umili e frammentarie della realtà, che è più utile realizzare piccoli passi di trasformazione, invece di pretendere dei cambiamenti totali; che dobbiamo accettare il pluralismo, la diversità ed essere più tolleranti ed ospitali verso i diversi, verso gli altri. In questo contesto, l’ospitalità e la misericordia acquisiscono un significato nuovo e ci pongono di fronte alla sfida di concretizzarle in azioni e strutture adeguate per quest’epoca. La post-modernità pone anche una grande sfida alla nostra spiritualità che, proprio in sintonia con lo spirito postmoderno, deve essere vista più come un cammino che come una legge morale o un’esigenza astratta. La postmodernità ci rende più sensibili alla pluralità delle forme di vita umana e cristiana e, per questo, ci apre alla interdipendenza ed alla comunione. Proprio per questo parliamo di missione condivisa, carisma condiviso, vita condivisa.

Ø Possibilità e minacce: ci attendono nuove e preziose possibilità, ma anche nuove e terribili minacce. Ci troviamo di fronte ad un tempo che non dominiamo, e nel quale dobbiamo trovare nuovi cammini. In ogni caso, le ripercussioni di questo cambio d’epoca riguardano tutto in noi: spirito e corpo, individuo e società, dimensione profana e trascendenza. Le relazioni umane non sono più le stesse di prima. Scopriamo nuovi aspetti nel rapporto tra sesso maschile e sesso femminile che hanno impresso un nuovo stile alle relazioni tra uomo e donna (tanto nella famiglia, quanto nella società). Di fronte all’accumulo di potere economico e politico emergono nuove forme di potere (terrorismo, mafie) che minacciano l’ordine esistente: ne sono coinvolti milioni di esseri umani, che patiscono le conseguenze di questa lotta. La nostra umanità è caratterizzata da una sorprendente mobilità – reale e virtuale – che impedisce ritmi sereni, tappe prevedibili e ci espone ad una forte incertezza. La crescita economica è reale, ma non riesce a impedire il contemporaneo aumento della povertà tra milioni di esseri umani. Sono molti i contrasti e le pressioni che si abbattono sulla psicologia umana, tanto che molte persone non reggono l’impatto, cadono in depressione e, non di rado, impazziscono. Tutti soffriamo oggi come mai prima di una notevole perdita del “senso della vita” e della storia.

 

2. La Chiesa e l’Ordine in questo nuovo contesto

4. Anche la Chiesa è toccata da questo cambio epocale. Non è più la stessa di prima.

Ø Il suo volto oggi è più globale e mondiale. E’ più multiculturale e multirazziale che mai.

Ø Avverte in se stessa tutte le possibilità del nuovo tempo, ma patisce contemporaneamente tutte le minacce e le disgrazie che il cambio d’epoca comporta.

Ø Spronata dalla misericordia, che la costituisce, la madre Chiesa desidera accogliere tutti ed aprirsi – in modo speciale – ai più bisognosi.

Ø Ascolta con nuova attenzione ed atteggiamento creativo le parole del Risorto che la invia come missionaria in tutto il mondo, a tutte le genti per annunziare il Vangelo e rendere presente la Misericordia.

5. In questo contesto, il carisma di Giovanni di Dio riacquista una formidabile attualità che è necessario far risaltare e delineare. L’Ordine ha fatto proprio con audacia e serietà il processo di rinnovamento avviato dal Concilio Vaticano II. Ha riflettuto profondamente sul carisma nel nostro tempo e si è posto nuove sfide e nuove mete. Così ha dato un nuovo volto al carisma di Giovanni di Dio adatto a questo tempo[4]. Non dobbiamo però fermarci; oggi è necessaria quel tipo di fantasia creativa, che ha nelle giovani generazioni i suoi depositari migliori. In queste circostanze storiche, in questo mondo pluricentrico e globale, in questa Chiesa di Chiese particolari e cattolica, l’Ordine deve essere capace di intuire nuove risposte e nuovi cammini nello Spirito. Oltre ai Confratelli, bussano alle porte dell’Ordine anche altre persone che si sentono arricchite dal carisma di Giovanni di Dio. Per questo motivo oggi esiste una nuova apertura verso la “missione condivisa”, la “spiritualità condivisa”, come nuova definizione dell’identità dell’Ordine. Oggi l’Ordine mostra un volto pluralista, interculturale ed interrazziale[5] e si sente chiamato a proporre il cammino spirituale di Giovanni di Dio anche a uomini e donne che non appartengono più solo alle culture occidentali, come succedeva finora.

6. La sfida di aprirci alla ricchezza spirituale di nazioni e culture diverse, senza per questo perdere l’eredità spirituale ricevuta, dà un nuovo respiro al nostro carisma storico, come Ordine. Le giovani generazioni avvertono nel loro intimo un forte bisogno culturale. C’è una frattura culturale tra le generazioni che non deve essere sottovalutato. Solo le persone che si sono mantenute aperte alla realtà, riescono a comprendere ed accompagnare adeguatamente le giovani generazioni nella loro ricerca e nelle loro aspirazioni. Oggi emergono sfide nuove ed inedite; non è più sufficiente accogliere il carisma come eredità ricevuta. Bisogna riconfigurarlo, dargli un nuovo volto, interpretarlo in modo più attuale. Occorre far “ardere il cuore”, non solo ai membri dell’Ordine, ma anche alla società, alla gente, alla Chiesa. Il compito di rifondare la spiritualità sarà un impegno impossibile se non siamo convinti che lo Spirito sta agendo tra noi offrendoci come grazia ciò che tanto appassionatamente stiamo cercando. In cambio lo Spirito esige da noi solo di essere vigili e di saper accogliere e seguire i nuovi cammini che ci si aprono dinanzi.

7. L’obiettivo del presente documento è offrire gli elementi fondamentali della spiritualità dell’Ordine nel nuovo contesto storico e pluralismo etnico-culturale in cui viviamo. Il documento si suddivide in tre parti:

I. La Memoria: le origini carismatiche.

II. Le chiavi evangeliche: Misericordia e Ospitalità.

III. L’itinerario spirituale: una spiritualità ospedaliera per il nostro tempo.

I. La memoria: le origini carismatiche

 

8. Contempliamo ora il cammino spirituale di San Giovanni di Dio. In lui scopriamo il disegno originale e l’icona del nostro “cammino spirituale”.

1. Il Cammino spirituale di San Giovanni di Dio

9. Giovanni di Dio fu un uomo in cammino, un viaggiatore: nella sua vita ci furono tante peregrinazioni e lunghi viaggi. In esse iniziò ad delinearsi l’itinerario del suo viaggio interiore, del suo cammino spirituale. Giovanni di Dio fece della propria vita un cammino che lo portò – a piedi nudi e attraverso un sentiero scosceso[6] – verso la vetta. Paradossalmente, trovò la vetta scendendo negli abissi più profondi della miseria umana. Nella sua vita possiamo distinguere quattro tappe che abbiamo denominato: vuoto, chiamata, trasformazione e identificazione.

a) Vuoto: fare spazio alla grazia – prima tappa -

10. Dopo una serie di insuccessi, Giovanni di Dio sperimentò il vuoto e scoprì la pienezza di Dio: “Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo!”[7]. Non ebbe fortuna nelle sue prime avventure come soldato: cadde da cavallo a terra – come San Paolo -, spaventato e senza nessun aiuto, se non quello che poteva venirgli dal cielo[8]. Non ebbe maggior fortuna come militare, quando un capitano lo condannò a morte per impiccagione, perché aveva perso un bottino che gli era stato dato in custodia; ed anche se l’esecuzione non ebbe luogo, fu espulso dall’accampamento e restò in miseria. Nel suo cammino da Fuenterrabía a Oropesa si lamentava della “cattiva ricompensa che il mondo dà a chi più lo segue”[9]. Dopo nove anni di silenzio, Giovanni si arruolò di nuovo nell’esercito dell’Imperatore per lottare contro i turchi. Al ritorno da Vienna sbarcò a La Coruña. La vicinanza della sua terra natale destò in lui la nostalgia per i suoi genitori, da quali era stato separato all’età di otto anni, ma la sua pena fu grande quando venne a sapere che erano morti entrambi[10]. Si sentì vuoto. Scoprì l’inconsistenza della vita[11]: “Anche nel caso fossimo i padroni di tutto il mondo, non ci accontenteremmo se avessimo molto di più [12]; per questo, si decise a “non confidare in se stesso”[13].

b) La chiamata: al servizio definitivo del Signore Dio – seconda tappa -

11. Lo zio gli offrì di rimanere in quella che era stata la casa dei suoi genitori, ma egli rifiutò con queste parole: “La mia volontà è di non rimanere in questa terra, ma di cercare un luogo dove io possa servire nostro Signore …confido nel mio Signore Gesù Cristo che mi darà la sua grazia perché io possa realmente mettere in pratica il mio desiderio”[14]. E continuò a cercare senza trovare. Tornò a fare il pastore a Siviglia. “Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli avrebbe aperto per servirlo”, se ne andava triste[15]. Alla fine, ruppe definitivamente con la pastorizia. Si recò a Ceuta. Lì, per soccorrere una famiglia i cui componenti erano malati, si mise a lavorare nella “fortificazione di alcune muraglie”; ed ogni notte “consegnava la paga della giornata”[16]. Superò una profonda crisi spirituale con l’aiuto di un frate dotto, che gli disse espressamente di abbandonare quella terra e di tornarsene in Spagna. Giunto a Gibilterra, fece una confessione generale. Giovanni, alle volte tra le lacrime, chiedeva pace, tranquillità e di capire la forma di servizio destinatagli dal Signore: “Date pace e tranquillità a quest’anima”. E la preghiera si convertiva in un’offerta ogni volta più generosa fino a culminare nell’unico desiderio: Voglio “servirvi ed essere per sempre vostro schiavo”.

“Chiedeva sempre a nostro Signore, con tutto il cuore e molte lacrime, che gli aprisse la via in cui doveva servirlo”: “Vi supplico quanto posso, mio Signore, di degnarvi di indicarmi il cammino che devo intraprendere per servirvi”[17].

12. Si procurava il sostentamento realizzando diversi lavori, fino a quando trovò nella vendita di libri, dapprima come ambulante, un’occupazione continua. Desideroso di stabilizzare la propria vita con il nuovo lavoro, con il quale realizzava un apostolato, oltre a guadagnare denaro sufficiente per vivere e per fare opere di carità, decise di “recarsi a Granada ed ivi stabilire la sua dimora”[18]. A Granada sperimentò una certa serenità, dedicandosi alle faccende del suo lavoro, ma continuò a sentire sempre quella voce interiore che chiedeva insistentemente di essere ascoltata. Il giorno della festa di San Sebastiano si recò al Romitorio dei Martiri per udire, mischiato tra gli altri, il sermone del Maestro Giovanni d’Avila[19]. Lì lo attendeva il Signore.

13. Il maestro Avila divenne la sua guida spirituale. Lo colpì in modo particolare il suo commento a Lc 6,17-32 (Beatitudini e beatitudine dei poveri):

“Terminata la predica, uscì di là, come fuori di sé, chiedendo ad alta voce misericordia a Dio…e continuò fino alla sua dimora…prese i libri che aveva e …li dava volentieri gratuitamente al primo che glieli chiedesse per amor di Dio… e tutto il resto che aveva in casa… in poco tempo rimase senza capitale e privo di tutti i beni materiali, perché non si limitò soltanto a questo, ma diede anche gli indumenti che aveva addosso… E così, nudo, scalzo e col capo scoperto, tornò nuovamente a gridare per le strade principali di Granada, volendo, nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[20].

c) Trasformazione: trasformato dalla Parola di Dio – terza tappa -

14. A partire da questo momento, la vocazione di Giovanni di Dio si definisce come un voler, nudo, seguire Gesù Cristo nudo e farsi del tutto povero per colui che si fece povero.

“Essendo stato visto da persone onorate… considerando che quella non era pazzia, come comunemente si giudicava…lo condussero nella dimora del padre Avila…Il padre maestro Avila rendeva molte grazie a nostro Signore, vedendo i grandi segni di contrizione del nuovo penitente…dicendo: “Fratello Giovanni, confortatevi molto in nostro Signore Gesù Cristo e confidate nella sua misericordia, poiché avendo egli incominciato quest’opera, la porterà a compimento…andate in pace con la benedizione del Signore e mia, perché io confido nel Signore che non vi sarà negata la sua misericordia. Giovanni di Dio rimase tanto consolato …che ricuperò di nuovo le forse…per desiderare di essere da tutti preso e stimato pazzo e cattivo e degno di ogni disprezzo e disonore, per meglio servire e piacere a Gesù Cristo, poiché viveva solo sotto il suo sguardo[21].

“Avendolo visto in tale stato due uomini dabbene della città, mossi a compassione…lo condussero all’Ospedale Reale, che è il luogo dove vengono rinchiusi e curati i pazzi della città…e dato che la principale cura che ivi si pratica a questi tali consiste in sferzate e nel contenerli in aspri vincoli, e cose simili, affinché, mediante il dolore e il castigo, perdano feroci…gli legarono i piedi e le mani, e, nudo, con un flagello a doppia corda, gli diedero una buona dose di frustate…”[22]

15. Nell’Ospedale Reale Giovanni trovò la risposta alla sua affannosa ricerca di servire il Signore dove e come Lui desiderava. L’esperienza di sentirsi tra coloro che avevano perso la parte più pregevole della persona, la ragione, e sentirsi con ciò sprofondato nel pozzo più profondo del disprezzo e della commiserazione, gli ricordò il cammino percorso da Cristo per poter riabilitare l’umanità: era necessario incarnarsi nel mondo della miseria umana, patire il disprezzo di coloro che si credono saggi e normali, per ottenere la riabilitazione di quanti percorrono il cammino della malattia, della povertà e della pazzia; era necessario diventare uno di loro per mostrare che anche loro erano persone, figli di Dio come lui… come tutti.

“E vedendo castigare gli infermi, che erano pazzi e stavano insieme con lui, diceva: Gesù Cristo mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonati e privi della ragione, e servirli come desidero io”.[23]

16. Giovanni fu “ferito dall’amore di Gesù Cristo”[24]. E qui ricevette “la grazia che doveva fargli”[25]. Scoprì il cammino che aveva tanto cercato e desiderato, quando si fece solidale con i poveri ed i malati vivendo e patendo la loro stessa condizione.

d) Identificazione: povero come Gesù e come i poveri – quarta tappa -

17. Iniziò a percorrere il suo nuovo e definitivo cammino: raccoglieva legna rivendendola; con ciò che ricavava, si nutriva poco e male per dare il resto ai poveri. La sua casa erano i portici delle piazze e delle strade di Granada, sulle quali condivideva con i diseredati il caldo ed il freddo, le amarezze e le speranze. Decise di farsi mendicante per alleviare la sofferenza e la miseria dei suoi fratelli, dicendo ad alta voce: “Chi fa del bene a se stesso? Fate bene per amor di Dio, fratelli miei in Gesù Cristo!”[26]

18. Vedendo i poveri “buttati giù per quei portici, intirizziti e nudi, piagati ed infermi…vedendone la moltitudine…decise di procurar loro con maggiore impegno il rimedio”[27]. Con l’aiuto di alcune persone pie prese in affitto una casa, la dotò dell’indispensabile ed iniziò a portarvi “i poveri caricandoseli sulle spalle che trovava per la città”[28]. Così Gesù Cristo iniziava a permettergli di mettere in pratica il suo proposito di avere un ospedale, in cui curare i malati come gli comandava il suo cuore.

19. Per Giovanni di Dio l’ospedale è un luogo sacro, la casa di Dio. E’ un ospedale-rifugio, aperto a tutti i poveri abbandonati senza distinzione, perché Dio fa sorgere il sole per tutti, nel quale l’ospite è il “signore” e Giovanni il suo schiavo:

Dato che “la città è grande e molto fredda, particolarmente in questo tempo d’inverno, sono molti i poveri che giungono a questa casa di Dio…vi si ricevono indistintamente (persone affette) da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, dei matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui”.[29]

20. La gente era sbigottita e non comprendeva che “il Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità”[30]. Giovanni cresceva nella contemplazione della “grande misericordia di Dio” facendosi esso stesso misericordia e gratuità: “Soccorreva tutti secondo le loro necessità, e non mandava via nessuno sconsolato”[31]; “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco…e viveva con l’ansia di dare se stesso in mille modi[32]. La gente diceva di lui: “Viveva completamente in Dio per la sua grande carità”[33]; “cercava sempre la carità e di fare l’elemosina”[34]. Trascorreva notti intere chiedendo al Signore “aiuto per le necessità che vedeva, con profondi gemiti e sospiri”[35]. Giovanni di Dio riconosceva che “le buone opere che gli uomini fanno, non sono loro, ma di Dio: a Dio onore, gloria e lode, perché tutto è di Dio. Amen Gesù”[36]. Per questo, “tutto quello che faceva e dava gli sembrava poco”[37], perché viveva immerso nell’immensità della misericordia di Dio, che “era stato tanto magnanimo e munifico con lui”[38]. Per questo, il suo maggior dolore era di non poter porre rimedio a tutte le necessità: ciò gli spezzava il cuore[39], perché “si era in tal modo inebriato del suo amore (del Signore), che non negava nessuna cosa …essendo pietosissimo con tutti”[40]. Giovanni di Dio mangiava “una cipolla cotta o altri alimenti di poco prezzo”, e dormiva “sopra una semplice stuoia sul pavimento, coprendosi con un pezzo di vecchia coperta, in uno stanzino molto angusto sotto una scala”[41]. In uno scantinato, sotto la scala dell’ospedale, Giovanni di Dio vive la stessa povertà dei suoi poveri.

21. Un giorno scopre che può impegnare se stesso, dare se stesso come pegno per poter continuare a porre rimedio a tanto dolore. Non esita un momento, chiede prestiti, si indebita, i debiti si moltiplicano, continua ad indebitarsi, deve “più di duecento ducati”[42], ma la soluzione al problema rimane lontana. Le angustie “ogni giorno aumentano e…sempre più aumentano i debiti e i poveri”[43]. I debiti aumentano così tanto che i creditori gli chiudono le porte: “non vogliono più farmi credito, dovendo molto”[44]. La tenaglia si stringe e lo tormenta: i debiti e le necessità dei tanti poveri da accudire lo chiudono in un vicolo cieco. “Vedendomi tanto indebitato, molte volte non esco di casa a motivo dei debiti che ho”[45].

22. Nella preghiera scopre il senso di tutto: “mi trovo indebitato e prigioniero solo per Gesù Cristo”[46]. Prigione e indebitamento diventeranno per lui una catena perpetua, dalla quale non si libererà né potrà più liberarsi per tutta la vita. Poco prima di morire, lascerà nelle mani dell’Arcivescovo di Granada, Don Pedro Guerrero, il libro dei “debiti che debbo pagare e che ho fatto per amore di Gesù Cristo”[47]. E “poiché sentiva in sé che si avvicinava la sua dipartita, si alzò dal letto e si mise in ginocchio sul pavimento, abbracciando un crocifisso, stette un po’ in silenzio e poi disse: Gesù, Gesù, nelle tue mani mi affido. E, detto questo con voce forte e ben chiara, rese l’anima al suo Creatore”[48].

23. Giovanni di Dio fu provato dalle angustie e dalla sofferenza. Come Gesù, si fece stolto tra gli stolti e venne arricchito, grazie alla sua fedeltà, con il dono della vera saggezza: comprese che la dignità della persona si fonda sulla ricchezza del cuore; come Gesù, scoprì che la lotta contro il male e la sofferenza è un imperativo umano e, come lui, si dedicò a fare del bene a tutti, a incominciare dai gruppi più discriminati: malati di ogni tipo, peccatori, prostitute…a costo di essere disprezzato e calunniato. Come Gesù, contemplò il mondo degli uomini con occhi compassionevoli e misericordiosi e, grazie al suo amore senza limiti, trasmise amore, divenne fratello di tutti e diede inizio ad un cammino di solidarietà ospedaliera. Come Gesù, scese negli abissi più profondi della miseria umana, lasciandosi ricoverare nell’Ospedale Reale. E in questo luogo Dio continuò a parlare a Giovanni, questa volta attraverso i gridi, i lamenti e la disperazione dei suoi fratelli infermi; così Dio rispose all’intensa ricerca di Giovanni e alla sua decisione di voler “nudo, seguire Gesù Cristo nudo, e farsi totalmente povero per colui che, essendo la ricchezza di tutte le creature, si fece povero per mostrare ad esse il cammino dell’umiltà”[49].

Sintesi: Giovanni di Dio seguì un cammino spirituale che lo portò dalla durezza scarna della spogliazione alla pazzia nella quale Gesù Cristo lo contagiò con il suo infinito amore. Forte di questa esperienza scelse di inserirsi nella povertà e nell’emarginazione dei bassi fondi di Granada, sino a giungere, a imitazione del Maestro, ad una identificazione mistica con i più poveri assumendo le loro umiliazioni e sofferenze fino alla morte.

2. Tradizione: trasmissione dello spirito del Fondatore e Padre

a) Padre e fratello nello Spirito: i primi fratelli

24. Il dono di Giovanni di Dio era irradiante. Il suo spirito era contagioso. Il suo amore ai poveri e ai malati animò molti ad unirsi alla sua opera di carità. La maggior parte come benefattori che lo aiutavano con le loro elemosine; altri, desiderosi di lavorare con lui nel servizio ai bisognosi; qualcuno decise di vivere con lui un nuovo stile di seguire ed imitare Gesù. Con questi ultimi costituì una comunità di fratelli. Non reputò necessario dare loro delle norme di vita oltre al proprio modo di vivere.

26. Per esperienza personale sapeva che servire Gesù Cristo nei suoi poveri supponeva realizzare un cammino per niente facile. A chi voleva vivere con lui e come lui, rammentava questo fatto con parole semplici, ma decise. Era necessario essere disposti a svuotarsi di se stesso, a “lasciare la pelle e il resto”[50], a superare dubbi e incertezze ed un andamento di vita “come barca senza remo, come una pietra vagante[51]; invitava ad essere consapevole delle proprie debolezze e fragilità, per non lasciarsi trasportare da entusiasmi repentini, tenendo conto che nel futuro avrebbe dovuto essere “assuefatto a fatiche e all’alternarsi di giornate assai nere o molto buone”[52], per cui sarebbe stato opportuno prendersi del tempo per discernere la chiamata, raccomandandosi “molto a nostro Signore Gesù Cristo”[53] e percorrere il cammino dell’ascesi personale: “soffrire vita dura, fame e sete e ignominie e stanchezze, e angustie e affanni e contrarietà…tutto si deve patire per Dio, perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio”[54]. Esortava a vivere in relazione con Dio e ad accostarsi frequentemente ai sacramenti: “tutti i giorni della vostra vita guardate a Dio, assistete sempre all’intera Messa, confessatevi frequentemente, se sarà possibile”[55]. In definitiva, chiunque volesse unirsi al suo stile di vita, doveva intraprendere un processo di conoscenza e di intimità con Gesù Cristo, che lo avrebbe motivato all’imitazione della sua dedizione nell’amore a Dio ed al prossimo; Giovanni di Dio non si adegua alle mediocrità; propone di raggiungere il grado più alto dell’amore: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il bene: così dovete fare voi …quando verrete alla casa di Dio, sappiate conoscere il male e il bene”[56]; non nasconde neanche le difficoltà e le esigenze: “se venite qui, dovete obbedire molto e lavorare molto più di quanto abbiate lavorato…e non poltrire, perché al figlio più amato si affidano le maggiori fatiche…e tutto nelle cose di Dio e perdere il sonno nella cura dei poveri; perché se venite qui, dovete soffrire tutto questo per amore di Dio; e di tutto dovete rendere molte grazie a Dio per il bene e per il male”[57]. Come criterio finale, che dà senso a tutto il resto, propone di aspirare a basare e a centrare la propria vita nell’esperienza di vita che animava tutto il suo amare ed il suo operare: “Amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per molto che lo amiate, molto più Lui ama voi; abbiate sempre carità, perché dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo”[58].

27. Desiderava dei fratelli che avessero sperimentato profondamente la misericordia di Dio[59]; in questo modo avrebbero vissuto impregnati d’amore sin nel profondo, disponibili al servizio in ogni dettaglio, fedeli, comprensivi, capaci al perdono e alla riconciliazione ed uniti tra di loro. Con il suo modo di essere e di porsi di fronte alla vita, trasmetteva loro una sicurezza incrollabile nella sua fede e nel carisma ricevuto. Molto presto, i cittadini di Granada vedono che “..i fratelli vanno per le strade cercando i poveri e li portano all’ospedale in braccio o sulle spalle, e li curano con grande carità…E’ cosa pubblica che i fratelli, incontrando i poveri per le strade, se li caricano sulle spalle e li portano all’ospedale[60]. Era nato nella Chiesa l’Ordine dei Fratelli di Giovanni di Dio.

b) Lo spirito ospedaliero ereditato

28. I primi compagni[61] di Giovanni di Dio condivisero il suo spirito ospedaliero e lo diffusero. Antón Martín fu come una prosecuzione di Giovanni di Dio; fondò e diresse l’Ospedale di Nostra Signora dell’Amore di Dio, a Madrid, al quale alla sua morte, fu dato il suo nome[62]; Pedro Velasco, trasformato dalla grazia come Antón Martín, che prima era suo nemico e del quale desiderava l’uccisione, si unì al Santo imitando la sua vita, e morì nell’Ospedale di San Giovanni di Dio di Granada. Entrambi furono toccati dalla misericordia di Dio grazie alla testimonianza misericordiosa di Giovanni e sono prove eloquenti di riconciliazione e fraternità ospedaliera. Gli altri compagni sono ricordati da testimoni come ospedalieri, molto vicini ai poveri e ai malati che assistevano; riconoscevano che Giovanni di Dio fu il loro iniziatore[63] e lo imitavano nella sua ospitalità senza frontiere[64]. Vent’anni dopo la sua morte, lo spirito ospedaliero continuava a vivere con grande forza.

29. Questo spirito è rimasto vivo lungo tutta la storia dell’Ordine. Annoveriamo, anzitutto, coloro che la Chiesa ha proclamato Santi, Beati e Venerabili: San Giovanni Grande, San Riccardo Pampuri, San Benedetto Menni; numerosi Beati Martiri; altri confratelli la cui causa di beatificazione è ancora in corso (Francisco Camacho, José Olallo Valdés, Eustachio Kugler, William Gagnon); e tanti altri che nella storia dell’Ordine hanno sopportato il martirio e la persecuzione per Cristo e per l’ospitalità in Brasile, Colombia, Cile, Polonia, Filippine, Francia, Spagna e, recentemente, in altri paesi.

30. La spiritualità si è trasmessa anche attraverso i fondatori ed i rifondatori di comunità ed opere dell’Ordine: sono i confratelli Pietro Soriano (Italia); Giovanni Bonelli (Francia); Gabriele Ferrara e Giovanni Battista Cassinetti (Austria/Germania/Europa Centrale), Francisco Hernández (America). In tempi più recenti si ricordano Paul de Magallon (Francia), Eberhard Hacke e Magnobon Markmiller (Germania), Giovanni Maria Alfieri (Italia) e San Benedetto Menni (Spagna, Portogallo e Messico). Lo spirito ospedaliero si è manifestato anche in diversi collaboratori che hanno partecipato alla missione ed allo spirito carismatico.

31. I valori spirituali che hanno animato questa lunga storia, a partire dall’esperienza originaria di Giovanni di Dio, sono i seguenti :

Ø Esperienza profonda della “grazia” e della “misericordia” di Dio, che porta a riconoscersi peccatori bisognosi di perdono e ad accogliere il dono dell’ospitalità concesso da Dio con tanta generosità a Giovanni di Dio e ai suoi[65]. Giovanni di Dio sperimentò l’infinito amore misericordioso del Padre e si sentì spinto a vivere misericordiosamente, soprattutto dalla contemplazione della Passione e morte di Gesù Cristo. Lo espresse in modo semplice e profondo in queste parole alla Duchessa di Sessa: Se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo;…diamo per suo amore ai poveri quello che Lui stesso ci dà […] E ci prega con le braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati e di avere la carità prima verso le nostre anime, poi verso il prossimo (1 D.S., 13). Quando invitava a contemplare la Passione del Signore, lo faceva per esortare alla preghiera di ringraziamento e di contemplazione, a ravvivare la speranza in Gesù Cristo, nel quale trovare consolazione e coraggio nelle difficoltà e nelle sofferenze, e a fare il bene ai poveri e ai bisognosi. (Cf. 3 DS. 8.9; 2 DS. 9.19). Da Giovanni di Dio, la Passione di Cristo continua ad avere un posto privilegiato nel nostro cammino spirituale.[66]

Ø Sequela di Gesù compassionevole e misericordioso[67]: scopriamo in Gesù l’incarnazione e l’espressione umana del Dio-Misericordia, origine della nostra ospitalità (Cost. 20); lo seguiamo ed imitiamo nei suoi gesti ed atteggiamenti (Cost. 2c; 3a); lo riconosciamo nella persona e nel volto del malato e del bisognoso, accogliendolo e prestandogli aiuto amorevole.

Ø Devozione alla Vergine Maria come esempio vivo e sublime dell’ospitalità: nel suo modo di accogliere, servire, di intercedere, di stare in modo compassionevole al fianco di chi soffre [68].

Ø Esperienza armonica ed integrale dell’amore a Dio ed al prossimo bisognoso[69].

Ø Solidità spirituale di fronte agli ostacoli: l’esperienza della grazia è tale che non esiste difficoltà né sofferenza che possano interrompere ciò che facciamo per i poveri, malati e bisognosi.

Ø Ospitalità irradiante: come Giovanni di Dio, anche i suoi seguaci hanno ricevuto la grazia di un’ospitalità irradiante e vigorosa che invitava gli altri a partecipare a nuovi progetti ospedalieri e ad entrare in comunione di carisma e spiritualità con essi. L’irradiazione carismatica era accompagnata da un’attenta formazione dei collaboratori nello spirito di Giovanni di Dio.

Ø L’attenzione alla persona del malato e del bisognoso come contributo dell’Ordine all’unica missione della Chiesa[70].

Ø Professionalità: la tradizione ospedaliera dell’Ordine testimonia l’impegno a unire la missione ospedaliera con la tecnica, la scienza e l’aggiornamento dei mezzi, secondo i problemi e le possibilità che ogni epoca presenta.

Ø Spirito di dedizione fino alla morte: è una costante in tanti seguaci di Giovanni di Dio la disponibilità a donarsi senza riserve, sino al sacrificio della propria vita a favore dei malati e dei bisognosi. Lo dimostrano i fatti eroici che costellano la storia dell’Ordine in luoghi e tempi diversi: durante le epidemie, le guerre, i pericoli…

Ø Inculturazione tra i poveri, o umiltà ospedaliera: è la continenza o la “kénosis” ospedaliera, che portava i Confratelli a rinunciare alla vita confortevole e a qualsiasi tipo di grandezza, adattandosi allo stile di vita umile dei poveri e dei malati.

3. L’ “oggi” del carisma di Giovanni di Dio: missione condivisa e inculturazione

32. Giovanni di Dio condivise il dono che aveva ricevuto, con tutte le persone che si sentirono contagiate dal suo modo di vivere il cristianesimo ed il suo amore ai bisognosi: gente semplice che si univa a lui nel servizio, benefattori anonimi e personaggi appartenenti alla nobiltà che lo sostenevano con i loro beni, presbiteri che collaboravano con lui nell’assistenza spirituale di coloro che vivevano nell’ospedale e molti altri: volontari, medici e gente di servizio che assieme a lui ed ai confratelli si occupavano dei malati.

33. Il dono dell’ospitalità, secondo lo stile di Giovanni di Dio, è andato irradiandosi costantemente, giungendo anche a persone non sempre animate dai valori della fede cristiana. Il carisma trasmesso si è manifestato in un’ammirevole creatività traducendosi in una serie di opere adattate a tempi e luoghi diversi. Siamo sempre più consapevoli che il carisma dell’ospitalità secondo lo stile di Giovanni di Dio trascende l’ambito dei Confratelli che hanno professato nell’Ordine. Si sta imponendo sempre più una nuova visione dell’Ordine come “famiglia”, forte della quale accogliamo – come dono dello Spirito nel nostro tempo – la possibilità di condividere il carisma, la spiritualità e la missione[71]. Questa realtà che si è andata affermando lentamente nell’Ordine, è una sfida che esige da noi di vivere “così compenetrati con la nostra missione, che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo”[72], non solo perché le opere apostoliche dell’Ordine, soprattutto nei paesi industrializzati, sono diventate enormemente complesse, ma per ché ci sentiamo spinti dall’imperativo evangelico di condividere con gioia e gratuitamente ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto dal Signore, per il bene della comunità ecclesiale e l’annuncio del vangelo della misericordia. 

34. I confratelli missionari – nel realizzare la missione “ad gentes”- hanno reso possibile che il carisma di Giovanni di Dio si estendesse in modo considerevole e si inculturasse; ora si sta verificando il passaggio dall’inculturazione alla incarnazione del carisma e della missione dell’Ordine attraverso i confratelli autoctoni. Ciò significa che è necessario superare le forme di vivere la consacrazione nell’ospitalità secondo lo stile delle nazioni di provenienza dei missionari, per promuovere lo stile e le forme di viverlo di ogni cultura, conservando l’elemento genuino e perenne del carisma. Le esigenze sono ancora più significative nell’apostolato nel quale si deve passare progressivamente da uno stile di organizzazione dell’assistenza di stampo da primo mondo a forme attuative dell’ospitalità che siano adatti alla rispettiva realtà e che si incarnino nell’ambito socio-ecclesiale, senza rinunciare al valore chiave della tradizione dell’Ordine di promuovere un’assistenza degna fondata sui progressi della scienza e della tecnica e realizzata da confratelli e collaboratori ben qualificati.

35. In questo modo il carisma di Giovanni di Dio si arriccherà da una parte con i valori di ogni cultura, mentre dall’altra l’Ordine continuerà ad essere coscienza critica nei luoghi in cui l’assistenza sanitaria e sociale è carente, e promuoverà un sano sviluppo delle strutture sanitarie e assistenziali alle quali possano accedere tutti, in special modo le persone più sfavorite. 

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II. Il Fondamento: Misericordia e Ospitalita’

come categorie basilari

36. L’Ordine ha articolato il carisma di Giovanni di Dio in due parole che sono strettamente legate tra loro: “misericordia” e “ospitalità” [73], che ritroviamo anche nella Parola di Dio; anche nel nostro tempo, sono due termini che ci parlano di valori umani molto ben accettati in tutte le culture. Presentiamo di seguito alcune brevi riflessioni su ognuna di esse, come perno attorno al quale ruota la spiritualità peculiare dell’Ordine. Perciò, parleremo:

Ø in primo luogo, della misericordia, come categoria biblica ed antropologica;

Ø in secondo luogo, rifletteremo sull’ospitalità in senso biblico ed antropologico;

Ø in entrambi i punti metteremo in luce la risonanza peculiare che questi temi hanno trovato nel carisma dell’Ordine, tenendo conto in modo particolare delle Costituzioni attuali.

1. Premessa: misericordia e ospitalità, colpa e violenza

37. La misericordia è, anzitutto, capacità di comprensione, di compassione, di perdono, di essere agenti di riconciliazione, capacità che si rivela soprattutto nel modo in cui si reagisce di fronte alla colpa, di fronte al peccato. Noi esseri umani possiamo agire fedeli al progetto di Dio o, viceversa, abbiamo la possibilità di violare la sua volontà, le norme umane, i patti che abbiamo stipulato. Vivere privilegiando l’essere, con atteggiamenti positivi, crea armonia, promuove lo sviluppo della propria persona e favorisce ambienti di serenità e di solidarietà. Viceversa, la trasgressione si ripercuote sulla nostra psicologia turbandola o squilibrandola; la conseguenza è che ci sentiamo colpevoli, sviluppiamo un senso di colpa che condiziona tutte le dimensioni della nostra vita. Quando

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a Dio, parliamo di peccato,

Ø uno si sa e si sente colpevole di fronte a se e di fronte agli altri, parliamo di colpa “morale” o “etica”,

Ø si attua una violazione di unna norma fondamentale nel nostro sistema di valori, affiora in noi la coscienza di colpa, emergono i sensi di colpa.

38. Per questo, non bisogna negare la colpa, ma neppure favorire complessi di colpa che ingrandiscono e deformano la realtà. Perdonare – saper perdonare e sapersi perdonato – rappresenta il superamento più radicale della colpa, del peccato.

39. L’ospitalità è, anzitutto, la capacità umana di aprirsi ed accogliere l’altro; in secondo luogo è la capacità di reagire in un determinato modo di fronte alla violenza. La violenza c’è laddove esiste l’antagonismo tra di noi e non siamo capaci di vivere in pace, di incontrarci come persone. La violenza interiore ci fa preferire il conflitto, la lotta, la distruzione. La violenza fa scattare in noi le molle peggiori (i peccati radicali) e stimola la nostra aggressività. La violenza originale non ha le sue radici nella guerra di tutti contro tutti, ma nell’ostilità di una comunità umana – famiglia, villaggio, nazione, religione, entità culturale – verso gli estranei e gli stranieri. Quando la violenza dello spirito si erige a legge universale, reclama per se il monopolio della civilizzazione e combatte la diversità umana. C’è violenza laddove viene negato il diverso.

40. La violenza religiosa afferma “Dio è con noi!” e nega la presenza di Dio in chi è diverso. Chi crede che Dio sia soltanto con lui, non deve niente a nessuno. Ciò dà luogo all’egoismo sacro: “Affinché possa esistere io, è necessario che l’altro non esista”. Per questo, la violenza sacra è fondamentalista ed omicida verso gli altri; ma è anche distruttiva per coloro che la praticano. Solo l’accoglienza dell’altro, del diverso, l’ospitalità – la filoxenia e non la xenofobia! – si oppone alla violenza.

2. La Misericordia

a) Il Dio della Misericordia

41. La caratteristica suprema di Dio, secondo l’Antico Testamento, è la misericordia e non la violenza[74]. La misericordia supera infinitamente l’ira: “in un impeto di collera ti ho nascosto per un poco il mio volto; ma con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). Il testo paradigmatico che esprime la misericordia, come identità di Dio, è Es 34,6-7:

“Il Signore passò davanti a lui proclamando: “il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa de padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione”…

42. Qui Dio viene definito come “rahum”, colui che ha un amore sviscerato, materno, profondo, un amore di cuore. Questo amore misericordioso è totalmente gratuito, non è una risposta ai meriti, ma un’esigenza del cuore. Misericordia è, perciò, bontà, tenerezza, pazienza, comprensione, disponibilità a perdonare malgrado l’infedeltà.

43. La misericordia di Dio si manifesta sempre in contesti in cui è stata violata l’Alleanza. Il popolo, cosciente della propria infedeltà, allora ricorreva alla misericordia di Dio. Le trasgressioni all’Alleanza suscitavano l’ira e la collera di Dio; ma con i profeti (Ezechiele e Deutero-Isaia), le minacce si convertirono in annunci di consolazione e manifestazioni di misericordia, in vangelo (il lieto annunzio) per i poveri (Is 40; 61).

b) L’incarnazione della Misericordia

44. Il testo di Fil 2,6-11 ci dice che Dio “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Il Dio onnipotente rinunciò al potere: “sto in mezzo a voi come colui che serve”. (Lc 22, 27; cf. Mt 22, 25-28) Il Dio onnipotente non distrugge meccanicamente il male e la morte, ma li assume su di se. Per questo, di fronte alla sofferenza degli innocenti, o agli episodi assurdi della vita, il nostro Dio si mostra come debolezza invincibile. E proprio perché Dio si manifesta come debole, soffre con l’essere umano. La sofferenza è il pane che Dio condivide con noi. La misericordia divina è la penitenza di Dio, la debolezza di Dio. La debolezza di Dio corrisponde alla debolezza dell’essere umano. Il nostro Dio si presenta sempre come protagonista del perdono. Ed è proprio perdonando e praticando la misericordia, che il nostro Dio si rivela come tale all’uomo.

45. Il nuovo testamento presenta Gesù come uomo del perdono, come il grande terapeuta del perdono. In Lui si prende corpo tutta la misericordia di Dio. In un ambito tanto peculiare com’è quello del perdono (cfr. Mc 2, 7; Lc 15), Gesù fa le veci del Padre. Gesù si preoccupa delle persone nella loro totalità, entra nel loro intimo, nel loro cuore, senza però fermarsi all’anima, alla psiche, ma curando anche il corpo. “La terapia che Gesù somministrava, era lui stesso” (Hanna Wolff). Perdonando Gesù mette in moto nel perdonato un processo di recupero integrale. In Gesù si rivela la misericordia, non la violenza. L’incarnazione è l’abbassamento di Dio verso l’uomo (kénosis di Dio). E’ il segnale che Dio non è violento. Ama la debolezza e si fa debole. Gesù non appare con il carattere assoluto di una persona sacra, ma come uno “simile agli uomini” (Fil 2, 7), come uno di questo mondo. Gesù si fa prossimo di tutti, senza eccezione. Ama tutti, perché è l’icona di Dio, e Dio è Amore (1Gv 4, 7). Rifiuta senza riserve ogni tipo di violenza. Gesù presenta suo Padre (Abbá) non come padrone, ma come amico; non come dominatore, ma come servitore; afferma che le cose essenziali non sono rivelate ai sapienti, ma ai piccoli (Mt 11, 25; Lc 10, 21). Il filo conduttore della storia, iniziata da Gesù, è la riduzione delle strutture forti, la rinuncia alla violenza e all’efficientismo; per questo, raccomanda tanto il perdono ed invita a perdonare sempre di nuovo, fino a settanta volte sette! (Mt 18, 22). Gesù si manifesta così come il grande educatore che conduce a fonti tranquille ed insegna come superare la violenza – sacra o sociale che sia.

46. L’inno che apre la lettera agli Efesini enfatizza la magnificenza di Dio che, in Gesù ed attraverso di lui, ci concede il perdono dei peccati. Se la gratuità costituisce uno dei tratti sorprendenti di Dio, la misericordia in particolare ce lo rende più vicino ed accessibile. Il nostro Dio non solo dona gratuitamente, ma, nel perdonare, si dona come misericordia. Avere misericordia è un elemento peculiare di Dio. Dio sviluppa la sua presenza tra gli uomini perdonando. “chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?” (Lc 5,21; Mc 2,7). Gesù assume il protagonismo riservato a Dio. L’incarnazione del Figlio di Dio è stata la manifestazione suprema della Misericordia. L’Abbá è il “padre misericordioso e Dio di ogni consolazione” (2 Cor 1,3), è il “Dio ricco di misericordia” (Ef ,2,4).

47. L’identificazione di Gesù, non solo con l’uomo, ma specialmente con l’uomo che ha fame e sete, con i forestieri, i carcerati e tutti i bisognosi (Mt 25,34-45), ci mostra fino a dove arriva la misericordia che egli incarna. Gesù stesso è – come quelli con i quali si identifica – vittima della violenza. Egli non trova misericordia, tanto che sulla croce si domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27, 45). Ma il Figlio fu ascoltato e la sua preghiera sbocciò nella Risurrezione. Risuscitò dalle viscere di Abbá: Tu sei mio Figlio, e io oggi ti ho generato (Cfr. Sal 2, 7; Heb 1, 5). Nacque per la vita eterna dalle viscere misericordiose di Abbá.

c) La misericordia nel carisma dell’Ordine

48. La “misericordia” è l’asse del carisma e della spiritualità di Giovanni di Dio[75] e del suo Ordine[76]. E noi vogliamo essere nella Chiesa un’icona vivente e collettiva della Misericordia.

Ø Punto di partenza: riconosciamo che siamo misericordiosi nella misura in cui sia Giovanni di Dio sia ciascuno di noi è stato toccato dalla Misericordia di Dio e l’ha sperimentata nella propria vita: “se considerassimo quanto è grande la misericordia di Dio, non cesseremmo mai di fare il bene mentre possiamo farlo”[77]. Ci sentiamo destinati e consacrati ad essere misericordiosi. Desideriamo “ amare Gesù al di sopra di tutte le cose del mondo e per amore suo e bontà vogliamo fare il bene e la carità ai poveri e ai bisognosi”; vogliamo imitare nostra Signora la Vergine Maria “sempre intatta” nel suo amore materno (Cost. 4b.c).

Ø Il nostro obiettivo spirituale consiste nell’ “incarnare con sempre maggiore profondità i sentimenti di Cristo verso l’uomo ammalato e bisognoso e manifestarli con gesti di misericordia”; “farci deboli con il debole”; essere per lui segno ed annuncio dell’arrivo del Regno di Dio (Cost. 3). La nostra risposta vocazionale ci porta a coltivare in noi un amore ogni volta più intenso verso i poveri, i bisognosi ed i peccatori.

Ø Lo stile che ci caratterizza sin dalle origini, si esprime nelle seguenti virtù: “servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione; partecipazione alle sue angosce e alle sue speranze” (Cost. 3b).

3. L’Ospitalità

49. L’Ordine ha espresso tradizionalmente il carisma ricevuto con la parola “ospitalità”. Questo termine, non solo non ha perso la sua forza espressiva nel nostro tempo, ma è stato proposto da alcuni come categoria fondamentale di una nuova etica per il nostro tempo[78]. E’ importante perciò riflettere su di essa, come perno intorno al quale gira la spiritualità peculiare dell’Ordine.

a) Cos’è l’ospitalità

50. L’ospitalità ci parla delle relazioni che si stabiliscono tra un ospite e la persona che lo accoglie (l’anfitrione). In queste relazioni ci sono degli obblighi e delle responsabilità. L’ospite e l’anfitrione si trovano in una relazione reciproca: non esiste l’uno senza l’altro. L’ospite è un assente che in qualsiasi momento può farsi presente e rivendicare il suo diritto di ospitalità. Laddove vige l’ospitalità, l’assente ha dei diritti nei confronti dell’anfitrione (essere accolto) e l’anfitrione, anche se non costituito in quanto tale, ha dei doveri nei confronti dell’ospite che bussa alla sua porta (accoglierlo),

51. Perché gli esseri umani sono ospitali? Non è facile sapere il motivo; ad ogni modo, la relazione dell’ospitalità non è meccanica, giacché l’ospite può andar via o l’anfitrione può ritirare la sua offerta di accoglienza; ma neanche arbitraria, dato che l’anfitrione si sente moralmente obbligato a ricevere un ospite, anche se inopportuno.

52. La caratteristica fondamentale dell’ospitalità è l’accoglienza ed il riconoscimento dell’ospite da parte dell’anfitrione; ma questo riconoscimento e questa accoglienza hanno delle caratteristiche speciali:

Ø L’ospitalità è virtualmente universale. L’ospite può essere qualsiasi persona; riconoscerla come ospite presuppone un passaggio molto importante verso il riconoscimento di tutti gli esseri umani come ospiti virtuali. Qualsiasi persona al mondo è un ospite virtuale, o un anfitrione virtuale. In molte culture è proibito chiedere all’ospite da dove proviene o il suo nome, come se fosse una rappresentazione simbolica dell’assente. La tutela dell’anonimato dell’ospite è il segnale che in lui vediamo qualsiasi persona del mondo. I nostri doveri verso i visitatori che ci vengono a trovare sono molto concreti. Mostrare un certo disinteresse a conoscerne il nome, la provenienza o l’origine, non significa disprezzo, ma propensione ad un’ospitalità aperta a tutto il mondo.

Ø L’ospitalità è indice di un alto senso della moralità e della politica. L’ospite non solo viene ricevuto in quanto determinato individuo, ma anche come ambasciatore sostituibile, come rappresentante di altri poiché gli esseri umani formano gruppi, comunità, società, nazioni; ogni individuo è inserito in un gruppo. L’ospitalità ci mette di fronte, perciò, a qualcosa che ha un notevole significato etico e politico: l’accoglienza del forestiero, dell’altro, di colui che non fa parte “dei miei”. L’ospitalità è il riconoscimento dei “diversi”: accettiamo che l’ospite sia diverso da noi e gli diamo la libertà di esserlo.

Ø L’ospitalità è virtualmente sacra. In non poche popolazioni si incontra la convinzione che questo “altro” che è l’ospite, è rivestito di mistero. Una certa sacralità lo avvolge. L’ospite potrebbe essere un dio. Che gli dei vengano come ospiti tra gli uomini è un tema frequente nella mitologia greca, nella Bibbia e nella tradizione di molte culture diverse. Si diceva che gli dei assumessero frequentemente forme irriconoscibili e chiedessero aiuto agli umani. La lettera agli Ebrei dice che alcuni avevano ospitato degli angeli senza saperlo (Eb 13,2). In questo modo si sanziona da un punto di vista religioso il diritto di ospitalità: con i forestieri bisogna comportarsi come se si trattasse della visita di un Dio. La figura dell’ospite è connotata da una certa ambiguità, che la presenta come un luogo incerto, in cui viene messo in gioco qualcosa d’importante per noi. E’ un luogo di paura e di desiderio allo stesso tempo. L’ospite si tramuta in simbolo di mediazione tra due sfere distinte. Nel ricevere l’ospite ha luogo un incontro tra esseri di ordini distinti: il divino, il lontano, l’illimitato ed inconcepibile, viene accolto in un ambito umano. Quest’incontro ha, in alcune occasioni, il carattere di un’irruzione violenta che distrugge l’ordine stabilito e spezza l’equilibrio dello spazio familiare; in ogni caso, risulta sempre come qualcosa di imponderabile e sconcertante.

Ø L’ospitalità è un avvenimento. E’ imprevedibile ed incontrollabile. Non sappiamo quando avverrà, né con chi. L’anfitrione è sempre preparato perché l’ospite può arrivare nel momento più inaspettato.

Ø Ogni incontro di ospitalità è unico e richiede sempre l’attenzione per una persona concreta; dev’essere realizzato ed interpretato secondo le caratteristiche delle persone che esercitano le funzioni di ospite o di anfitrione. I doveri dell’ospite e dell’anfitrione sono generali, ma vengono esercitati nell’ambito di un orizzonte determinato e finito. Uno può essere disposto ad adempiere agli obblighi che impone l’attenzione a qualsiasi essere umano, indipendentemente dalle sue peculiarità, in virtù della sua appartenenza al genere umano, ma queste esigenze si fanno presenti sempre in una persona umana particolare. Un anfitrione che sta aspettando l’ospite universale, l’unico che secondo lui che merita veramente attenzione – respingendo nel contempo tutti i viandanti che bussano alla sua porta perché nessuno di loro realizza appieno la condizione umana – nega l’evento dell’ospitalità.

b) L’ospitalità nella Rivelazione

53. La rivelazione giudaico-cristiana è particolarmente sensibile all’evento dell’ospitalità[79]. Inizia narrando come Dio accolse l’uomo nel suo giardino: si adoperò per il suo ospite (“fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare”), gli offrì cibo e vestiti (“Fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì” – Gen 2,8-9; 3,21). La rivelazione conclude narrando come Dio chiede ospitalità all’uomo: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).

54. L’ospitalità rese gli uomini ospiti di Dio, e Dio ospite degli esseri umani e questi ultimi ospiti tra di loro. Adamo ed Eva furono ospiti di Dio nel giardino dell’Eden. Abramo, e dopo il popolo che era in Egitto, furono condotti alla terra dove sgorgano latte e miele, e lì furono ospiti di Dio: “la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti” (Lev 25,23; cfr. Sal 23,5; 27,10). Dio fu ospite di Abramo ed abitò sotto la tenda alle Querce di Mamre; poi fu ospite del popolo che camminava nel deserto dimorando nella tenda del convegno. Alla fine accettò di rimanere nella casa del Tempio: “la gloria del Signore riempiva il tempio” (1 Re 8,10-11). L’ospitalità aprì gli occhi agli uomini, affinché si vedessero e si riconoscessero come ospiti tra di loro. Abramo e Mosé si sentivano forestieri in terra straniera. Così anche il popolo in Egitto. Compresero che l’ospitalità è una componente connaturata dell’uomo.

55. Ospitalità è l’accoglienza di ciascun essere umano nel seno materno. Ospitalità ricevuta e donata in tende, case, città o paesi. L’ospitalità non era intesa come una semplice accoglienza dell’ospite; implicava la sua “inclusione” nel proprio raggio di di interessi, difendendolo contro i nemici, proteggendolo, rispettandolo profondamente a livello esistenziale, prendendosi cura di lui in tutte le eventuali necessità.

56. Icone dell’ospitalità nell’Antico Testamento furono: Abramo che accoglie i tre uomini, la vedova di Sarepta ed Elia nell’ospitalità reciproca, la prostituta di Jerico, Rahab, che accoglie gli inviati di Giosuè, l’anziano che accoglie il levita e sua moglie (Gdc 19), Tobia, l’arcangelo Raffaele, Rut.

57. Il Nuovo Testamento è la grande esplosione dell’ospitalità portata al culmine. Gesù è il sacramento del Dio che ci accoglie, che ci serve e ci cura, che ristabilisce la nostra dignità e la nostra salute, che si identifica con noi, che ci lava i piedi e muore per noi. Varrebbe la pena – ad esempio – contemplare la figura di Gesù nel vangelo di Luca, come un autentico cammino di ospitalità. Anche Gesù riceve l’ospitalità uomo: l’ospitalità di Maria nel suo grembo, di alcuni farisei, di Marta e Maria, di Zaccheo, ecc. La spiritualità cristiana attribuisce un valore talmente alto all’ospitalità che riconosce la presenza di Gesù anche e soprattuto nei poveri, nei carcerati, nei malati, in tutti quegli esseri umani che hanno bisogno della nostra solidarietà, del nostro amore, del nostro servizio.

58. La grande parabola cristiana dell’ospitalità è la parabola del buon Samaritano. Alla domanda del dottore della legge: chi è il mio prossimo?, Gesù risponde narrando la parabola. Si potrebbe supporre che il prossimo fosse colui che era caduto nelle mani dei banditi, la persona bisognosa. Ma Gesù stravolge la domanda del dottore della legge e chiede: chi dei tre ti sembra sia stato il prossimo? (Lc 10,36). Ciò che è importante per Gesù non è che esista il prossimo, o che ci siano persone che vedano le necessità degli altri, ma che si può acquisire lo status di prossimo esercitando la misericordia verso i bisognosi. Per questo, il dottore della legge non deve preoccuparsi di cercare persone che si trovino nel bisogno, ma deve farsi prossimo e esercitare la misericordia come il Samaritano. Nella parabola si fondono ospitalità e misericordia.

 

c) L’ospitalità nel nostro Padre San Giovanni di Dio

59. Giovanni di Dio fece della sua vita un progetto, un cammino di ospitalità misericordiosa. Ma in questa grande proposta antropologica e biblica, si sentì chiamato a mettere in risalto nella sua esistenza l’ospitalità nei confronti dei più poveri, dei più derelitti tra gli esseri umani, i malati fisici e psichici, senza alcun tipo di esclusione o discriminazione. Per Giovanni di Dio l’ospitalità, così intesa, fu la ragione della sua vita. Fu questo il carisma che ricevette, con un’intensità sconvolgente e a volte incomprensibile. Accolse tutti, andò incontro all’altro. Gli diede tutto ciò che aveva. Si identificò con l’altro; gli donò il suo tempo. Scoprì il carattere sacro dell’estraneo.

60. Lo stile della sua ospitalità era di accogliere e servire il malato come fratello e prossimo. La sua preoccupazione principale era consolare con le parole e fornire il necessario ai pazienti: Si occupava tutto il giorno…e la sera, quando tornava a casa, per quanto stanco fosse, non si ritirava mai senza aver prima visitato tutti gli infermi, uno per uno, e chiesto loro com’era andata la giornata, come stavano e di che cosa avevano bisogno, e con parole molto amorevoli li confortava spiritualmente e corporalmente .[80] Amare il Signore nei poveri e nei malati gli dava una gioia incontenibile [81].

61. La carità di Giovanni fu molto creativa. Lo mostra chiaramente una delle descrizioni del suo ospedale: Essendo questa una casa per tutti, vi si ricevono indistintamente persone affette da ogni malattia e gente d’ogni tipo, sicché vi sono degli storpi, dei monchi, dei lebbrosi, dei muti, de matti, dei paralitici, dei tignosi e altri molto vecchi e molti bambini; senza poi contare molti altri pellegrini e viandanti che vengono qui.[82] Lo aveva dimostrato con il suo modo di chiedere la carità, che convertì in apostolato, ricordando a chi dava che il primo bene dell’elemosina ricadeva proprio sul donatore stesso. Giovanni di Dio non escludeva nessuno dal suo amore senza limiti. Un amore che, sia quando si centrava sui poveri, sia quando invece era rivolto ai ricchi, aveva la sua origine nell’amore di Gesù Cristo e a Gesù Cristo, che amò tutti come fratelli e sorelle.

62. L’identificazione con Cristo fece di Giovanni di Dio un buon maestro di misericordia: Dio gli concesse un cuore compassionevole e profondamente umano. Come Gesù, insegnò più con le opere che con le parole. Non si preoccupò di redigere statuti o norme di vita; si limitò a vivere il dono che lo animava, a fare il bene, a pregare per lunghe ore durante le notte, a visitare uno per uno i suo malati, e ad ascoltare tutti con grande pazienza, consolando e aiutando ciascuno secondo le necessità e le possibilità. Come Gesù, visse, amò e servì donando la vita per tutti; come Gesù, lasciò un solo precetto che illuminasse quanto doveva essere in seguito codificato per aiutare a mantenere vivo il suo spirito nelle persone e nelle opere dell’Ordine.[83] I Confratelli che seguirono il suo stile di vita, appresero da lui ad accogliere, servire ed amare i poveri malati con i gesti che gli videro praticare e che più tardi raccolsero nelle Costituzioni dell’Ordine per perpetuare il modello di ospitalità ereditato dal Fondatore:

“Nei nostri Ospedali si dovrà fare in modo che il servizio che si rende al Signore nei suoi poveri gli sia gradito, per cui (…) prima di mettere il malato a letto, gli si taglieranno i capelli e le unghie, non essendo dannoso alla salute, e gli si laveranno le mani ed i piedi e, ove necessario, tutto il corpo, con acqua calda preparata allo scopo; e fatto ciò si vestirà con una camicia pulita e gli si metterà una cuffia o un berretto da notte, e così pulito il malato sarà messo a letto, che avrà lenzuola e guanciale puliti; e se fosse inverno, lo si riscalderà, ed in questa maniera gli si applicheranno i rimedi corporali ”.[84]

d) L’Ospitalità nelle Costituzioni e nei documenti dell’Ordine

63. La ragion d’essere della vocazione del Fatebenefratello è mantenere “viva la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth”, incarnando “i suoi sentimenti verso l’uomo ammalato e bisognoso”, per manifestare che “rimane vivo tra gli uomini”[85]. Gesù di Nazareth è la “fonte e corona” della nostra spiritualità[86]. Il Fatebenefratello ha una missione ed un ministero del tutto particolare: rappresentare Gesù nel servizio ai malati, nell’accoglienza ai poveri ed abbandonati. Gesù trasmise la pace del Regno a coloro che erano stanchi e umiliati, la liberazione a quanti si sentivano oppressi dal male e dalle malattie, la serenità a quelli che si sentivano turbati.

64. Obiettivo del testo delle Costituzioni è offrire all’Ordine un nuovo orizzonte di spiritualità in tempi nuovi. L’Ordine è consapevole che senza conversione ed un serio impegno spirituale non può portare avanti il rinnovamento chiesto dal Concilio.[87] Nel suo processo di rinnovamento, l’Ordine ha individuato diverse opzioni:

Ø L’umanizzazione dell’assistenza: la prima finalità dell’Ordine consiste nel difendere la dignità della persona malata (Cost. 10d; 12c; 23a; 28b; 43d)[88]. L’apostolato ospedaliero si identifica in questo modo con l’umanizzazione. Si scopre, allo stesso tempo, la necessità di umanizzare la vita religiosa e di potenziare gli aspetti umanizzanti nei Confratelli: “umanizzarsi per umanizzare”. Senza attenzione all’elemento umano, si perde il senso stesso del carisma di servi dell’ospitalità.

Ø L’obiettivo della vocazione ospedaliera è entrare in Alleanza con l’essere umano che soffre, che è il modo di esprimere carismaticamente l’Alleanza con Dio.

Ø Consiste, inoltre, nel creare vincoli di fratellanza. Giovanni di Dio si sentì fratello di tutti: dal più povero al Principe Filippo[89]. Creare legami di fratellanza è la caratteristica che deve distinguere il Fatebenefratello a incominciare dal sentirsi fratello della persona che soffre e di quanti condividono con lui il ministero dell’ospitalità (45b; 46b.c; 23), operatori, volontari e benefattori, con i quali è chiamato a vivere un’Alleanza a favore del servizio e della promozione della vita.[90]

Ø L’ospitalità dev’essere intesa partendo dall’opzione preferenziale per i poveri e dall’umanizzazione (Cost. 5a)[91] del servizio ai malati e ai bisognosi in generale.

4. Ripensare la Misericordia e l’Ospitalità nel nostro tempo: il rapporto con “l’estraneo”

a) Il rapporto con “l’estraneo”

65. I fenomeni dell’ospitalità e della misericordia ci parlano del rapporto dell’uomo con il prossimo, il fratello, e con “l’estraneo”. Questa realtà estranea può essere l’amico (comunione!) o il nemico (ostilità!), lo straniero che ci fa paura, o il nostro stesso corpo come scenario di sofferenza, o le conseguenze esterne delle nostre azioni (cfr. Rom 7). L’incontro con “l’altro”, “l’amico”, “il nemico”, “ lo straniero”, “l’estraneo”, può provocare reazioni differenti: allegria, accoglienza, solidarietà, irritazione, paura, curiosità, interesse per l’esotico. La non conoscenza dell’altro produce paura; appare minaccioso ed affascinante allo stesso tempo: minaccioso perché entra in competizione con ciò che ci è proprio e familiare; affascinante perché l’estraneo fa sorgere possibilità sino ad ora inedite nella propria vita.

66. L’estraneo è sempre ciò che si trova fuori dal proprio ambito, dal proprio spazio, che appartiene ad altro. E’ ciò che si oppone, l’incomprensibile, l’insolito, l’eterogeneo, il non disponibile. La realtà appare come estranea quando si pone in relazione con “il mio”, “il proprio”; affinché qualcosa possa essere definito come estraneo o proprio, è necessario che si riconosca la relazione tra i due termini; per questo, l’estraneo è tale quando in un certo senso già ci appartiene: riconosciamo il proprio dall’estraneo e l’estraneo dal proprio. Per questo, l’ospite non è il viaggiatore che viene e se ne va, ma il viaggiatore che viene e rimane; anche se solo provvisoriamente. L’ospite occupa uno spazio di frontiera. Anche l’anfitrione che lo accoglie. Lo spazio che occupano non è né dell’uno né dell’altro.

67. L’estraneo è anche, e soprattutto, ciò che si trova fuori dal nostro tempo. Ogni persona vive il “suo” tempo. Possiamo parlare degli altri come di “altri tempi”, altri ritmi. Convivere, perciò, significa accordare tempi e ritmi, armonizzare il tempo degli altri con il mio tempo. L’ospitalità si delinea come una questione strettamente vincolata al rispetto del tempo degli altri e non tanto, o solo, un rispetto dei suoi spazi. Considerato con la propria temporalità, l’altro generalmente è una persona inopportuna, qualcuno che tende, in modo fastidioso, ad affrettare o a ritardare. Gli altri sono più lenti o più rapidi di noi, abitano una temporalità che, per una ragione o l’altra, ci risulta estranea o che ci sembra impropria. Coloro che sono veramente estranei non sono quelli che vivono lontani, ma quelli che vivono in un altro tempo. L’emarginato non si trova alla periferia dello spazio, ma vive letteralmente in un altro tempo. Per questo, l’ospitalità ha molto a che vedere con la capacità di “perdere tempo”, o di “dedicare il proprio tempo”.

68. L’estraneo – sia spaziale, sia temporale – è sempre ciò che ci interpella, che accade in modo imprevedibile, insondabile. Ed esige una nostra risposta. Non rispondere all’estraneo è anch’essa una forma di risposta: si neutralizzano così le domande future, ci si protegge contro un futuro imprevedibile. L’estraneo può mettere in crisi la nostra identità. In questo consiste la sua ricchezza ed il suo rischio. L’esperienza culturale dell’estraneo comporta sempre un confronto con le possibili alternative della propria vita, e provoca una messa alla prova di ciò che è proprio. L’estraneo è un capitale per arricchire e correggere la limitazione delle proprie posizioni. Durkheim diceva – in questo senso – che la qualità morale di una cultura si misura dal suo rapporto con l’estraneo. Ciò a cui rispondiamo oltrepassa sempre ciò che offriamo come risposta.

b) Apprendere l’ospitalità e la misericordia

69. L’ospitalità così intesa, e la misericordia come amore e non violenza, ci mostrano le verità fondamentali dell’essere umano. La persona scopre se stessa andando incontro ad altre persone. La scoperta di sé è un atto intersoggettivo. Conosciamo i nostri diritti e i nostri doveri nella misura in cui andiamo incontro all’altro. Scoprirsi come ospite o anfitrione, come colui che è accolto o colui che offre accoglienza, è scoprire un’identità che dà origine ad obblighi e a responsabilità. Gli individui si costituiscono come persone solamente attraverso la prospettiva di approvazione o disapprovazione da parte degli altri.

70. Com’è giusto l’aforisma di Merleau-Ponty: “Dobbiamo imparare a considerare il proprio come estraneo, e l’estraneo come proprio”. Ciò si raggiunge imparando ad esercitare un tipo di ospitalità e di misericordia che non sia opprimente, né indifferente, ma che sia capace di stare con l’eterogeneo e sappia sopportare la contingenza propria ed altrui. L’ospitalità e la misericordia si apprendono abituandosi ad interessarsi all’estraneo, rispettandolo e cercando di farsi carico delle sue peculiarità.

c) In missione di misericordia ed ospitalità “oggi”

71. Nelle attuali condizioni di vita, la mobilità è molto facile, e l’esperienza dell’estraneo si fa ogni volta più frequente nell’esistenza delle persone. Assistiamo ad enormi ondate di immigrazione ed emigrazione. Ci troviamo nella società del movimento, della globalizzazione. Viviamo in società multiculturali, che ci fanno scoprire e provare il pluralismo. Ci viene chiesto di essere tolleranti con il diverso, con ciò che ci è estraneo. Questa situazione ci fa vedere che non esistono blocchi compatti, omogenei, che non ci sono realtà definite e delimitate; ci sorprendiamo nel constatare come il proprio si fa estraneo, e ciò che inizialmente ci è estraneo passa a far parte dell’ambito del proprio. Le società complesse richiedono una maggiore sensibilità verso le realtà escluse causate solitamente da un’eccessiva affermazione della propria identità o da un determinato ordine sociale. Nella società contemporanea assistiamo ad una sorta di perdita di gravità dell’individuo: si sente meno vincolato di prima ad un territorio, è meno controllabile; vive in modo più disinvolto ed interdipendente. Ci troviamo in uno scenario in cui ha poco senso insistere sull’identità come se fosse qualcosa di definito e di definitivo. Oggi preferiamo parlare di “identità complessa” (Amin Maalouf). E’ partendo dall’estraneo che riusciamo a comprendere meglio il proprio.

72. Le situazioni ingiuste del nostro mondo sono arcinote. Il numero dei poveri e degli emarginati non diminuisce, ma al contrario aumenta, malgrado le nuove tecnologie ed i processi di globalizzazione. La concezione sacra dell’essere umano cede il passo agli idoli, davanti ai quali si prostrano le società moderne in riverente venerazione. L’educazione che la società (mezzi di comunicazione, ambiente socio-economico) offre alle nuove generazioni non esalta il valore dell’ospitalità, ma al contrario privilegia l’individualismo, la visione materialista ed edonista della vita. Questa mentalità non riesce però ad arginare – perché non ne è capace – fenomeni perversi come il consumo ed il traffico di droghe, la pornografia ed il disordine affettivo con la conseguente perdita della dignità della sessualità umana, la crescita della povertà e dell’ingiustizia, il manifestarsi di tante e nuove malattie che colpiscono milioni di essere umani. Di pari passo con il degrado dell’umanità, va il degrado ecologico (acqua: zone costiere, risorse marine inquinate dalle attività industriali e minerarie; inquinamento dell’aria: industrie tessili, alimentari, raffinerie petrolifere; manipolazione genetica), il degrado ambientale (saccheggio della natura, esaurimento delle risorse, la minaccia di uno squilibrio ecologico).

73. La nostra capacità di ospitalità si vede inoltre di fronte all’enorme sfida dell’esplosione demografica. Ogni giorno l’umanità aumenta di 220.000 persone. La rapida crescita della popolazione fa emergere nuove sfide: sradicamento delle famiglie, urbanizzazione, sfruttamento insostenibile delle risorse disponibili ed accessibili per far fronte alle grandi necessità della popolazione. Sembra che in non pochi luoghi e persone, l’umanità abbia perduto il senso della sacralità della vita: guerre fratricide, violenza contro donne indifese, sfruttamento di bambini innocenti, un capitalismo disumano che fa crescere sempre più il divario tra ricchi e poveri. C’è un grande dislivello tra il 30% degli uomini che vivono nell’opulenza materiale ed il rimanente 70% condannato a rimanere nella povertà e senza gli elementi basilari della vita; sono minacciate inoltre le culture dei poveri per mancanza di risorse e per la forte la seduzione che esercitano i modelli di sviluppo materiale importati da fuori.

74. Gli atteggiamenti di accoglienza e di riconoscimento, di servizio e di solidarietà (ospitalità!) dei nostri contemporanei, manifestano tutto il loro splendore in molteplici istituzioni ed iniziative: volontariato, ONG, istituzioni sociali di vario tipo, eserciti di pace, movimenti a favore della giustizia, dell’ecologia, della dignità umana, rifiuto di qualsiasi tipo di xenofobia, ecc. Ci sono inoltre molte popolazioni della terra che conservano le loro preziose tradizioni di ospitalità, come uno dei valori più preziosi. E’ vero però che in queste popolazioni il valore dell’ospitalità sta subendo un certo declino a causa del valore – parimenti fondamentale – della sicurezza; il senso di insicurezza causato da violenze, guerre, crimini, terrorismo, è talmente forte che i valori tradizionali di ospitalità ne hanno risentono molto. In questa rete di fratellanza umana è presente, con la sua tradizione, l’Ordine dei Fatebenefratelli, che desidera essere all’altezza dei tempi e rispondere con nuovo vigore alla sua vocazione specifica, offrendo spazi in cui l’organizzazione, la professionalità, la tecnica e l’umanizzazione si coniughino ed armonizzino con atteggiamenti e gesti di accoglienza, servizio, solidarietà e risanamento della sofferenza fisica e morale.

 

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III. L’Itinerario spirituale

ripercorrere “oggi” il cammino di giovanni di dio

1. La spiritualità oggi

75. Nella Chiesa – ed anche nel nostro mondo! – c’è una grande sete di spiritualità. Di fronte alla mancanza di senso, all’accumulo di problemi che ci sembrano insolubili, alle vertigini dell’era del movimento, sentiamo tutti la necessità di avvicinarci al Mistero, allo Spirito che dà stabilità e ragion d’essere. Siamo assetati di spiritualità. La Chiesa stessa ha canalizzato questa sete in diverse proposte di spiritualità.

76. Oggi assistiamo ad una sorta di globalizzazione o mondializzazione della spiritualità. Il dialogo interreligioso ha prodotto stupendi risultati in questo campo. Allo stesso tempo, però, si sta rivendicando un aspetto più locale della spiritualità. Per questo, si sta delineando una nuova spiritualità con tratti africani, o asiatici, o americani, o europei…Alle soglie di un nuovo secolo, intendiamo la spiritualità in un modo più integrale. La spiritualità ha a che vedere con il corpo e con l’anima, con l’individuo e la comunità o la società, con l’aspetto locale e quello mondiale, con la religiosità particolare e quella ecumenica… Lo stesso avviene nel nostro Ordine. C’è in esso una spiritualità globalizzata, che risponde al dono ricevuto, ma allo stesso tempo la nostra spiritualità peculiare acquisisce tratti particolari e locali nelle diverse zone della terra.

77. Intendiamo la spiritualità come un processo, un cammino, in cui distinguiamo diverse tappe. Le nostre Costituzioni ci indicano la meta. E’ necessario trovare il cammino per giungere ad essa, il metodo di spiritualità più adeguato. Lo Spirito è il nostro “maestro interiore”; ci porta alla perfezione dell’Amore, dell’Alleanza, dell’unione con Dio, con gli altri e con il cosmo. In questa vita non arriviamo mai alla meta, e per questo, sono eloquenti le parole di Gregorio di Nissa nella sua “Vita di Mosé”:

“Interrompere il cammino verso la virtù è l’inizio del cammino verso il vizio…Tutto ciò che si misura quantitativamente è contenuto in certi suoi limiti. Per la virtù invece abbiamo appreso dall’apostolo che il solo limite della perfezione è non avere limite… Forse la perfezione della natura umana consiste nell’essere sempre disposti a conseguire un bene maggiore”.

78. La Chiesa presenta a noi religiosi questa stessa prospettiva nel documento “Ripartire da Cristo”, constatando che:

“Proprio nella semplice quotidianità, la vita consacrata cresce in progressiva maturazione per diventare annuncio di un modo di vivere alternativo a quello del mondo e della cultura dominante…Oltre all’attiva presenza di nuove generazioni di persone consacrate che rendono viva la presenza di Cristo nel mondo e lo splendore dei carismi ecclesiali, è pure particolarmente significativa la presenza nascosta e feconda di consacrati e consacrate che conoscono l’anzianità, la solitudine, la malattia e la sofferenza. Al servizio già reso e alla saggezza che possono condividere con altri, essi aggiungono il proprio prezioso contributo unendosi con la loro oblazione al Cristo paziente e glorificato in favore del suo Corpo che è la Chiesa (cfr. Col 1, 24)” (Ripartire da Cristo, n.6[92]).

2. Il paradigma o modello del nostro cammino spirituale

79. “La nostra ospitalità ha la sua origine nella vita di Gesù di Nazareth” (Cost. 20), che fu imitato fedelmente dal nostro Fondatore San Giovanni di Dio, che si dedicò interamente al servizio ed alla salvezza dei poveri e dei malati (Cost. 1a). Adesso Giovanni di Dio siamo noi: condividiamo il suo dono, la sua fede, la sua sensibilità di fronte alla sofferenza umana, la sua dedizione incondizionata al servizio, la sua umiltà e creatività caritativa[93]. Il suo itinerario spirituale è la proposta pedagogica che lo Spirito Santo ci offre per potenziare il carisma dell’ospitalità. Anche noi, come lui, siamo persone in cammino, viaggiatori e pellegrini in un mondo globalizzato ed enormemente complesso. Il pellegrinaggio interiore di Giovanni di Dio, il suo cammino spirituale verso la cima della discesa, verso la miseria umana, sono per noi la migliore proposta in fatto di spiritualità, missione e comunione (Cost. 5): Sono casa e scuola di spiritualità!

80. Le tappe percorse da Giovanni di Dio: “vuoto - chiamata – trasformazione – identificazione”, ci indicano quali sono le tappe del nostro cammino. Le dobbiamo però intendere non come tappe lineari e successive, ma come una spirale, poiché si riproducono in ciascun’età della nostra vita. Giovanni di Dio si trasforma per noi in simbolo di un cammino che ci porta di svuotamento (kénosis) in svuotamento e dallo svuotamento al servizio fino alla morte (cfr. Fil 2, 6-11).

a) Esperienza del vuoto: distaccarsi per “nascere di nuovo”

81. In ogni itinerario si parte da un luogo per giungere ad un altro. La partenza implica la disponibilit a distaccarsi: quello che era il nostro stato normale di vita, il nostro territorio vitale, inizia a perdere senso. Ci sentiamo come stranieri in casa nostra. Inizia così il processo che segna l’inizio di un cammino, che molte volte non sappiamo dove ci condurrà. Siamo Giovanni di Dio e, come lui, abbiamo sentito la vacuità delle cose di questo mondo; assieme a lui facciamo l’esperienza del distacco.

82. Questa esperienza è magistralmente riflessa nella figura biblica di Mosé ed il Popolo. In un primo momento, Mosé affrontava la vita con la saggezza degli egiziani. Poco alla volta, dopo un lungo viaggio attraverso il deserto, scoprì che chi guidava la sua vita e quella del Popolo era Yahweh. Rinunciò per questo alle certezze immediate ed ai falsi dei, ed accettò nella sua vita l’iniziativa dell’unico Dio che lo esortava a togliere le tende, a camminare superando ostacoli e barriere: barriere mentali e emotive (paura, tendenza a scoraggiarsi, rifiuto dello sforzo necessario per la conquista del futuro promesso), che sono più forti e violente del deserto e delle acque.

83. Il cammino spirituale si intraprende dopo aver sperimentato per la prima volta la limitazione del mondo, della vita. Si sente, per grazia di Dio, la accidentalità di tutto – nulla di ciò che vediamo è assolutamente necessario! -. Cerchiamo il senso della vita, della storia, e troviamo solo risposte parziali o contraddittorie. Ciò che sembra più promettente, si rivela deludente. Le carenze affettive, la frustrazione, le delusioni o i fallimenti (famiglia, amicizie, studio, progetti…), ci inducono a porci delle domande sulla consistenza dei valori che predominano nella società, e a ricercare quelli che possono dare un senso alla vita. Persino il maggior successo può risultare insufficiente per l’inquietudine del cuore umano: “Signore, ci hai creati per te e il nostro cuore rimane inquieto finché non riposa in te” (Sant’Agostino). E, soprattutto, Gesù ci dice: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Lc 9,25). L’esperienza della chiamata, della vocazione, è di solito il primo passo verso un cambiamento di vita. La voce di Dio è potente e fa tacere tutte le altre voci; invita ad “andare oltre” e suscita il desiderio per qualcosa di diverso.

84. Quest’esperienza può sorgere in diverse occasioni nell’arco della vita. Sono quelli i momenti in cui abbiamo bisogno di “nascere di nuovo”, perché abbiamo vissuto dei grandi fallimenti, interiori o esteriori. Sono momenti caotici, nella vita, esperienze di morte che sembrano “sbarrare” ogni strada verso il futuro. L’esperienza del vuoto può portare allo scoraggiamento, all’accettazione passiva della realtà, a lasciarsi condurre dalla vita invece di guidarla e viverla; può inoltre, essere un segnale di allarme per riprendere in mano la propria esistenza e lasciare che risuonino nell’animo le questioni e gli stimoli che, sebbene silenti, erano vivi[94]. L’esperienza del vuoto, accolta, accettata, non superficialmente attenuata, consentirà la grazia di una ricreazione ed un rinnovamento interiori.

85. Questa tappa corrisponde a quella che Teresa di Gesù chiamava le due prime mansioni dell’anima, o Giovanni della Croce l’inizio della salita al monte Carmelo. San Giovanni di Dio la descrive come un’esperienza di morte in un mondo di morte e senza via d’uscita. Corrisponde anche ai primi passi nella vita spirituale che Giovanni d’Avila – maestro spirituale del nostro Padre San Giovanni di Dio – descrive come la tappa del non-ascolto del linguaggio del mondo, demonio e carne (“Audi, filia”, I A).

b) La “chiamata” e le chiamate lungo l’arco della vita: “Ascolta, figlio!”

86. Quando la persona rinuncia a vivere per e in se stessa, scopre un misterioso disegno sulla propria esistenza. Allora è in grado di ascoltare la voce di Dio e di sperimentare l’energia dello Spirito che la conduce e la guida verso “lo sconosciuto”. L’esperienza vocazionale è stata paragonata ad una “seduzione” o ad una “attrazione irresistibile”. Gesù, il Figlio di Dio, ci viene incontro, ci attraversa la strada e ci invita a cambiare percorso e a seguirlo.

87. La chiamata sopraggiunge, in un primo momento, quasi in modo impercettibile. Gli avvenimenti felici o i momenti di avvilimento, successivi alle esperienze di frustrazioni o delusioni, sono il linguaggio di Dio. Ciò che è certo è che la voce di Dio, in un determinato momento, risuona nel profondo della persona e rimuove quei strati che sinora le hanno impedito di mettersi in sintonia con essa: “ascolta, figlio, porgi l’orecchio”. Ci si sente sedotto, in forma di contrasto o coincidenza con le aspirazioni più profonde, dal modo in cui Gesù di Nazareth ha vissuto e manifestato il suo amore al Padre e ai suoi fratelli, gli uomini. Si sperimenta l’urgenza di cambiare stile di vita, di rompere con un cristianesimo monotono e ripetitivo impostatto su pratiche senza complicazioni, con le quali si cercava, quasi sempre in modo inconsapevole, di ottenere la benevolenza di Dio.

88. La seduzione del Mistero non si realizza sempre in ambiti di pura trascendenza, di isolamento e preghiera intima con Dio. Questa seduzione accade con frequenza, come nella vita di Giovanni di Dio, grazie all’incontro con i crocifissi del mondo, con gli emarginati e disprezzati. In essi si scopre il volto di Dio e la chiamata di Dio si fa in essi ineludibile, profondamente interpellante. Nel volto degli sfigurati, si scopre la presenza del Trasfigurato.

89. La chiamata, la vocazione, è una tappa in cui si rende necessario il discernimento, l’accompagnamento spirituale, la risposta a non poche domande. I maestri spirituali ci parlano dell’ ”inizio del cammino”, o delle terze mansioni. Qui è ancor più necessario un grande sforzo ascetico, che consenta di aggiustare la propria vita a ciò che Dio ci propone.

90. Lungo la vita sorgono “nuove chiamate” che approfondiscono e danno solidità alla prima. Sono quelli i momenti in cui scopriamo un nuovo orientamento, in cui ci sentiamo chiamati a cambiare mentalità (metanoia), e avvertiamo la necessità interiore di essere inviati verso nuove frontiere di missione. Rispondere alla chiamata di Dio in tali circostanze è tanto vitale quanto lo era la prima risposta. Se non c’è risposta, il cammino spirituale si arresta.

91. La porta d’ingresso al cammino spirituale è certamente la vocazione, ma essa deve essere accompagnata dalla risposta. La risposta si esprime, anzitutto, nella preghiera e nell’umile obbedienza e servizio. San Giovanni d’Avila chiedeva di “ascoltare la prima Parola…solo Dio che è la somma Verità” (Audi, Filia, I, B) 1.), “con la fede” (Audi, Filia, I. B),2.).

c) Trasformazione e Consacrazione

92. Chi si sente chiamato da Dio a seguire lo stile di vita di Giovanni di Dio e gli risponde, sperimenta nella propria persona una misteriosa e progressiva trasformazione interiore. Si sente come trasformato e consacrato, abilitato dallo Spirito ad una forma di vita nella spogliazione, nella nudità e nello svuotamento di sé.

93. Come a Giovanni di Dio, Dio ci parla attraverso le grida dell’umanità che soffre per malattia, povertà ed ingiustizia. Si risvegliano e si rafforzano in noi l’amore compassionevole e misericordioso, l’accoglienza, la benevolenza, il senso di solidarietà e di fraternità. Si trasforma, così, la scala dei valori che fino a quel momento definiva la nostra vita. Consacrandoci nell’Ospitalità, lo Spirito Santo ci rende capaci di manifestare nella nostra vita l’amore speciale del Padre per coloro che soffrono e di mantenere vivo nel tempo lo stile di vita di Gesù di Nazareth, vivendo in castità, povertà, obbedienza e ospitalità, collaborando alla missione della Chiesa, servendo Dio nell’uomo che soffre (Cost.1d; 2b; 7b).

94. Questa azione trasformatrice dello Spirito viene celebrata ed accolta nella celebrazione liturgica della nostra Professione religiosa (Cfr. ET. 47; Cost. 9a). In essa riconosciamo che Dio ci consacra e continua a consacrarci attraverso i molteplici avvenimenti della vita.

95. Non basta partecipare all’atto di consacrazione; è necessario lasciarsi consacrare. Quando ciò accade, Dio pensa al resto. Si entra in una tappa mistica, in cui Dio, attraverso Gesù e lo Spirito, diventa il grande protagonista della vita del suo prescelto. I maestri spirituali definiscono questa tappa come le quarte mansioni, come il passaggio da una tappa ascetica ad un’altra più mistica. Giovanni di Dio non visse questa tappa in un isolamento contemplativo, ma con una contemplazione mistica inserita nell’azione caritatevole, misericordiosa ed ospedaliera. Si sentì unto dallo Spirito attraverso il contatto con la miseria umana. Questo è anche il nostro cammino di consacrazione continua. San Giovanni d’Avila insegnava come l’ascolto della voce di Dio introduceva il credente ad una nuova visione e ad una nuova disposizione verso la volontà di Dio, che lo portava a fuggire e a dimenticare questo mondo malvagio e pure la casa paterna (Audi, Filia, II-V).

 

d) Identificazione mistica con Gesù povero, emarginato e sofferente

96. In questa vita non si conclude mai il cammino nello Spirito, che ha come obiettivo l’identificazione totale con il Signore. Le ultime tappe ci collocano di fronte ad una trasformazione o trasfigurazione ogni volta maggiore, che può essere descritta come “sposalizio mistico”, autentica simbiosi: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal, 2,20). Lo Spirito si manifesta ed agisce in noi come Ospitalità; ci configura con il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo, per mantenere viva nel tempo la sua presenza misericordiosa (Cost. 2).

97. Queste ultime tappe della vita spirituale sono quelle che ci permettono di scoprire le potenzialità segrete della nostra vita, che superano ogni immaginazione e desiderio. Chi rinuncia ad essere condotto fino a qui, si sentirà frustrato. Queste ultime tappe sono chiamate dai maestri spirituali “ultime mansioni” o “arrivo alla cima del Monte”, o l’occasione in cui Dio si sente catturato dall’anima del credente (Audi, Filia, VI).

3. Partecipi del cammino del popolo di Dio

98. Il nostro cammino spirituale carismatico, comunitario e personale, si situa all’interno del grande cammino spirituale del Popolo di Dio, della Chiesa. Se c’è un ambito in cui il cammino spirituale della Chiesa si manifesta in modo paradigmatico, esemplare e pedagogico, questo ambito è il ciclo sacramentale e liturgico. Ed è questo anche il nostro cammino. Il ciclo liturgico-sacramentale dell’Anno Liturgico è il grande contesto del nostro cammino spirituale. Lungo il suo arco entriamo in contatto con tutto il messaggio rivelato. La lettura continua che ci propone la Madre Chiesa giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, è il migliore nutrimento spirituale, la miglior guida nei cammini dello Spirito.

99. Il Concilio Vaticano II ci ha detto che “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù [...], dalla Liturgia, dunque, e particolarmente dall’Eucarestia, deriva in noi, come da sorgente, la grazia, e si ottiene, con la massima efficacia, quella santificazione degli uomini e glorificazione di Dio in Cristo, verso la quale convergono, come a loro fine, tutte le altre attività della Chiesa”[95]. Per questo, la celebrazione quotidiana dell’Eucarestia, nel contesto del ciclo liturgico:

Ø ci incorpora al sacrificio di Gesù e al culto che Egli offre al Padre (Cost. 7c);

Ø esprime e realizza la nostra missione come famiglia ospedaliera[96]; l’amore di Gesù, presente nell’Eucarestia, rinnova il nostro spirito ospedaliero (Cost. 30);

Ø la riserva eucaristica e la presenza di Gesù nei nostri sacrari trasforma le nostre comunità in autentiche scuole di ospitalità[97]. La nostra ospitalità eucaristica è la fonte della nostra ospitalità carismatica. E la nostra ospitalità carismatica potenzia e vivifica l’ospitalità eucaristica che esprimiamo nella celebrazione quotidiana dell’Eucarestia e nell’accoglienza orante della presenza reale del Signore nei nostri luoghi di preghiera.

100. Nei tempi penitenziali della Chiesa, così come nelle celebrazioni comunitarie e personali della Riconciliazione, celebriamo la Misericordia di Dio, riconosciamo la nostra collaborazione e partecipazione al male, ci apriamo a Dio e alla Comunità ed accogliamo la grazia trasformatrice. Il Sacramento della Riconciliazione è fondamentale nella nostra spiritualità, che pratica la Misericordia e l’accoglienza incondizionata ed ospitale dell’altro.

101. Il sacramento dell’unzione degli infermi ha occupato sempre un luogo privilegiato nel servizio pastorale ai malati. Giovanni di Dio lo procurò con grande sollecitudine; la tradizione dell’Ordine lo ha mantenuto come manifestazione di vero amore ai malati. La Madre Chiesa ci offre la possibilità di celebrare la vicinanza misericordiosa e trasformatrice di Gesù attraverso il sacramento dell’unzione degli infermi. La celebrazione comunitaria di questo Sacramento ci fa sperimentare - sia come soggetti della celebrazione sia come comunità celebrante – la presenza reale e risanatrice di nostro Signore Gesù nel mondo del dolore e della malattia. Partecipare alla preghiera e all’unzione della Chiesa a favore dei malati è uno dei momenti più qualificanti per la nostra crescita spirituale come Religiosi Ospedalieri.

102. La Liturgia delle Ore, cui partecipiamo regolarmente, ci unisce strettamente al Cammino del Popolo di Dio. La recita dei salmi, l’ascolto della Parola, più potente di una spada, guida la nostra vita sul Cammino del Signore, in modo infallibile. Per questo, non non vogliamo fare a meno di questo ritmo vitale. Quando partecipiamo alla preghiera della Chiesa entriamo simultaneamente in comunione con l’umanità, in special modo con gli uomini e le donne che soffrono – la Chiesa del dolore – . E’ importante che rinnoviamo la coscienza di questa dimensione della nostra spiritualità: siamo voce che benedice, canta le lodi, rende grazie e supplica il Dio della vita e Padre di misericordia, a nome di quanti sono impossibilitati a farlo personalmente o non hanno sperimentato la gioia della sua filiazione divina.

 

4. Partecipi del Cammino di spiritualità dell’Ordine e delle sue comunità

a) Trasmissione carismatica

103. Il nostro cammino spirituale è il Cammino dell’Ordine e delle comunità nelle quali ci integriamo. La spiritualità vive attraverso processi di trasmissione, di contagio, di comunione. Per questo, è così importante la comunità, l’Ordine (del presente e del passato) come scuola di spiritualità dell’ospitalità. Il carisma dell’ospitalità lo riceviamo in una comunità di Fratelli, riuniti dal Signore Gesù per camminare insieme incontro al Padre e per rendere presente il Regno nel mondo della Salute e dell’Assistenza (Cost. 26 a). Entrare nella comunità dell’Ordine significa integrarsi in una grande tradizione spirituale e impegnarsi con fedeltà creativa per essa, affinché lo Spirito vivifichi, attraverso di noi, il dono dell’ospitalità in coloro che ne sono portatori.

104. I Confratelli e le componenti più antiche dell’Ordine assumono, in questo contesto, una nuova importanza. Essi sono i testimoni, i ministri della tradizione spirituale. Il contatto con loro è vivificante. La loro presenza ed influenza è particolarmente importante in quei luoghi in cui, a causa della giovane età dei Confratelli, esiste il pericolo di distaccarsi dalle origini. Compito dei Confratelli più anziani e di quelli formati nell’ambito della Grande Tradizione è di esercitare una funzione di paternità carismatica.

b) L’amore fraterno

105. Come Giovanni di Dio, siamo chiamati a stabilire legami di fraternità. Uno dei frutti più negativi della secolarizzazione dei nostri ambienti è la perdita d’identità sociale del religioso nella nostra società. Siamo emarginati sociali, nel senso che la società non riconosce il nostro ruolo di consacrati. La persona ha bisogno di sentirsi inserita, accettata socialmente. La risposta a questa mancanza è incontrare un gruppo di appartenenza, di forti relazioni primarie, dove trovare l’appoggio sociale necessario per rafforzare la propria identità. Il nostro luogo di riferimento per eccellenza, per trovare il senso della nostra identità, è la comunità in cui viviamo. Ma se a causa dell’individualismo spirituale, la comunità non offre appoggio a questa ragione profonda, vocazionale, della nostra esistenza di consacrati, non c’è da stupirsi che ci sia chi vada a cercarlo fuori, o privatizzi questa dimensione, e cerchi di darsi un’identità sociale con l’attività che porta avanti (infermiere, operatore sociale, ecc.), riducendo l’appartenenza comunitaria al compito che realizza, identificandosi non in ciò che è, ma in ciò che fa.

106. Il dono dell’ospitalità ci rende capaci di vivere e manifestare gli atteggiamenti di accoglienza, benevolenza e servizio, anzitutto nell’ambito della nostra stessa comunità (Cost. 36b). La misericordia sperimentata ci spinge ad apprezzare gli altri Confratelli come depositari dello stesso dono e ad approfondire i legami di comunione che lo Spirito ha stabilito tra di noi, e ad essere segno e testimoni che le differenze di età, cultura ed etnia si relativizzano quando i rapporti si basano su valori che favoriscono la convivenza umana, la valorizzazione e l’accettazione dell’altro per ciò che è.

107. Il senso del segno della fraternità vissuta in comunione conserva tutta l’attualità ed il vigore che Gesù desiderava: è un invito a credere in Lui come inviato dal Padre e segno che siamo suoi discepoli (cfr. Gv 13, 35; 17, 21; Cost. 26b). La possibilità di essere segno per la società dipende soprattutto dalla capacità di comunione tra i Confratelli, dall’amore fraterno. Questa capacità viene sempre percepita come valore evangelico: “la comunione fraterna, prima di essere strumento per una determinata missione, è spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto” (cfr. Mt 18,20; VC 42).

c) Condividere l’esperienza di Dio e discernere la sua volontà a livello comunitario

108. La comunità dell’ospitalità misericordiosa è l’ambito ideale della nostra spiritualità. E’, ed è chiamata ad essere, biocenosi, biotopo, luogo di vita e di crescita vitale. La comunità diventerà “scuola di spiritualità” nella misura in cui noi Confratelli comprendiamo che la ragione più profonda per cui ci siamo conosciuti e viviamo insieme, è la nostra esperienza personale di Dio, e che il luogo privilegiato dove l’esperienza di Dio deve potersi raggiungere nella sua pienezza ed essere comunicata agli altri è la nostra comunità (Cost. 27; cfr. DCVR, 15). E’ urgente perciò superare la tendenza all’individualismo nella vita interiore, ed incoraggiare la comunione nello spirito, il dialogo e gli incontri per condividere la fede, le difficoltà ed i mezzi che ci aiutino a viverla. Dobbiamo impegnarci e sforzarci per realizzare un cammino congiunto, e praticare l’aiuto reciproco e la correzione fraterna, e per comunicare l’esperienza di Dio.

109. Le celebrazioni liturgiche, la preghiera comune e le riunioni comunitarie sono momenti in cui, guidati dallo Spirito ed accogliendo Cristo come centro delle nostre assemblee, possiamo e dobbiamo praticare la comunicazione ed il dialogo a livello di fede, rivedere e valutare la nostra vita e cercare ed accogliere la volontà di Dio nei confronti della comunità e di ciascun Confratello (cfr. Cost. 38, 3).

110. Una comunità ospedaliera è chiamata ad essere, in modo rilevante, una comunità esperta del discernimento spirituale. Forse è uno degli aspetti nei quali possiamo crescere di più nel futuro. Discernere il buon spirito è qualcosa che va oltre la mera acutezza intellettuale. In questa ricerca nessuno può sentirsi superiore all’altro. Nel discernimento una comunità si colloca umilmente di fronte a Dio con il desiderio di comprendere la sua volontà. Per questo, il discernimento esige: preghiera, ascolto di Dio e dei Confratelli, consapevolezza che a Dio piace rivelare i suoi misteri ai più semplici, poveri e giovani.

d) Una comunità in missione di ospitalità

111. La missione dell’ospitalità – centrale nella vita dell’Ordine – si fa presente e si incarna nella comunità locale. Comunione e missione necessitano l’una dell’altra e si completano tra di loro. (cfr. Cost. 41a; 43c)

112. Non agiamo a titolo individuale: la comunità ci invia, mentre al tempo stesso ci sostiene e ci accredita come Fratelli di San Giovanni di Dio (cfr. Cost. 43c). Nella comunità tutti i Confratelli sono impegnati nell’annuncio del Vangelo ai poveri e ai malati. Certamente non tutti possono dedicarsi al loro servizio, ma tutti partecipano a quanto viene realizzato dagli altri Confratelli che, a loro volta, si sentono animati da quelli che per età, malattia o ufficio, non realizzano un’attività professionale. E’ importante coltivare e vivere questo senso di comunione nella missione, soprattutto dove l’età dei Confratelli è alta, e le esigenze socio-lavorative non permettono di continuare ad esercitare le funzioni insite al servizio a favore dei malati e dei bisognosi come operatori professionali.

113. Siamo stati convocati nel segno dell’Ospitalità per formare una comunità di vita apostolica (Cost. 5b; cfr. Mc 3, 13-14). E’ nella missione che la nostra comunità raggiunge il suo pieno significato (Cost. 41a), ed in cui si manifestano i frutti dell’incontro con Dio e con i Fratelli. E’ nella missione che si rende visibile la trasfigurazione della nostra identità di credenti e si fa presente ed attuale il Cristo compassionevole e misericordioso del Vangelo che, in noi e attraverso noi, si fa accoglienza, servizio e dedizione ai malati ed ai bisognosi (Cost. 2c; 5a). Nessuno dei livelli della nostra vita, preso separatamente, configura per e da se stesso la nostra identità. La nostra trasformazione è frutto del dono dell’Ospitalità (Cost. 2b). Non si può separare, pertanto, l’attività apostolica dalla preghiera e dalla vita fraterna in comunità, né si può pensare che è grazie all’attività, al lavoro realizzato, che ci costituiamo come comunità in cui è presente Cristo. L’Ospitalità ci costituisce come apostoli, e apostoli dell’ospitalità siamo sia quando nella pienezza delle nostre facoltà agiamo professionalmente, sia quando a causa dell’età o di qualsiasi altra limitazione non ci è possibile stare accanto al malato e del povero per curarlo e servirlo, perché l’elemento costitutivo di un Fatebenefratello è essere ospitalità, e da questo essere scaturiscono ininterrottamente gesti ed azioni di ospitalità.

114. L’attività apostolica non implica una sospensione della vita comunitaria (Cost. 43c), anzi, quest’ultima trova una forte espressione nella dispersione che esige la nostra opera di misericordia a favore dei bisognosi e la nostra ospitalità; un elemento importante della nostra spiritualità è pertanto essere consapevoli dei legami che ci uniscono nella dispersione. Dobbiamo convivere nella distanza partecipando al programma spirituale della nostra comunità. Non dobbiamo mai sentirci soli. L’inserimento in mezzo alla gente è un modo peculiare di dispersione apostolica nell’ospitalità e di esperienza di vita comunitaria. Proprio con ciò dimostriamo che la nostra comunità è nata per gli altri e non per se stessa (Cost. 5b; 41a).

e) Una comunità con senso di Chiesa

115. Non dobbiamo mai dimenticare che formiamo delle comunità che fanno parte della grande comunità della Chiesa e delle Chiese particolari con i loro Pastori. Per questo, ci lasciamo guidare dai suoi impulsi spirituali, dal suo magistero, dall’azione imprevedibile dello Spirito in essa, e collaboriamo alla sua missione di far presente il Regno (Cost. 1d; 5a; 41a), consapevoli che la Chiesa di Gesù, senza la testimonianza del servizio caritatevole e la missione sanante, sarebbe incompleta. Le opere apostoliche dell’Ordine sono chiamate ad essere ambiti in cui pubblicamente si confessa, si proclama e si pratica l’amore cristiano, così come la parrocchia è il luogo in cui si confessa e si celebra pubblicamente la fede[98].

116. La comunione con la Chiesa ravviva nel Fatebenefratello la sua vocazione di “sacerdote compassionevole e misericordioso” secondo lo stile di Gesù (cfr. Cost. 7c; 30 b): inserito tra la gente che soffre, offre al Padre il culto dell’oblazione della propria esistenza e dell’esistenza dei poveri e dei malati; inoltre è profeta del Dio della misericordia che discende nel mondo dei poveri per mostrare loro il suo amore e denunciare le situazioni di ingiustizia sociale o strutturale; il Fatebenefratello, nella Chiesa, incarna il mandato di Gesù che ha manifestato la sua disponibilità a donarsi fino alla morte, prostrandosi davanti ai discepoli per lavare loro i piedi, e li ha inviati a perpetuare i suoi gesti di ospitalità e di servizio, affinché la sua presenza nell’eucarestia non sia un rito che si ripete, ma il memoriale della sua offerta per comunicare la vita e collocare al suo stesso livello di dignità la vita dei suoi fratelli, gli uomini (cfr. Gv 13, 1-17; Lc 22, 17-21).

5. Il nostro cammino “personale” di spiritualità

117. Non è sufficiente seguire e condividere il cammino del popolo di Dio. Ciascuno di noi è un essere unico, una persona irripetibile. Il cammino spirituale contiene anche una dimensione individuale nella quale nessuno ci può sostituire e che ricade sotto la nostra assoluta e intrasferibile responsabilità.

a) La preghiera personale come cammino di spiritualità

118. “La fonte prima della nostra missione caritativa è l’amore misericordioso del Padre – cfr. 1Gv 4, 10-11 –. Questo esige che noi favoriamo, personalmente e comunitariamente, nel dialogo della preghiera, l’integrazione tra la vita interiore e l’attività apostolica, per renderci capaci di vivere l’amore a Dio in sintonia col servizio ai fratelli.” (Cost. 28a). Nella preghiera, Gesù vuole realizzare con noi prodigi di misericordia (S. Benedetto Menni). Si china sulla nostra debolezza, ci guarda con tenerezza infinita, ci accoglie con tutto l’amore del suo cuore, così come si chinò sul letto dei malati, guardò i bambini ed i peccatori, accolse Maria Maddalena, Zaccheo e Pietro. Nella preghiera siamo chiamati a lasciarci guardare da Gesù e a permettere che la luce della sua vita illumini la nostra mente ed il nostro cuore, per vedere qual è la volontà di Dio in ogni momento, e seguirla con docilità di figli.

119. Nell’incontro della preghiera personale, il Fatebenefratello constata la verità ed il dinamismo del suo cammino nello Spirito. L’incontro amoroso e regolare con il nostro Dio-Trinità si fa ogni volta più intenso e più ampio, sino a portarci a pregare in ogni momento. La qualità del dialogo interpersonale con il nostro Dio mostra fino a dove arriva lo Spirito in noi. E’ vero che non sappiamo pregare come dovremmo. Ma lo Spirito Santo ci viene in aiuto (Rom 8, 26-27). Egli guida i nostri progressi nella preghiera e ci sorprende nell’orazione con le sue ispirazioni. Quando le preoccupazioni quotidiane, quando il lavoro non permette una forte vita di preghiera, rischiamo non solo di arrestarci sul nostro cammino spirituale, ma addirittura di regredire.

 

b) Un progetto personale di spiritualità

120. Ogni Confratello deve esprimere il suo cammino di spiritualità in un progetto personale, seriamente elaborato, individuato assieme al suo maestro o accompagnatore nel cammino del Signore e, nella misura del possibile, condiviso con i Confratelli della comunità.

121. Il progetto personale di vita si tramuta nella manifestazione della nostra risposta vocazionale continuata. E’ il miglior indizio del fatto che assumiamo con responsabilità la vocazione che abbiamo ricevuto e siamo disposti a tradurla in ogni momento in azioni adeguate: sappiamo che per essere famiglia di Gesù, fratelli, dobbiamo non solo ascoltare la parola, ma anche metterla in pratica.

122. Il nostro progetto di vita è la risposta all’Alleanza di Dio e si centra nel regno di Dio che sta per giungere. La castità, la povertà, l’obbedienza e l’ospitalità che caratterizzano il nostro impegno per l’Alleanza di Dio con il suo popolo, acquisiscono il loro pieno significato nel contesto del Regno di Dio e della sequela apostolica di Gesù. Con la pratica dei consigli evangelici, lo Spirito ci rende capaci di denunciare con senso profetico i sistemi di ingiustizia, di discriminazione dei deboli, di spreco, di violenza. I carismi evangelici che lo Spirito ci ha concesso per una vita di ospitalità, crescono in contesti di appassionata missione ed amore al popolo, amore che ci radica sempre più profondamente nel suo mezzo, nella sua storia e ci fa identificare sempre di più con i piccoli della terra.

123. Elemento essenziale del nostro progetto personale di vita è la disponibilità continua per l’uomo come Fatebenefratello. E’ la più chiara espressione della nostra spiritualità ospedaliera. E’ la spiritualità della dedizione, del servizio permanente, dell’accoglienza senza riserve; è il cammino reale che conduce al culmine dell’amore che, come successe per Gesù e per San Giovanni di Dio, si raggiunge scendendo negli abissi più profondi della miseria e debolezza umana dedicandosi all’assistenza di chi soffre, con gli atteggiamenti e i gesti caratteristici del Fatebenefratello: servizio umile, paziente e responsabile; rispetto e fedeltà alla persona; comprensione, benevolenza e abnegazione (Cost. 3b), facendosi solidale con le loro angosce e speranze.

c) Contemplativi nella missione

124. L’azione apostolica non è pura esteriorità. E’ la sacramentalizzazione della missione dello Spirito e del Signore Risorto. Ciò esige da noi di integrare interiorità ed attività (cfr. Cost. 28a; 103a). Nella missione non smettiamo di stare con Cristo, al contrario, in essa stiamo uniti a lui in modo singolare. Dobbiamo tenere presente che “un pericolo costante per gli operai evangelici consiste nel farsi coinvolgere talmente dalla propria attività per il Signore che, per tanta attività, ci si dimentica del Signore” (cfr. Giovanni Paolo II). Un momento importantissimo della nostra spiritualità è disporci al servizio caritatevole, rinnovando la consapevolezza che, servendo i deboli, stiamo servendo Gesù stesso. La “mistica” dell’ospitalità ci anima a vivere in atteggiamento contemplativo. Abbiamo il privilegio di poter contemplare Cristo ininterrottamente: i piccoli – ogni persona è “piccola” e debole – sono icone viventi di Gesù. L’avvicinamento ai corpi umani per curarli dal male, come faceva Gesù, per darli dignità e convertirli in ambiti di dignità e di esperienza religiosa e cristiana, è un elemento essenziale della nostra spiritualità. 

125. La fecondità del nostro apostolato si rafforza quando ci sentiamo solidali con coloro che soffrono, consapevoli che il nostro amore misericordioso per loro non è mai un atto unilaterale (Cost. 42c): l’apostolato ospedaliero è fonte di spiritualità. Non solo perché il Fatebenefratello evangelizza, ma perché nella sua stessa azione evangelizzatrice egli si sente a sua volta evangelizzato. Dio ci parla attraverso gli altri, specialmente attraverso coloro che hanno bisogno del nostro aiuto: si fa lamento, supplica, gratitudine… e ci invita ad ascoltare e a discernere i suoi messaggi; l’immigrato, il malato, è l’ ”altro” che incarna ed materializza la diversità, l’inconsueto con cui lo Spirito vuole sorprenderci; scoprire i valori che ci sono nei gruppi umani e nelle persone, lasciarsi emozionare ed arricchire da loro, è fonte di spiritualità. Le sue conseguenze sono imprevedibili, così come imprevedibile è lo Spirito. 

126. L’apostolato ospedaliero è un’autentica scuola e fucina di umanizzazione: ci stimola a crescere come seguaci di Gesù di Nazareth, che restituì all’umanità il volto che il Padre aveva deciso per essa sin dal principio, mentre la purifica contemporaneamente dall’egoismo e dalla mancanza di solidarietà, affinché l’accoglienza, la comprensione, il servizio e la dedizione totale si plasmino e si trasmettano in gesti di misericordia e di sollecitudine. Il malato, nella sua debolezza, non è solo il destinatario, ma anche agente di comprensione e di amore: è la nostra ”università” (P. Marchesi) che, senza bisogno di teorie, ci aiuta ad acquisire la vera scienza, l’autentica saggezza del vivere. Inoltre, condividiamo il nostro apostolato ospedaliero con coloro che operano nel campo della Salute e dell’Assistenza, con tutte le persone che collaborano nelle Opere apostoliche dell’Ordine. Ciò è fonte di costante revisione dei nostri atteggiamenti e delle nostre motivazioni, e ci urge a verificare se la persona che soffre è veramente al centro di tutta la nostra attività apostolica e di tutte le nostre preoccupazioni (Cost. 103b); se mettiamo tutte le nostre energie e capacità al servizio di Dio nei malati e nei bisognosi (Cost. 22b; 1d); se a livello personale e comunitario siamo guide morali, coscienza critica e anticipatori [99] – oggi diremmo rifondatori[100] – di uno stile di ospitalità in sintonia con l’Ospitalità di Giovanni di Dio; se individualmente e comunitariamente manteniamo vivo e promuoviamo il suo spirito (SG 127b); se viviamo così compenetrati nella nostra missione che i nostri collaboratori si sentono spinti ad agire nello stesso modo (Cost. 23a). Assieme ai nostri Collaboratori siamo impegnati a coltivare ed a promuovere i valori della persona, e a contribuire a sviluppare e ad approfondire quella che abbiamo chiamato “cultura dell’ospitalità”.

d) La dimensione corporea del nostro cammino di spiritualità

127. L’incarnazione del Verbo continua nel tempo e diventa realtà nella persona; nella persona del Fatebenefratello che serve e in quella del malato o bisognoso che è da lui servito. La corporeità è il mezzo attraverso il quale si mediano le relazioni umane e fa parte del processo spirituale. Il nostro corpo è il tempio dello Spirito e membro del corpo di Cristo; la sua missione è glorificare Dio. Nel corpo è impressa la nostra storia, i nostri ricordi più profondi. Il corpo è il luogo della nostra avventura esistenziale. Ha una vocazione eucaristica grazie alla quale tende a trasformarsi in un corpo offerto, come lo fu il corpo di nostro Padre, Giovanni di Dio. La virtù della castità, vissuta come Fatebenefratelli, è fonte di fecondità personale, poiché nell’apostolato adempiamo la missione di servire e promuovere la vita e affermiamo la dignità e il valore del corpo (Cost. 10d).

128. L’unità psicosomatica ci indica che non c’è spiritualità che non passi per il corpo, ma anche che un corretto rapporto col corpo porta giocoforza verso lo spirito. L’interrelazione tra l’equilibrio psicosomatico e la vita spirituale è indiscutibile. Da qui nasce l’importanza di coltivare l’equilibrio della nostra realtà corporea: la pace, la serenità interiore, l’affetto e la cordialità si trasmettono attraverso i sensi. Gesù imponeva le mani ai malati, quando li curava (Lc 4, 40)[101].

 

e) Vigilanza e apertura allo Spirito

129. Noi Fatebenefratelli desideriamo seguire con la massima vigilanza l’azione dello Spirito nel nostro tempo e nei diversi luoghi. Questa vigilanza ci porterà a vivere la nostra spiritualità anche in situazioni di martirio[102], in cui più che l’azione, sarà la passione a caratterizzare la nostra forma di missione; cio vale sia in ambienti di dialogo interreligioso, dove proponiamo Gesù come nostro Signore, servo di tutti, corpo offerto per gli altri, e dove noi siamo suoi testimoni con la spiritualità della kénosis e dell’umiltà; sia per i nostri atteggiamenti di comunione con il laicato, donne e uomini, scoprendo in essi energie per la perseveranza, per la dedizione “ad vitam”, per la relazione reciproca; sia in situazioni conflittuali e dure nelle quali siamo i messaggeri e testimoni di giustizia e di impegno per la pace.

6. La formazione come cammino di spiritualità

130. Il cammino della spiritualità trova una sua versione ridotta nell’“iniziazione carismatica”, che ha luogo nei primi anni di vita nell’Ordine, e nella “formazione permanente”, che dura tutta la vita .[103]

a) Prima tappa: iniziazione carismatica

131. Durante la formazione iniziale e la formazione professionale, il Fatebenefratello apprende a fare delle cose: a studiare, ad esprimersi, a realizzare il lavoro professionale, a meditare, a pregare, ad essere un buon religioso…E’ il tempo degli “ideali” – di santità, di comunità, di “incarnazione nel mondo” – . [104] Partendo da questa prospettiva apprezza e critica gli altri: non hanno saputo fare; egli farà le cose in modo diverso, perché metterà in pratica ciò che sa e che sente. In questa tappa la realtà è vista con “gli occhi dei metodi”, cioè attraverso un’ideologia che poco a poco facciamo nostra. Non ci adeguiamo alla realtà così com’è. Entriamo in contatto non con la realtà stessa, ma con l’immagine che ne abbiamo della realtà. Non deve meravigliarci che, addentrandoci nella vita reale, la quotidianità ci scuota e vada a cozzare con l’ideale sognato. Le frustrazioni e le delusioni possono servire da scuola di “incarnazione” nel mondo con l’esperienza-accettazione della propria fragilità, dell’inconsistenza delle idee pure e della limitazione-ricchezza degli altri e delle strutture .[105]

132. Un’esperienza analoga si fa nell’apostolato, quando giunge il momento di lasciare il lavoro, per età o per motivi di salute. In questi momenti, nei quali si sperimenta la crisi, siamo chiamati a fermarci nel cammino, ad accogliere la forza dell’Ospitalità e a riscoprire che siamo stati chiamati e consacrati per essere ospitalità e per annunziare il Regno secondo lo stile di Gesù (Cost. 21), che dovette sperimentare il fallimento, la sofferenza, l’angoscia, la fragilità e l’abbandono, e perfino la morte sulla croce, per comprendere, compatire e liberare coloro che soffrono e muoiono abbandonati (cfr. Eb 2, 14-18)[106]

b) Seconda tappa: responsabilità operativa

133. Dopo la formazione iniziale, il Fatebenefratello viene pienamente inserito nell’attività apostolica. Il passaggio da una vita guidata e tutelata ad una situazione di responsabilità operativa, dev’essere accompagnato in maniera speciale ed intensa, per apprendere a vivere con pienezza la gioventù dell’amore e dell’entusiasmo per Cristo .[107]

134. L’età adulta ci confronta con il rischio della routine e dell’amarezza per la mancanza o la scarsezza di risultati. Questo è il tempo per rivedere, alla luce del Vangelo e del nostro carisma, l’amore primordiale, la nostra vocazione originaria. Troviamo un nuovo impulso e nuovi motivi di perseveranza nella vocazione. In questo periodo uno si concentra sull’essenziale .[108]

135. L’età matura comporta il rischio di cadere nell’individualismo, in una chiusura di fronte alla vita, o nella comodità. Il cammino spirituale ci aiuta a potenziare il nostro tono vitale, a purificarci e a donarci nell’oblazione generosa. Questa età ci offre la possibilità di maturare il dono e l’esperienza della paternità spirituale .[109]

c) Terza tappa: i limiti crescenti

136. L’età avanzata si caratterizza per un progressivo ritiro dall’attività, per malattia o a causa di un’inattività forzata. Sebbene sia un tempo spesso doloroso, offre al Fatebenefratello anziano l’opportunità di lasciarsi plasmare dalla Pasqua del Signore. In queste circostanze, la missione dell’ospitalità misericordiosa acquisisce la tonalità della passione; passione che ci identifica con la Passione del Signore. Giunge così a compimento nel Confratello il misterioso processo di spiritualità iniziato tempo addietro. La morte allora viene attesa e preparata come atto d’amore supremo e offerta totale di sé.[110]

d) I momenti cruciali

137. Indipendentemente dalle tappe, nella nostra vita ci sono momenti cruciali e decisivi. Fattori esterni, come una fatalità, un insuccesso, un avvenimento storico, o interni, come una malattia, una depressione, una perdita, un’amicizia, una crisi di fede o d’identità, possono portare molta tensione nella nostra vita al punto che ci sembra che sia prossima a spezzarsi. In momenti del genere sono decisivi l’accompagnamento spirituale[111], la preghiera, la vicinanza fraterna, la presenza degli amici. Il Confratello potrà così riscoprire il senso della sua alleanza con Dio e del primato e fedeltà di Dio ad essa. La prova è uno strumento provvidenziale dello Spirito per promuovere la crescita, l’identificazione con Gesù e il progresso nella sequela di Cristo crocifisso.[112].

Conclusione

138. Se noi Fatebenefratelli faremo emergere la sete di spiritualità che ci abita, dovremo stare attenti alle sorprese dello Spirito. Perché nascerà qualcosa di nuovo. Cadranno barriere. L’impossibile diventerà possibile. Fioriranno i nostri deserti. La nostra sete si placherà. Saremo messaggeri gioiosi ed entusiasti della Buona Novella della Misericordia e dell’Ospitalità. Saremo parabola di un mondo nuovo nel mondo del dolore e dell’emarginazione.

139. Il popolo di Dio, l’umanità intera, ha bisogno della nostra testimonianza perché il nostro spirito possiede una grande forza umanizzante. Nel contempo dobbiamo essere consapevoli della grande forza e energia spirituale che ci viene dal popolo santo di Dio e da tutta l’umanità, della quale facciamo parte. Per questo, crediamo che quanto più ci sentiremo Chiesa, popolo di Dio e umanità, più la nostra spiritualità crescerà, diventando più profonda e significativa. Siamo chiamati a vivere la nostra spiritualità condividendo il nostro dono e lasciandoci arricchire dai doni degli altri .

140. Come Profeti della Misericordia, animati dallo spirito di San Giovanni di Dio, accogliamo l’invito che, all’inizio di questo terzo millennio, ci ha rivolto Giovanni Paolo II nella lettera Novo Millenio Ineunte: “Duc in altum! Andiamo avanti con speranza!”[113]. Cristo Gesù, nostra speranza (1 Tm 1,1), ci darà la forza per rimanere fedeli alla nostra missione profetica.

 

 

 


[1] Regla y Constituciones, para el Hospital de Ioan de Dios de Granada (1585) Tit. 1º, 1ª Constitución, in Primitivas Constituciones, Madrid 1977, p. 12.

[2] Costituzioni del 1587,Introducción, n o.c.., pp. 81-82.

[3] “Giovanni di Dio non è nostro! E’ della società, è della Chiesa. Non siamo nemmeno gli unici responsabili perché permanga vivo lungo la storia. Però con l’aiuto di Dio dobbiamo fare di tutto perché l’Ordine e lui continuino nel tempo” . Fra Pascual Piles Ferrando, Lasciatevi guidare dallo Spirito (Gal, 5, 16). Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine, Roma 24 ottobre 1996, (9.3), p. 62.

[4] Cfr Dichiarazioni del LXV Capitolo Generale (Documentazione). Granada 6-24 novembre 2000; Carta d’identità dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Roma, 1999; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, Cernusco sul Naviglio, 1992; Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo, Cernusco sul Naviglio, 1992; La nuova evangelizzazione e l’ospitalità alle soglie del terzo millennio. Documentazione finale del LXIII Capitolo Generale dell’Ordine, Bogotà, ottobre 1994; Marchesi, P., Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, Roma, 1987; Piles Ferrando, P., Lasciatevi guidare dallo Spirito (Lettera Circolare ai Confratelli dell’Ordine), Roma, 24 ottobre 1996; Piles Ferrando, P., Ospitalità all’inizio del terzo millennio. Realizzazione della profezia di San Giovanni di Dio (Lettera Circolare). Roma, 2 febbraio 2001.

[5] Siamo 1.500 Confratelli, 40.000 collaboratori, tra impiegati e volontari, e circa 300.000 benefattori-sostenitori. Siamo presenti nei cinque continenti in 46 nazioni, con 21 Provincie religiose, 1 Viceprovincia, 6 Delegazioni Generali e 5 Delegazioni Provinciali, e realizziamo il nostro apostolato a favore degli infermi, dei poveri e di coloro che soffrono in 293 opere. Pur essendo membri dello stesso corpo – l’Ordine – viviamo realtà molto diverse. C’è chi vive in centri e società altamente tecnicizzate e chi in centri e società in via di sviluppo; c’è chi vive in nazioni immerse in un clima di pace e chi invece in paesi lacerati dalla guerra e dalla violenza o che vengono da un passato caratterizzato dalla violenza; c’è chi si può esprimere in piena libertà nella società in cui vive, e chi vede invece la sua libertà e i suoi diritti fondamentali pesantemente limitati; c’è chi si dedica all’apostolato propriamente ospedaliero e chi invece si trova impegnato in temi sociali e settori dell’emarginazione; c’è chi ha come missione quella di aiutare a vivere la persona e chi invece quella di garantire alla persona di morire con dignità; a prescindere dal fatto che il lavoro di noi tutti si ispira al progetto di un’assistenza integrale, ci sono sfumature che ci orientano di volta in volta verso la salute fisica, la salute mentale, il miglioramento delle condizioni di vita ecc.; infine c’è chi di noi vive nel Nord e chi nel Sud, chi nell’Ovest e chi nell’Est.: Ordine ospedaliero di san giovanni di dio, Carta d’identità dell’Ordine. L’assistenza ai malati e ai bisognosi secondo lo stile di san Giovanni di Dio, Roma, 1999, p. 9.

[6] Giovanni di Dio non ignora che per giungere alla pienezza ed evitare gli ostacoli, l’uomo dev’essere vigile e disponibile: “vegliate sempre e tenetevi sul piede di partenza”, perché può accadere “che potreste finire col perdervi”: cfr San Giovanni di Dio (SGD), Lettere, 1 Lettera alla Duchessa di Sessa (1DS), 7, p. 77; Lettera a Luigi Battista (LB), 6 p. 29; in J. Sánchez, Origen y camino de nuestra espiritualidad).

[7] SGD, Lettere, ibid.

[8] Durante l’accerchiamento di Fuenterrabía, Giovanni di Dio si offrì per andare a cercare l’approvvigionamento che mancava al distaccamento militare: “montò su una giumenta francese” che era stata presa al nemico e senza briglia e incamminandosi per le falde di un monte andò a cercare da mangiare presso i casali o le fattorie del posto, ma la giumenta riconoscendo i luoghi “nei quali di solito andava”, cominciò a correre furiosamente. Giovanni non riuscì a trattenerla; e fu scaraventato contro alcune rupi, buttando sangue, e rimanendo in terra come un morto. Dopo aver ripreso i sensi, provò impotenza, dolore, minaccia per la vicinanza del nemico, paura e …senza alcun soccorso in tanto pericolo …si sollevò da terra “si mise in ginocchio e, alzati gli occhi al cielo, invocò il nome di nostra Signora la Vergine Maria”. Aiutandosi poi con un palo, camminò lentamente fino a giungere all’accampamento dove “lo fecero mettere a letto” Francisco de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, Roma 1975, Edizioni Fatebenefratelli, (in seguito Castro) p 39-40.

[9] Castro, p. 43.

[10] Crebbe in casa dei genitori fino all’età di otto anni, quando a loro insaputa venne portato da un chierico nella città di Oropesa” (Castro pp. 37-38).

[11] “Tutto perisce… finché vivremo in questo esilio e in questa valle di lacrime” (1DS 6; 2DS 10) …“la morte consuma e distrugge tutto ciò che questo miserabile mondo ci dà e non ci consente di portare con noi se non un pezzo di tela stracciata ”: 3DS 15.

[12] 1DS 10.

[13] 2DS 15.

[14] Castro, p. 46.

[15] “ Non vedendo ancora quale via nostro Signore gli avrebbe aperto per servirlo … se ne andava triste e non trovava tranquillità né riposo, né gli piaceva più stare a guardare le pecore”. Castro, p. 52.

[16] Castro, p. 53.

[17] Ibid. , p. 59.

[18] Ibid. 16p. 61.

[19] Cf. Castro, p. 63 s.

[20] Castro, p. 65.

[21] Ibid., p. 66.69-70.

[22] Ibid., p. 71.72.

[23] Ibid., p. 76.

[24] Ibid., p. 72.

[25] Cf. Castro, p. 63.

[26] Castro, p. 92.

[27] Ibid., p. 87.

[28] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, Jerez, 1995, p. 331, 441.

[29] 2GL., 4-5.

[30] Castro. p. 107.

[31] Ibid, p. 94.

[32] Ibid., p. 107.

[33] Processo di Beatificazione di San Giovanni di Dio L 52/1.23, f 81. Cfr. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía” p. 190-191.

[34] Ibid, L 52/1.20, f 73v

[35] Castro, p.135.

[36] 1GL 11.

[37] Castro, p. 107.

[38] Ibid. , p. 107.

[39] 1DS 15s. Castro afferma anche che “il suo cuore non sopportava di vedere il povero patire necessità, senza apportarvi rimedio”.: p.125..

[40] Castro, p. 107.

[41] Castro, p. 129-130.

[42] 2GL., 7.

[43] 2DS 2.

[44] 2GL 17.

[45] Ibid., 8.

[46] Ibid., 7.

[47] Castro, p. 155.

[48] Ibid., p. 156.

[49] Ibid., p. 65.

[50] LB 13.

[51] Ibid. 8.9.

[52] Ibid. 6.

[53] Ibid. 7.

[54] Ibid. 9.

[55] Ibid. 15.

[56] Ibid. 10.

[57] Ibid. 11.13.9.

[58] Ibid. 15.

[59] Cf. 1DS. 13.

[60] J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, p. 292, 307, 393.

[61] Di loro non si parla. Nella biografia del Castro, soltanto nel cap. XX si parla del compagno di Giovanni di Dio, Antón Martín. Viceversa, nel “Processo”, antecedente alla biografia di Castro, si parla molte volte di fratelli d’abito di Giovanni di Dio; se ne parla anche nelle biografie scritte da Dionisio Celi e Antonio Govea. Giovanni d’Avila (che il Santo chiama “Angulo” nelle sue lettere) fornisce il nome di quattro compagni di Giovanni di Dio: Antón Martín, Pedro Pecador, Alonso Retingano e Domingo Benedicto.

[62] L. Ortega Lázaro, El hermano Antón Martín y su hospital en la calle Atocha de Madrid (1500-1936), Madrid 1981,. p. 31. cf. 17-19

[63] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, TT 8/5; T 9/5; T 10/5, p. 346, 356, 364.

[64] Cf. J. Sánchez Martínez. “Kénosis-diaconía”, T 11/20, p. 383: accoglievano ogni tipo di poveri, con ogni tipo di malattia, non importava che fossero mori o cristiani, senza abbandonare nessuno.

[65] Già dalle prime Costituzioni si mette in risalto quest’aspetto essenziale.

[66] Come per Giovanni di Dio, anche noi siamo attratti in modo particolare dalla dedizione totale di Gesù nell’amore, fino alla morte sulla croce per noi: la contemplazione della Passione di Cristo, ”uomo dei dolori” (Is 53, 3), occupa un posto di rilievo nella nostra spiritualità (Cost. 33). Su questo punto, la tradizione dell’Ordine si rifà al nostro Fondatore, devotissimo della Passione di Cristo. Contemplando Cristo crocifisso, il nostro Padre si centrava tanto nei patimenti di Gesù come nell’amore che lo motivava ad accettarli; amore che lo portò a perdonare, persino ai suoi nemici. Su questa qualità di amore Giovanni di Dio insiste, quando dice a Luigi Battista: “Ricordatevi di nostro Signore Gesù Cristo e della sua benedetta Passione, che restituì, per il male che gli facevano, il bene: così dovete fare voi”(nn. 10.11). Giovanni di Dio ci invita ad imitare Cristo nei suoi patimenti, dedicandoci ad una vita di penitenza e di sacrificio sino alla donazione d’amore nel servizio ai sofferenti. Nel volto afflitto dei malati, nella vita annichilita dei poveri, Giovanni scopre e contempla Cristo. Servirli, per Giovanni, non è una croce, non significa sacrificio: è semplicemente la manifestazione concreta che l’amore di Dio ha inondato la sua vita, e non può far altro che amare tutti e sempre, in particolar modo i più deboli.

[67] La nostra spiritualità è, fondamentalmente, cristocentrica. Giovanni di Dio amò Gesù in modo appassionato. Da lui abbiamo appreso a centrare la nostra vita in Cristo e a contemplarlo nel suo modo di servire, amare e guarire gli infermi. Gesù di Nazareth è il Maestro che, con il suo modo di agire, ci insegna gli atteggiamenti ed i gesti che dobbiamo incarnare per continuare la sua opera d’amore. Come Gesù, siamo chiamati a sentire compassione nel vedere l’abbandono e la miseria della gente (Cf. Mt 9, 36) e a dedicarci a servirli e consolarli come unica cosa che ci importa nella vita (Cf. Mc 6, 34-44); come Gesù, sperimentiamo la capacità di essere consapevoli che, quando ci accostiamo e serviamo i bisognosi, si manifesta una misteriosa forza interiore che ci supera (Cf. Lc 8, 40-48); contemplando Gesù, che si identifica con i poveri e gli infermi, prendendo su di sé i loro dolori e addossandosi le loro malattie (Cf. Mt 8, 17), si rinnova la nostra decisione di dedicarci al servizio dei sofferenti, assumendo, come Gesù, la condizione di servi che, con la dedizione della propria vita, promuovono e difendono la vita dei poveri (Cf. Mt 12, 15-21; 20, 28).

[68] La Vergine Maria, figura della Chiesa e prima tra tutte le persone consacrate (Cf. VC. 112), è per noi un modello di servizio a Cristo nell’Ospitalità. Giovanni di Dio amò Maria di un amore intenso: la venerò e la imitò nel suo modo di vivere, fu un suo grande devoto, da lei si sentì accompagnato e protetto nei momenti difficili della sua esistenza. Tutte le lettere di Giovanni di Dio iniziano così: Nel nome di nostro Signore Gesù Cristo e della Vergine Maria, sempre intatta. Come era d’abitudine in lui, invitava a fare tutto “…per il servizio di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria” (1 GL., 12)..Invocava la Madonna con la recita del santo rosario ed esortava gli altri a recitarlo: “Mi è andata molto bene con il Rosario, e spero in Dio, di recitarlo tutte le volte che potrò”( LB., 17). Seppe trasmettere ai suoi compagni la fiducia nella Vergine ed il desiderio di imitarla nel servizio ai poveri e ai malati. Serva come esempio la testimonianza di Antón Martín che, nel suo testamento, dice: Nel Nome della Santissima Trinità …e della beata Vergine Gloriosa, nostra Signora Santa Maria sua Madre, che considero come mia Signora e Protettrice in tutte le mie azioni… [...]…a servizio di nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosa Madre.(L. Ortega Lázaro, El Hermano Antón Martín y su Hospital en la C. Atocha de Madrid. 1550-1936, Madrid, 1981, p. 8).

Seguendo la tradizione dell’Ordine, le Costituzioni raccolgono il senso mariano della nostra spiritualità: la Vergine Maria è modello della nostra consacrazione a Dio (n. 25), profondamente ospedaliera nella sua vita dedicata al servizio della persona e dell’opera di Gesù (Cfr. n. 42b). Il suo esempio ci esorta a realizzare, come lei, il nostro pellegrinaggio nella fede (Cf. LG. 58) e ad imitarla, accompagnando con integrità ed amore profondo coloro che soffrono, associandoci in questo modo al sacrificio del suo Figlio, che si prolunga nel dolore dell’umanità (n. 34a; Cfr. 4d). Maria, Salute degli infermi e madre misericordiosa, ha un posto singolare nella vita della nostra comunità ospedaliera (Cost. 34) e nel cuore di ogni Confratello. Ci sentiamo animati ad onorarla e ad imitare la sua semplicità e disponibilità, la sua dedizione e fedeltà al progetto di Dio sulla nostra vita (Cfr. Cost. 4c), mentre la veneriamo con affetto di pietà filiale celebrando le sue feste, in particolare quella del suo Patrocinio sull’Ordine, e con le devozioni tradizionali, tra le quali ha un’importanza speciale la recita del Rosario. (Cfr. Cost. 4d; 34).

La Vergine del Magnificat mette in risalto uno degli aspetti più chiari della nostra spiritualità: il Dio della misericordia mantiene le sue promesse di liberazione e si china con una particolare predilezione sui poveri e sugli umili, e farà trionfare il potere della sua misericordia sull’arroganza dei potenti di questo mondo, che opprimono i deboli. Come Maria, siamo chiamati a sentirci in comunione con essi, a sentire come propria la loro realtà ingiusta e ad impegnarci evangelicamente per la loro liberazione integrale (Cfr. Lc. 2, 46-53).

Nella visita ad Elisabetta, Maria ci viene proposta come modello di ospitalità per la sua disponibilità di aiutare la cugina e di dedicarsi con semplicità al suo servizio, ma soprattutto, perché in lei Dio manifesta e fa presente la sua salvezza. Dio, incarnatosi nel seno di Maria, scegliendola come mediazione per comunicare il suo Spirito ad Elisabetta e al bambino che portava in grembo (Cfr. Lc 1, 41-44), eleva i gesti di ospitalità a livello di sacramento che evoca e compie la sua azione di salvezza.

[69] Cost. 1984 103a.

[70] Ibid. 1984, 103 § c.

[71] VC, 54.

[72] Dopo il Vaticano II, dalla metà degli anni Ottanta, l’Ordine incoraggiò ed animò un movimento di Alleanza con i Collaboratori. Recentemente, la Chiesa ha riconosciuto questo importante passaggio dei laici da operatori che lavorano per la missione o collaborano nella missione dei religiosi, a operatori che condividono il carisma e la missione dei religiosi, in modo tale che “è iniziato un nuovo capitolo, ricco di speranze, nella storia delle relazioni tra le persone consacrate e il laicato”. (VC 54; Cfr. Cost. 23a).

[73] Cfr V.A. Riesco, La Hospitalidad manifestación del Ser de Dios en favor del hombre. Fundamento bíblico de nuestra espiritualidad.

[74] Non è facile spiegare perché il Dio dell’Antico Testamento fu presentato talvolta con tratti violenti e perfino demoniaci. Il motivo di fondo era probabilmente la necessità di spiegare il mistero del male, e di stabilire, contro ogni tipo di idolatria, che Yahweh era l’unico Dio.

[75] Così lo esprime ripetutamente il primo Capitolo (Costituzione Fondamentale) delle Costituzioni attuali. In primo luogo, presentano San Giovanni di Dio come un uomo che : “trasformato interiormente dall’amore misericordioso del Padre, visse in perfetta unità l’amore a Dio e al prossimo” (Cost. 1); “imitò fedelmente il Salvatore nei suoi atteggiamenti e gesti di misericordia…e si donò interamente al servizio dei poveri e dei malati” (Cost. 1).

[76] In secondo luogo, le Costituzioni affermano che: “L’Ordine Ospedaliero nasce dal vangelo della misericordia (Mt 8,17; 25,34-46), quale lo visse in pienezza San Giovanni di Dio” (Cost. 1); attraverso la consacrazione dello Spirito i Confratelli si configurano con Gesù compassionevole e misericordioso; partecipano dell’amore misericordioso del Padre e mantengono viva nel tempo la presenza misericordiosa di Gesù di Nazareth (cfr. Cost. 2).

[77] 1 DS, 13.

[78] Cfr. Daniel Innerarity, Ética de la hospitalidad, ed. Península, Barcelona 2001. 

[79] Cf. N.B. Pagadut, Be hospitable, Claretian Publications, Quezon City, Philippines 1992.

[80] Castro, p. 107,108.

[81] un testimone ricorda che un giorno, entrando in cucina, lo trovò molto allegro: batteva il palmo di una mano sul dorso dell’altra, dicendo un canto santo. E questo testimone gli disse: “Va tutto bene, Padre?” Ed egli rispose: “Chi serve Dio, vive allegro”. (T. 30. In Gómez Moreno, o.c. p 214).Molte volte mi trovavo lì e lo vedevo passare tra i malati curandoli, vestendoli, girandoli e rimettendoli a letto prendendoli tra le braccia, sempre sorridente e con tanto amore e carità che era una cosa stupefacente, da sembrare che volesse stringere tutti i malati dentro di se. (T. 59. In Gómez Moreno, o.c., p. 231-232)

[82] 2 GL., 5.

[83] Amate nostro Signore Gesù Cristo sopra tutte le cose del mondo, ché per molto che lo amiate, molto più Lui ama voi. Abbiate sempre carità, perché dove non c’è carità, non c’è Dio, anche se Dio è in ogni luogo. (LB. 15)

[84]Cost. 1587, cap. 17. o.c., p. 95.

[85] Cost. 2 c.; 3 a; 5 a.

[86] Cfr. GS. 22; Cost. 20.

[87] “Il Rinnovamento ha due aspetti fondamentali: innanzitutto esso cerca di eliminare le debolezze della nostra vita e di abbattere le barriere che ostacolano la nostra comunione fraterna; in secondo luogo si sforza di scoprire anche quei nostri “punti forti” che possono facilitare il raggiungimento di una unione simile a quella tra il Padre e il Figlio.” (P. Marchesi, Rinnovamento, Roma, 1978, p. 16).

[88] “…il bisogno fondamentale dell’uomo è quello di essere riconosciuto come persona degna per se stessa, degna cioè di ricevere attenzione, premura e amore al di là delle differenze di cultura, di istituzione, di classe sociale, di religione e di razza …” ( P. Marchesi, Umanizzazione, Roma 1981, p. 21)

[89] Giunto che fu alla Corte, il conte di Tendilla ed altri signori che lo conoscevano, ne diedero notizia al Re, informandolo delle cose di Giovanni di Dio, e lo introdussero nel palazzo. Ivi Giovanni gli parlò, iniziando in questo modo: Signore, io sono solito chiamare tutti fratelli in Gesù Cristo. (Castro, o.c., p. 122)

[90] Cfr. Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Confratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita.

[91] Negli anni ’80, sulla spinta del movimento di umanizzazione, l’Ordine stava ricercando il modo adatto per riorganizzare la propria missione in favore dei vecchi e dei nuovi bisogni dell’umanità. E’ interessante notare come concluse i lavori l’Assemblea dei Provinciali, celebratasi nel 1981: “La nostra Assemblea riafferma la propria speranza ed il proprio impegno nel costante rinnovamento dell’Ordine. Siamo convinti che esso può essere ottenuto esclusivamente se tutti noi, membri dell’Istituto, viviamo in continuo atteggiamento di attenzione per quelle esigenze che implica la nostra consacrazione e se ci sforziamo di tradurre questo nostro atteggiamento in concrete risposte alle speranze riposte in noi dalla Chiesa e dalla Società. Considerando che il mondo sta vivendo un momento importante della sua storia, i cui valori fondamentali della persona sono ad un tempo rivendicati ed infranti, noi assumiamo l’impegno preciso, espressione concreta del carisma dell’Ordine, di difendere e promuovere senza indugio il rispetto della dignità umana. Ciò ha suscitato in noi la convinzione che l’umanizzazione, intesa nel senso da essa acquisito nella persona di Gesù di Nazareth, costituisce, nel momento storico che stiamo attraversando, il vincolo unificante ed integrante che può aiutarci a tradurre in fatti di vita il processo di rinnovamento” (P. Marchesi, o.c., p. 146-147).

[92] Cfr. anche il n.10: “E’ questo un tempo in cui lo Spirito irrompe, aprendo nuove possibilità. La dimensione carismatica delle diverse forme di vita consacrata, pur sempre in cammino e mai compiuta, prepara nella Chiesa, in sinergia con il Paraclito, l’avvento di Colui che deve venire, di Colui che è già l’avvenire dell’umanità in cammino”. Vedere inoltre i numeri 18, 21, ecc. Non dimentichiamo che questo documento si basa sull’immagine del “cammino”..

[93] Cfr. Governo Generale, Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo, Cernusco sul Naviglio, 1992, punto 1.

[94] E’ stato così per Giovanni di Dio: sentendosi senza radici umane autentiche, si ravvivò in lui la chiamata che, già da Oropesa, lo invitava a lasciare il lavoro di pastore del gregge e di accudire ai cavalli del Conte per dedicarsi a servire il Signore “fuori del luogo nativo” poiché “sentiva una gran pena, allorché…vedeva nella scuderia i cavalli grassi e lucidi e ben coperti, ed i poveri invece deboli ed ignudi e trattati male. E dentro di sé diceva: E come, Giovanni, non sarebbe meglio che tu attendessi a curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo, piuttosto che le bestie del campo?” (Castro, p. 51-52).

[95] S.C. 10

[96] Nell’Eucarestia infatti, , il Signore Gesù ci associa a sé nella propria offerta pasquale al Padre: offriamo e siamo offerti. La stessa consacrazione religiosa assume una struttura eucaristica: è totale oblazione di sé, strettamente associata al sacrificio eucaristico. Qui si concentrano tutte le forme di preghiera, viene proclamata ed accolta la Parola di Dio, si è interpellati sul rapporto con Dio, con i fratelli, con tutti gli uomini: è il sacramento della filiazione, della fraternità e della missione. Sacramento dell’unità con Cristo, l’Eucarestia è contemporaneamente sacramento dell’unità ecclesiale e dell’unità della comunità dei consacrati. (Ripartire da Cristo, n. 26)

[97] La “permanente disponibilità (di Gesù) ad essere fortezza, consolazione e viatico degli ammalati, ci stimola a perseverare accanto all’uomo che soffre, accompagnandolo nel suo dolore e nella sua solitudine” (Cost. 30c).

[98] “La Chiesa ha bisogno di noi come noi abbiamo bisogno di Lei, e ciò sarà sempre più vero nei prossimi anni. E’ indispensabile comunicare all’interno della Chiesa. La nostra vocazione e il carisma del nostro Ordine nella loro identità e nei loro programmi, debbono essere ben presenti al mondo dei credenti, per diventare per essi uno stimolo e anche un modello, una strada per realizzare la comune vocazione battesimale alla santità” . (P. Marchesi, Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000, Roma, 1987, n. 89).

[99] Cfr. P. Marchesi, L’Ospitalità dei Fatebenefratelli verso il 2000 , Roma, 1987, nn. 66-86.

[100] La spiritualità nella missione si esprime nell’entusiasmo, nell’immaginazione profetica, nella creatività apostolica. La mancanza di Spirito porta alla routine, alla monotonia, alla mera ripetizione. La presenza dello Spirito è il fuoco che tutto anima e ricrea. Per un religioso con spirito ospedaliero la vocazione non diventa mai un’abitudine. Scopre sempre la novità del Regno di Dio in tutto ciò che fa.

[101] Il nostro corpo è in strettissima relazione con la natura. Il corpo è quella parte della natura che più abbiamo addomesticato. La nostra spiritualità acquisisce così toni profondamente ecologici, che non dobbiamo trascurare: in questo modo percepiremo meglio le possibilità del corpo umano, ma anche le sue debolezze e i suoi rischi. .

[102] Nell’orizzonte della vita di un Fatebenefratello c’è sempre la possibilità del martirio, il “caso serio” della generosità della carità, della confessione della fede e della proclamazione della speranza. Il martirio è un dono. Ed è sempre stato riconosciuto come tale. E’ un dono per il martire ed anche per l’Ordine. E’ un dono paradossale, ma reale. Possiamo evitarlo anticipatamente, se eludiamo il pericolo, se cerchiamo sicurezze, se evitiamo qualsiasi tipo di rischio. Una vita così, non merita l’appellativo di “ospedaliera” e “misericordiosa”. Il martirio come orizzonte dà un colore speciale alla vita ospedaliera. Fanno parte delle forme di martirio anche gli impegni a favore poveri che comportano emarginazione, isolamento, condanna. E’ quando l’ospedaliero può dire: “sono stato in carcere”, “sono stato espulso”. ”.

[103]Nella nostra vita passiamo per tappe significative; in particolare dobbiamo curare: i primi anni della formazione iniziale di ogni tappa, l’età della maturità; i momenti di crisi e di ritiro progressivo dall’azione. La vita degli Istituti religiosi, e soprattutto il loro futuro, dipende in parte dalla formazione permanente dei loro membri. E’ dovere di ogni Istituto procurare i mezzi e i tempi adeguati perché le persone si formino adeguatamente . Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Progetto Formativo dei Fatebenefratelli . (P.F.O.) Roma 2000, nº 132). Cfr.

Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio. La Formazione Permanente nell’Ordine Roma 1991.

[104] P.F.O.., nn. 39 e 44.

[105] Ibid., nºn. 46-57. Caratteristiche del nostro modello formativo: integrale, in evoluzione, esperenziale, personalizzato, lgraduale e differenziato, liberatore e profetico, universale.

[106] Ibid., nº 24: “Alla luce dell’itinerario del nostro Fondatore, il processo formativo deve offrire ai candidati ed ai formandi un ampio spazio per interiorizzare e riflettere sul carisma e sulla spiritualità dell’Ordine. E’ una sfida per l’Ordine educare, formare e rendere in grado i Confratelli di testimoniare il vangelo della misericordia nella società attuale, con fedeltà creativa ”.

[107] Ibid., nn. 92 e 137c.

[108] Ibid., n. 26h. La formazione permanente nell’Ordine, n. 33

[109] Ibid, n. 136. La formazione permanente nell’Ordine , n. 34.

[110] Ibid, nº 44. La formazione permanente nell’Ordine , nn. 35 e 36.

[111] Nel cammino personale di spiritualità è essenziale l’accompagnamento spirituale, non solo durante la gioventù, ma in ogni età. L’esempio del rapporto di San Giovanni di Dio con San Giovanni d’Avila è un eccellente punto di riferimento per noi. Dobbiamo instaurare un canale di comunicazione, al più profondo livello, con un religioso o una religiosa che abbia una certa esperienza nel cammino del Signore. Ci servirà da riferimento, da contrasto, da stimolo. I nostri superiori sono invece chiamati nella misura del possibiledi realizzare un servizio di animazione spirituale nei confronti di ciascun Confratello della comunità..

[112] Ogni Confratello ed ogni formando devono saper integrare e vivere tutti gli avvenimenti, siano essi positivi o negativi, come parte della propria storia di salvezza, partendo dalla quale Dio ci parla e ci guida ”. (P.F.O., nn. 27 e 50)

[113] NMI 58

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