MARIA NELL’ARTE

 

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MARIA NELL’ARTE GIAPPONESE

MARIA NELL’ARTE GIAPPONESE

Posted on Luglio 4th, 2009 di Angelo 

 

 

 

[Madonna and Child from Japanese Carmel]
Japanese Mother and Child
THE CHRISTIAN MESSAGE is not bound either by geography or by a specific culture. Christ’s spirit is the spirit of incarnation. It permeates history and features the thousand faces of human endeavor. Religious art is only one of its many expressions. So why shouldn’t there be a Japanese Madonna to portray Christ’s coming and presence among his brothers and sisters in Japan? Wherever her Son, there is Mary.

Carmelite Nuns of Tokyo, Japan, made this display of Marian images possible. The convent’s prioress recently wrote: “We would like very much to avoid publicity, so unbecoming of poor Carmelite nuns, and so we ask you not to mention the artist’s name. Our greatest privilege is to be instrumental in spreading the Marian devotion–Mary, who is our Queen and Mother of Carmel.”

The artist-nun of the Tokyo Carmel was born in Aichi Prefecture in the Nagoya diocese. She is the youngest of four children. The family eventually moved to Tokyo, where the future artist-nun entered the Futaba School run by the Sisters of St. Maur.

Sister is self-taught, having studied art only in the school’s mandatory hour-a-week course. At the age of thirteen, she began painting with watercolors, but long before this age, she had enjoyed drawing familiar Japanese scenes.

She entered the Carmel at the age of twenty-one, and was immediately inspired to paint a Madonna in traditional Japanese garb. Thanks to a senior monastery-artist, Sister was able to learn and perfect the art of painting holy persons, something she had never been taught before. However, in 1964, the senior artist was confined to her bed with cancer. It was at this time that the work of designing the monastery’s Christmas cards was passed on to her. Proceeds from the sale of these cards support the twenty nuns who form the community.

[Japanese Madonna] Japanese Madonna

 

[Japanese Madonna] Japanese Madonna 

 

 

 

 

 

 

 

 

Postal Address: Carmel of the Holy Trinity; 27-I, 3-chome; Motomachi, Jindaiji, Chofu-shi; Tokyo 182; JAPAN

 

Exhibited at the Marian Library: March 1 – April 15, 1990

Sister began her new duty by painting “copies” of some of her mentor’s works – until at last she was proficient enough to create her own charming images that we know today.
When asked how long it took her to paint an original Madonna, the cloistered nun responded: “It is difficult to compute the hours spent on each painting, as the time of work is cut up by hours of prayer, and dispersed throughout the day.”
 
It is quite doubtful that this humble Japanese nun is aware of it – but her Madonnas are fondly admired throughout the world. And it is truly an honor to have been offered to exhibit twenty-seven of her original paintings across the United States.
 

As the Carmelite nun paints, she is silent with her thoughts. And if you study her beautiful images with this same gentle quietness, almost assuredly you will be able to hear her messages of hope and peace for the whole world.

 

 

 

 

 

by the Carmelite Nuns of Japan

 

 

 

 

 

FERDINANDO MICHELINI E LA SUA ARTE – Angelo Nocent

San Giovanni di Dio trasporta sulle spalle un malato

TEOLOGIA DELLA BELLEZZA

Di Angelo Nocent

Ha dipinto la Carità, ossia l’amore di Dio per gli uomini, ha indossato la divina umanità di Cristo, ha contemplato la Bellezza che salva il Mondo, ha offerto il suo corpo in libagione. Per il momento invito a leggere la Lettera ai Filippesi che aiuta ad entrare nella sua interiorità per comprendere l’ispirazione della sua arte.  

michelini-fernando-il-miracolato-da-san-riccardo-pampuri

La Lettera dell’Apostolo Paolo ai Filippesi tratteggia alcuni aspetti caratteristici della personaità del Prof. Michelini, l’umile servitore del Vangelo che ha diffuso la Parola di Dio per immagini e vissuto la carità condividendo il pane e il sapere lungo i sentieri della Provvidenza che lo ha portato lontano dalla sua Milano dopo la guarigione miracolosa attribuita all’intercessione di San Riccardo Pampuri.

Rileggendo il testo paolino, par di sentirne la voce entusiasta anche in mezzo ai pericoli ed alle afflizioni di ogni genere.

1…

 2Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

3Ringrazio il mio Dio ogni volta ch’io mi ricordo di voi, 4pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, 5a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente, 6e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. 7È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. 8Infatti Dio mi è testimonio del profondo affetto che ho per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. 9E perciò prego che la vostra carità si arricchisca sempre più in conoscenza e in ogni genere di discernimento, 10perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11ricolmi di quei frutti di giustizia che si ottengono per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio.

12Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, 13al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo; 14in tal modo la maggior parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno. 15Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16Questi lo fanno per amore, sapendo che sono stato posto per la difesa del vangelo; 17quelli invece predicano Cristo con spirito di rivalità, con intenzioni non pure, pensando di aggiungere dolore alle mie catene. 18Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene. 19So infatti che tutto questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20 secondo la mia ardente attesa speranza che in nulla rimarrò confuso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia.

21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. 22Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto, non so davvero che cosa debba scegliere. 23Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; 24d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne. 25Per conto mio, sono convinto che resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede, 26perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo, con la mia nuova venuta tra voi.

27Soltanto però comportatevi da cittadini degni del vangelo, perché nel caso che io venga e vi veda o che di lontano senta parlare di voi, sappia che state saldi in un solo spirito e che combattete unanimi per la fede del vangelo, 28senza lasciarvi intimidire in nulla dagli avversari. Questo è per loro un presagio di perdizione, per voi invece di salvezza, e ciò da parte di Dio; 29perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo; ma anche di soffrire per lui, 30sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo.

2

1Se c’è pertanto qualche consolazione in Cristo, se c’è conforto derivante dalla carità, se c’è qualche comunanza di spirito, se ci sono sentimenti di amore e di compassione, 2rendete piena la mia gioia con l’unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. 3Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso, 4senza cercare il proprio interesse, ma anche quello degli altri.

5Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,

6il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
7ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
8umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
9Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
10perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
11e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

12Quindi, miei cari, obbedendo come sempre, non solo come quando ero presente, ma molto più ora che sono lontano, attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. 13È Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo i suoi benevoli disegni. 14Fate tutto senza mormorazioni e senza critiche, 15perché siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, 16tenendo alta la parola di vita. Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato. 17E anche se il mio sangue deve essere versato in libagione sul sacrificio e sull’offerta della vostra fede, sono contento, e ne godo con tutti voi. 18Allo stesso modo anche voi godetene e rallegratevi con me.

19Ho speranza nel Signore Gesù di potervi presto inviare Timòteo, per essere anch’io confortato nel ricevere vostre notizie. 20Infatti, non ho nessuno d’animo uguale al suo e che sappia occuparsi così di cuore delle cose vostre, 21perché tutti cercano i propri interessi, non quelli di Gesù Cristo. 22Ma voi conoscete la buona prova da lui data, poiché ha servito il vangelo con me, come un figlio serve il padre. 23Spero quindi di mandarvelo presto, non appena avrò visto chiaro nella mia situazione. 24Ma ho la convinzione nel Signore che presto verrò anch’io di persona.

25Per il momento ho creduto necessario mandarvi Epafrodìto, questo nostro fratello che è anche mio compagno di lavoro e di lotta, vostro inviato per sovvenire alle mie necessità; 26lo mando perché aveva grande desiderio di rivedere voi tutti e si preoccupava perché eravate a conoscenza della sua malattia. 27È stato grave, infatti, e vicino alla morte. Ma Dio gli ha usato misericordia, e non a lui solo ma anche a me, perché non avessi dolore su dolore. 28L’ho mandato quindi con tanta premura perché vi rallegriate al vederlo di nuovo e io non sia più preoccupato. 29Accoglietelo dunque nel Signore con piena gioia e abbiate grande stima verso persone come lui; 30perché ha rasentato la morte per la causa di Cristo, rischiando la vita, per sostituirvi nel servizio presso di me.

3

1Per il resto, fratelli mei, state lieti nel Signore. A me non pesa e a voi è utile che vi scriva le stesse cose: 2guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! 3Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Cristo Gesù, senza avere fiducia nella carne, 4sebbene io possa vantarmi anche nella carne. Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: 5circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; 6quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge.

7Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. 8Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo 9e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. 10E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, 11con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. 12Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. 13Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, 14corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù.

15Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. 16Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea.

17Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi. 18Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: 19la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. 20La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, 21il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

4

1Perciò, fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!

2Esorto Evòdia ed esorto anche Sìntiche ad andare d’accordo nel Signore. 3E prego te pure, mio fedele collaboratore, di aiutarle, poiché hanno combattuto per il vangelo insieme con me, con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita.

4Rallegratevi nel Signore, sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. 5La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino! 6Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste, con preghiere, suppliche e ringraziamenti; 7e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.

8In conclusione, fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. 9Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!

10Ho provato grande gioia nel Signore, perché finalmente avete fatto rifiorire i vostri sentimenti nei miei riguardi: in realtà li avevate anche prima, ma non ne avete avuta l’occasione. 11Non dico questo per bisogno, poiché ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione; 12ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. 13Tutto posso in colui che mi dà la forza.

14Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione. 15Ben sapete proprio voi, Filippesi, che all’inizio della predicazione del vangelo, quando partii dalla Macedonia, nessuna Chiesa aprì con me un conto di dare o di avere, se non voi soli; 16ed anche a Tessalonica mi avete inviato per due volte il necessario. 17Non è però il vostro dono che io ricerco, ma il frutto che ridonda a vostro vantaggio. 18Adesso ho il necessario e anche il superfluo; sono ricolmo dei vostri doni ricevuti da Epafrodìto, che sono un profumo di soave odore, un sacrificio accetto e gradito a Dio. 19Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. 20Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.

21Salutate ciascuno dei santi in Cristo Gesù. 22Vi salutano i fratelli che sono con me. Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare.

23La grazia del Signore Gesù Cristo sia con il vostro spirito.

in costruzione

 

michelini-  I quattro venti della terra

Michelini - ilgrandenumerodeglieletti

Michelini - La prima tromba

Michelini - La seconda tromba

Michelini - La quarta tromba

Michelini - La quinta tromba

Michelini - La quinta dei tre guai

Michelini - La sesta tromba

Michelini - La settima tromba

Michelini - L'angelo e il Libro

Michelini - La misura del tempio

Michelini - I due testimoni

Michelini - Un grande segno apparve nel cielo

Michelini - Il primo avversario

Michelini - Il secondo avversario

Michelini - Il terzo avversario

Michelini - Il quarto segno

Michelini - Il quinto segno

Michelini - Sesto segno

Michelini - Le uve sono mature

Michelini - Settimo segno

Michelini - Primo calice

Michelini - Secondo calice

Michelini - Quarto calice
Michelini - Sesto calice
Michelini - Intermezzo
Michelini - Settimo calice
Posted on ottobre 20th, 2009 di Angelo | Edit

 

 

 

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Michelini - Fractio Panis

Michelini - Ego sum

Michelini - 3 Trasfigurazione 

Michelini - 4 Giovanni di Dio lava i piedi

Michelini 5 Giovanni di Dio con bambino

Michelini - 6 Giovanni di Dio con Crocifisso

Michelini - 7 Giovanni di Dio - grafica

 

FERNANDO MICHELINI MISSIONARIO – Di Ambrogio Chiari e Serafino Acernozzi

FERNANDO MICHELINI MISSIONARIO

Di Ambrogio Chiari e Serafino Acernozzi

Posted on Luglio 7th, 2009 di Angelo. 

FERNANDO MICHELINI E L’AFRICA 

 Di Ambrogio Chiari

 Negli anni 1950-60 fra Mosé Bonardi, Superiore Generale dell’Ordine, animato da profondo spirito missionario, diede un impulso rilevante alle varie Province perché sviluppassero opere nei tre continenti più bisognosi: Africa, America del Sud ed Asia. Le Province si attivarono in tal senso e la Provincia Lombardo-Veneta si impegnò in Israele, con l’ospedale di Nazareth, succedendo nella gestione alla Provincia Austriaca nel 1959, ed in Togo e Dahomey (ora Benin) in Africa.

 

L’invito per la realizzazione di un ospedale in Togo era arrivato in particolar modo dal vescovo di Lomè, mons. Casimir Dosseh, che aveva avuto modo di conoscere ed avvicinare i Fatebenefratelli, i Comboniani ed altri.

 

Individuate le zone che presentavano una maggior necessità nel settore sanitario ospedaliero ed espletate le richieste formalità ed autorizzazione, si diede inizio ai lavori di costruzione degli ospedali intitolati a S. Giovanni di Dio ad

Afagnan in Togo ed a Tanguiéta in Dahomey, rispettivamente nel 1961 e nel 1965.

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 Michelini ebbe una parte molto importante, in quanto predispose i progetti e poi ne seguì personalmente le opere costruttive, soprattutto per l’ospedale di Tanguiéta. Per un decennio circa Michelini visse prevalentemente in Africa.

 Come è già stato sottolineato più volte, questa scelta di impegno totale a favore dei più bisognosi non è stata un colpo di testa bensì il desiderio di dedicare esclusivamente per il bene del prossimo quella vita che gli era stata

conservata grazie all’intercessione del medico fatebenefratello Riccardo Pampuri, che verrà beatificato proprio per il miracolo a Michelini..

Michelini con Giovanni Paolo II 

Se si dovesse scrivere una bella biografia di Michelini molte pagine dovrebbero essere dedicate alla sua attività africana. E chissà quante cose avrebbero potuto raccontare i religiosi fatebenefratelli fra Onorio Tosini, fra Tommaso Zamborlin, fra Aquilino Puppato, fra Clemente Tempella… ed altri ancora.Fra Onorio Tosini o.h. (con gli occhiali) ad Afagnan nel 1960.

 

In questa occasione si vuole illustrare brevemente, forse per la prima volta, le opere eseguite da Michelini a Tanguiéta. La tecnica usata è quella dell’affresco, mediante colori ricavati triturando le pietre locali.

 

(In apertura) S. Giovanni di Dio soccorre un malato. Il santo è raffigurato con l’abito bianco, quasi fosse il camice del medico o dell’infermiere, tenuto conto anche dell’esigenza dello stesso per via del particolare clima. Il malato, con una fasciatura alla gamba sinistra, si sorregge su una stampella con il braccio destro e con l’altro al braccio del santo. Vi sono dipinte altresì una brocca, una ciotola, una benda ed una pianta, probabilmente medicinale. C’è pure la scritta “S. Giovanni di Dio celeste patrono dei malati”.

  

 1)    S. Giovanni di Dio lava i piedi a Gesù.

 

La rappresentazione si rifà all’episodio della vita del Santo, che vide trasfigurarsi in Gesù un malato mentre amorosamente gli lavava i piedi. É Gesù stesso che gli dice “Sono io stesso che tu curi nei tuoi poveri” (frase riportata nel quadro).

 

Gesù è seduto su uno sgabello ed ha i piedi in un catino. Dai fori delle mani, dei piedi e del costato partono dei raggi, a sottolineare appunto l’aspetto salvifico di quelle piaghe”.

 

Proprio dalla mano destra benedicente di Gesù partono dei raggi che si proiettano sul volto del santo, il quale sta in ginocchio con il volto rivolto estasiato al volto di Gesù. Sulla sinistra sono raffigurati dei malati allettati come si usava un tempo nelle corsie ospedaliere.

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2) L’Immacolata. La Madonna, in vesti completamente bianche, in atteggiamento di preghiera, con il capo circondato da dodici stelle, pone il piede destro sulla luna mentre con il sinistro schiaccia la testa al serpente, che ha in bocca una mela. Il riferimento alla nuova Eva Maria è evidente. 

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3) L’incontro con Gesù Bambino. Gesù Bambino, su una roccia, tra i rami di un albero, mostra a Giovanni una melagrana sormontata da una croce e da una stella. “Giovanni di Dio Granada sarà la tua croce” (frase riportata sul quadro). Il santo è inginocchiato e tende le braccia verso l’apparizione. A terra c’è una cassetta contenente dei libri, in quanto in quel periodo il santo svolgeva l’attività di venditore ambulante. Sullo sfondo è raffigurata la città di Granada, collocata su un monte, come una città fortificata.

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4) L’ultima Cena. Gesù è rappresentato al centro della tavola, in piedi, con tra le mani un calice, mentre il pane è sulla tavola. Lo circondano, seduti sugli sgabelli, gli apostoli in atteggiamento quasi di attesa mentre Giuda, seduto ad un fondo del tavolo, tiene in mano un sacchetto di monete (Giuda era il tesoriere e l’economo del gruppo) ed il suo sguardo è rivolto altrove. Il Cenacolo è una semplice stanza. Qui Michelini ha potuto sbizzarrirsi nella colorazione, molto bella e variegata. Il tema stesso si prestava a questo.

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5) La Resurrezione. In mezzo a due soldati romani accecati dalla luce, Gesù si erge sul sepolcro scoperchiato in atto benedicente del vincitore della morte. Vi è dipinta la scritta “Il Signore è veramente risorto. Alleluia!”.  

 

 

6) La guarigione del cieco nato. Gesù, scacciato dai farisei dal tempio uscendo si imbatte in un uomo, cieco dalla nascita. Con la saliva fa del fango, lo spalma sugli occhi del cieco e gli dice di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. Il cieco va, si lava gli occhi e riacquista la vista… Ma i farisei, increduli, lo sottopongono ad un serrato interrogatorio…

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Gesù, invece, gli dice che la sua fede lo ha salvato (testo riportato nel dipinto). In questo quadro Michelini ha voluto sottolineare la bontà di Gesù ed anche la fiducia e la fede della gente. Egli, infatti, è circondato non solo dagli apostoli ma soprattutto da persone che aspettano da Lui una guarigione: oltre al cieco ci sono altri malati (un giovane che si appoggia ad una stampella, un bambino con un braccio sorretto da una fascia, e due mamme con i loro figli, forse anch’essi bisognosi di un gesto di guarigione …

Quasi al centro della scena un giovane alza le braccia al cielo, in segno di stupore per il miracolo a cui ha assistito o di ringraziamento?

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… Le austere mura del tempio, con le sue colonne, contrastano con la semplicità e la povertà della scena. Qui Michelini ha dato sfoggio alla sua fantasia…

 

 7) Il battesimo di Gesù. La scena è quella che vediamo solitamente: Gesù immerso nel fiume Giordano, il Battista che gli versa l’acqua in testa, la colomba dello Spirito Santo, il Padre che proclama che Gesù è il Suo Figlio

prediletto… Di fianco a questa scena Michelini ha dipinto quattro Angeli che portano rispettivamente una veste bianca, una lucerna accesa, una ciotola con del sale e il vaso con l’olio sacro.

Questi sono i dipinti. Non sto a sottolineare il loro valore pittorico ed estetico. È inconfondibile la mano di Michelini: la linearità dei tratti, le pennellate ben sicure, la geometricità delle forme, la compostezza delle figure e la colorazione armoniosa in una ambientazione molto semplice, priva di costruzioni che appesantiscono l’insieme. Quel che conta è che la visione suggerisca il significato della scena con immediatezza, senza dover ricorrere a ricostruzioni mentali…

 

Michelini ha sempre un obiettivo didascalico nelle sue pitture: devono dire ed insegnare, o almeno far capire un messaggio ben preciso: elevare la mente ed il cuore, aprirlo al mistero e, perché no, alla preghiera.  

 

NELLA GALLERIA DEI RICORDI

 

Di Serafino Acernozzi o.h.  

 

Fra Serafino Acernozzi in Africa

Dare volto ai ricordi del prof. Michelini per fermarli, incorniciarli ed esporli in rassegna come in una galleria d’arte… 

Quando fui in missione a Tanguiéta (Rep. Del Bénin) anche là trovai dipinti e affreschi del Professore. Poi passai ad Afagnan (nel Togo) ed anche là trovai ancora dipinti ed affreschi del Professore. Lo incontrai più volte, poiché risiedeva a Lomé, capitale del Togo, e precisamente alla Scuola Professionale dell’Arcidiocesi ove era insegnante delle Belle Arti. Al sabato di buon mattino arrivava ad Afagnan all’ospedale, con i suoi allievi per far vedere quanto aveva realizzato con il suo progetto nonché la decorazione, come architetto e pittore.  

Il Professore ad Afagnan, durante il mio priorato lo incontrai più volte, anche

perché offrivamo un buon pranzo e cena all’africana. Una volta il Professore mi ha raccontato che di buon mattino mentre i religiosi Fatebenefratelli erano in cappella per la meditazione e la S. Messa di comunità, aveva affrescato una parete del refettorio raffigurando i discepoli di Emmaus. Quando i confratelli uscirono dalla cappella ed entrarono in refettorio per la piccola colazione rimasero sbigottiti nel vedere l’affresco e si domandavano come in così poco tempo avesse fatto tutto questo… Era il carisma degli artisti. 

Il prof. Michelini nel Togo era a disposizione anche dell’Arcivescovo di Lomé, mons. Casimir Dosseh che lo inviava in tutte le Diocesi del Togo per progettare nuove Chiese e opere sociali. Affrescava anche le nuove opere e le cappelle raffigurando sempre San Giovanni di Dio, patrono universale dei malati, degli ospedali e delle associazioni infermieristiche. 

 

Togoville (TOGO) – Interno Santuario Mariano – Foto F. Mauli 10/2001

Un’altra particolarità del Professore che entrerà nella storia della religiosità della Chiesa Togolese: in un solo giorno dipinse un quadro della Madonna con in braccio il Bambin Gesù. Questo venne posto in una cappella della Parrocchia retta dai Padri missionari Comboniani nei pressi del lago detto di Togoville, successivamente davanti a questo quadro i cristiani andavano a pregare e a chiedere grazie ed in pochi anni questo luogo è diventato sacro per i togolesi e l’autorità ecclesiastica l’ha dichiarato Santuario Mariano nazionale del Togo.

FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri

Michelini con Giovanni Paolo II

FERNANDO MICHELINI il milanese miracolato da San Riccardo Pampuri

Posted on Febbraio 18th, 2009 di Angelo

E’ MORTO FERDINANDO MICHELINI

 

un miracolato da San Riccardo Pampuri

 

michelini-fernando-il-miracolato-da-san-riccardo-pampuriNella mattinata di lunedì 27 ottobre, presso la Casa di riposo San Carlo Borromeo dei Fatebenefratelli, a Solbiate Comasco, è deceduto il professor Ferdinando Michelini aggregato all’Ordine ospedaliero. 

Nato a Milano 91 anni fa, Michelini prima delle seconda guerra mondiale si diploma a Brera, perfeziona gli studi a Parigi e alle Belle Arti di Roma. Dopo la deportazione in Germania, rientrato in Italia, si laurea in architettura. 

È già un pittore di fama mondiale. A metà degli anni 50 gli viene diagnosticato un tumore. Michelini si affida alle preghiere del medico Riccardo Pampuri. La Sua guarigione è fra i miracoli che hanno poi elevato agli altari il nostro Confratello. 

Dopo la prodigiosa guarigione, ha speso gran parte della sua esistenza prodigandosi nel progettare e realizzare opere a beneficio delle persone ammalate e bisognose, soprattutto in terra di missione. 

Encomiabili la sua disponibilità e il suo spirito di servizio, mediante i quali esprimeva la viva e sincera gratitudine per la guarigione al nostro confratello San Riccardo. 

Con la nostra fraterna e corale preghiera affidiamo il defunto al Risorto, perché possa concedergli il premio assicurato a coloro che lo servono e lo testimoniano anche mediante l’espressione artistica. 

Il rito delle esequie è stato celebrato il, 30 ottobre, presso la chiesa della Parrocchia San Zenone di Ornate, frazione di Agrate Brianza (Milano).

Da FATEBENEFRATELLI . N. 4 – Ott/Dic.2008 

Michelini - 018iquattroventidellaterra

La sua è una santità popolare, serena carica di stupore. – Una tomba da visitare – Un benefattore dell’umanità,  persona  da non dimenticare.( A. Nocent) 

MIRACOLO A MILANO 

 Ebbe salva la vita per intercessione di San Riccardo Pampuri. Ha ringraziato costruendo ospedali e affrescando chiese.  

Michelini con Giovanni Paolo II

Storia di Ferdinano Michelini

Di Lucio Brunelli

Questa è la vera storia di Michelini Fernando da Milano, professione pittore, la cui vita è stata cambiata da un miracolo. Uno di quei rari miracoli che hanno superato l’esame dalla scienza medica e sono stati approvati ufficialmente dalla Chiesa cattolica. 

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“La cosa più incredibile dei miracoli è che accadono”, diceva lo scrittore inglese Gilbert Leith Chesterton.

Al nostro pittore il miracolo accadde il 15 settembre 1959. Dopo la sua guarigione prodigiosa michelini ha vissuto per trent’anni in Africa e in Palestina, mettendo la sua professione al servizio dei missionari e del patriarcato latino di Gerusalemme. Ha costruito ospedali, affrescato chiese. Gratis, naturalmente. “Il modo in cui ho ringraziato il Signore per il dono ricevuto”, sorride alzando le spalle. Come fosse la cosa più naturale del mondo. 

Oggi Michelini ha 78 anni ed è tornato nella sua Milano. Trascorre una vecchiaia serena, dipingendo quadri di soggetto religioso. Siamo andati a trovarlo nello studio di Via Carducci, a due passi dalla Clinica San Giuseppe, dei Fatenbenefratelli, dove avvenne la straordinaria guarigione. E dove, nel lontano 1930, morì Riccardo Pampuri, il santo medico della Bassa Milanese da cui ottenne la grazia. 

Bussando alla sua porta, uno di domanda con un po’ di disagio che faccia può avere un miracolato. E pensa di trovarsi di fronte un essere strano, come un mistico extraterrestre. Invece compare un signore normalissimo: alto, arzillo, i capelli lunghi e un po’ disordinati come si addice ad un artista. Allegramente entusiasta dell’avventura vissuta, ma ben piantato con i piedi per terra.

Ecco il racconto della sua vita, come è rimasto impresso nel nostro registratore. 

“Sono nato a Milano, nella zona di Porta Romana, il 30 marzo 1917. Fin da ragazzo fui attirato dalla pittura. Frequewntai l’Accademia di Belle arti di Brera. In seguito mi iscrissi anche alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano. Ma dovetti interrompere gli studi quando scoppiò la seconda guerra mondiale e fui chiamato alle armi. Il giorno dell’armistizio, l’8 settembre 1943, mi trovavo in Francia, nelle truppe di occupazione a Vichy. I tedeschi ci fecero subito prigionieri e finii in campo di concentramento in Germania. A Ravensburg. 

Furono due anni di inferno. Pensi, il lager di Ravensburg era talmente sperduto che non figurava nemmeno nelle liste in mano agli alleati. Quando i russi vennero a liberarci, nell’aprile 1945, i sopravissuti erano appena un centinaio. Le dico solo una cosa: prima della guerra pesavo 86 chili, quando uscii dal lagher ero sceso a 38 chili. Uno straccio. Fu in quegli anni che mi ammalai allo stomaco.

Per una coincidenza fortuita, tornato a Milano, mi feci curare alla clinica San Giuseppe, dei Fatebenefratelli, l’ospedale dove il Riccardo Pampuri aveva svolto la sua missione negli ultimi anni della sua vita, fino alla morte. Ma a quel tempo non sapevo granché della sua vita, ne sentii parlare, ma non ero un devoto. 

Tornato alla vita normale, ripresi a dipingere. Ho esposto i miei quadri in molte città dell’Europa. Viaggiavo Molto. Per alcuni anni ho anche insegnato alla scuola Leone XIII gestita dai gesuiti di Milano. Realizzai dei quadri a soggetto religioso anche per la congregazione dei Fatebenefratelli, ma si trattava di un rapporto professionale. 

Nell’agosto 1959 ebbi la prima grave manifestazione della malattia. Dolori violenti, vomito biliare con sangue. Fui ricoverato all’ospedale Ciceri-Agnesi di Milano. La diagnosi: ulcera duodenale perforata. Ma rifiutai l’intervento chirurgico. Dopo alcune cure mediche, venni dimesso. Il 15 settembre il male riesplose. Mi trovavo nello studio quando stramazzai a terra, in preda a dolori isopportabili. Il mio allievo Cesare e il portiere mi soccorsero e mi trasportarono di corsa al San Giuseppe. 

Dopo i primi esami i medici decisero che si doveva intervenire chirurgicamente al più presto. Prima di perdere i sensi, mentre mi portavano nella sala operatoria vidi un’immagine di Riccardo Pampuri, che non era ancora stato fatto santo dalla Chiesa. La causa di canonizzazione era già stata introdotta nel 1949 dal cardinale Schuster, ma i decreti per la beatificazione sono del 1981. Quell’immagine di san Riccardo è l’ultima cosa che ricordo prima di finire sotto i ferri. 

Quando mi aprirono, i medici trovarono una situazione disperata. Peritonite acuta diffusa, completa occlusione intestinale. Ci fu una grave complicazione infraoperatoria. Nel tentativo di separare alcune anse intestinali che si erano agglutinate, il tessuto si ruppe. E le pareti intestinali erano così malandate che non fu possibile suturarle.  

Il dottor Marini, uno dei periti della Consulta medica vaticana che si è occupato del mio caso, ha riassunto così la situazione:  

  • “L’impossibilità di scoprire e di suturare la perforazione, causa prima della peritonite,

  • L’impossibilità di suturare la breccia accidentalmente aperta su un’ansa dell’ileo,

  • E tantomeno resecare l’intera ansa lesionata, per le gravi condizioni del malato,

  • Lo fanno ritenere prossimo alla morte sicura, sia al chirurgo che ai suoi assistenti” (cfr. Dacra Congregatio pro causis sanctorum, p. n.699, 13 gennaio 1981). 

Di fatto i medici dissero ai miei parenti che la prognosi era infausta, che difficilmente avrei superato la notte. Insomma, mi consideravano spacciato. Così i medici non cedettero ai loro occhi quando, la mattina seguente, mi ritrovarono ben sveglio e pimpante sul letto. I dolori erano scomparsi. Nei documenti per la causa di beatificazione del Pampuri sono riportate tutte le testimonianze dei sanitari. Ad esempio questa del dottor Terno, il chirurgo: “Al mattino seguente, entrando nella stanza del malato, notai che stava in atteggiamento di preghiera semiseduto sul letto; io per incoraggiarlo gli dissi: “preghiamo perch? Avvenga il miracolo”. Il paziente mi strinse la mano e con voce energica mi disse: “Il miracolo è già avvenuto”. Facendomi rimanere fortemente sorpreso della vitalità che rivelava la sua voce. Procedetti all’esame dell’addome e con grande sorpresa notai che era completamente scomparso il meteorismo intestinale, che l’addome era perfettamente trattabile e indolente in tutti i quadranti—“(ibidem). 

Ricordo il gran parlare dei medici attorno al mio letto, si scambiavano lastre, cartelle cliniche…Non riuscivano a capacitarsi. Un altro medico dell’ospedale San Giuseppe, il dottor Savarè, ha dichiarato al Tribunale diocesano di Milano: “Nella mia esperienza ininterrotta di 32 anni in sala chirurgica, non mi è mai avvenuto di osservare la guarigione di un malato nelle condizioni che ho sopra descritto, e questa mia esperienza è avvalorata da quanto risulta dai dati della patologia chirurgica. Ritengo pertanto che la guarigione non sia spiegabile con le leggi conosciute dalla scienza medica” (ibidem). 

I perito della Consulta medica annessa alla Congregazione per le cause dei santi, dopo aver studiato l’intera documentazione e tutte le testimonianze, giunsero alle stesse conclusioni. Una guarigione inspiegabile sulla base delle attuali cognizioni medico-scientifiche.

Solo nel 1981, dopo scrupoloso esame, la Chiesa ha riconosciuto che il miracolo poteva essere attribuito all’intercessione del Servo di Dio Riccardo Pampuri. Io ne fui moralmente certo fin dall’inizio. L’immagine del Pampuri fu l’ultima cosa che vidi prima di entrare nella camera operatoria e la prima che mi apparve quando riaprii gli occhi. Invocai il suo soccorso. Anche un religioso in servizio preso l’ospedale, mio conoscente, chiese in modo incessate la grazia a san Riccardo. E per rafforzare la richiesta posò sul mio letto, dopo l’intervento, una giacca appartenuta al santo. Il buon Dio prestò ascolto alla intercessione del Pampuri. 

I trent’anni successivi al miracolo 

Michelini - Suonatore di tamburo - africa8p

Li ho trascorsi in Africa e in Israele. A costruire ospedali e chiese, al servizio dei missionari. Ma non è che mi venne la vocazione alla vita religiosa, non ho mai pensato di farmi missionario.

Fu una serie di circostanze fortuite che mi portò laggiù. I Fatebenefratelli erano presenti in Togo; avevano deciso di costruire un ospedale ad Afagnan. Sapevano che mi intendevo di architettura. Mi chiesero un progetto. Accettai; era il minimo che potessi fare…Poi mi chiesero di seguire i lavori. E mi trasferii in Togo. Il 28 marzo fu posta la prima pietra dell’ospedale e il 5 luglio 

Il complesso era inaugurato a tempo di record: 160 letti, sette medici, una settantina di infermiere. 

Michelini - Suonatore di tamburi - africa3p

Dopo il Togo fu la volta del Benin. Un altro ospedale , e quante vite ha contribuito a salvare. Poi cominciarono a chiedermi progetti di chiese. Ne ho costruite in tutto una sessantina, Spostandomi in Alto Volta, Dahomey, Costa d’Avorio. E una volta che le chiese erano finite, non potevano rimanere spoglie, Così mi venne chiesto di affrescarle. E naturalmente accettai. Dipingere è la cosa che amo di più. 

L’arte religiosa è eminentemente didattica. Tende a rappresentare una verità. In altri tempi si cercò di abolire l’immagine, ma fu un errore. Il popolo ne ha bisogno. I muri delle chiese sono la Bibbia dei poveri. Per chi non sa leggere è il modo più facile di apprendere la vita del Signore e condividere la fede della Chiesa. Io sono un semplice pittore non un artista. Gli artisti oggi sono dei semidei. Personalmente mi considero un pittore come quelli del tempo antico, romei raminghi, che giravano l’ Europa dipingendo dovunque, tanto le cattedrali come le Madonne sulle case dei contadini, e ai quali sapevano che le loro opere facevano pregare la gente. 

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Ho lavorato una decina di anni anche in Terrasanta, al servizio del Patriarcato latino di Gerusalemme. Ho restaurato e dipinti decine di chiese e chiesette in Israele, nei territori arabi occupati, anche in Giordania. Naturalmente non ho mai chiesto una lira.

In Africa mi ero portato una tenda di campeggio. Ma era impraticabile per il caldo. Così mi costruivo una capanna con le piante di palma. I missionari sono sempre stati ospitali. E’ stata un’esperienza che non scorderò mai. Specialmente in Africa. Tempo fa dipinsi tutto l’interno di un grande battistero a Tsevié. La gente del posto seguì il lavoro con entusiasmo ed alcuni vennero a dirmi che volevano farsi battezzare in quel luogo. Il giorno dell’inaugurazione si ebbero duecento battesimi di adulti. 

A San Riccardo voglio bene, ovvio. Ho conosciuto un suo nipote, ancora vivo. Mi ha portato in una parrocchia, vicino casa mia, a Milano, dove il Pampuri andava a pregare. Da solo. Mi ha mostrato il punto esatto in cui si inginocchiava. Il parroco nemmeno lo sapeva. 

Mi sono fatto raccontare tutto della vita del Pampuri. Era una persona a cui Dio concesse il dono della mitezza e della modestia. Passò la vita a far del bene alla povera gente, senza darlo a vedere.

E anche dopo morto, continua a fare del bene. Ho raffigurato i momenti salienti della sua vita, ne è uscito un libretto che è stato stampato in tante lingue. Quello a cui sono più affezionato è scritto in arabo. In Palestina lo hanno letto tanti ragazzi. Erano incuriositi. Volevano saperne di più. E mi ascoltavano con gli occhi sgranati quando raccontavo loro la vita del Pampuri e di come ebbi salva la vita, tanti anni prima, per meritosuo…”. 

Le apparizioni della Madonna in terra d’Africa

Michelini - Chiesa apparizioni

Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di scuola.

Le prime apparizioni della Madonna in terra africana riconosciute dalla chiesa si registrano a Kibeho, un paese nel sud del Rwanda. Il 28 novembre 1981 la Vergine appare, per la prima volta, ad Alphonsine Mumureke, presentandosi come Nyina wa Jambo (Madre del Verbo). Alcuni mesi dopo si mostra anche ad alcuni compagni di scuola.

L’avvenimento provoca in Rwanda un’intensa emozione. Le folle, anche da molto lontano, si riversano a Kibeho, mosse dalla curiosità e dall’aspettativa di miracoli, e si radunano attorno al podio sul quale è seduta la veggente, per accogliere dalle sue labbra il messaggio celeste e dalle sue mani l’acqua che la Vergine, dietro sua richiesta, benedice.

Per anni, una commissione teologica e una medica studiano attentamente la personalità dei veggenti (sei ragazze e un ragazzo di 15 anni, Segetashya, che non è neppure catecumeno quando Gesù in persona gli appare; sarà poi battezzato con il nome di Emmanuel), senza notare in loro alcunché di anormale. Anche i messaggi che i veggenti sono incaricati di trasmettere non esulano dall’ordinaria vita di un cristiano: parlano di penitenza, conversione del cuore, spirito di fede, preghiera, carità fraterna, disponibilità, umiltà, fiducia in Dio, vanità del mondo e dignità della persona umana.

L’apparizione del 19 agosto 1982 ha un tono singolare. I veggenti raccontano di aver visto immagini terrificanti: fiumi di sangue, persone che si ammazzavano tra di loro, cadaveri abbandonati insepolti, un albero in fiamme, un abisso spalancato, un mostro spaventoso e tante teste decapitate. Le 20mila persone presenti sono prese da un senso di paura, se non di panico e tristezza.

Dodici anni dopo, avviene il genocidio. Anche a Kibeho, migliaia di persone sono assassinate. I molti che cercano rifugio nella chiesa vengono massacrati; l’edificio è incendiato. Nel 1996, un campo di rifugiati, installato nei pressi di Kibeho, è attaccato dall’esercito del Fronte patriottico rwandese, al potere a Kigali: migliaia i morti.

Nel 2001, la chiesa del Rwanda, uscita indebolita e divisa dalla terribile prova del genocidio, riconosce l’autenticità delle apparizioni. Mons. Augustin Misago, vescovo di Gikongoro, l’inquisitore dei primi anni, precisa che il riconoscimento delle apparizioni non è articolo di fede; il credente è libero di crederci o meno. Il santuario, consacrato nel 2003 dal card. Crescenzio Sepe, è dedicato alla Madonna del dolore.

Un’icona miracolosa nel Togo

Nel 1973, per iniziativa del comboniano Francesco Grotto, la chiesa parrocchiale di Togoville (Togo) è trasformata in santuario, dedicato a Nostra Signora del Lago, Madre della misericordia.

L’architetto italiano Fernando Michelini (miracolato da san Riccardo, Pampuri, medico e religioso dei Fatebenefratelli) dona all’amico comboniano un’icona miracolosa della Madonna, che l’arcivescovo di Lomé “intronizza” solennemente a nome di tutta la chiesa togolese. Da subito, l’icona comincia a compiere meraviglie.

Si racconta che un gruppo di pellegrini, in grave difficoltà mentre attraversava il Lago Togo per recarsi al santuario, si sia trovato misteriosamente sulla riva, sebbene il guidatore della piroga avesse perso la pertica. 

Nel villaggio circola un altro aneddoto che assicura di un fatto avvenuto molti anni prima dell’arrivo dell’icona: durante un lavacro purificatorio presso un sacerdote del vodù locale, una donna consacrata al feticcio e impossibilitata ad avere figli ebbe la visione di una dama bianca, con un bimbo tra le braccia; qualche tempo dopo, la donna concepì.

Si racconta anche che, nel novembre 1983, in occasione dei festeggiamenti per il decimo anniversario dell’intronizzazione dell’icona, uno sciame d’api, “in forma di ostia, bianca e rotonda”, si sia posato proprio sopra la Madonna. Nella tradizione togolose, le api sono segno di benedizione.

Parlare di miracolo farebbe sorridere noi occidentali. Eppure, anche i grandi sacerdoti del vodù di Togoville si sono recati più volte a venerare l’immagine della Vergine, forse perché assimilano la devozione alla Madonna alla venerazione per la dea del lago, Mama Kponu.

Sempre in Togo, 1998: corre voce che la Vergine appaia nella piazza della chiesa parrocchiale di Tsévié, a 30 km da Lomé. I veggenti sono giovani, tra cui una rifugiata rwandese. La notizia travalica subito le frontiere e i pellegrini arrivano da Costa d’Avorio, Benin e Ghana. Le apparizioni si sono ripetute, ma la chiesa non le ha mai riconosciute. I fedeli, però, continuano a recarsi a Tsévié per pregare la Vergine.

Apparizione a Nsimalen, in Camerun

Il 13 maggio 1986, a Nsimalen, a 25 km da Yaoundé (Camerun), alcuni ragazzini stanno giocando nel cortile di una scuola. A un certo punto, sulla cima di un albero vedono una “forma bianca” che richiama fortemente la figura della Madonna venerata nella chiesa parrocchiale. La vedono anche alcuni adulti, che la “identificano subito: si tratta senz’altro della Vergine Maria!

La voce si sparge fino alla capitale e oltre. La gente accorre: per cinque intere giornate quella strana forma bianca resterà perfettamente visibile. E subito si parla di miracoli. Una bambina di 9 anni, muta dalla nascita, riacquista improvvisamente la parola e si mette a gridare: «Maria, Maria!». Un catechista di Nsimalen ricupera la vista.

Una notte, il villaggio è invaso da una luce ininterrotta che consente di leggere un libro o ricamare un vestito senza bisogno di lampada. C’è chi vede il sole trasformato in una lucente palla verde dai bordi trasparenti, e chi giura di aver visto la luna ovale e, su di essa, una donna seduta con il bimbo in braccio.

Il clero scuote la testa. Suor Marie Praxède, una suora che vive da anni a Nsimalen, non comprende la mancanza di entusiasmo dei responsabili della chiesa. Il parroco le dice che a Lourdes la Madonna è apparsa solo a Bernadette. E lei: «Ma qui siamo in Africa, e la Vergine comprende la nostra mentalità. Perché pretendere che appaia sempre allo stesso modo? Perché noi africani non potremmo avere la nostra Vergine? Voi preti, compreso l’arcivescovo, siete troppo europei e non capite».

Una devozione mariana che si è inculturata in Africa

Le apparizioni di Kibeho sono una “buona notizia” per l’Africa e la sua chiesa: la religiosità cristiana si starebbe africanizzando. Questo riequilibra le deviazioni causate dall’Occidente, che con la secolarizzazione sistematica e la dimenticanza dell’essenziale (valgono solo la scienza e la tecnica) ha spesso sedotto l’Africa.

Perché meravigliarsi se, dopo un secolo di cristianesimo, le devozioni cristiane assumessero in Africa carne africana e cominciassero a segnare profondamente la psicologia dei credenti? Gli africani hanno sempre avuto visioni di spiriti e di antenati. Per tanti fedeli, la Madonna o un altro santo sono diventati personaggi familiari, che fanno parte del loro universo quotidiano.

Almeno su questo punto, sì è operata una reale inculturazione. Per provarlo, non sono necessarie le apparizioni. Bastano i santuari. Ce ne sono in ogni angolo del continente: Poponguine (Senegal), Kita (Mali), Lagos e Kona (Nigeria), Yagma (Burkina Faso), Dassa-Zoumé (Benin), Yamoussoukro (Costa d’Avorio), Nairobi e Subukia (Kenya), Kampala (Uganda), Soweto (Sudafrica), Namacha (Mozambico), Muxima (Angola)…

A partire dal 1970, l’avvenimento del rinnovamento carismatico ha segnato un cambiamento importante nella vita delle comunità africane, ridando diritto di cittadinanza a espressioni religiose radicate nella tradizione e da essa valorizzate, ma che il cristianesimo ha sempre tenute con cura da parte (la trance, ad esempio, considerata “estasi” in Europa, è stata giudicata “possessione demoniaca” in Africa).

Oggi, se uno partecipa a un incontro di preghiera degli amanti del Rinnovamento nello Spirito, vede tante persone che cadono in trance durante la processione del SSmo Sacramento. Simili fenomeni non potrebbero rappresentare, tra l’altro, una protesta contro una liturgia che non dà spazio all’ispirazione o all’emozione collettiva?

Emest Kombo, vescovo di Owando (Congo) deceduto l’ottobre sorso, diceva: «Il giorno in cui non ci sarà più trance, sarà grave: vorrà dire che qualcosa è venuto a mancare». I santi “abitano”, anche solo per un momento, i loro devoti, proprio come il vodù “abita” i suoi adepti. La gente ci crede, e non serve dire che Cristo ci ha promesso il suo Spirito, non sua madre o l’angelo Michele.

Radicare il Vangelo nella cultura africana è un compito impegnativo e di lunga durata. E Maria di Nazareth, figlia di Israele e serva del Signore, diventa il paradigma anche del fedele cristiano africano. E non dubito che saprà, anche in Africa, situare bene il posto che lei occupa nella storia della salvezza.

Foto: Santuario di Kibeho in Rwanda

René Luneau (teologo domenicano a lungo vissuto in Africa), su Nigrizia, dicembre 2008

12-01-2008

L’ARTISTA

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41 da Angelo Nocent

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” E’ una meravigliosa scoperta quella che mi è stata data di fare questa mattina [19 Febbraio 2009], dopo un risveglio così anticipato: 0re 3,30, quasi un richiamo, una spinta che mi ha costretto ad alzarmi. 

Facevo le medie, cinquant’anni fa, quando l’ho conosciuto per la prima volta. nel collegio Fatebenefratelli di Brescia.

Gli sono stato vicino con grande curiosità e interesse quando dipingeva le scene per il nostro teatro di piccoli attori in erba, chiamati dalla pedagogia del tempo a misurarci con la commedia. 

La Cappella, dalla pala centrale raffigurante Maria che ci accoglieva sotto il manto, alle pareti laterali , erano tutti suoi dipinti a olio su muro. Son tornato cinquant’anni dopo ed ho trovato quel luogo sacro sconsacrato e le raffigurazionioni coperte dalla mano iconoclasta di uno sprovveduto imbianchino, pari al suo mandante. 

Conservo incorniciato, un piccolo quadro a matita, raffigurante un carcerato in catene. Ed ho ache Padre Misericordioso che abbraccia il figliol prodigo.

Conservo ancora, riprodotti su carta da geometri, un grande crocifisso ed una maternità di Maria, simile a quella qui riportata ad olio. Un bel giorno la mia mamma, appassionata di disegno dalle elementari, ha dipinto gli occhi e la bocca ad entrambe le immagini. A parer suo, si trattava di un peccato di omissione, di una incomprensibile dimenticanza. 

Michelini era un uomo d’oro, sgobbone, avvezzo al sacrificio. Il suo genio era pari alla sua modestia. Conversare con lui, piuttosto sordo dopo il campo di concentramento, era piacevolissimo: ti ricaricava la batteria dell’anima con l’entusiasmo che sprigionava da tutta la sua bella persona. 

Non avresti mai smesso di fargli perdere tempo con infinite curiose domande, disponibile com’era con tutti e gratificato da un semplice complimento sulla sua arte. 

Quando, più avanti negli anni, abbiamo composto un giornaletto, OPZIONI ‘70, le formidabili lineari vignette del ciclostilato le avevamo affidate a lui che si prestava con entusiasmo a condividere i nostri sogni. 

Si può dire che è sempre vissuto in povertà, protetto dalla Provvidenza, come gli uccelli del cielo o i fiori del campo.

Mai avrei pensato di scrivere di lui, un giorno, sul web.

Avverto ora la sua presenza d’intercessore in Cielo, con il san Riccardo Pampuri che un giorno lo ha miracolato alla grande, dopo un intervento chirurgico non riuscito. Infatti, operato dal Dott. Terno, all’Ospedale San Giuseppe di Milano, era stato trasferito dalla camera operatoria con verdetto di morte assolutamente certa, nelle sucessive ore della notte. 

Grazie, Prof. Michelini, per essere passato ovunque facendo del bene, nel più assoluto nascondimento, dal suo piccolo grande ammiratore.

La sua è una santità popolare, serena carica di stupore. – Una tomba da visitare – Un benefattore dell’umanità,  persona  da non dimenticare. 

Messaggio postato giovedì 19 febbraio 2009, alle ore 04.41 

Ferdinando Michelini è nato a Milano il 20 Marzo 1917 e la sua vicenda di uomo e di artista ha veramente del singolare. Dotato di una particolare predisposizione artistica, frequentò le accademie di Belle arti Brera di Milano e S. Luca di Roma completando la sua formazione pittorica attraverso il contatto con i più importanti ambienti artistici europei d’avanguardia dell’epoca.

Frequentò anche la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.
Chiamato alle armi e inviato al fronte, dopo l’8 Settembre 1943 viene fatto prigioniero e deportato in Germania nel campo di concentramento di Ravensburg.

Quando nel ‘45 arrivarono le truppe alleate Michelini è tra i pochi superstiti del campo. Il suo fisico ha subito danni irreversibili: resta un’esperienza umana e spirituale profondissima che segnerà il resto della sua esistenza.
Tornato in Italia riprende la sua attività artistica, dedicandosi anche all’insegnamento. Viene invitato a tenere mostre dei suoi quadri in sedi prestigiose di varie città europee, ottenendo un notevole successo.
La ricerca di essenzialità porta però l’artista, dopo qualche anno, ad abbandonare tutto. Si fa “pellegrino dell’arte”: percorre le strade d’Europa equipaggiato unicamente della sua arte che mette a disposizione della gente comune, ricavandone solo lo stretto necessario per vivere.

 

Nella sua “peregrinatio” viene a contatto con gli ambienti artistici più diversi e con le situazioni umane più disparate. E’ un periodo di disagi e privazioni ma anche di grande arricchimento umano e spirituale.

Il suo organismo, già minato dalle conseguenze della prigionia, non riesce però a reggere questo intenso ritmo di vita. La situazione nel Settembre 1959 diventa disperata. I medici non possono far altro che constatare l’impossibilità di intervenire in una patologia intestinale tanto grave, prognosticando anzi una morte imminente.

L’artista invoca l’aiuto di un religioso medico, fra Riccardo Pampuri, morto in concetto di santià alcuni anni prima in quello stesso ospedale milanese in cui si trovava ricoverato.

Il miracolo avviene: l’artista guarisce e di lì a pochi giorni può riprendere la sua attività. Il miracolo viene provato scientificamente e riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa nel processo canonico che porterà alla beatificazione di fra Riccardo Pampuri. Dopo quella esperienza l’artista sente ancora di più la sua vita come un dono di Dio da mettere totalmente a disposizione degli altri. Invitato a redigere il progetto di un grande ospedale da costruirsi in piena “brousse” africana ad Afagnan (Togo) per la missione dei Fatebenefratelli, nel 1960 parte per l’Africa occidentale.

Qui rimarrà per quasi vent’anni mettendo il suo talento artistico al servizio dei bisogni dell’Africa. I suoi progetti architettonici consentiranno il sorgere di molte chiese, scuole, ospedali in zone del tutto sprovviste di tali strutture.
Nei suoi rari rientri in Europa Michelini documentò fedelmente, attraverso lo stile e il colore di una pittura dal respiro universale, la vita dell’uomo africano, così come lui la incontrava nel contatto con usi e costumi delle popolazioni dell’Africa occidentale.

Verso la metà degli anni ‘70 , il patriarca di Gerusalemme, che aveva già avuto modo di apprezzare il talento pittorico e architettonico dell’artista, lo invita a Gerusalemme per approntare ed eseguire numerosi e importanti progetti di edilizia religiosa per il vastissimo territorio della sua diocesi.
Michelini per alcuni anni divide la sua attività tra Africa e Terra Santa, poi nel 1979 una gravissima forma di patologia intestinale, da cui uscirà vivo ancora una vota miracolosamente, lo costringerà a limitare le sue fatiche africane.

 

Da allora l’artista è vissuto ed ha operato prevalentemente nei territori del patriarcato latino di Gerusalemme.


La consuetudine con la terra del Signore, il contatto vivo con le popolazioni di quella tormentata zona del mondo, rappresentano un altro capitolo importante dell’itinerario umano, spirituale e artistico di Michelini, un capitolo che continua ad essere narrato dalla misteriosa suggestione dei colori e delle figure che popolano le sue opere.


Oggi vive a Milano.

LA PUREZZA DELL’UOMO DAVANTI A DIO – Benedetto XVI

La purezza dell’uomo

davanti a Dio

L’omelia di papa Benedetto XVI durante la santa messa con i suoi ex allievi, nella cappella del Centro congressi Mariapoli, Castel Gandolfo, domenica 30 agosto 2009

Cari fratelli e sorelle! Nel Vangelo ci viene incontro uno dei temi fondamentali della storia religiosa dell’umanità: la questione della purezza dell’uomo davanti a Dio. Volgendo lo sguardo verso Dio, l’uomo riconosce di essere “inquinato” e di trovarsi in una condizione nella quale non può accedere al Santo.

Emerge così la domanda su come egli possa diventare puro, liberarsi dallo “sporco” che lo separa da Dio. In questo modo sono nati, nelle diverse religioni, riti purificatori, cammini di purificazione interiore ed esteriore. Nel Vangelo di oggi incontriamo riti di purificazione, che sono radicati nella tradizione veterotestamentaria, ma che vengono, comunque, gestiti in una maniera molto unilaterale. Di conseguenza non servono più per un aprirsi dell’uomo a Dio, non sono più cammini di purificazione e di salvezza, ma diventano elementi di un sistema autonomo di adempimenti che, per essere veramente eseguito in pienezza, esige addirittura degli specialisti.

Il cuore dell’uomo non viene più raggiunto. L’uomo, che si muove all’interno di questo sistema, o si sente schiavizzato o cade nella superbia di potersi giustificare da sé. L’esegesi liberale dice che in questo Vangelo si rivelerebbe il fatto che Gesù avrebbe sostituito il culto con la morale. Egli avrebbe accantonato il culto con tutte le sue pratiche inutili. Il rapporto tra l’uomo e Dio si baserebbe ora unicamente sulla morale. Se ciò fosse vero, significherebbe che il cristianesimo, nella sua essenza, è moralità – che cioè noi stessi ci rendiamo puri e buoni mediante il nostro agire morale.

Se riflettiamo in modo più profondo su tale opinione, risulta ovvio che questa non può essere la risposta completa di Gesù alla questione circa la purezza. Se vogliamo sentire e comprendere il messaggio del Signore pienamente, allora dobbiamo anche ascoltare pienamente – non possiamo accontentarci di un dettaglio, ma dobbiamo prestare attenzione all’intero suo messaggio. In altre parole, dobbiamo leggere interamente i Vangeli, tutto il Nuovo Testamento e l’Antico insieme con esso.

La prima lettura di oggi, tratta dal Libro del Deuteronomio, ci offre un particolare importante di una risposta e ci fa fare un passo avanti. Qui ascoltiamo qualcosa forse sorprendente per noi, che cioè Israele viene invitato da Dio stesso a essere grato e a provare una umile fierezza per il fatto di conoscere la volontà di Dio e così di essere saggio. Proprio in quel periodo l’umanità, sia in ambiente greco che semitico, cercava la sapienza: cercava di comprendere ciò che conta.

La scienza ci dice molte cose e ci è utile sotto tanti aspetti, ma la sapienza è conoscenza dell’essenziale – conoscenza dello scopo della nostra esistenza e di come dobbiamo vivere perché la vita riesca nel modo giusto. La lettura tratta dal Deuteronomio accenna al fatto che la sapienza, in ultima analisi, è identica alla Torà – alla Parola di Dio che ci rivela ciò che è essenziale, per quale fine e in quale maniera dobbiamo vivere.

Così la Legge non appare come una schiavitù, ma è – similmente a quanto è detto nel grande Salmo 119 – causa di una grande gioia: noi non andiamo a tastoni nel buio, non andiamo vagando invano alla ricerca di ciò che potrebbe essere retto, non siamo come pecore senza pastore, che non sanno dove sia la via giusta. Dio si è manifestato. Egli stesso ci indica la strada.

Conosciamo la sua volontà e con ciò la verità che conta nella nostra vita. Sono due le cose che ci vengono dette circa Dio: da una parte, che Egli si è manifestato e che ci indica la via giusta; dall’altra, che Dio è un Dio che ascolta, che ci è vicino, ci risponde e ci guida. Con ciò è toccato anche il tema della purezza: la sua volontà ci purifica, la sua vicinanza ci guida.

Credo che valga la pena di soffermarsi un attimo sulla gioia di Israele per il fatto di conoscere la volontà di Dio e di aver così ricevuto in dono la sapienza che ci guarisce e che non possiamo trovare da soli. Esiste tra noi, nella Chiesa di oggi, un simile sentimento di gioia per la vicinanza di Dio e per il dono della sua Parola? Chi volesse dimostrare una tale gioia, sarebbe ben presto accusato di trionfalismo. Ma, appunto, non è la nostra abilità a indicarci la vera volontà di Dio. È un dono immeritato che ci rende allo stesso tempo umili e lieti.

Se riflettiamo sulla perplessità del mondo di fronte alle grandi questioni del presente e del futuro, allora anche dentro di noi dovrebbe sbocciare nuovamente la gioia per il fatto che Dio ci ha mostrato gratuitamente il suo volto, la sua volontà, sé stesso. Se questa gioia riemergerà in noi, essa toccherà anche il cuore dei noncredenti. Senza questa gioia noi non siamo convincenti.

Dove, però, tale gioia è presente, essa – anche senza volerlo – possiede una forza missionaria. Suscita, infatti, negli uomini la domanda se non si trovi forse veramente qui la via – se questa gioia non guidi forse effettivamente sulle tracce di Dio stesso. Tutto ciò si trova ulteriormente approfondito nel brano, tratto dalla Lettera di san Giacomo, che la Chiesa oggi ci propone.

Io amo la Lettera di san Giacomo soprattutto perché, grazie ad essa, possiamo farci un’idea della devozione della famiglia di Gesù. Era questa una famiglia osservante. Osservante nel senso che viveva la gioia deuteronomica per la vicinanza di Dio, che ci è donata nella sua Parola e nel suo Comandamento. È un genere di osservanza del tutto diverso da quella che incontriamo nei farisei del Vangelo, che ne avevano fatto un sistema esteriorizzato e schiavizzante.

È anche un genere di osservanza diverso da quella che Paolo, come rabbino, aveva appreso: quella era – come vediamo dalle sue Lettere – l’osservanza di uno specialista che conosceva tutto e sapeva tutto; che era fiero della sua conoscenza e della sua giustizia, e che, tuttavia, soffriva sotto il peso delle prescrizioni, così che la Legge non appariva più come guida gioiosa verso Dio, ma piuttosto come un’esigenza che, in definitiva, non poteva essere adempiuta.

Nella Lettera di san Giacomo troviamo quell’osservanza che non guarda a sé stessa, ma si volge gioiosamente verso il Dio vicino, che ci dona la sua vicinanza e ci indica la via giusta. Così la Lettera di san Giacomo parla della Legge perfetta della libertà e intende con ciò la comprensione nuova e approfondita della Legge donataci dal Signore.

Per Giacomo la Legge non è un’esigenza che pretende troppo da noi, che ci sta di fronte dall’esterno e non può mai essere soddisfatta. Egli pensa nella prospettiva che incontriamo in una frase dei discorsi di addio di Gesù: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15, 15).

Colui al quale è rivelato tutto, appartiene alla famiglia; non è più servo, ma libero perché, appunto, fa parte egli stesso della casa. Una simile, iniziale introduzione nel pensiero di Dio stesso è avvenuta in Israele presso il monte Sinai. È avvenuta poi in modo definitivo e grande nel Cenacolo e, in genere, mediante l’opera, la vita, la passione e la risurrezione di Gesù; in Lui Dio ci ha detto tutto, si è manifestato completamente. Non siamo più servi, ma amici. E la Legge non è più una prescrizione per persone non libere, ma è il contatto con l’amore di Dio – l’essere introdotti a far parte della famiglia, atto che ci rende liberi e “perfetti”.

È in questo senso che Giacomo dice, nella lettura di oggi, che il Signore ci ha generati per mezzo della sua Parola, che Egli ha piantato la sua Parola nel nostro intimo come forza di vita. Qui si parla anche della “religione pura” che consiste nell’amore verso il prossimo – particolarmente verso gli orfani e le vedove, verso coloro che hanno più bisogno di noi – e nella libertà di fronte alle mode di questo mondo, che ci contaminano.

La Legge, come parola dell’amore, non è una contraddizione alla libertà, ma un rinnovamento dal di dentro mediante l’amicizia con Dio. Qualcosa di simile si manifesta quando Gesù, nel discorso sulla vite, dice ai discepoli: “Voi siete puri, a causa della parola che vi ho annunciato” (Gv 15, 3). E un’altra volta appare la stessa cosa nella Preghiera sacerdotale: Voi siete consacrati nella verità (cfr. Gv 17, 17-19).

Così troviamo ora la giusta struttura del processo di purificazione e di purezza: non siamo noi a creare ciò che è buono – questo sarebbe un semplice moralismo –, ma la Verità ci viene incontro. Egli stesso è la Verità, la Verità in persona. La purezza è un avvenimento dialogico. Essa inizia col fatto che Egli ci viene incontro – Egli, che è la Verità e l’Amore –, ci prende per mano, compenetra il nostro essere.

Nella misura in cui ci lasciamo toccare da Lui, in cui l’incontro diventa amicizia e amore, diventiamo noi stessi, a partire dalla sua purezza, persone pure e poi persone che amano con il suo amore, persone che introducono anche altri nella sua purezza e nel suo amore. Agostino ha riassunto tutto questo processo nella bella espressione: «Da quod iubes et iube quod vis / Concedi quello che comandi e poi comanda ciò che vuoi».

Tale richiesta vogliamo in quest’ora portare davanti al Signore e pregarlo: Sì, purificaci nella verità. Sii tu la Verità che ci rende puri. Fa’ che mediante l’amicizia con te diventiamo liberi e così veramente figli di Dio, fa’ che diventiamo capaci di sedere alla tua mensa e di diffondere in questo mondo la luce della tua purezza e bontà. Amen.

© Copyright 2009 Libreria Editrice Vaticana Da 30 Giorni – Agosto 2009

IL GIOVANE RICCO – UN DIO VENUTO PER SERVIRE – Ermes Ronchi

giovanericco

Il giovane ricco dice no al «tesoro in cielo»

Triste la vita dell’«osservante» senza amore

 

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”». Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». (…)

Una grande domanda, quella dell’uomo ricco e senza nome: Maestro buono, cosa devo fare per trovare la vita? La risposta di Gesù appare solenne, eppure quasi deludente: elenca cinque comandamenti che riguardano il prossimo, e ne aggiunge un sesto, non frodare. Ma l’uomo ricco non è soddisfatto: «tutto questo l’ho sempre osservato. Dovrei essere in pace e invece mi manca qualcosa». Cosa c’è di meglio del dovere compiuto, tutto e sempre? Eppure all’uomo non basta. Inquietudine divina, tarlo luminoso che rode le false paci dell’anima e fa nascere i cercatori di tesori.

Gesù lo fissa, dice Marco, come se prima non l’avesse neppure visto, e vede apparire, farsi largo, avanzare un cercatore di vita. E lo ama. Poi parla: vendi tutto, dona ai poveri, segui me. L’uomo si spaventa e si rattrista per quelle tre parole. Marco usa un verbo come per il cielo che diventa cupo: il suo volto si oscura. Era arrivato correndo, se ne va camminando. L’uomo che fioriva di domande se ne va muto. Il ribelle si è arreso, il cercatore si è spaventato: la vetta è troppo lontana, ci vuole troppo coraggio. E non capisce che la felicità dipende non dal possesso ma dal dono, che il cuore pieno dipende non dai beni (Luca 12,15) ma dai volti, che la sicurezza non è nel denaro, ma nelle mani del Pastore grande. E per tutta la vita resterà così, onesto e triste, osservante e cupo.

Quanti cristiani sono come lui, onesti e infelici. Osservano tutti i comandamenti, tutti i giorni, come lui, e non hanno la gioia: lo fanno per ottenere qualcosa, per avere e non per essere, lo fanno come dentro un universo carcerario dove quasi tutto è proibito e il resto è obbligatorio. Tutto sanzionato da premio o castigo. E il cuore è assente, una morale senza amori.

Gesù propone all’uomo ricco la comunione, cento fratelli, ma egli preferisce la solitudine; propone un tesoro di persone, egli ne preferisce uno di cose. Propone se stesso: «segui me, la mia vita è sorgente di vita buona, bella e beata». Ma l’uomo segue il denaro. Tutto finito? No, a conclusione ecco un sussulto di speranza in una delle parole più belle di Gesù: tutto è possibile presso Dio. La passione di Dio è moltiplicare per cento quel poco che hai, quel nulla che sei e riempirti la vita di affetti e di luce: «ti darò un tesoro di volti, non possederai nulla eppure godrai del mondo intero, sarai povero e signore, come me». Seguirti, Signore, è stato il migliore affare della mia vita. (Letture: Sapienza 7,7-11; Salmo 89; Ebrei 4,12-13; Marco 10,17-30).

Servire

Un Dio venuto per servire l’uomo

15/10/2009

XXIX Domenica Tempo Ordinario Anno B In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato». Vangelo dei paradossi perenni, della più sorprendente autodefinizione di Gesù: «venuto per servire».

Tutto nasce dal fatto che Giovanni il teologo, l’aquila, il mistico, il discepolo amato, chiede di essere al primo posto: la ricerca del primo posto è una passione così forte che penetra e avvolge il cuore di tutti. Pericolosamente: «Non sapete quello che chiedete!». Non avete capito ancora a cosa andate incontro, quali argine rompete con questa domanda, che cosa scatenate con questa fame di potere.

Per il Vangelo, invece, essere alla destra e alla sinistra di Cristo, vuol dire occupare due posti sul Golgota, quell’ultimo venerdì; vuol dire essere con Gesù lungo tutta la sua vita, quando è voce di Dio e bocca dei poveri, e fa dei piccoli i principi del suo Regno, quando è disarmato amore. Stare a destra e a sinistra di questa vita vuol dire bere alla coppa di chi ama per primo, ama in perdita, ama senza contare e calcolare. Con Gesù, tutto ciò che sappiamo dell’amore / è che l’amore è tutto (E.Dickinson).

«Sono venuto per essere servo». La più spiazzante di tutte le definizioni di Dio. Parole da vertigine: Dio mio servitore! Dio non tiene il mondo ai suoi piedi, è inginocchiato Lui ai piedi delle sue creature. I grandi della storia erigono troni al proprio ego smisurato, Dio non ha troni, cinge un asciugamano e vorrebbe fasciare le ferite della terra con bende di luce. Non cercarlo al di sopra dei cieli è disceso e si dirama nelle vene del mondo, non sopra di te ma in basso, il più vicino possibile alla tua piccolezza. Perché essere sopra l’altro è la massima distanza dall’altro.

L’Onnipotente può solo ciò che l’amore può: servire ogni respiro, invece di mietere le nostre povere messi seminare ancora ad ogni stagione. Capovolgimento, punto di rottura dei vecchi pensieri su Dio e sull’uomo. Appare un tutt’altro modo di essere da cui germina la parola di Gesù: «Tra voi non sia così!». Tra voi cose di cielo! Tra voi un altro mondo! Tra voi una storia altra, un altro cuore! E farai così, perché così fa Dio.

Ma io tremo se penso alla brocca e all’asciugamano. È così duro servire ogni giorno, custodire germogli, vegliare sui primi passi della luce, benedire ciò che nasce. Il cuore è subito stanco. Non resta che lasciarsi abitare da lui, irradiare di vangelo. Se Dio è nostro servitore, servizio è il nome nuovo della storia, il nome segreto della civiltà. (Letture: Isaia 53,2a.3a.10-11; Salmo 32; Ebrei 4.14-16; Marco 10,35-45)

 

L’Associazione “ Dr. Luigi Fiori Fatebenefratelli per le Nuove Povertà “ – ONLUS

Melograno - Stemma - 545px-Blason_de_l'ordre_hospitalier_de_Saint_Jean_de_Dieu.svg 

Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio

FATEBENEFRATELLI

 

L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, chiamato in Italia Fatebenefratelli, opera a San Maurizio Canavese fin dal 1940 al servizio dei malati e dei più poveri.

In mezzo secolo di storia il nostro Ordine Ospedaliero ha sempre cercato di adeguare la propria struttura e le proprie attività ai bisogni sanitari e sociali del territorio.

Oggi, fedeli al carisma dell’ospitalità e per rispondere alle nuove povertà emergenti, diamo vita ad un’Associazione Onlus che si occuperà del reinserimento sociale di persone con disagio.

 

L’Associazione

Dr. Luigi Fiori Fatebenefratelli

per le Nuove Povertà “

Onlus

è stata istituita in memoria di un medico psichiatra che per quarant’anni si è dedicato alla cura e all’assistenza delle persone con problemi psichiatrici e che, ben prima della propria malattia, era già stato ispiratore del progetto di sostegno alle persone in difficoltà.

 

Deciso a procurare realmente il conforto e il rimedio ai poveri, Giovanni di Dio […] prese in affittouna casa alla pescheria della città, perché era nei pressi di piazza Bibarrambla, da dove e da altre parti raccoglieva i poveri abbandonati, infermi e storpi, che trovava; e comprò alcune stuoie di giunco ed alcune coperte vecchie in cui potessero dormire, non avendo ancora né denaro per far di più, né altra cura da prestare loro. (Castro, Cap XVII, Carta di Identità Ordine Fatebenefratelli, 3.1.2) 

L’Associazione si propone di fornire una soluzione abitativa transitoria a chi ha difficoltà di inserimento sociale. A tale scopo, si rende necessaria una struttura abitativa nella quale ospitare i beneficiari del progetto, garantendo loro un alloggio e tutte le attenzioni di cui necessitano, nell’ottica di un completo reinserimento. 

Una adeguata attenzione alle necessità dell’uomo sofferente non può non essere attenta anche alle “nuove sofferenze” che nel tempo possono affacciarsi e che devono trovarci pronti a farcene carico con creatività e amore. (Carta di Identità Ordine Fatebenefratelli, 5.2.6.6) 

L’Associazione si propone inoltre di dare vita a un Centro di Ascolto, grazie all’opera di un’équipe multidisciplinare di professionisti, in grado di dare riposte ai  problemi urgenti, in campo medico, sociale e lavorativo. 

 

Si prevede anche sensibilizzazione su argomenti di carattere sanitario di interesse comune un’attività di formazione-informazione, specie nell’area della prevenzione-(es: alcool, alimentazione, droga).

San Maurizio Canavese - FBF 

Una vera società civile deve evidenziare accoglienza e amore nei confronti dei suoi membri che si trovino in difficoltà. (Carta di Identità Ordine Fatebenefratelli, 5.2.6.3)

 Per realizzare nel migliore dei modi questo progetto, occorrono dei finanziamenti che permettano l’acquisto o l’affitto della casa da utilizzare per gli scopi previsti. La nostra Provincia Religiosa, sull’esempio di San Giovanni di Dio, sta già in parte finanziando l’iniziativa. Il progetto prevede però uno sforzo economico considerevole, ed è per questo che abbiamo bisogno anche del Suo aiuto. 

Lei potrà sostenere l’iniziativa sia mettendo a disposizione dell’Associazione un po’ del Suo tempo libero, sia offrendo il suo contributo.Certi della Sua sensibilità ai bisogni delle persone in difficoltà, contiamo di annoverarLa tra i benefattori dell’Associazione. 

AssicurandoLe gratitudine e riconoscenza, La salutiamo cordialmente.

 Dott. Luigi Fiori

Io credo, Signore,

che alla fi ne della notte non c’è la notte,

ma l’aurora;

che alla fine dell’inverno,non c’è l’inverno,

ma la primavera;

che al termine dell’attesa,non c’è ancora attesa,

ma l’incontro.

JULES FOLLIET

 

Note biografi che del Dr. Luigi Fiori

 

Laureato in medicina a Torino e specializzatosi in neuropatologia e psichiatria, Luigi Fiori ha rappresentato una presenza importante, fin dal 1968, al Presidio Ospedaliero Fatebenefratelli di San Maurizio Canavese. 

È stato primario del Reparto Diagnosi e Cura dell’U.O. Alcolfarmaco Dipendenze e successivamente Direttore Sanitario. 

Al momento della scomparsa era Direttore Sanitario delle Comunità Psichiatriche Riabilitative San Benedetto Menni e San Giovanni di Dio.

Psicoterapeuta junghiano, è stato professore a contratto per l’insegnamento della psicoterapia presso la Scuola di Specializzazione in Psichiatria dell’Università di Torino. È stato autore di numerosi studi scientifici pubblicati su riviste italiane e straniere.

 

N° DI CONTO CORRENTE BANCARIO

BANCA SELLA

IT 64 K03268 31310052847706600

Associazione “Dr. Luigi Fiori

Fatebenefratelli per le Nuove Povertà” – Onlus

 

 

“Seguendo l’esempio di San Giovanni di Dio per i più bisognosi”

San Giovann di Dio con la Madonna

San Giovanni di Dio con Madonna

“Chiamati dal Signore per vivere la missione dell’Ospitalità”

 

 

 

BENEDETTO XV – ALCUNI NTERVENTI DI GRANDE ATTUALITA’

Benedetto XVI
Abbiamo pensato di allestire una sezione dedicata ad alcuni interventi di Sua Santità Benedetto XVI in riferimento ad alcuni temi di grande attualità…

L’ENCICLICA «CARITAS IN VERITATE» – Gianpaolo Salvini S.J.

L’ENCICLICA

«CARITAS IN VERITATE»

 

GIANPAOLO SALVINI S.I.

 

Il 7 luglio è stata resa pubblica l’attesa terza enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate (Cv). Si tratta della prima enciclica di questo pontificato interamente dedicata ai problemi sociali. Anche la seconda metà della Deus caritas est (2005) affrontava infatti questa problematica, ma non venne letta come enciclica sociale, quanto, giustamente, come Leitmotiv del pontificato. La Cv, rispetto alle altre encicliche sociali, porta l’impronta inconfondibile del magistero di questo Papa.

Di una nuova enciclica sociale si era parlato anche nel 2001, per rispettare la scadenza decennale invalsa dal 1931 in poi — (con la Quadragesimo anno di Pio XI) — di pubblicare un importante documento sociale per ricordare e «aggiornare» la Rerum novarum (1891), considerata il primo testo del Magistero dedicato ai problemi sociali. Probabilmente la salute di Giovanni Paolo II era già compromessa perché potesse dedicarsi a questa fatica. La nuova enciclica era stata annunciata due anni fa, in quanto destinata a celebrare il 40° della Populorum progressio (1967) di Paolo VI. Quando la stesura del testo era già a buon punto è subentrata la crisi economica internazionale; si è colta così l’occasione per aggiornarla senza però mettersi a rincorrere gli avvenimenti, cosa peraltro impossibile. Se fosse uscita due anni fa, molti suoi insegnamenti sarebbero stati oscurati e superati dal precipitare degli avvenimenti. La Cv è stata quindi ripresa e rielaborata, anche se soltanto in futuro se ne potranno conoscere la genesi e lo sviluppo. Le redazioni successive sono state parecchie (si parla di almeno quattro) e numerosi teologi e specialisti vi hanno collaborato. Nei documenti di indole sociale parte eminente svolgono di solito il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace (1) e la Congregazione per la Dottrina della Fede, con i rispettivi consultori ed esperti.

Una difficoltà supplementare è stata data dalle traduzioni, in particolare in latino e in tedesco, perché tradurre in latino taluni termini tecnici moderni come globalizzazione, speculazione finanziaria, indice di sostituzione, accantonamento di risparmio ecc. non è cosa facile. Occorre inventare nuove parole latine o espressioni equivalenti. La pubblicazione inoltre è avvenuta nel momento giusto, come dimostra anche il larghissimo favore con il quale è stata generalmente accolta. È uscita infatti alla vigilia del G8 dell’Aquila e quindi in una circostanza favorevole ben predisposta, anche se nei giorni seguenti le notizie relative all’incontro dei Capi di Stato hanno un po’ distolto l’attenzione da essa. La Cv in ogni caso ha contribuito a dare speranza, a indicare una strada, in un momento in cui il mondo, preoccupato per la grave crisi economica e incerto sul futuro, ne avvertiva il bisogno. L’enciclica infatti porta un messaggio di speranza e di fiducia e aiuta a intravedere il modo di uscire dalla crisi mondiale, invitando anzi a trasformare la depressione in occasione per avviare una ripresa animata da princìpi etici, che consentano un cammino più sicuro ed equilibrato nei prossimi anni.

Il messaggio è che l’umanità ha il compito e i mezzi per guidare il mondo in cui viviamo. Non siamo soggetti a una fatalità, ma possiamo dirigere gli avvenimenti in modo che crescano l’amore e la giustizia anche nel campo sociale ed economico.

Fino a questo momento l’enciclica ha avuto un’accoglienza indiscussa anche in ambienti solitamente critici nei confronti della Chiesa e dei suoi documenti. Trattandosi di un testo molto articolato, è probabile che ciascuno vi abbia trovato qualche cosa che condivideva ma non si sia molto preoccupato di vedere quanto il proprio modo di giudicare la realtà si conformasse all’insieme dell’enciclica.

In 30 giorni sul web in cinque lingue (italiano, francese, spagnolo, inglese e portoghese) sono stati registrati dalla Radio Vaticana 4.300 articoli sulla Cv. Aggiungendo i rilevamenti del  Meltwater Group che esamina anche altre lingue, si superano i 6.000 testi. Ma i moderni media e le piattaforme digitali non sono ugualmente diffusi in tutti i continenti. In molte nazioni l’enciclica per varie settimane si è collocata al primo posto (o almeno nei primi tre posti) per numero di copie vendute nelle librerie, benché fosse disponibile on-line subito su molti siti, cattolici e non cattolici. Il «dialogo tra Chiesa ed economia», come l’aveva chiamato una volta il card. Ratzinger, ha avuto sinora un’accoglienza molto favorevole negli ambienti finanziari ed economici. Naturalmente qualche critica si è levata, o per la lunghezza del testo, o per la difficoltà del linguaggio (rilevata, ad esempio, dal New York Times) o per la quantità dei temi affrontati. Paradossalmente, ma non troppo, qualche voce più critica sui contenuti si è levata anche all’interno del mondo cattolico. Un noto teologo cattolico americano, George Weigel, ha giudicato l’enciclica una resa alle posizioni terzomondiste e ha dichiarato di non credere all’«economia del dono» di cui parla la Cv, ritenendo che questo modo di pensare pecchi di ingenuità. Ma condivide la tesi di fondo che tutte le questioni sociali, economiche e politiche, siano in ultima analisi quelle che toccano la persona umana.

Il testo

L’enciclica si articola in 79 numeri, ed è composta da un’introduzione (nn. 1-9), sei capitoli (nn. 10-77) e una conclusione (nn. 78-79). Il testo è molto complesso e articolato, nonché abbastanza lungo. Nell’edizione standard curata dalla Segreteria di Stato comprende 143 pagine, che si possono confrontare con le 101 della Sollicitudo rei socialis (1987) e le 114 della Centesimus annus (1991), le ultime due encicliche sociali, pubblicate da Giovanni Paolo II.

Data la complessità del testo è difficile farne una sintesi. La tentazione di molti commentatori è stata quella di prenderne uno o due aspetti particolari e di concentrare su di essi la propria attenzione, senza tener conto della complessità dei temi affrontati dall’enciclica. Una ulteriore difficoltà è data dal fatto che molti temi giudicati importanti, come lo Stato, la cooperazione internazionale , il sindacato, il volontariato ecc., vengono ripresi più volte, anche se con modalità diverse e approfondimenti successivi. Ne vogliamo delineare soltanto l’impianto generale, sottolineando alcune dimensioni di fondo che ci sembrano particolarmente significative. Ma riteniamo indispensabile, come è ovvio, invitare i lettori a una paziente e attenta lettura del testo dell’enciclica per coglierne la portata e il significato.

Si nota uno sforzo di unificare la materia, cioè la cosiddetta dottrina sociale della Chiesa, e di indicare lo specifico cristiano in materia sociale, in modo che l’enciclica di un Papa non venga scambiata per un testo di sociologia o di economia, o tanto meno per la proposta di una terza via ideologicamente definita. Il taglio del testo costituisce chiaramente una lettura di fede della realtà umana di oggi, ma di una fede che mira all’azione guidata dall’etica cristiana, contro le posizioni, ad esempio, liberistiche, che si affiderebbero più volentieri agli automatismi di mercato.

Lo specifico cristiano viene indicato nella particolare visione che il cristianesimo ha della persona umana, che non è soggetta al meccanismo dei fenomeni naturali o sociali. Questo avviene nella misura in cui essa si riconosce in una relazione con un Assoluto più grande di ogni uomo. Per i credenti, con Dio. Esso non sta quindi nella proposta di nuove soluzioni tecniche. A tale proposito l’enciclica  ribadisce quanto già afferma la Sollicitudo rei socialis: la Chiesa non ha nuove o particolari soluzioni tecniche da proporre, né è questa la sua missione. Perciò, citando la Gaudium et spes, «essa non “pretende minimamente di intromettersi nella politica degli Stati”» (n. 9); ha una missione di verità da compiere per una società a misura d’uomo, che ne rispetti la dignità e la vocazione.

Prendendo lo spunto dalla celebre frase della Populorum progressio: «Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico esso deve essere integrale, vale a dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo» (2), la Cv sottolinea che «l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione» (n. 11). A questo tema centrale è sostanzialmente dedicata l’enciclica, che non riguarda perciò, come qualcuno aveva superficialmente affermato, temi particolari, come la globalizzazione o la crisi economica, ma l’autentico sviluppo dell’umanità secondo il piano di Dio, considerato nel mondo globalizzato di oggi. La Cv è un’enciclica che si occupa della situazione (sociale) dell’umanità nel mondo di oggi e tratta quindi molti dei temi connessi con essa. Questo spiega l’insistenza sulla realizzazione della carità nella verità. Di fatto il testo compie uno sforzo grandioso per favorire l’umanizzazione del nostro mondo dominato dall’egoismo, dai conflitti e dalla legge del più forte.

Il Papa indica le dimensioni antropologiche ed etiche senza le quali lo sviluppo umano sarà sempre incompleto o fallimentare. Non spiega invece in concreto come esse possano e debbano venire incarnate nella realtà sociale e politica del mondo di oggi: questo è un compito che tocca a tutti gli uomini e alle donne di buona volontà, anche perché, come afferma l’enciclica, non esiste una soluzione unica universalmente valida. Ponendosi in continuità con i documenti precedenti e in particolare con l’enciclica di Paolo VI, non ci si vuole limitare al semplice concetto di sviluppo inteso come uscita dei popoli dalla povertà e dalla fame, ma arrivare a indicare ciò che riguarda nella sua globalità l’intera vita umana. «L’apertura alla vita è al centro del vero sviluppo» (n. 28). Tutta la Chiesa quindi quando annuncia, celebra e opera nella carità, intende promuovere lo sviluppo integrale dell’uomo. Le stesse opere di giustizia, pace e sviluppo sono dimensioni fondamentali dell’evangelizzazione (3).

Il Papa delinea il progetto di Dio sull’umanità, la centralità della persona umana, e la necessità di dare un volto umano a tutti gli aspetti della vita sociale e quindi anche all’economia perché questa serva l’uomo e non se ne serva, come spesso è avvenuto e avviene. Non c’è nessun ambito dell’attività umana che sfugge alla responsabilità morale. La parola «responsabilità» ricorre 39 volte nella Cv («globalizzazione soltanto 29 volte»). La strada dello sviluppo è corretta soltanto se la carità viene esercitata alla luce della verità e se la verità è tradotta in carità, cioè nel volto attivo della fede. Un filo conduttore di fondo dell’intero testo è la verità sull’uomo e sulla donna. Più volte viene ribadito il legame tra carità e verità nella teologia, nella fede e nell’intera dottrina sociale della Chiesa. La sintesi di questi due termini viene espressa con una lucidità inedita, che aiuterà certamente in futuro anche tutti gli «operatori della carità sul campo». Sono concetti, esposti all’inizio dell’enciclica e ripresi nell’ultima parte, che ribadiscono idee che il Papa teologo Josef Ratzinger ha più volte avuto occasione di esporre.

Tutto il resto, comprese le regole per la vita sociale ed economica personale, nazionale e mondiale, deriva da questa impostazione di fondo, alla luce della quale vanno lette anche le pagine dedicate ad argomenti apparentemente estranei al campo sociale così come viene correntemente inteso: l’aborto, l’eutanasia, la bioetica, il mondo dell’informazione, il turismo ecc., tutte dimensioni antropologiche il cui stravolgimento rende poco umana la nostra civiltà, così come la vita economico-sociale viene stravolta se è intesa senza il suo fondamento. È la conseguenza di un atteggiamento che trasforma la persona in strumento anziché considerarla un fine, contro la verità messa in evidenza dalla legge naturale.

Il Papa sottolinea la continuità della propria enciclica con tutto il magistero sociale della Chiesa, rifiutando l’idea di una cesura tra un magistero sociale preconciliare e uno postconciliare, pur nella necessità di un continuo aggiornamento di esso. Si tratta di «un unico insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo», come già Giovanni Paolo II aveva scritto nella Sollicitudo rei socialis (n. 3) citata dalla Cv. «La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi sempre nuovi che emergono» (n. 12).

Alcune idee portanti

L’enciclica ricorda due princìpi fondamentali o meglio due princìpi orientativi dell’azione morale: la giustizia e il bene comune (nn. 6-7). Ad essi si aggiungono, al termine dell’enciclica, il principio di sussidiarietà, quello di solidarietà e di reciprocità da connettere strettamente tra loro (nn. 57-58). Ma nelle pagine iniziali parla della giustizia per inglobarla in una concezione più completa dell’amore/carità.

La carità eccede la giustizia, perché amare è donare. La giustizia mi impone di dare all’altro ciò che è suo. Mentre il dono, frutto dell’amore, mi induce a dare del mio; ma naturalmente non posso dare all’altro del mio prima di avergli dato ciò che è suo, perché gli spetta. La giustizia è quindi inseparabile dalla carità, ne è la misura minima, «parte integrante di quell’amore “coi fatti e nella verità” (1 Gv 3,18) a cui esorta l’apostolo Giovanni» (n. 6). La carità da un lato esige la giustizia senza la quale non c’è rispetto dei diritti legittimi degli individui e dei popoli, indispensabili per la costruzione della città dell’uomo» secondo diritto e giustizia. Ma la carità supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. Il dono è un tema che l’enciclica riprende più volte.

Il bene comune è pure un criterio fondamentale per l’azione. Se si ama qualcuno, si vuole il suo bene e si cerca di realizzarlo, ma accanto al bene individuale c’è quello comune, legato al vivere sociale delle persone. È un bene che non viene ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale, senza la quale nessuno può realizzare pienamente se stesso conseguendo il proprio bene. «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità» (n. 7). Questo impegno si traduce concretamente nel prendersi cura delle istituzioni giuridiche, politiche, civili, culturali che danno forma alla polis. Tale via istituzionale della carità (che l’enciclica definisce «politica») è altrettanto importante di quella che si rivolge direttamente al prossimo senza la mediazione delle istituzioni. Se è animato dalla carità, l’impegno per il bene comune ha una valenza superiore a quella dell’impegno secolare e politico. «Come ogni impegno per la giustizia, esso s’inscrive in quella testimonianza della carità divina che, operando nel tempo, prepara l’eterno» (ivi).

Evidentemente la nozione di bene comune, in una società che si sta globalizzando, deve assumere oggi le dimensioni dell’intera famiglia umana, cioè della comunità dei popoli e delle nazioni. Nasce da qui il dovere della solidarietà, che già Giovanni Paolo II proponeva come risposta alla sempre maggiore interdipendenza esistente tra i vari popoli nel mondo di oggi. Il rischio attuale infatti, afferma Benedetto XVI, è che all’interdipendenza dei popoli non corrisponda un’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze necessaria perché ne possa scaturire uno sviluppo veramente umano. «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli» (n. 19).

Lo sviluppo oggi

Il Papa riprende la tematica dello sviluppo ponendo a confronto l’oggi con i tempi della Populorum progressio per constatare sia i risultati raggiunti sia gli obiettivi mancati, quelli cioè che l’uomo soltanto tecnologico ha dimostrato di non avere la capacità di conseguire. Se Paolo VI, dal punto di vista economico, mirava a una crescita reale, estensibile a tutti e concretamente sostenibile, si deve dire che miliardi di persone sono usciti effettivamente dalla miseria, un dato positivo, e che molti Paesi sono diventati attori efficaci della politica internazionale. Ma esistono tuttora molti Paesi poveri (in qualche caso si può parlare addirittura di arretramento), e persistono gravi distorsioni e problemi drammatici che la crisi attuale ha reso ancora più stridenti. Il Papa elenca non pochi di questi concreti meccanismi perversi (Giovanni Paolo II avrebbe detto «strutture di peccato» come nella Sollicitudo rei socialis) molti dei quali vengono poi ripresi successivamente nell’enciclica, in contesti diversi: l’attività finanziaria per lo più speculativa, gli imponenti flussi migratori non adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse del pianeta, la distorsione degli aiuti internazionali, l’eccessiva protezione dei brevetti soprattutto in campo sanitario ecc., mentre dall’altra parte in molti Paesi poveri persistono modelli culturali che rallentano o impediscono il processo di sviluppo. Altri processi sono più chiaramente ambivalenti, e producono effetti positivi o negativi secondo come vengono guidati, ad esempio la delocalizzazione delle imprese e la mobilità lavorativa, la tecnica e gli stessi meccanismi della globalizzazione. I vari aspetti della crisi e delle sue soluzioni sono sempre più interconnessi tra loro e «richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica» (n. 21) resa necessaria dalla mancanza di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa.

Il Papa tesse un grande elogio dello sviluppo: «L’idea di un mondo senza sviluppo esprime sfiducia nell’uomo e in Dio», perché «l’uomo è costitutivamente proteso verso l’“essere di più”» (n. 14). Rifiuta perciò sia il progresso tecnico fine a stesso sia l’utopia di un’umanità da far tornare allo stato di natura originario. Ma quello su cui l’enciclica insiste è la necessità di un rinnovamento culturale e la riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore, facendo della crisi un’occasione di discernimento e di nuova progettualità. Oggi sono diventati globali molti aspetti economici, finanziari, informativi, ma non i valori. Anche la caduta dei blocchi mondiali contrapposti, nel 1989-91, sarebbe stata una buona occasione per una riprogettazione globale dello sviluppo, come Giovanni Paolo II aveva chiesto a suo tempo, ma l’occasione è andata sostanzialmente perduta. Pure il dialogo tra le culture può essere creativo, ma può anche condurre a un appiattimento o a un eclettismo acritico che fa perdere il significato profondo della cultura dei vari popoli. Lo scenario mondiale è diventato più complesso. È cresciuta infatti la ricchezza in termini assoluti, che si riparte però in modi molto disuguali facendo aumentare anche le disparità.

In base alla concezione cristiana di fondo, il Papa pone chiaramente al centro dell’intero sistema culturale, politico, sociale ed economico (la stretta connessione fra i quattro aspetti ricorre più volte) la persona umana, che non può essere mai trattata come un mezzo, o peggio, come una merce, o, nel processo produttivo, come le materie prime. Questo è particolarmente evidente quando si parla, ad esempio, dell’accesso al lavoro e del suo mantenimento per tutti, considerato come una priorità, ricordando che «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» (n. 32). In definitiva (per rifarsi alla terminologia latina della Populorum progressio, che venne tradotta in italiano con il più riduttivo termine di «sviluppo») il «tema di fondo, il progresso, resta ancora un problema aperto» (n. 33).

L’economia per l’uomo

All’economia viene dedicata larga parte del testo, in particolare nel terzo capitolo, per sottolinearne il carattere di strumento, per quanto indispensabile, e non di fine, la sua fragilità e il rischio di usarla in modo distruttivo. «La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l’uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell’economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l’uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo» (n. 34). L’amara esperienza della crisi ha mostrato l’incapacità del mercato di autoregolarsi, incapacità che pure in passato si era manifestata, ma senza che se ne tirassero le dovute conseguenze. Il mercato non deve essere demonizzato, perché è uno strumento che può offrire molti vantaggi, ma «non è, e non deve perciò diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole» (n. 36) e ha bisogno di rapporti di fiducia (che oggi è venuta a mancare, determinando una perdita grave) e di solidarietà. Il fine dell’economia non è insito in essa, e «l’attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica» (n. 36). Vi si sente l’eco della Octogesima adveniens di Paolo VI (1971) che invocava un ritorno dall’economia alla politica. Una delle espressioni più interessanti e nuove è quella dell’unità tra azione economica e azione politica, senza che si lasci alla prima il compito di produrre la ricchezza per assegnare successivamente alla politica il compito di distribuirla. «L’economia infatti ha bisogno dell’etica per il suo corretto funzionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica amica della persona» (n. 45).

«La dottrina sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani, di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all’interno dell’attività economica e non soltanto fuori di essa o “dopo” di essa. La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente» (n. 36). Trovano qui spazio considerazioni inedite in un’enciclica, come quelle sulla «responsabilità sociale dell’impresa», che deve tener conto, per esempio, del fatto che investire non è mai soltanto un fatto tecnico ma anche sociale e umano, da tenere presente.

È interessante notare che tutte queste considerazioni sull’attività economica (tradizionalmente orientata e animata dalla ricerca del profitto) vengono dal Papa inframmezzate dall’introduzione di un concetto insolito in economia, quello della gratuità e della logica del dono. «L’essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (n. 34). Eliminare questa dimensione della gratuità significa togliere dalla storia la speranza cristiana. Essendo dono di Dio del tutto gratuito, essa fa parte della nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia, perché il dono, per sua natura, oltrepassa il merito; la sua regola è l’eccedenza. Verità e carità sono anch’essi doni, che non devono giustapporsi alla giustizia come qualcosa di successivo: «Lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità» (ivi). Non è difficile riconoscere in queste considerazioni il frutto della riflessione di numerosi studiosi ed economisti che hanno approfondito le dimensioni umane e filosofiche dell’economia. Il nome del premio Nobel Amartya Sen vale per tutti, ma non è l’unico.

L’enciclica elogia perciò, sia nel III sia nel IV capitolo, quelle forme di attività economiche che informano il proprio agire a princìpi diversi da quelli del semplice profitto, senza con questo rinunciare a produrre valore economico. Così, ad esempio, le attività no profit, anche al di là del cosiddetto Terzo Settore, il commercio equo e solidale, le attività mutualistiche e sociali, il microcredito e la cosiddetta economia civile e di comunione che sono apparse negli ultimi decenni e che non trovano spazio nel mercato tradizionale. L’enciclica lamenta che queste attività non vengano adeguatamente favorite dal sistema fiscale, giuridico ecc. come le attività ispirate alla logica del profitto, anche se si tratta di un settore diversamente ispirato: «Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge atteggiamenti gratuiti» (n. 39). A questo proposito viene sottolineato che non si tratta soltanto di creare settori o segmenti «etici»  dell’economia o della finanza, ma «l’intera economia e l’intera finanza siano etiche e lo siano non per un’etichettatura dall’esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche alla loro stessa natura» (n. 45).

Interessante è anche la considerazione della povertà come espressione della solitudine dell’uomo (capitolo V). Da questa, dal non essere amati o dalla difficoltà di amare nascono anche le povertà materiali. La categoria di relazione va approfondita e riscoperta in quanto la persona si realizza nelle relazioni interpersonali. «Non è isolandosi che l’uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio» (n. 53). Il concetto va oggi esteso anche alle relazioni tra i popoli. Soltanto se si riconosce che formiamo una sola famiglia umana (e la famiglia è il luogo privilegiato per i rapporti interpersonali di tipo gratuito e primario) si può avere un autentico sviluppo.

Inoltre, in un mondo globalizzato, nel quale i singoli Stati perdono potere, il Papa auspica la creazione di un’autorità politica mondiale (già indicata del resto da Giovanni XXIII nella Pacem in terris [1963]), senza però addentrarsi sul modo di realizzarla.

L’ambiente e la tecnica

Ampie considerazioni, ben maggiori degli accenni contenuti nelle encicliche sociali precedenti, vengono dedicate al rapporto con l’ambiente e all’uso delle risorse naturali, anch’essi visti non come problemi a sé stanti, ma come parte di un discorso globalizzato in cui l’uomo è protagonista e nel quale tutto si tiene, come appunto quando si parla di sviluppo integrale: «Il libro della natura è uno e indivisibile» (n. 51). La stessa tecnica, che manipola la natura e la trasforma, è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. In essa, che è opera del genio umano, «si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia» (n. 69). Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro umano a cui è intimamente legata, e consente di ridurre i rischi, di risparmiare la fatica e di migliorare le condizioni di vita. «La tecnica è l’aspetto oggettivo dell’agire umano, la cui origine e ragion d’essere sta nell’elemento soggettivo: l’uomo che opera. Per questo la tecnica non è mai solo tecnica» (ivi), né è mai autosufficiente, altrimenti diventa ambigua, come avviene quando l’uomo, interrogandosi sul come agire, dimentica di interrogarsi sui tanti perché che lo spingono ad agire. Se l’unico criterio della verità sono l’efficienza e l’utilità, la tentazione diventa quella di far coincidere il vero con il fattibile. È una delle tipiche dimensioni della mentalità odierna, secondo la quale se una cosa (un viaggio interplanetario, una nuova bomba, una manipolazione genetica radicale ecc.) è tecnicamente fattibile ed economicamente utile, la si fa, assai prima di chiedersi se sia utile e perché debba essere fatta. Ma, nota l’enciclica, «il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pienamente umano del fare dell’uomo» (n. 70). Se prevale l’assolutizzazione della tecnica si realizza ancora una volta la confusione tra fini e mezzi, perpetuando disagi, incomprensioni e ingiustizie o creandone di nuove.

Fede e ragione

Un ultimo tema particolarmente caro a Benedetto XVI è quello della necessità di conciliare tra loro ragione e fede, in modo che si aiutino a vicenda. «Solo assieme salveranno l’uomo. Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza la ragione rischia l’estraniamento dalla vita concreta delle persone» (n. 74). Il Papa è convinto che senza Dio l’uomo non sappia dove andare e neppure comprendere chi sia. Ma, se è vero che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, è anche necessario un adeguato discernimento, perché esistono forme di «religione» che estraniano le persone le une dalle altre, anziché farle incontrare e collaborare in un progetto comune. Non tutte le religioni sono uguali. La Cv rifiuta da una parte l’esclusione della religione dall’ambito pubblico: «La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare questo “statuto di cittadinanza” della religione cristiana» (n. 56); dall’altra rifiuta il fondamentalismo religioso, perché in ambedue si perde la possibilità di una proficua collaborazione tra la ragione e la fede religiosa. «La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano» (ivi). In epoca di fondamentalismi e di fanatismi religiosi rinascenti, ci pare un’affermazione significativa.

Le novità dell’enciclica

È difficile dire quali siano le «novità» della Caritas in veritate.

Nuovo ci pare lo sforzo poderoso di dare, alla luce della fede e dell’etica naturale, una visione di sintesi dell’intera problematica umana nel momento attuale, così carico di sfide, di tensioni, di grandi possibilità e di naufragi sempre possibili.

In secondo luogo l’enciclica volge uno sguardo di benevolenza sul nostro mondo sofferente e insieme affascinante, di cui non si limita a denunciare i mali o la malvagità. Non demonizza né l’economia, né la tecnica, né il mercato, né le varie attività economiche, anzi elogia lo sviluppo e la tecnica, ma mette in guardia dalla possibilità, purtroppo ben concreta, del loro uso distorto. Ma il male non sta in esse; sta in chi le usa, in un mondo segnato dal peccato. Già Adam Smith ammoniva a non imputare al denaro le colpe di chi lo usa.

In terzo luogo l’enciclica accoglie nel patrimonio della dottrina sociale una serie di nozioni e di realtà sinora ignorate nei maggiori testi del Magistero, come quelle di tipo finanziario, ma anche il volontariato, le forme di «economia etica», l’uso ragionevole e saggio delle risorse naturali, il concetto di «procreazione responsabile, che costituisce tra l’altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano integrale» (n. 44) e che viene raccomandata, la nozione di gratuità e di dono come fondamentale anche in economia, dove domina invece il concetto di profitto e dove tutto si vende e si compra, altrimenti non interessa. Sono idee che si sono affermate negli ultimi anni tra gli economisti più accorti, credenti e non credenti, e ai quali l’enciclica fa spazio. Altre nozioni vengono riprese con insolita determinazione e chiarezza, come la difesa delle organizzazioni sindacali (se ne parla almeno per due volte, nei numeri 25 e 64) in un’epoca nella quale esso non ha certamente vita facile, e il ruolo dello Stato, indispensabile, ma non da idolatrare né da rendere tanto protagonista da soffocare la libertà economica e di iniziativa, e l’azione dei corpi intermedi. Si parla persino di sussidiarietà fiscale (n. 60), che permetterebbe ai cittadini di decidere sulla destinazione di quote delle imposte che essi versano allo Stato.

Ma al di là di queste considerazioni, ci sembra che il testo in quanto tale renda giustizia a un mondo come il nostro sempre più complesso di cui cerca di individuare alcuni meccanismi fondamentali per poter dare loro un’«anima» più umana. Il Papa non parla mai di capitalismo (e tanto meno di socialismo), ma di fatto invita a superarlo ritornando all’economia civile nella quale la fraternità e i principio di reciprocità svolgono un ruolo di fondo È quindi un testo di speranza, quasi un richiamo all’utopia, in termini moderni, di un mondo più fraterno e più solidale. Il Papa invita a sognare, mentre siamo entrati nel nuovo secolo privi di visioni di grande portata.

La globalizzazione ha spinto a pensare ai propri interessi nazionali, regionali, etnici, in ogni caso particolari, perdendo di vista una visione di insieme che, sola, può portare allo sviluppo di tutti. L’enciclica la richiama con forza.

 Inevitabilmente molti temi toccati dall’enciclica non sono stati da noi neppure accennati e altri non sono stati da essa trattati, come quelli relativi alla donna o agli armamenti e alle guerre, sulle quali ci si limita a notare, parlando delle risorse naturali: «Quante risorse naturali sono devastate dalle guerre!» (n. 51). Ma un’enciclica non è un’enciclopedia e non mancano altri documenti ed encicliche che affrontano lungamente e in modo adeguato queste tematiche.

Si tratta ora di recepire un testo così complesso e di farne argomento di riflessione per attingervi energie e idee per una trasformazione del mondo, che già in via di unificazione per alcuni aspetti, lo sia anche per le dimensioni più profonde e più vere dell’umano che consentano di pensare a un futuro migliore per tutti, grazie al lavoro di tutti.

1 Il Pontificio Consiglio, presieduto dal card. Renato Raffaelle Martino (segretario mons. Giampaolo Crepaldi, ora nominato vescovo di Trieste) nel 2004 aveva pubblicato il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, al quale anche la Cv fa più volte riferimento.

2 PAOLO VI, Lettera enciclica Populorum progressio, n. 14.

3 In proposito il documento più chiaro e convincente rimane sempre l’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975) con la quale Paolo VI chiuse la discussione sorta durante la terza Assemblea Generale del Sinodo dei vescovi, svoltasi l’anno precedente, senza riuscire a concludersi con un testo unitario.

© La Civiltà Cattolica 2009 III 457-470         quaderno 3822

 

Impegni cristiani istanze comuniste

Don Mazzolari: “Impegni cristiani, istanze comuniste”. Un saggio forse attuale, senz’altro stimolante

mazzolari don Primo


Impegni cristiani istanze comuniste

Saggio tratto da “Cattolici e Comunisti”, ed. La Locusta, 1978


di Primo Mazzolari


Il malcontento, oggi, ha un nome, la novità un volto: comunismo.
In questo senso, comunisti lo siamo un po’ tutti: anche coloro che ne hanno paura e ne dicono male.


Se vogliamo veramente qualche cosa di di­verso di quanto è stato fatto sin qui, è bene che ci disponiamo a fare un po’ di strada con i co­munisti.


Perché se il comunismo è quella dottrina po­litica con premesse filosofiche e previsioni eco­nomiche ben determinate e con prassi rivolu­zionaria che va dalla dialettica o lotta delle clas­si alla loro cancellazione attraverso una più o meno lunga dittatura del proletariato: se il co­munismo è questo o quel partito operante in questo o quel paese, oggi è soprattutto uno « stato d’animo » di rivolta contro il male so­ciale di qualsiasi nome, un interiore tempo d’avvento, l’attesa di una novità che, senza farci di­menticare le sofferenze patite, renda impossi­bile il loro ripetersi.


Pochi, credo, anche fra gli intellettuali che simpatizzano con il comunismo e tra gli stessi militanti, conoscono bene la struttura dottrinale e il meccanismo politico del comunismo. Parec­chi non hanno neppure voglia di conoscerlo; mentre sono disposti a lasciarsi condurre, almeno inizialmente, da un movimento, che dà voce e concretezza alla loro coscienza umana, cui vo­gliono essere fedeli per non tradire un impegno reso sacro dai patimenti e dalla morte di milio­ni di uomini.

Ecco perché, al confronto con le dottrine comuniste, lavoro assai spedito ma di scarso rendimento, preferisco mettermi vicino, come cristiano, a questo « stato d’animo »‚ che costi­tuisce la forza segreta del comunismo e che non fu mai così vasto, così esigente, così esasperato.
Chi ci impedirà di ricostruire la « città » sui piani di ieri, non sarà il dottrinalismo degli ini­ziati, ma l’opposizione irresistibile, anche se anonima, di tutti coloro che hanno ineffabilmen­te scontato i crolli di un mondo costruito sull’ingiustizia.

E se badiamo all’« animo » prima che alla « dottrina »‚ ciò non vuoi dire che diamo poca importanza ai principi: ma perché se il mondo oggi fermenta e si muove, fermenta e si muove non in virtù di un pensiero concreto e organizzato, ma di un sentimento forte e fluidissimo, nel quale va prendendo dimora una strana fa­miglia di altri sentimenti, che, pur essendo a volte in contrasto con la dottrina comunista, almeno quella dei libri, non lo sono affatto con 1’«animo»‚ in cui il comunismo si è potentemente insediato e quasi confuso. Mi pare un grande fenomeno d’invasione in terra di nessu­no, benché il sentimento che ci travaglia sia un fatto di comunione più che di comunismo.
S’impone quindi lo studio di questo senti­mento, il cui significato rivoluzionario è così impressionante che i pochi che stanno ancora bene ne sono ossessionati, trascinandosi dietro una variopinta turba di pavidi che temono di vedere il mondo finire perché domani invece di «camerata» ci chiameremo «compagni».
Urge questo studio, se vogliamo capire il po­polo e impedire che venga condotto su strade che non sono le sue, e dietro dottrine dalle quali solo con fatica e a caro prezzo ci potremo libe­rare.

La forza del comunismo non è legata a nes­suno dei suoi postulati dottrinali – non al ma­terialismo dialettico né a quello storico, non alla lotta di classe né all’abolizione di essa attraver­so la dittatura del proletariato – ma alla fede nell’avvento di una giustizia sociale che faccia respirabile per tutti l’aria di quaggiù.

Sono pochi i comunisti militanti che com­prendono la funzione della dottrina marxista, ancora più pochi coloro che sono disposti a dare la vita per testimoniare che il processo econo­mico risolutivo della rivoluzione si svolgerà sui binari tracciati da Marx e da Lenin: mentre sono molti i comunisti che in questi anni hanno testi­moniato per la libertà e per la giustizia nelle carceri, nei campi di concentramento, davanti ai plotoni d’esecuzione.
La dottrina comunista, troppo filosofica e troppo storica, e quindi sottoposta a tutte le incertezze della filosofia e alle vicissitudini della storia, non può appassionare che per l’elemento mitologico di una beatitudine terrena assicurata a tutti.

 

Il comunismo vuole il bene dell’uomo, ne cura e ne esalta il valore, e all’improvviso pare che lo dimentichi, sommergendo la persona nella collettività, alla quale, senza volere, dà un significato religioso, facendo in essa la trasposizione terrena della «Gerusalemme celeste» di cui godranno soltanto le generazioni, che abi­teranno la terra quando la nuova dimora umana vi sarà durevolmente stabilita.

L’elemento materialistico non fa religione neanche nel comunismo, a meno che non lo si guardi come accettazione disperata di una real­tà senz’altra dimensione. Diviene quasi religioso per la sete di giustizia che lo tormenta e per il coraggio veramente disperato di volerla intera­mente quaggiù, ove il predominio della materia e la brevità dell’uomo la rendono un’impresa assurda. Questa vita, sia pure in un congegno sociale più umano del presente, lascia troppo di scoperto e di vuoto nel nostro cuore.

Non c’è nessuno che non arrivi come un de­fraudato alla fine di un viaggio che pare piut­tosto un’introduzione.

La visione di un’umanità felice è indubbia­mente religiosa: ma la beatitudine che ci viene offerta dal comunismo è fatta di limite più che di espansione, di rassegnazione più che di slan­cio, ed è destinata a divenire tragicamente sta­tica per non mettere a repentaglio una felicità, fragilissima per natura, e quasi imposta da un sistema esteriore e da un’interna mutilazione. Dove finisce l’avventura non è detto che co­minci il paradiso. Una civiltà, anche grande, che mutili l’uomo, costruisce contro l’uomo e contro quell’unico sentimento che è la forza della rivoluzione comunista come della rivoluzione cri­stiana.,

Dopo questo preciso e sobrio confronto, per il quale non mi fu necessario impegnare grosse firme né ricordare esplicitamente nessuna defi­nizione, credo di poter usare verso i comunisti la più grande lealtà e la più franca amicizia, rimanendo inconfondibile la mia fisionomia cristiana.

Conosco individui lealissimi, nei rapporti di persona a persona, che non lo sono affatto nel giudicare o trattare istituzioni, partiti, comuni­tà. Non essendovi di mezzo un interesse perso­nale, non si sorvegliano, e conducono la difesa e l’attacco «ad abundantiam». Le passioni col­lettive, gravide di errori e di orrori, sono le me­no controllabili, e molta brava gente si vanta di metodi, di cui si vergognerebbe se li usasse per difendere qualche cosa di suo. E così facile di­venire partigiano e settario: due scogli che sono certo di poter evitare, per la stima e l’amicizia che mi lega a molti comunisti. Chi non è bene­volo non può essere leale.

La lealtà è frutto di carità.
Il comunismo è uno dei tanti movimenti po­litici che si sono succeduti in Europa dopo la rivoluzione francese. Ebbe una lunga incubazio­ne dottrinale e sviluppi storici scarni e faticosi agli inizi: un’affermazione imponente e quasi improvvisa nella rivoluzione bolscevica: una disposizione d’animo larga e profonda oggi, prece­duta e accompagnata da testimonianze eroiche nell’esilio, nelle prigioni, nei campi di concentra­mento, sui patiboli.
Basterebbe questa testimonianza, numerosa e nobilissima, a farci riverenti e pensosi. Quando un’idea è suffragata dal sacrificio (la parola « fa­natismo » va usata con estrema parsimonia), bi­sogna parlarne con rispetto, anche se molti aspetti di essa urtano le nostre più care certezze.

« Il comunismo è avversato da tanti… »‚ si dice.
Ma tutti i movimenti che si dichiarano con­tro interessi, consacrati dal tempo e dal diritto, e che di questa loro netta opposizione ne fanno un postulato, suscitano timori, denigrazioni, odi implacabili.

Chi sta bene s’è anche procurato degli amici, o se li può, all’occorrenza, procurare col nome, il denaro, la prepotenza, la propaganda, l’astu­zia: proclamandosi, all’improvviso, patrocina­tore di quelle cause e di quegli interessi, che avendo legami con profondi sentimenti naturali – religione, patria, famiglia – sono condivisi da molti.
Ed ecco lo spettacolo, poco edificante ma istruttivo, di uomini senza fede che si dichiarano per la religione; di senza patria che s’accendono di furore nazionalistico; di corrotti celibatari che esaltano la santità della famiglia.

Gli ingenui e i timorati si commuovono da­vanti al miracolo, e la «crociata» viene procla­mata «pro ans et focis» contro il nemico co­mune.
E chi ne paga lo scotto sono i cristiani, che, per delle verità che non vanno difese in quel modo né in quella compagnia, si assumono la tremenda responsabilità di puntellare un ordine sociale, che è la negazione dell’ordine cristiano.
La nostra paura è quasi sempre il riflesso della paura dei benpensanti, i quali sono riusciti a reclutare le loro migliori milizie tra il popolo fedele e a dare battaglia, la loro battaglia, fino all’ultimo cattolico.

Ma io volevo soltanto ricordare – poi la pen­na ha camminato per suo conto – che se c’è qualcuno che non deve lasciarsi impressionare dal clamore anticomunista siamo proprio noi, che possiamo vantare tre secoli di sollevazione di tutte le forze conservatrici del mondo pagano, e una storia le cui pagine più belle sono il rac­conto delle persecuzioni patite.
La Chiesa c’insegna che non è sempre il male che desta odi inestinguibili.
E allora, sia pure per curiosità, vien voglia di vedere con i propri occhi «questa gente in odio al genere umano». Molte conversioni al cristianesimo nacquero da questa onesta curio­sità.

Chi sono questi comunisti?
Di quelli russi riporto il giudizio di un fo­glio di propaganda cattolico: «Indubbiamente la loro vita, segnata durante il regime degli zar da persecuzioni, prigionie, esili, tutta spesa per la causa del loro partito, senza che vi appaia l’ombra di un qualunque interesse personale, ha degli aspetti di eroismo. La persuasione che han­no di una grande missione da svolgere nel mon­do mette nella loro attività una tenace costanza che li accompagna assiduamente al lavoro. Cosicché, mentre a un occhio nemico possono parere addirittura brigantesche, diaboliche le loro azioni, a un occhio amico possono invece sem­brare degne di quella ammirazione che gli uo­mini riservano per i grandi benefattori».
 

Un occhio cristiano, se vuole essere giusto, non può essere che un occhio amico.
Nomi di comunisti italiani arrivati a rino­manza non ne conosco: conosco però molta umi­le gente, gente del popolo, che in questi anni riempirono i campi di concentramento e le car­ceri e seppero morire per la loro fede con no­bile fermezza.

Mi si potranno opporre figure e imprese di tutt’altro genere, con l’accompagnamento di una sbalorditiva documentazione. Ne prendo nota, senza negare: non voglio negare. Ricordo però che la propaganda documentaria sa fare le cose così grandiosamente e pulitamente che ci vorranno anni e anni per ricondurre certi avveni­menti nelle loro giuste proporzioni.
Del resto il mio ufficio non è né di accusare né di scusare. Vi sono torti che non si potranno cancellare: ma gli accusatori, certi implacabili accusatori, non hanno le mani pulite, e i loro delitti sono almeno altrettanto abbominevoli, senza l’attenuante di una sofferenza secolare sulle spalle, di una risposta degli oppressi alle cru­deltà degli oppressori, di un impegno folle e sublime di realizzare a qualunque costo una spe­cie di paradiso terrestre.
«Non m’importa di uccidere in dieci anni, dieci o più milioni di uomini, purché fra cento anni, centocinquanta milioni di uomini siano felici» (Lenin).


Il proposito è disumano, ma sono forse più umani i propositi non confessati che portarono alla morte fra stenti fatiche miserie e guerre milioni e milioni di uomini per difendere il be­nessere o coprire di gloria una classe che non è sempre la più meritevole?
Noi condanniamo la violenza, l’odio, il male, le vendette, comunque e da chiunque commes­se, ma fra la rivolta degli oppressi e la tirannia degli oppressori non possiamo non avvertire una differenza e valutarla nel nostro giudizio morale.

Cosa vogliono i comunisti? La fine delle in­giustizie e la felicità di tutti gli uomini.
Cosa vogliono i cristiani? La fine delle ingiu­stizie e la felicità di tutti gli uomini.
La differenza è sui mezzi e sul modo di concepire il bene, conseguenza di una diversa vi­sione dell’uomo e della vita.

Circa i mezzi: quando sono malvagi, non c’è modo d’intendersi. Però, sé vogliamo essere equi, domandiamoci quali sono i partiti che non abbiano usato e non usino o non siano disposti ad usare mezzi che la nostra coscienza non di­sapprovi.
La Chiesa ha sempre dovuto fare riserve e formulare condanne nei confronti di tutti i re­gimi, non esclusi i «cristianissimi» e i «catto­licissimi».

Nessuno, ad esempio, nega l’uso della forza. Ne ha bisogno anche l’uomo retto per riconosce­re dove finisce il proprio diritto e incomincia il proprio dovere, perché il bene comune non può essere abbandonato all’arbitrio o alla ispi­razione del singolo. Ma quando la forza cessa di essere una nota che può incastonarsi nella virtù della fortezza e si tramuta in quella ripu­gnantissima cosa che si chiama violenza?


Purtroppo siamo avvezzi a chiamare forza la violenza legittima, quella che in certo qual mo­do è riuscita a darsi un abito e un passo di buona creanza legale: mentre la forza che cerca di svin­colarsi dall’oppressione legale, siccome è contro la legge dettata dagli oppressori, è violenza.

Se l’oppresso, per difendere un suo valore umano, assale il proprio oppressore, è un vio­lento: mentre la rappresaglia, voluta da un edit­to per cui dieci cittadini innocenti pagano con la propria vita un tentativo di liberazione, è un uso legittimo della forza.
’Chiudo la serie degli esempi, che potrebbe divenire lunga e piena di sorprese, con una bre­ve considerazione.

In un regime iniquo, sia per liberarsene come per moderarlo, è difficile usare mezzi che non la­scino almeno perplessa la nostra coscienza. Con questo non si vuole dire che ci siano due morali, una per l’individuo e una per l’uomo associato, ma che in contingenze estreme per la tutela del bene comune l’uomo politico più integro può essere messo nell’alternativa penosa di scegliere non tra un bene e un male ma tra un male mi­nore e un male maggiore. E allora, non rimane che disertare il proprio posto o affrontare l’ago­nia che è tale appunto perché invece di velare il male lo statista cristiano consapevolmente lo condanna onde avere la forza di non usarlo ol­tre la triste necessità.

Si è più fedeli al bene comune e alla propria coscienza disertando o agonizzando sul posto? Non rispondo, perché non so. Questo so: che la cristianità ha duramente scontato le diserzioni poco illuminate e troppo applaudite da quell’opinione devota che non osando affrontare i duri aspetti della realtà politica passa dal giudizio severo all’indulgenza più larga.

 

La dottrina comunista è essenzialmente im­pregnata di materialismo.
Il materialismo – si tratta di un materiali­smo affatto volgare, che s’accompagna con un senso vivo dell’ideale, della grandezza e del sa­crificio – viene accettato dal comunismo come l’espressione superiore e definitiva della verità e gli fa da cardine, come l’affermazione di Dio fa da cardine al cristianesimo.
E come nella nostra religione tutto viene da Dio e tutto a lui si riconduce, così nel comuni­smo tutto dipende dalla materia e alla materia ritorna.
Rinunciando alla beatitudine eterna, il co­munismo non ha potuto rinunciare alla beati­tudine terrena, ch’egli inserisce nella sua strut­tura filosofico-scientifica con la stessa passione e la stessa fede con cui nella visione cristiana s’inserisce il Regno dei Cieli.
Il comunismo, benché cammini dietro la stes­sa sete di giustizia e di elevazione umana del cristianesimo, fa colpa alla nostra religione di trasferire il raggiungimento pieno della felicità in una vita ultraterrena inesistente, oppio dei poveri a beneficio dei ricchi, enorme ostacolo allo sforzo vitale per il raggiungimento del be­nessere umano.
L’antitesi è netta e senza conciliazione finché il comunismo rimarrà legato alle sue non neces­sarie premesse materialistiche.

Il fatto è grave e non ci lascia indifferenti: non è però il caso di sgomentarci, né di met­terci a gridare parole dissennate sia pure per dare l’allarme e premunirci. Mi pare che si faccia più tragedia di quanto convenga, e senza alcun tornaconto, se non quello di mostrare la nostra poca fede e di chiamarci intorno ausiliari che moltiplicano la nostra paura e che ci fanno ri­piegare su trincee che non sono le nostre, im­prestandoci interessi e linguaggio e argomenti che non possono convenire alle grandi cause dello spirito.

Pare la prima volta che la nostra religione si trovi di fronte ad una visione materialistica della vita. Sono forse diverse, se sappiamo leg­gere oltre le parole, le posizioni di quelle filo­sofie che hanno sorretto e sorreggono molti movimenti liberali e democratici? Il paganesimo non è forse l’anima occulta di molti regimi che solo a motivo di un linguaggio riguardoso e di una tattica diplomatica si guadagnarono parti­colari benevolenze in campo cristiano?
Raramente una vetta si staglia da sola: cime e vette minori la preparano e le fanno corona. Il materialismo comunista, così preciso e sicuro in ogni suo particolare, è la logica conclusione di un travaglio secolare dello spirito umano, che dal Rinascimento in poi ha preso un moto accelerato fino a tentare una soluzione integrale della vita favorito dalla decadenza della spiri­tualità cristiana e dall’arresto della sua influen­za sulla politica, sull’economia e sulla cultura europea.

Al principio, il dibattito si svolse dentro le frontiere cristiane con carattere ereticale: poi, in margine: infine, dichiaratamente contro le nostre insegne fino a stabilire le strutture teo­riche e i preliminari pratici di quel nuovo ordine e di quella nuova religione in cui l’uomo di oggi e di parecchie altre generazioni viene sa­crificato all’uomo di domani, un regno di feli­cità che pare quasi toccabile e alla portata di tutti mentre è ancora molto ipotetico e un po’ meno amabile del Regno dei Cieli.

E vero che la tendenza materialistica è quasi congenita: ma alle sue ultime conclusioni più che per voglia ci si arriva per disperazione al­lorché la strada dello spirito pare chiusa o ci viene indicata da voci inconsistenti che dicono e non fanno.

La responsabilità va almeno ripartita e a chi non è senza peccato conviene un tono meno concitato e severo.

Finora, con tanto parlare, non si è fatto nes­sun guadagno, e l’animo se non la dottrina co­munista ha dilagato favorito da un’opposizione più violenta che illuminata e da bagliori pole­mici in cui la letteratura occasionale ha giocato con fantasie equivoche ma ben pagate.

 

«Roma o Mosca» è uno dei tanti luoghi co­muni di questa polemica senza fede e senza in­telligenza, che, invece di chiarire, portò confu­sione, istituendo tragiche antitesi, che la storia non riconosce, molto meno la storia della Chiesa.

I primi cristiani non hanno accettato gli aut aut cari ai retori di ogni tempo: Gerusa­lemme o Atene, Gerusalemme o Roma, e nean­che Cesare o Pietro, poiché gli elementi di verità e di bontà ovunque sparsi si possono e si devono ricapitolare nella cattolicità, che ne ha la funzione e la capacità.

Più tardi, per lo stesso motivo, venne rifiuta­to Wittemberg o Roma, Ginevra o Roma. Se tutte le strade portano lontano da Roma («los von Rom») tutte le strade vi possono condurre («nach Rom»). Tale animo, e la condotta che può ispirare, mi sembrano un po’ diversi dalla politica della «mano tesa»‚ che potrebbe essere un corto cal­colo di ambedue. La salvezza non può venire da un opportunismo tattico, ma da una risolu­zione sincera e spassionata in nome del bene comune attraverso un’esperienza che tanto noi quanto i comunisti avremmo già dovuto avviare. Camminando s’impara a camminare.

 

Nessuna coercizione potrà impedire al co­munismo di camminare.
Non c’è riuscito il formidabile schieramento nazi-fascista: non ci riusciranno i loro epigoni sparsi un po’ dappertutto.
Così nessuna organizzazione e nessun suc­cesso potrà impedire lo sfaldamento del mate­rialismo, che è piuttosto una camicia di forza destinata a saltare sotto la pressione del respiro eterno dell’uomo che vi sta dentro a fatica e vi si sente soffocare.
Molto più che il comunismo, accrescendo nell’uomo l’anelito verso la giustizia, favorisce proprio quella forza che da sola sconvolge ogni limite della materia. Non si può riconoscere al­l’uomo dignità e grandezza, per poi imprigionarlo in uno spazio che non è il nostro spazio vitale.

Per conseguenza, anche le ipotesi di carat­tere economico-sociale, quand’anche s’avveras­sero, non darebbero i risultati promessi, perché l’uomo, nella concezione comunista, è collocato in una realtà troppo raccorciata.
Nessuno può tagliar fuori il mistero dal cuo­re e dalla strada dell’uomo senza renderlo in­commensurabilmente infelice e pericoloso.


E il mistero non è un’aggiunta o un regalo della fantasia: è dentro di noi, connaturato in noi: fermento di quel Regno che non abbraccia soltanto la terra.
Esso opera già. Le «evoluzioni» che sono nel movimento comunista, anche se screditate dai settari di fuori e osteggiate dai settari di dentro, sono le necessità imposte non da un de­streggiamento tattico verso le abitudini o le tradizioni, ma dalla natura stessa dell’uomo, che il cristianesimo ha preso in mano integralmente. I

La Chiesa ha condannato il comunismo ateo e materialista.
Aggiungo: ne aveva il diritto e il dovere, e mi vergognerei di allineare testi contro testi per negare o minimizzare il valore della condanna: come si dovrebbero vergognare coloro che ne estendono il significato credendo di rendere omaggio alla Chiesa mentre rendono omaggio agli interessi di qualcuno contro gli interessi dei poveri.
La nostra apologetica si è fatta eccessiva­mente debitrice della retorica borghese, dimen­ticando che noi non abbiamo interessi di classe da difendere, ma valori che convengono a tutti gli uomini.

La condanna dottrinale crea l’antitesi tra il cristianesimo e il comunismo: ma nessun co­munista intelligente e retto s’illuse mai che la sua concezione materialista della vita e della storia, sia pure con l’intenzione di far meno in­felice l’uomo, potesse essere sopportata dalla Chiesa. Ma la condanna – e lo ricordino i mas­simalisti e gli zeloti – non va più in là, conglo­bando, come pare che molti facciano, nello stes­so giudizio di riprovazione, la sete di giustizia che muove il comunismo e il suo lodevole sforzo verso un riordinamento sociale.
L’urto si profila quando dei cristiani, invece di leggere la condanna come una regola di orien­tamento a un’azione sociale veramente cristiana, si riparano dietro le encicliche e i messaggi, per disimpegnarsi e per continuare a sparare contro il «nemico»‚ invece di superarlo, costruendo sulla roccia invece che sulla sabbia.

L’edificare sulla sabbia è un infelice mestie­re: ma io credo che tra coloro che disponendo della roccia non scavano fondamenta né alzano un muro paghi di magnificare la saldezza del loro terreno e coloro che in qualche maniera s’adoperano a costruire sia pure su terreno fria­bile siano preferibili questi ultimi. Sono alme­no uomini di buona volontà, che non seppelli­scono il « talento ». La verità, che si compiace di contemplarsi, è come la fede senza opere, cosa morta: e anche i poveri finiranno per pre­ferire un « errore » che si adopera in loro favore a una « verità » che non s’accorge di essi.

Le critiche di carattere scientifico al comu­nismo non vanno confuse con quelle di ordine religioso. Non si demolisce una fede, neanche la fede comunista nell’avvento della giustizia, con argomenti tecnici. Il valore di certe espe­rienze, anche se suffragate da abbondanti statistiche e da ricorsi storici, è molto dubbio. Si può sempre dubitare della maniera con cui esse furono condotte. Il capitalismo paga bene gli uo­mini di scienza…
Nessuno deve pensare che anche noi faccia­mo coro e prendiamo il tono da coloro che han­no paura del comunismo perché sono ricchi.

Il pericolosissimo gioco di stare insieme a guardare è durato fin troppo. I figli delle tene­bre, sempre più accorti dei figli della luce, ci hanno subito mobilitati e spediti in prima linea a difendere una proprietà che non è la proprietà in senso cristiano, un ordine che non è il nostro. Ora, essi facciano la loro guerra: noi la nostra. Tanto più che la condanna dottrinale del comu­nismo ci crea un impegno urgente e gravissimo:
dimostrare che si può ricostruire cristianamen­te il mondo senza rinunciare a nessuna esigenza di giustizia terrena.

 

Chi sente questo impegno con passione, non ha bisogno di molte e dettagliate norme. Le poche cose che oso proporre sono semplici indicazioni, che potranno essere riscontrate utili anche da chi non ne ha bisogno.

Vi sono « novità » che agli intelletti pigri e abitudinari paiono sulle prime inconciliabili con la religione e che, a ragion veduta, assai diversa dalla immaginata, vi si inquadrano assai meglio.

Se la storia della Chiesa fosse davvero mae­stra, quanta maggiore cautela e quanta minore sicurezza nelle polemiche.
« Di qui non si passa ». Quando non si tratta di principi, è una parola da usarsi parcamente. Sono molte le strade del bene, e quelle da sco­prirsi sono più belle se non più numerose di quelle che conosciamo.

I principi sono cardini del pensiero e della vita, e vanno affermati e vissuti e anche difesi. Ma nel difenderli, non bisogna mai supponi dove non sono riconosciuti. Gran parte degli uo­mini moderni sono senza principi, ed è una peri­colosa illusione la nostra di difendere in altri un bene che non hanno mentre urge insegnare loro a ritrovarlo.
Diamo anche l’impressione di illiberali, per­ché cerchiamo di imporre ciò che, se è un bene per noi, non lo è per gli altri. Per tanta gente, che è costretta a vivere più da bestia che da uomo, non è facile accostarsi a una visione cristia­na della vita.

E, sempre a proposito di principi, è almeno strano che certe difese a oltranza vengano fatte principalmente nei confronti dei poveri, i quali posti nel disumano dilemma di scegliere tra un principio morale e una tremenda necessità ma­teriale, all’infuori di qualche caso di grazia, sono costretti ad arrendersi alla necessità.
Questo non è pessimismo, ma realtà di ogni giorno.
«Non dovrebbe essere così». D’accordo: ma la colpa non è solo dell’uomo, che è fatto com’è fatto, e cioè anche di corpo, ma pure nostra, che, dimenticandoci dell’uomo e della sua natu­ra, gli offriamo senza umanità il bene spirituale.
«I principî! Che volete m’importino i vostri principî, se qui muoio di fame?».
Il Prodigo torna dal Padre perché si ricorda che nella «casa»‚ anche i servi «mangiano».

Questo è Vangelo, non materialismo.
Nei rapporti col comunismo, conviene tene­re sempre presente la passione della giustizia che soffre negli umili, più che i postulati filo­sofici dei suoi intellettuali e le traduzioni eco­nomico-sociali che essi ne fanno, per vedere come essa s’accordi con la nostra sete di giu­stizia (non è la stessa sete?), e fin dove possia­mo accompagnarci nel realizzarla, e a quali condizioni, ed entro quali limiti.
E dimostrare con i fatti che, pur credendo che solo «di là» essa avrà la sua piena soddisfa­zione, non lasciamo nulla di intentato per rag­giungere anche il suo massimo di compimento terreno.

La nostra fede soprannaturale non diminui­sce ma centuplica la nostra sete e il nostro sfor­zo verso la giustizia terrena.
Come noi vogliamo il diritto di far riserve e discutere la loro dottrina e la loro prassi poli­tica, così dobbiamo loro riconoscere un eguale diritto nei nostri confronti, anche sul nostro passato non sempre molto edificante, sulla mentalità reazionaria di molti di noi e sulla no­stra accidia sociale.

Anche oggi è più facile scoprire un bel volu­me di sociologia cristiana che imbattersi in un gruppo cristiano che intenda applicarla sul serio.
Non è la prima volta che nei parlamenti uomini di estrema sinistra ci rimproverano di non fare quello che i Pontefici vanno insegnan­do da anni nei loro messaggi sociali.
Nelle accuse c’è sempre un monito, se non proprio un po’ di verità: e trovo strano che pro­prio chi insegna di accogliere in buona parte le avversità si rivolti con sdegno amaro.
Non crediamoci intoccabili perché siamo i discepoli di Cristo. Ci ha egli forse garantito un trattamento diverso?

C’è un gridare, un protestare, un minacciare che non conclude.
Come possiamo pretendere che i comunisti rispettino in noi « qualcosa » o « qualcuno » di là di noi che essi non vedono ancora e che forse noi stessi impediamo di scorgere?
Siamo tuttora malati di una superiorità che non esiste se non in teoria e che ci crea un di­screto imbarazzo, perché l’onore non è senza ònere.
Rientriamo e siamo contenti nel diritto co­mune.
L’insofferenza di esso, il desiderio del privi­legio, ci hanno sempre portato alla schiavitù.

Preferisco battermi in rasa campagna che essere internato con onori e pensione di sovrano decaduto.
Questo duro guadagnarsi il diritto di rappre­sentare il Vangelo è un impegno e una gloria. E la nostra vocazione.

 

Comunismo, per molti, è bolscevismo. Quin­di Russia, e lo spavento che si ripetano da noi gli orrori che si dicono compiuti laggiù: fine della civiltà cristiana, la persona sommersa nel­la collettività organizzata scientificamente…
Tutto è possibile, anche il trapianto senza discernimento di un’esperienza storica avvenuta in condizioni assai diverse dalle nostre. Il fana­tismo è ben lungi dal cedere davanti alle ragioni della ragione, che purtroppo si muove con ritar­do e può anche poco.
Prima di spaventarci, un mestiere che fac­ciamo da anni con nessun guadagno, guardiamo in faccia il pericolo.
E cominciamo dai fatti.
La rivoluzione bolscevica, pur facendo le do­vute riserve sulle notizie della propaganda occi­dentale, non è certo una storia edificante.
Quale rivoluzione però, tra quelle che soglio­no essere ricordate con soddisfazione e con van­to dai nostri borghesi, sono avvenimenti edifi­canti?
Gli orrori, nella lontananza, si sono alquan­to smorzati, ma i contemporanei della rivolu­zione francese, la più nota e la più decantata, ne parlavano come molta brava gente di oggi parla del bolscevismo.
E la reazione nazi-fascista fu forse meno di­sumana? Eppure, quante persone dabbene che inorridiscono della Russia approvano ed esal­tano gli orrori fascisti considerati una necessi­tà per la difesa dell’ordine: il loro ordine, si capisce.
Nessuna rivoluzione, all’infuori di quella cri­stiana che è amore merita l’onore degli altari:
sono tutte brutte e deprecabili e non vale la pena istituire confronti.
Poniamoci piuttosto la domanda: Perché accadono?
Perché il popolo è una belva, e se gli uomi­ni superiori non lo disciplinano e non lo con­tengono con ogni mezzo…
Vi dirò che non il popolo, ma l’uomo è una belva, compreso l’uomo che voi dite superiore.
E la belva viene fuori perché proprio gli uo­mini che si credevano superiori e che si sono fatti la parte del leone rendono talmente impos­sibile la vita agli altri che questi per liberarsi sono costretti a diventare belve.
Ci sono uomini-belve che si servono dell’or­dine e uomini-belve che si servono del disor­dine, e non so quale delle due categorie sia la più nefasta.
Conosco però la più responsabile. Cosa han­no fatto le «classi superiori»‚ così pronte a inorridire delle gesta bolsceviche, per togliere o diminuire le ingiustizie che preparano le rivolte sanguinose?
Sarebbe più onesto aver orrore di noi stessi, pensando che molte volte ciò che compiamo tranquillamente in nome e sotto la garanzia del­le nostre leggi non è meno infame delle più infa­mi gesta rivoluzionarie.

La Russia fa paura. Ma chi la conosce vera­mente?
Furono scritti libri su libri e ne sappiamo meno di prima.
Sappiamo – almeno dovremmo saperlo – da quale spaventosa e secolare servitù è venuta faticosamente e dolorosamente sciogliendosi.
La liberazione non poteva essere un’impresa di ordinaria amministrazione; molto più che al popolo russo sono mancati gli aiuti delle forze spirituali e religiose che avevano fatto blocco con gli oppressori.
Per chi può ragionare, l’ateismo è un assur­do, ma in terra di Russia, la terra più religiosa del mondo, si sono avverate tali disgraziatissi­me situazioni che l’hanno fatto quasi logico.
Quando dovessimo soffrire come hanno sof­ferto i russi e ci accorgessimo che la religione si è messa in gara ad opprimere il popolo, fa­remmo fatica anche noi a separare la causa di Dio da quella di coloro che si servono di Dio per affrettare il nostro strangolamento.
Non conosciamo la Russia, è vero; e certe notizie venute di laggiù sono paurose. Ma c’è anche il fatto della guerra e come l’hanno com­battuta i russi. Se il bolscevismo non avesse qualche cosa di buono, se, in confronto del pas­sato non rappresentasse un guadagno, milioni e milioni di russi non avrebbe marciato, né si sa­rebbero lasciati uccidere come invece hanno fatto per quattro anni riempiendo il mondo di stupore e di ammirazione.

Il comunismo russo non è merce d’esporta­zione, e noi crediamo che il comunismo occiden­tale stia per darsi una sua fisionomia e un suo costume, molto più che il bolscevismo stesso ha camminato e cammina nella stessa direzione.

Tale lavoro, però, sarà spedito e sicuro se i cristiani, superate le stupide paure, sapranno riconoscere onestamente gli errori che possono condannare un popolo all’ateismo e ricondurre alle fonti vive del Vangelo l’enorme sete di giu­stizia che ne fu violentemente distaccata.

Se noi vogliamo sinceramente la giustizia e i comunisti pure sinceramente la vogliono: se noi vogliamo il bene comune ed essi pure lo vo­gliono… siamo già uniti, anche se non siamo sempre d’accordo sui motivi di partenza e sulle strade che conducono alla giustizia e al bene comune.
Non è quindi questione di concorrenza, co­me insinuano i maligni cui tornano assai profi­cue certe divisioni.
Ora, si tratta di dare non di prelevare: e dà di più non chi ha di più ma chi ama di più.
E per amare noi abbiamo la misura di Cri­sto, il cui nome benedetto viene umiliato e be­stemmiato quando nei problemi della giustizia sociale ci lasciamo vincere in carità.
Purtroppo, sul piano della « città »‚ siamo stati vinti più volte, e lo saremo ancora, se ci accontenteremo di essere cristiani solo quel poco che ci verrà concesso dagli interessi e dai pregiudizi dei nostri protettori borghesi: se avremo in una parola paura di fare la rivolu­zione cristiana.
(1945)

02 – RIFLESSIONI SUL SALMO MISERERE – Il riconoscimento della situazione – C.M. Martini

2

Il riconoscimento della situazione

Dal Vangelo secondo Luca,: 15,11-32

Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta.
E il padre divise tra loro le sostanze. Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci, ma nessuno gliene dava. Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. Partì e si incamminò verso sud padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l’anello al dito e i calzari ai piedi. Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. Il servo gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo. Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo. Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato ».

Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e ,nell’intimo m’insegni la sapienza.

Le parole dei primi versetti del Salmo, su cui ci siamo soffermati, ci introducono nella sezione centrale di questo Salmo che si può, utilmente, dividere in tre parti.

La prima parte è il riconoscimento di una situazione. I verbi sono tutti all’indicativo ed espongono, sottolineano dei fatti: riconosco la mia colpa, contro di te ho peccato, sei giusto quando parli, mi insegni la sapienza.

La seconda parte esprime la supplica. Il brano cambia di tono e quasi tutti i verbi sono all’imperativo: purificami, lavami, fammi sentire gioia, distogli lo sguardo, cancella, crea in me, non respingermi, non privarmi, rendimi la gioia, sostieni in me.

La terza parte è il progetto per l’avvenire. I verbi sono al futuro: insegnerò, la mia lingua esalterà.

Con termini a noi più abituali possiamo chiamare: esame di coscienza il riconoscimento della situazione; richiesta di perdono la supplica; proposito il progetto per l’avvenire. Sono tre momenti chiaramente distinti nella lettura, anche semplicemente nella differenza dei verbi.

Verso la verità di noi stessi

Tre sono i soggetti che vengono presentati in azione.
Il soggetto che appare più di frequente è la stessa persona: l’io. Io riconosco la colpa, io ho peccato contro di te, io ho fatto quello che è male.
Un altro soggetto, in terza persona, è il peccato. Il peccato e la realtà del peccato in cui l’uomo si sente inserito: nel peccato sono stato generato, nella colpa mi ha concepito mia madre.
Il terzo soggetto dell’azione, quello determinante, la chiave per capire tutto il significato del brano è il Tu.
C’è quindi l’io che riconosce, c’è una determinazione generale della situazione di colpa, c’è il Tu con cui termina questa prima parte e che è il punto focale: Tu vuoi la sincerità del cuore, Tu,nell’animo mi insegni la sapienza.
Cerchiamo di riflettere innanzi tutto sulle parole che hanno per soggetto il Tu, per poter poi comprendere meglio quelle che precedono.
Nel testo ebraico l’espressione « Tu vuoi la sincerità del cuore» è più difficile: «Tu ami la verità nell’oscuro», cioè Tu ami la verità, che è la luce, anche là dove l’uomo è perduto nei meandri della sua coscienza.
«Tu mi insegni sapienza nel segreto.» La sapienza è una delle realtà più alte e più; profonde dell’Antico Testamento: essa è ordine, proporzione, luminosità, calore creativo, progetto divino di salvezza.
Ecco la chiave della prima parte del Salmo: Dio, nella sua iniziativa di amore e di misericordia, proietta nell’oscurità della mia psiche, nel profondo della coscienza, la luce del suo progetto. Così facendo mi porta a scoprire la verità di me stesso, mi dà respiro, mi aiuta a cogliermi rispetto a ciò che sono chiamato ad essere, a ciò che avrei dovuto essere, a ciò che posso essere con la sua grazia.
La verità e la sapienza di Dio sono luce autentica, benefica, amichevole che, entrando nelle pieghe dell’anima dove neppure io stesso mi rendo conto di ciò che succede, mi istruisce e mi sospinge alla sincerità e all’autenticità di quello che io veramente sono.

Il dialogo con il Tu

Se abbiamo inteso, almeno un poco, la forza di queste parole, possiamo meglio leggere quelle che si trovano all’inizio: « Contro di te, contro te solo ho peccato ». Ho fatto ciò che non va davanti a te.
A prima vista ci appare strana questa espressione, soprattutto se la riferiamo a colui che, storicamente, è ritenuto l’emblema della vicenda raccontata nel Salmo, cioè a Davide e al suo peccato. Altro che peccare contro Dio soltanto! Davide ha peccato contro un suo fratello, un amico; lo ha fatto morire slealmente, gli ha preso la moglie, è stato dunque omicida e traditore.
Eppure l’insistenza è sul rapporto con Dio, che attraverso quelle azioni si è instaurato. E forse qui si vuole esprimere qualcosa che emerge dalla storia di Davide. In realtà, nessuno conosceva il peccato di Davide, tanto bene era riuscito il suo tessuto di imbrogli, ed è solo il profeta Natan che gliela rinfaccia.
Tuttavia, quando gli vengono apertamente detti gli intrighi che ha fatto, Davide è posto di fronte alla verità terribile della sua coscienza.
Peccando contro l’amico con il tradimento, con l’infedeltà e con l’adulterio, Davide si è messo contro Dio e contro tutti coloro che Dio difende come cosa sua: «Contro di te,contro te solo ho peccato». L’espressione è molto simile alla parola centrale della parabola evangelica del figlio prodigo: « Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te ». Tutto ciò che il figlio ha fatto riguarda tante altre cose: la sua vita dissoluta, il suo sperpero, tutti gli errori, tutte le soperchierie da lui commesse, gli illeciti vissuti. Tutto questo però viene riassunto nel suo rapporto col Padre; nel suo rapporto con Dio (cfr. Lc. 15, 11-32).
L’uomo, istruito da Dio, entra nel fondo della propria verità, riconosce in dialogo che il suo sbaglio, in sé e attorno a sé, piccolo o grande che sia, ha leso l’immagine di Dio, ha leso il suo rapporto con Dio.
Il richiamo è importante per noi che siamo giustamente abituati oggi a sottolineare gli aspetti sociali del peccato: il peccato cioè non è soltanto contro Dio, tocca la Chiesa, disgrega la società, ferisce la comunità. Qui ci viene ricordato che Dio sta dietro ad ogni uomo, ad ogni persona che noi trattiamo male, che inganniamo o disprezziamo. Ci mettiamo contro Dio tutte le volte che respingiamo il fratello o la sorella che ci stanno vicino e che attendono da noi un gesto di carità o di giustizia. Tutti i problemi della storia, il problema etico, il problema della giustizia, della pace, il problema dei giusti rapporti familiari, personali, sociali sono il problema dell’uomo nel suo dialogo con Colui che lo ama, lo conosce e lo aiuta a conoscersi nella sua verità.
Non viene, infatti, detto: ho peccato, ho sbagliato. Viene detto: «Contro di te ho peccato ». La personalizzazione della colpa è insieme un atto di profonda verità e un atto di estrema chiarezza perché questo riconoscimento dell’uomo che parla così, che è educato a parlare così, non ha nulla a che fare con il senso deprimente e avvilente di colpa.
Tutti noi siamo soggetti a momenti di tristezza senza uscita, di ira, di sdegno, di vendetta contro noi stessi: sofferenze inutili generate dal senso di colpa che non è vissuto in un dialogo con Dio, sofferenze che non possono renderci migliori.
Le parole del Salmo ci rivelano la differenza tra l’esame di coscienza fatto in dialogo con Dio e tutta l’analisi della colpa, delle debolezze, delle bassezze che ciascuno riconosce in se stesso e che arrivano a deprimere profondamente lo spirito rendendolo ancora più stanco e incapace di lottare.
In questo Salmo, scritto più di duemila anni fa, noi cogliamo l’uomo che ha trovato la via giusta per il pentimento, la via del riconoscimento di colpe gravissime ma espresso davanti a Colui che cambia il cuore dell’uomo. Notiamo anche il carattere personale, affettivo, delle parole: «Quello che è male ai tuoi occhi». Ai tuoi occhi, al tuo amore che mi ha creato, fatto, amato, progettato.
Come ‘è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti «pentiti » giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il «pentito»dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso: Crea in me, o Dio, un cuore nuovo!; il processo di trasformazione che è affidato alla potenza di Dio e che permette un’esistenza nuova.

Domande per noi

Abbiamo visto che l’esame di coscienza è il lasciare emergere quella verità di noi stessi che Dio, nella sua bontà, ci insegna. Le parole del Salmo possono rinnovare dentro di noi il senso religioso, forse stanco di atti ripetuti e non capiti fino in fondo.
Vi propongo allora due domande semplicissime e utili per prepararsi al Sacramento della Riconciliazione:

- Che cosa non vorrei avere sulla coscienza? Che cosa mi pesa, mi avvilisce, mi opprime, mi fa essere quello che non vorrei? Lasciamo che emerga ciò che ci viene come risposta a questa domanda con semplicità, senza ricorso immediato a formule imparate. È infatti la verità di noi stessi che sta nascendo come supplica, come desiderio, come immagine giusta o sbagliata di noi.

- Come avrei voluto essere e non sono stato? Come avrei voluto comportarmi nelle situazioni che ora mi pesano?
Da qui comincia il dialogo, che chiarisce le motivazioni e i giudizi, ricostruendoci dall’interno, in quell’opera di creazione, esaltata nella seconda parte del Salmo, su cui mediteremo in uno dei prossimi incontri.

Dopo queste domande, suggerisco quattro riflessioni:
- Quando ho fatto l’ultima volta l’esame di coscienza?
- L’esame di coscienza mi dà noia, mi disturba oppure mi lascia contento? Per capire meglio il significato di questo interrogativo vi può aiutare la lettura del seguente testo che traggo dall’autobiografia di S. Ignazio di Loyola:

Pensando alle cose del mondo provava [il Santo scrive in terza persona, pur parlando di se stesso] molto piacere, ma quando, per stanchezza, le abbandonava, si sentiva vuoto e deluso. Invece, andare a Gerusalemme a piedi nudi, non cibarsi che di erbe, praticare tutte le austerità che aveva conosciute abituali ai santi, erano pensieri che non solo lo consolavano mentre vi si soffermava, ma anche dopo averli abbandonati lo lasciavano soddisfatto e pieno di gioia. Allora non vi prestava attenzione e non si fermava a valutare questa differenza. Finché una volta gli si aprirono gli occhi; meravigliato di quella diversità cominciò a riflettervi; dall’esperienza aveva dedotto che alcuni pensieri lo lasciavano triste, altri allegro, e a poco a poco imparò a conoscere la diversità degli spiriti che si agitavano in lui: uno del demònio, l’altro di Dio.

È quindi importante chiedersi se l’esercizio dell’esame di coscienza ci pesa oppure se ci lascia contenti.

- Considero l’esame di coscienza un’iniziativa divina di dialogo, cioè un colloquio con un Tu? Oppure lo ritengo una fastidiosa e faticosa analisi della psiche? Mi abituo a considerarlo un dialogo in cui parlo, ascolto, mi esprimo con fiducia, con la gioia di essere accettato, accolto e riabilitato a partire da ciò che sono?

- Se trovo difficoltà nell’esame di coscienza, che esprime un modo di essere irrinunciabile dell’uomo che vuole prendere coscienza di sé, mi lascio aiutare dalla Chiesa nel dialogo penitenziale?
Il Sinodo dei Vescovi ha parlato a lungo del cammino di conversione necessario ad ogni uomo, ad ogni comunità. Ha parlato anche dei momenti di questo cammino, di cui fa parte la capacità di riconoscere autenticamente ciò che c’è in noi e di viverlo limpidamente davanti a colui che, in nome di Dio, ci ascolta in un dialogo paterno.

Il Signore è pronto a trasformare la nostra, vita se la mettiamo nelle sue mani e auguro a ciascuno di vivere questa esperienza, che è una delle più belle che l’uomo possa fare.

01 – RIFLESSIONI SUL SALMO MISERIRE – Il punto di partenza – C.M. Martini

LA SCUOLA DELLA PAROLA


RIFLESSIONI SUL SALMO “MISERERE”

OSCAR MONDADORI – 1985

Una riflessione parallela

Devo confessare che ho letto queste pagine del Cardinale Martini con una sottile invidia, quella di non sapere e potere parlare ai giovani che passano per il mio Tribunale con le parole, i concetti, il fascino dell’emozione, che egli ha usato nei suoi incontri di preghiera in Duomo.
Ma me ne son fatto subito una ragione, visto che facciamo due mestieri diversi, ognuno con le proprie parole, concetti, emozioni; ed il mio, di mestiere, è di quelli in cui occorre sempre pensare « alle cose del mondo », per usare una frase ignaziana citata dal Cardinale, anche quando son cose che lasciano vuoti e delusi, perché in esse ci sono poca profondità e poco spirito.

Pur però nella diversità dei mestieri, la lettura di queste pagine mi ha molto «intrigato », quasi provocato. Certo non si può confondere l’itinerario penitenziale di un’anima religiosa con il faticoso itinerario – di controllo, di rieducazione, di reinserimento sociale – dei tanti giovani ,devianti che affollano le nostre anonime, ma violente città. Tuttavia alcuni spazi di riflessione sono simili, o almeno spingono a considerazioni convergenti.

Parto dal concetto di base: il « peccato », per la morale religiosa; il « reato », o il comportamento deviante minorile, per il lavoro di noi giudici. Sembrano due cose lontane, regolate da leggi diverse. Ma poi leggo che il Cardinale, rifacendosi al testo originale ebraico del Salmista, usa per esprimere il concetto di base tre parole diverse («cancella la mia ribellione, lavami da ogni disarmonia; tirami fuori da ogni smarrimento»); ed allora io mi ritrovo davanti quasi spontaneamente, con emozione, le facce di tanti giovani che arrivano in tribunale. Non ritrovo infatti in esse coscienza del reato (e certo neppure senso del peccato), ma certo ritrovo ribellione o disarmonia o smarrimento o tutte le tre cose insieme. E mi colpisce sempre questa dimensione molto umana, di umana fragilità e spesso di umana inconsistenza, che sta dietro il comportamento deviante.

È naturale di conseguenza che noi giudici minorili (come su altri versanti la pastorale religiosa) si abbia consapevolezza della « personalizzazione della colpa », di comprendere cioè che dietro il comportamento deviante c’è sempre una persona, la ribellione o lo smarrimento di una persona; e che nostro compito di fondo è di ridare forza alla persona che abbiamo di fronte, sottraendola alla ribellione, allo smarrimento, alla disarmonia interiore in cui è per tanti oscuri motivi imprigionata.

Naturalmente per far questo noi giudici abbiamo strumenti diversi da quelli della Chiesa, pur nella tendenziale omogeneità degli obiettivi. Lavoriamo in parte sulle leggi, in gran parte sullo sforzo di far crescere nei giovani la maturazione umana e morale. Il Cardinale, dal suo punto di vista religioso, vede tale maturazione come un « presupposto» essenziale (un « segno di libertà in cammino») dell’itinerario penitenziale e di purificazione cristiana; per noi giudici il presupposto basta, è il punto di arrivo. Dobbiamo cioè concentrare tutti gli sforzi (nostri e dei nostri collaboratori, specie degli operatori sociali e psicopedagogici che lavorano con noi) sulla maturazione psichica e morale dei giovani, in modo che la loro vita non abbia disarmonie, smarrimenti, ribellioni. Siamo, come spesso amiamo dire, dei «promotori di diritti »; ed il primo fondamentale diritto che dobbiamo promuovere nei giovani che arrivano a noi è proprio quello della maturazione della loro personalità, della loro « persona ».

E dobbiamo farlo, si badi bene, senza il passaggio del pentimento reale, ma spesso perdonando come si trattasse di «perdono di un peccato originale », perdono donato senza subordinarlo ad un dialogo di vera riconversione. È questo un punto che ritengo importante in questa riflessione parallela che sto qui brevemente conducendo. Mentre noi giudici, in specie minorili, tendiamo ad affrontare le devianze non stigmatizzando, quasi passando oltre, il Cardinale, in una delle sue riflessioni, dice cose molto belle sul pentimento cristiano ed esclama: «Come è diversa questa realtà da quella dei cosiddetti “pentiti ” giudiziari! Il pentimento giudiziario può certamente produrre vantaggi umani per la collaborazione a cui induce, ma non ha la forza di purificare la coscienza dal sangue versato. Il “pentito” dovrà ancora dire: Il mio peccato mi sta sempre dinanzi. A meno che non entri in quel misterioso processo di trasformazione del cuore umano che fa l’uomo totalmente diverso ».

Ho voluto trascrivere questo lungo brano non solo perché ha avuto echi giornalistici, ma perché si presta ad un approfondimento serio sul rapporto fra pentimento, rieducazione e reinserimento sociale. In esso infatti c’è la consapevolezza che il reinserimento è legato all’esser diversi e trasformati rispetto al momento del peccato o del reato; e che la trasformazione in uomo diverso passa attraverso un pentimento profondo, non superficiale o addirittura finto. Per la giustizia umana questa duplice consapevolezza è stata volontariamente messa nel cassetto, e non solo per i « pentiti » del terrorismo che collaborano, ma per tutti i giovani che passano nei nostri tribunali; non vogliamo stigmatizzarli, non calchiamo quindi la mano sul valore deviante del loro comportamento, non facciamo entrare nessuna « pena» (dolore, pentimento, penitenza, sanzione) nell’azione giudiziaria, concediamo loro il perdono (giudiziale) cercando quasi di non lasciar traccia del nostro intervento, se non di quello di monitoraggio educativo e sociale.

Come ho detto sembriamo più regalare il perdono di un peccato senza colpe volontarie (e quindi senza esigenze di cambiamento ed interiore trasformazione) che amministrare giustizia; siamo forse più misericordiosi dell’Eterno Padre.

Devo dire che questa traslazione laica della misericordia divina mi ha sempre dato un po’ di vertigine. L’onnipotenza è una grande tentazione e non credo che i giudici siano i suoi migliori sacerdoti, anche quando la traslazione laica della misericordia (il perdono senza cambiamento interiore) è fatta a fin di bene, di non stigmatizzazione. Non credo, in altre parole, anche se posso apparire un po’ controcorrente rispetto a molti miei colleghi, che noi giudici si possa sorvolare su due elementi fondamentali: la specificità del comportamento deviante e del suo riconoscimento; l’inizio di un cambiamento psicologico ed umano del giovane che mandiamo assolto o perdonato.

Non possiamo sorvolare sulla specificità del comportamento deviante e del suo riconoscimento non perché, come dice il Cardinale, occorre sempre una «confessione specifica» per un buon esame di coscienza e per un vero itinerario penitenziale, ma perché il giovane va educato a mettere a fuoco le motivazioni e le caratteristiche dei propri comportamenti, senza la pericolosa sensazione di poter restare in continua ambiguità non solo sul giudizio di valore sui propri comportamenti, ma addirittura sulla concreta specifica configurazione di essi.

 E non possiamo al tempo stesso sorvolare sull’esigenza di un inizio di cambiamento del giovane che mandiamo assolto o perdonato giacché noi non elargiamo una grazia o uno « spirito» che si poggia dove il vento vuole; ma cerchiamo di non stigmatizzare il giovane deviante perché possa vivere meglio una vita che speriamo diversa dall’attuale. Ma perché il giovane voglia effettivamente una vita diversa, dobbiamo cercare di capire se e in quale misura si è formata al suo interno una diversa logica di valutazione, un cambiamento dei suoi pensieri, una più alta capacità di padroneggiamento delle cose. In termini conclusivi, anche se in parole diverse, anche il nostro rapporto di giudici minorili con i giovani deve avere carattere di specificità e motivazioni di cambiamento; altrimenti anche al nostro lavoro rischia di mancare anima.

Come si vede, la lettura di un testo squisitamente religioso quale quello del Cardinale Martini riesce a provocare riflessioni, se non convergenti, almeno parallele, in una testa e in un mestiere molto diversi. Certo tanti atteggiamenti e tante prospettive culturali rimangono diversi, ma i punti di riferimento sono più comuni di quanto si creda. E ciò probabilmente è dovuto al fatto che chi lavora sui giovani si trova in fondo in una posizione uguale per tutti i mestieri: la posizione di ricercare « la verità nell’oscuro» (per usare una bella frase di Martini); e la posizione di chi più o meno consapevolmente è di fronte ad un impegno di «creazione» (anche la rieducazione di un giovane deviante è in parte creazione).

Il Cardinale, commentando un passo del Salmo 50, mette insieme le parole «crea in me» con quelle parallele « rendimi la gioia »; credo che ogni giudice minorile di fronte ai suoi «casi» vorrebbe essere capace di creare cambiamento nei singoli giovani e di ridare loro il sorriso, di eliminare cioè lo smarrimento, la disarmonia, la ribellione che l’hanno portato alla devianza.

Adolfo Beria di Argentine
Presidente del Tribunale dei Minori – Milano

Milano, giugno 1984

 

LA SCUOLA DELLA PAROLA

Il volume contiene le meditazioni della «Scuola della Parola» tenuta in Duomo dal Cardinale Carlo M. Martìni, Arcivescovo di Milano, nell’anno 1983-84. Le meditazioni, trascritte dal registratore, non sono state rivedute dall’Autore.

I « Giovedì in Duomo », organizzati dalla Gioventù di Azione Cattolica ambrosiana, costituiscono ormai uno dei momenti più forti e significativi dell’esperienza del Cardinale Martini insieme ai giovani.

Salmo 50

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.

Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.
Riconosco la mia colpa,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.

Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l’ ho fatto;
perciò sei giusto quando parli,
retto nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa sono stato generato,
nel peccato mi ha concepito mia madre.
Ma tu vuoi la sincerità del cuore
e nell’intimo m’insegni la sapienza.

Purificami con issòpo e sarò mondato;
lavami e sarò più bianco della neve.
Fammi sentire gioia e letizia,
esulteranno le ossa che hai spezzato.

Distogli lo sguardo dai miei peccati,
cancella tutte le mie colpe.
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.

Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
Rendimi la gioia di essere salvato;
sostieni in me un animo generoso.

Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
Liberami dal sangue, Dio, Dio mia salvezza,
la mia lingua esalterà la tua giustizia.

Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode;
poiché non gradisci il sacrificio
e se offro olocausti, non li accetti.

Uno spirito contrito è sacrificio a Dio,
un cuore affranto e umiliato
tu, o Dio, non disprezzi.

Nel tuo amore fa’ grazia a Sion,
rialza le mura di Gerusalemme.

Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,
allora immoleranno vittime sopra il tuo altare.

 

1

Il punto di partenza

Dal Vangelo secondo Luca: 15, 1-10

Si avvicinarono a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro ». Allora Gesù disse loro questa parabola: « Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.

O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduto. Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte ».

 

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.

Desidero ringraziare tutti voi perché avete, ancora una volta, accettato l’invito a questo appuntamento per pregare, ascoltare e meditare insieme la Parola di Dio.
Il tema su cui ci proponiamo di riflettere quest’anno, facendoci aiutare dalla lettura del Salmo « Miserere », si può intitolare: cammino di riconciliazione.

La scelta del tema

Alla scelta del tema mi hanno guidato diversi motivi.
Siamo nell’Anno Santo promulgato da Giovanni Paolo II nel marzo scorso e che si concluderà nella Pasqua del 1984. L’Anno Santo è propriamente un appello a compiere l’itinerario della riconciliazione.
Si è concluso, pochi giorni fa, il Sinodo mondiale dei Vescovi su: «Riconciliazione e penitenza nella missione della Chiesa». Ho potuto vivere da vicino i lavori del Sinodo e mi hanno colpito soprattutto tre sottolineature che vi sono emerse:

1. C’è un nesso inscindibile tra la riconciliazione sociale e politica e la conversione del cuore. Questa persuasione è venuta crescendo in noi e l’abbiamo approfondita con particolare attenzione. Non ci può essere una vera, duratura, stabile riconciliazione sociale e politica tra gli uomini, i popoli, le nazioni, senza conversione del cuore. Come pure non c’è conversione del cuore – e quindi anche cammino di penitenza cristiana – senza che ci sia un irradiamento, una risonanza nella riconciliazione sociale e politica.

2. Esiste un itinerario penitenziale. La conversione del cuore non è una realtà semplice, puntuale: comprende delle tappe che non si possono disattendere o saltare a piacere. C’è un itinerario che è fatto secondo il cuore dell’uomo e che noi siamo invitati ad imparare, per ripercorrerlo.

3. C’è una missione ecclesiale verso il mondo. Essa grava su di noi e si precisa, prendendo contorni via via più chiari, mentre percorriamo il cammino penitenziale. Attraverso questo cammino chiediamo a Dio di renderci maggiormente attenti e responsabili circa i problemi della riconciliazione umana e cosmica.

Per tutti questi motivi mi è sembrato importante riflettere quest’anno, insieme con voi, sul cammino di riconciliazione.

Il Miserere

Il Salmo 50 (o 51 secondo l’enumerazione ebraica) è di una ricchezza inesauribile.
Esso attraversa tutta la storia della Chiesa e della spiritualità: costituisce lo schema interiore delle Confessioni di Agostino; è stato amato, meditato, commentato da Gregorio Magno; è divenuto segnale di ardente difesa dell’immagine di Dio nelle infuocate prediche del Savonarola e motto di speranza dei soldati di Giovanna d’Arco; è stato studiato intensamente da Martin Lutero che vi ha dedicato pagine indimenticabili; è lo specchio della coscienza segreta dei personaggi di Dostoevskij e una chiave di lettura dei suoi romanzi.
Esso è quindi il Salmo dei grandi uomini di Dio. Musicisti come Bach, Donizetti e altri più vicini al nostro tempo l’hanno ripensato in musica. Celebri pittori l’hanno descritto con meravigliose incisioni.
È soprattutto il salmo che ha accompagnato le preghiere, le lacrime, le sofferenze di tanti uomini e di tante donne che vi hanno trovato conforto e chiarezza nei momenti oscuri e pesanti della loro vita.
Il Miserere è la preghiera dell’uomo di sempre, appartiene alla storia dell’umanità, non solo alla storia dell’Oriente ebraico e della civiltà occidentale cristiana. Meditandolo noi entriamo nel cuore dell’uomo e nel cuore della storia dell’umanità.

Possiamo ripetere, facendola nostra, la preghiera di Charles de Foucauld:

Grazie, mio Dio, per averci dato questa divina preghiera del Miserere. Questo Miserere che è la nostra preghiera quotidiana. Diciamo spesso questo salmo, facciamone spesso la: nostra preghiera; esso racchiude il compendio di ogni nostra preghiera: adorazione, amore, offerta, ringraziamento, pentimento, domanda. Esso parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.

L’iniziativa divina

I primi versetti del Salmo 50 ci introducono con que ste parole: .

Pietà di me, o Dio, secondo la tua misericordia;
nel tuo grande amore cancella. il mio peccato.
Lavami da tutte le mie colpe,
mondami dal mio peccato.

Il punto di partenza del cammino di conversione del cuore è l’iniziativa divina di misericordia: Dio è sempre il primo a dare la mano, il piatto della bilancia pende sempre dalla parte della sua bontà.
I vocaboli che la versione italiana usa per indicare ciò che l’uomo ha fatto – il peccato, le colpe – non rendono adeguatamente la lingua originale. Infatti, nel testo ebraico sono tre parole diverse che andrebbero lette così: «…cancella la mia ribellione, lavami da ogni mia disarmonia, mondami, “tirami fuori” da ogni mio smarrimento ». Il peccato è uno sbaglio fondamentale dell’uomo, una distorsione, una disarmonia, una ribellione, una volontà di progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio.


Alle parole che indicano lo sbandamento dell’uomo fanno riscontro tre appellativi divini: « Pietà… misericordia… amore ». C’è il peccato dell’uomo, pur se declinato con termini diversi, e ci sono tre attributi di Dio. Questa sproporzione indica che l’insistenza non è sull’uomo peccatore, sulla povertà di ciò che noi siamo, ma è sull’infinità di Dio.
Cerchiamo di riflettere brevemente sui vocaboli che definiscono il Dio della misericordia e della bontà.

Chi è Dio

La prima parola è racchiusa in un verbo ma, in realtà, è la radice. di un sostantivo. Quello che in italiano traduciamo con: « Pietà di me, o Dio », in ebraico è semplicemente: «Grazia, fammi grazia, riempimi della tua grazia».
Si chiede dunque a Dio che sia per noi grazia, che prenda interesse a chi sta male, a chi si trova in difficoltà, che ci dia una mano. È l’esperienza di Maria che canta: « Signore, tu hai guardato alla povertà della tua serva e mi hai fatto grazia, mi hai riempito della tua grazia».
Dio è dono gratuito, è l’essenza della gratuità. Quando noi diciamo che Dio non può aver alcun interesse a pensare a noi, ad occuparsi di noi, riveliamo di avere un’idea falsa di Dio. Abbiamo di Lui, per dirlo con una parola tecnica, un’idea farisaica, che cerca cioè di capire Dio partendo dalle categorie del calcolo.
Dio gode nel poter donare qualcosa a chi ha bisogno di essere sostenuto, a chi non si sente nessuno, a chi si sente in basso. Egli vuole versare il suo valore in noi e non giudica il nostro.

La seconda parola è « misericordia ». È interessante notare che l’espressione è: « secondo la tua misericordia » e non « nella tua misericordia» o « perché sei misericordioso ». Il salmista sottolinea la proporzione infinita, che l’uomo intuisce senza comprenderla, della misericordia divina. .
In ebraico il termine è hésed ed ha una lunga storia ricca di significato. Indica, infatti, l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore.
Si potrebbe anche tradurre con « gentilezza», nel senso di tenerezza, che non si smentisce, che non svanisce mai.
Dio è colui che io non conosco, ma per il quale sono importante, per il quale è importante – secondo la parola di Gesù – ogni capello del mio capo. Nulla avviene in me senza un’attenzione della tenerezza di Dio.
Noi traduciamo hésed con « misericordia» perché la gentilezza di Dio si fa più tenera quando noi siamo deboli, fragili, peccatori, incostanti, strani, poco attraenti e forse pensiamo che Dio fa bene a non ricordarsi di noi, farebbe bene a castigarci.

La terza parola è « nel tuo grande amore ». In ebraico si dice «rahammìm» e significa «il cuore, le viscere». È un vocabolo profondamente materno e indica la capacità di portare qualcuno dentro, di immedesimarsi in una situazione così da viverla nella propria carne, da soffrirne o goderne come di cosa propria.
Questo attributo di Dio è qualcosa che può capire chi ha amato un’altra creatura con un amore totale, viscerale, coinvolgente, appassionato. Potremmo quasi tradurre: « secondo la tua grande passione per l’uomo, abbi misericordia, o Dio ».

Questi tre attributi di Dio ci danno il tono del Salmo 50, che è un inno a incontrare Dio così com’è. Partendo dalla contemplazione dell’iniziativa divina per l’uomo, ci invita prima di tutto ad avere una grande e giusta idea di Dio.

Domande per noi

Nascono per noi alcune domande.

Ho una giusta idea di Dio?

Nel cap. 15 del Vangelo secondo Luca, leggiamo che « i farisei e gli scribi mormoravano» di Gesù perché riceveva e mangiava con i peccatori (cfr. Lc. 15, 1.10). È questo il tipico atteggiamento di chi non ha una giusta idea di Dio, di chi considera Dio vendicativo, permaloso, irritabile. E spesso, non accettando noi stessi, finiamo col credere che Dio non ci accetta fino in fondo. È vero che a volte ostentiamo una grande sicurezza, quasi una spavalderia, asserendo che non abbiamo alcun bisogno di Dio. Tuttavia in altri momenti sorge in noi quella profonda insicurezza che è alla radice di ogni uomo e che è il segno della sua creaturalità. Nell’ambito religioso essa si esprime appunto con il senso di un Dio un po’ cattivo, di un Dio che non mi dà giustizia, che richiede troppo da me, che mi ha messo in circostanze troppo difficili oppure che è troppo difficile Lui stesso e non si lascia raggiungere.
Al fondo di tutti questi sentimenti c’è, probabilmente, la persuasione che Dio non mi ama così come sono, che non è contento di me.
La grande rivelazione del Salmo 50 è, invece, che Dio mi ama come sono, che mi accetta fino in fondo, che è adesso gentile con me, cortese, attento, premuroso e tenero.
Tutto questo l’ha compreso bene il pastore della parabola lucana là dove si legge: «Ritrovata (la pecora perduta), se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta» (15, 5-6). L ‘ha compreso la donna che, ritrovata la dramma smarrita, invita le amiche e dice: « Rallegratevi con me» (15, 9).
Gesù conclude la parabola: « Così, vi dico, c’è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte» (15, 10).
Ciascuno di noi dovrebbe poter dire: Dio ha gioia in me, ha gioia per me, io rappresento qualcosa di molto importante per lui.
Ecco che cosa significa avere un’idea giusta di Dio, partire col piede giusto nel cammino della riconciliazione.
Seconda domanda:

Abbiamo già detto che i farisei e gli scribi che mormoravano di Gesù avevano un’idea sbagliata di Dio.
Emerge in noi, con frequenza, qualche lamentela profonda, che magari non osiamo dire a nessuno e di cui ci vergogniamo?
Ci ribelliamo contro Dio, abbiamo dentro di noi qualche conto aperto con Lui?

Terza domanda: che cosa posso fare per correggere l’idea sbagliata che ho di Dio? Per correggere quei sentimenti deformati della mia coscienza a suo riguardo?

Uno dei modi è certamente l’ascolto della sua Parola, la lettura meditata della Scrittura che riporta a verità i sentimenti spesso rattrappiti nell’espressione spirituale della lode a Dio. Cercherò allora di tradurre le parole del Salmo: «Fammi grazia, o Dio, secondo la tua grande passione per l’uomo. Nella tua tenerezza cancella le idee sbagliate che ho su di te! Mi dispiace, o Padre, di averle coltivate: Tu solo puoi darmi l’idea giusta perché come posso conoscerTi se non Ti riveli e se il Tuo Figlio non apre in me la conoscenza di Te? ».

Infine, l’ultima domanda: ho qualche idea sbagliata sul prossimo? Come posso fare per correggerla?

L’idea sbagliata che possiamo avere su Dio si ripercuote in idea sbagliata sul prossimo. Questo avviene non quando lo critichiamo, perché qualche volta il prossimo è criticabile (lo siamo un po’ tutti!), ma quando ci lamentiamo all’infinito di qualcuno, quando non ci va mai bene una persona o una situazione. Allora vuol dire che non abbiamo assunto l’atteggiamento giusto, quello che Dio ha verso di noi e che è comprensivo, creativo, capace di guardare con occhio nuovo, tenero, positivo, la situazione.


Spesso si creano tra le persone dei blocchi emotivi per cui tutto ciò che un altro fa è sbagliato: talora le nostre stesse confessioni sono lamentele su altri. Se avessimo un’idea giusta di Dio, essa opererebbe in noi in modo di farei guardare i difetti degli altri con occhio diverso, capace di abbracciarli positivamente in una visuale creativa, come Dio fa con noi.
Perché non imitare Dio mettendoci alla sua scuola? Invece di domandarci all’infinito perché l’altro mi ha trattato casi, perché mi ha fatto quella tal cosa, proviamo a chiederei: che cosa posso fare per lui, come posso cambiare il cuore, l’animo, la vita, il sorriso di questa persona?

Ho qualche idea sbagliata su Dio? Lo incontro così com’è? È importante questa prima domanda perché chi non ha una giusta idea di Dio non ha neanche una giusta idea di sé, né degli altri.

09 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – Dio è misericordia – C.M. Martini

Dio è misericordia

Siamo giunti al termine del nostro lavoro di riflessione e ci accorgiamo, con sgomento, di avere raccolto solo qualche secchiello d’acqua dal grande mare dell’insegnamento che ci viene da Paolo.
Sarebbe bello, come sintesi, fermarci sul tema della preghiera in Paolo, oppure sulla libertà dalla legge. Sarebbe egualmente stimolante una riflessione sulla visuale cosmica della salvezza, come viene descritta nelle «lettere della prigionia ».
L’imbarazzo della scelta mi fa decidere per una parola di Paolo che può essere commentata come parola conclusiva degli Esercizi. È la finale del discorso pronunciato a Mileto, l’ultima raccomandazione pastorale prima che cominci la sua passione.

Resta vero – secondo gli Atti ~ che Paolo a Mileto dice l’ultima parola della sua vita pubblica. Per quest0ha un significato particolare e riassuntivo di ciò che l’Apostolo pensava e voleva, e di come la Chiesa primitiva se lo raffigurava.
Chiediamo, di fronte all’ultima parola di Paolo, di poterla comprendere nello spirito con cui l’ha pronunciata, dandole tutta la verità che essa ha oggi per noi, come Parola di Dio, viva ed efficace.

Ti ringraziamo, Signore, perché questa Parola, pronunciata duemila anni fa, è viva ed efficace in mezzo a noi.
Riconosciamo la nostra impotenza e incapacità a comprenderla e a lasciarla vivere in noi. Essa è più potente e più forte delle nostre debolezze, più efficace delle nostre fragilità, più penetrante delle nostre resistenze.
Per questo ti chiediamo di essere illuminati dalla Parola per prenderla sul serio ed aprire la nostra esperienza a ciò che ci manifesta, per darle fiducia nella nostra vita e permetterle di operare in noi secondo la ricchezza della sua potenza.
Madre di Gesù, che ti sei affidata senza riserva, chiedendo che avvenisse in te secondo la Parola che ti era detta, donaci lo spirito di disponibilità perché possiamo ritrovare la verità di noi stessi. Donaci di aiutare ogni uomo a ritrovare la verità di Dio su di lui, fa’ che la ritrovi pienamente il mondo e la società in cui viviamo e che vogliamo umilmente servire.
Te lo chiediamo, Padre, per Cristo Gesù, tua Parola incarnata, per la sua Morte e Risurrezione, e per lo Spirito Santo che continuamente rinnova in noi la forza di questa Parola, ora e per tutti i secoli. Amen.

«E ora vi affido al Signore e alla Parola della sua grazia che ha il potere di edificare e di concedere la eredità con tutti i santificati» (At 20, 32).

È questa la conclusione solenne del discorso, sulla quale vogliamo riflettere. Essa ha anche, come vedremo, un valore di preghiera liturgica, di benedizione. Faccio notare, però, che dopo c’è un’aggiunta, quasi che Paolo voglia insistere su un tema che gli sta a cuore: «Non ho desiderato né argento né oro, né la veste di nessuno. Voi sapete che alle mie necessità e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani. In tutte le maniere vi ho dimostrato che lavorando così si devono soccorrere i deboli, ricordandoci delle parole del Signore Gesù, che disse: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere” » (At ,20, 33-35).
Cronologicamente, quindi, l’ultima parola meravigliosa e riassuntiva dell’esperienza paolina è: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere ».
Tuttavia noi ci fermiamo sulla finale «ufficiale» che è ugualmente significativa e conclusiva della sua vita pastorale, anche perché corrisponde a ciò che si desidera al termine di un ritiro.
Che cosa rappresenta, infatti, questa parola nella struttura del discorso di Mileto?
Paolo ha parlato ai presbiteri; ora deve abbandonarli e si preoccupa di ciò che faranno, del loro avvenire. A loro volta, i presbiteri si chiedono come porteranno avanti il lavoro vissuto insieme.
Quella parola è, quindi, la risposta di Paolo, la sua raccomandazione, il suo ricordo finale alla comunità.

Può essere utile il parallelo con la vita di Gesù. Secondo il Vangelo di Giovanni l’ultima parola di Gesù, riassuntiva di ciò che ha fatto, è: «E io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17, 26). Secondo il Vangelo di Luca, l’ultima parola è un invito alla vigilanza: «Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo» (Le 21, 36). Questo invito corre anche nella penultima parola del discorso di Mileto.
Analoga è la finale in Marco, mentre in Matteo è il giudizio sulle opere di misericordia.
Ogni evangelista fa concludere la predicazione pubblica di Gesù con ciò che è particolarmente significativo per ciascuno.
Così gli Atti fanno concludere la vita pubblica dell’Apostolo con una frase che è significativa per tutto ciò che Paolo è, proclama, crede, vive.
Noi possiamo prenderla come ricordo degli Esercizi affinché ci aiuti a mantenere i propositi e quella intuizione del disegno di Dio che in questi giorni, per sua grazia, abbiamo avuto.

L’ultima parola di Paolo

- «E ora»: il termine greco « kài tà nun » è abbastanza singolare e raro nel Nuovo Testamento.
Vuol dire: «Per quanto, dunque, concerne la presente situazione». La vostra situazione di distacco da me, di incertezza per il futuro, di timore per ciò che vi capiterà.

Si tratta di una formula solenne e conclusiva che troviamo per esempio al termine della preghiera degli apostoli, durante la prima persecuzione. Dopo aver detto: «Signore, tu che hai fatto il cielo, la terra, il mare… tu che hai detto per bocca di Davide:

Perché si agitarono le genti
e i popoli tramarono cose vane?
Si sollevarono i re della terra
e i principi si radunarono insieme,
contro il Signore e contro il suo Cristo”;

davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo Santo servo Gesù» (At 4, 24-27), conclude: «E ora (kài tà nun), Signore, considera le loro minacce e concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola» (At 4, 29). Analogamente l’espressione di Paolo suppone tutta la situazione precedente che ha delineato: il suo ministero nella comunità, il suo affetto per loro e la loro corrispondenza, i pericoli per l’avvenire e soprattutto il suo timore per ciò che accadrà. Per questo conclude: «E ora… ».

- « vi affido al Signore ». È una parola che ci stupisce. Ci saremmo aspettati che raccomandasse di essere fedeli, di stare uniti, di scrivergli, di fare adunanze, di fargli sapere notizie, di tenere presente la lettura della Scrittura.
Invece Paolo li affida a Dio, sottolineando così che l’avvenire e la perseveranza sono nelle mani di Dio: è Lui che riceve e sostiene. È una conclusione abbastanza comune per la Chiesa primitiva quando si trova in situazioni analoghe. Alla fine del primo viaggio missionario, lungo la strada del ritorno, Barnaba e Paolo rianimarono i discepoli esortandoli a restare saldi nella fede; designarono degli anziani per ogni Chiesa e, dopo aver fatto preghiere e digiuni « li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto» (At 14, 23).
E poco dopo: «Fecero vela verso Antiochia da dove erano partiti affidati alla grazia di Dio» (At 14, 26). Lo stile della comunità, dunque,. è quello di esprimere la parola definitiva come un affidarsi al Signore, alla sua grazia. L’affidare a Dio con preghiera e digiuno è una forma liturgica solenne. Possiamo immaginare che avvenga stendendo le mani e dicendo: «Ecco, vi affidiamo alla potenza di Dio ».
Lo stesso verbo « affidare» ha una storia molto lunga. Nel Nuovo Testamento designa una realtà concreta, l’affidamento di un tesoro prezioso ad uno di cui ci si fida: ho un tesoro, devo partire e lo do in mano a persona fidata. È vero che questo uso del termine che troviamo nel Nuovo Testamento, è un uso profano, però spiega la mentalità che vi sta sotto e ha il suo culmine nella parola di Gesù sulla croce: «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc 23, 46). È l’atto di suprema fiducia: Gesù consegna se stesso, la sua vita e la sua morte nelle mani di Dio sapendo che la custodirà e gliela renderà. Gioca tutto sulla certezza della potenza divina.
Il salmo ripreso da Gesù: «Nelle tue mani affido il mio spirito, tu mi libererai; liberami Signore, Dio fedele» (Sal 31, 6) è l’espressione dell’uomo che dopo aver fatto tutti i calcoli, sa che l’unica cosa che veramente conta è l’affidamento di sé alle mani di Dio. Per riprendere l’immagine che abbiamo posto in una omelia tra il livello dell’operosità e quello dell’ascolto e della contemplazione, possiamo dire che l’uomo, dopo aver messo in opera quanto può, ritorna al suo livello fondamentale sapendo che è la realtà che lo fa essere uomo.
Paolo, pur essendo preoccupato della comunità che gli è carissima, ha la certezza che Dio porterà avanti l’opera, la sosterrà, la illuminerà, la guiderà. Questa parola segna il culmine dell’affetto pastorale e insieme del distacco. Paolo ama molto quella comunità(il commiato avviene fra abbracci, pianti, preghiere sulla spiaggia presso la nave) ma sa che appartiene a Dio e che Dio è infinitamente più potente.

- «e alla Parola della sua grazia ». L’espressione è inconsueta e dobbiamo cercare di chiarirla.
Il Vangelo di Luca la riporta come prima definizione del parlare di Gesù. Nella Sinagoga di Nazareth, infatti, la gente, sentendolo, «gli rendeva testimonianza ed era meravigliata davanti alle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4, 22).
Possiamo allora dire che la Parola della grazia è un sinonimo del Vangelo, della manifestazione della iniziativa divina e gratuita di salvezza. Ecco il senso di questo termine «della grazia» – « chàritos» -. Viene da « chàris », grazia, da cui deriva « charà », gioia e anche la parola «gratis» usata da Paolo ad indicare l’azione di Dio che perdona il peccatore senza alcun suo merito.
Maria sarà salutata dall’angelo come «kecharitoméne» (Lc 1, 28), cioè graziata per eccellenza, oggetto del favore pieno e illimitato di Dio.
È vocabolo tipico del Nuovo Testamento: ricorre 155 volte e circa 100 volte in Paolo. Paolo usa il termine «grazia» insieme con altri: giustizia salvifica, fede, Vangelo, speranza, Spirito, tutte realtà che enuncia quando vuole parlare dell’economia positiva di Dio nei riguardi dell’uomo. Ad essi contrappone: legge, peccato, vanto, carne, che indicano l’economia negativa o restrittiva in cui l’uomo tende a rinchiudersi per orgoglio, per autosufficienza, per debolezza o malvagità.
Per Paolo tutto l’apostolato cristiano è proclamazione della grazia di Dio ricco in misericordia. «Poiché siamo suoi collaboratori, vi esortiamo a non accogliere invano la grazia di Dio – questa è la definizione dell’evangelizzatore! – Dio dice infatti: Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso. Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza» (2 Cor 6, 1-2). È la sintesi dell’annuncio apostolico. L’aspetto rinnovativo, trasformante della rivelazione di Dio che con la parola «grazia» viene definito nella sua origine gratuita, libera, spontanea, al di là di ogni nostro merito o resistenza. Dio è più grande del nostro cuore.

La definizione della seconda lettera ai Corinti è seguita dalla descrizione della fisionomia dell’apostolo modellato secondo le caratteristiche di questa grazia: « In ogni cosa ci presentiamo come ministri di Dio, con fermezza nelle tribolazioni, nelle necessità, nelle angosce, nelle percosse, nelle prigioni, nei tumulti, nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni; con purezza, sapienza, con pazienza, benevolenza, spirito di santità, amore sincero; con parole di verità, con la potenza di Dio; con le armi della giustizia a destra e a sinistra; nella gloria e nel disonore, nella cattiva e nella buona fama. Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri, sconosciuti eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto! » (2 Cor 6, 4-10).
L’Apostolo, proclamando la grazia, vive un’esistenza in cui gli atteggiamenti mondani – depressione, umiliazione, paura, ripiegamento su di sé - lasciano il posto a serenità, gioia, fermezza, capacità di arricchire altri: è il Vangelo vissuto.

È significativo che, dopo essersi sfogato con. quella lunga descrizione che è la sua esperienza, Paolo conclude: «La nostra bocca vi ha parlato francamente, il nostro cuore s, è tutto aperto per voi» (2 Cor 6,11). Ha detto, cioè, tutto quello che aveva dentro: il mistèro di essere Apostolo della grazia e di vivere la contraddizione tra ciò che le circostanze tenderebbero ad ottenere soffocandolo e ciò che invece, con estrema umiltà e modestia, sente che avviene in lui, l’iniziativa divina che rovescia l’evidenza umana che lo schiaccerebbe.
L’Apostolo con la specificazione: «Vi affido alla Parola della grazia », ricorda che Dio si manifesta loro nella Parola-Gesù. Paolo non sarà più con la comunità, non parlerà più ma la Parola di Dio è sempre con loro e la potenza di questa Parola rinnova con una iniziativa gratuita che previene e ripara ogni umana debolezza.
Nel libro degli Atti torna spesso il riferimento alla Parola personificata, come persona che agisce e che ha potere. Luca, anche nel Vangelo, scrive che «il fanciullo (Gesù) cresceva» (Lc 2, 40). La Parola è vista come Gesù stesso che cresce nella comunità, che vive e opera e, attraverso lo Spirito, permane nella Chiesa.

- « … che ha il potere di edificare ». Vengono in mente alcuni testi fondamentali del Nuovo Testamento, soprattutto la lettera ai Romani, dove viene enunciato più esplicitamente il potere di Dio attraverso il Vangelo. È anch’essa una parola di congedo e possiamo leggerla come ampliamento liturgico della benedizione finale di Paolo alla comunità di Mileto: « A colui che ha il potere di confermarvi secondo il Vangelo che io annunzio e il messaggio di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero taciuto per secoli, ma rivelato ora e annunziato mediante le Scritture profetiche, per ordine dell’eterno Dio, a tutte le genti perché obbediscano alla fede, a Dio che solo è sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, la gloria nei secoli dei secoli. Amen» (Rm 16, 25-27); L’affidamento alla potenza divina diviene preghiera, dossologia e indica la solennità con cui l’Apostolo intende la espressione.
La Parola ha il potere di edificare tutta l’attività della comunità. La comunità è un corpo che cresce secondo tutte le sue giunture ben compatte, secondo una gerarchia interna, un ordine, una ricchezza di carismi. È un corpo che si sta formando ed è la Parola di Dio la forza edificatrice. Anche il contenuto e i
messaggi di questa Parola costruiscono l’edificio. E Paolo vede l’avvenire della comunità che, restando fedele al primato della Parola, si costruisce nella ricchezza dei carismi, dei doni, dei servizi, dei ministeri.

- «E di concedere l’eredità con tutti i santificati ». La Parola di Dio opera anche 1′accrescimento della comunità, chiamando molti altri a partecipare e a godere di questa eredità preziosa.

Conclusione

Così Paolo ci lascia, testimoniando la totale dedizione apostolica e il profondo distacco, segno della sua fedeltà all’originaria intuizione: è Dio che salva, è Gesù che gli è apparso sulla via di Damasco e al quale deve tutto. Se Gesù gli è apparso con potenza quando era peccatore, questo vale anche per la comunità e per ogni altro uomo. La comunità è quello che è, non perché Paolo ha fatto qualche cosa, ma perché Gesù con potenza si manifesta e si manifesterà nel cuore di ciascuno.
Già Mosè aveva ascoltato sul monte questa Parola: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò fare grazia e avrò misericordia di chi vorrò avere misericordia» (Es 33, 18-19).

Nella comprensione neo testamentaria significa che Dio è l’origine e la fonte di ogni misericordia. Non è il nostro sforzo, la nostra attenzione: quando avessimo fatto tutto, ancora la bilancia pende dalla parte della misericordia di Dio.
È Lui che ci salva, Lui che ci ama.
Ora Paolo può congedarsi da noi, almeno temporaneamente, dopo averci fatto qualcuna delle sue confessioni e averci comunicato qualcosa della sua esperienza.

 

08 LE CONFESSIONI DI PAOLO – Passio Pauli, Passio Christi – C.M. Martini

Passio Pauli, Passio Christi

La parola « passio Pauli », passione di Paolo, si usa comunemente per indicare i capitoli degli Atti degli Apostoli che vanno dal 21 al 28, cioè l’ultima parte del libro: dalla prigionia a Gerusalemme alla prigionia a Roma.
Vogliamo estendere la «passione di Paolo» anche alle sofferenze successive che conosciamo in parte dagli accenni delle lettere e in parte dalla tradizione. È singolare che gli Atti degli Apostoli non ci narrino tutta la vita di Paolo, ma si fermino ad un certo punto, introducendo poi i capitoli sulla sua « passione ». L’attività apostolica è descritta in tanti capitoli quanti sono quelli che descrivono l’imprigionamento, il processo, fino alla prigionia a Roma.
Anche nei Vangeli, la Passione di Cristo ha un trattamento amplissimo rispetto alla brevità della vita narrata in precedenza. L’evangelista corre per brevi note su due o tre anni della vita pubblica di Cristo, mentre descrive la Passione quasi ora per ora, minuto per minuto.
Comprendiamo da questo fatto l’importanza che l’evangelista, la Chiesa primitiva, danno alla Passione di Cristo e alla passione di Paolo.
Gli evangelisti hanno compreso che Cristo era Messia e rivelatore del Padre soprattutto nella Passione.
Lo stesso accade per Paolo, testimone di Cristo non soltanto nei discorsi travolgenti o dotti o pieni di tenerezza ma anche quando viene imprigionato, portato davanti ai tribunali, trasferito da un carcere all’altro, con sorte incerta, con limitazioni gravi della libertà, con il timore della morte.

Come grazia specifica di questa meditazione possiamo chiedere di comprendere la frase misteriosa della lettera ai Filippesi: «Perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze» (Fil 3,10). Paolo desidera conoscere Gesù entrando in misteriosa comunione anche fisica con le sue sofferenze.

Tu conosci, Padre di misericordia, quanto è importante per noi la misteriosa comunione con le sofferenze del Cristo. Tu sai come ci è difficile, lontana dalla nostra mentalità, smentita continuamente dal linguaggio quotidiano. Per questo ti chiediamo umilmente, insieme con Paolo, di aprirci gli occhi della mente e del cuore perché conosciamo Cristo, la potenza della sua Risurrezione, la comunicazione alle sue prove, per potere con lui offrire la nostra vita per il corpo di Cristo.
Illumina, o Signore, la nostra mente perché possiamo comprendere le parole della Scrittura, riscalda il nostro cuore perché avvertiamo che non sono lontane ma, in realtà, le stiamo vivendo e sono la chiave della nostra esperienza presente, della situazione di tante persone oggi nel mondo.

Te lo chiediamo, Padre, insieme con Maria, Madre addolorata, con Paolo, per la gloria di Gesù, morto e risorto per noi, che vive e regna nella Chiesa e nel mondo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Propongo di procedere rispondendo alle domande:
- quali sono le similitudini e le diversità fra la passione di Cristo e la passione di Paolo;

- qual è la passione del cristiano;
- come Paolo vive la passione;
- come noi dobbiamo viverla.

Similitudini e diversità
della «Passio Christi» e della «Passio Pauli»

Cerchiamo di vedere alcune tappe della Passione di Cristo paragonandola con quella di Paolo. Sottolineo tre momenti:

- l’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo;
- Cristo e Paolo ai tribunali;
- le sofferenze fisiche e morali di Cristo e di Paolo.

L’arresto di Cristo e l’arresto di Paolo

« Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: “Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell’uomo?”. Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: “Signore, dobbiamo colpire con la spada?” » (Lc 22, 47-49).
Paolo si trovava nel tempio, aspettando i giorni della Purificazione, «quando i Giudei della provincia di Asia, vistolo nel tempio, aizzarono tutta la folla e misero le mani su di lui gridando: Uomini di Israele, aiuto! Questo è l’uomo che va insegnando a tutti e dovunque contro il popolo, contro la legge e contro questo luogo; ora ha introdotto perfino dei Greci nel tempio e ha profanato il luogo santo! » (At 21, 2727). Tutta la città è in subbuglio. Paolo è trascinato fuori del tempio, chiudono le porte, cercano di ucciderlo. Quando giunge il tribuno con la coorte, lo arrestano e lo legano con due catene. Da questo momento, Paolo è in prigione per lunghissimo tempo. Che cosa hanno in comune le due scene pur nella loro diversità?
In entrambi i casi, l’arresto è proditorio, ingiusto; è un arresto fatto alle spalle, con un agguato. Agguato per Gesù ed agguato anche per Paolo, suscitato ad arte dai suoi nemici.
Per entrambi l’arresto avviene nel momento in cui si spendevano per il loro popolo. Per Gesù avviene nella ‘notte della preghiera, per Paolo nel momento dell’offerta quando, dopo aver portato doni per il suo popolo, ha spinto la sua condiscendenza fino a volersi purificare nel tempio. Sono toccati nell’istante della loro dedicazione apostolica, del loro servizio.

Cristo e Paolo davanti ai tribunali

Gesù passa vari tribunali: il Sinedrio, il tribunale di Pilato, l’interrogatorio con varie accuse alle quali prima risponde e, da un certo momento in avanti, tace. Il processo di Paolo è descritto più ampiamente ed è segnato da una lunga serie di discorsi: il discorso fatto sui gradini del tempio al cap. 22 degli Atti, quello davanti al Sinedrio nel cap. 23, davanti a Felice nel cap. 24, l’arringa davanti a Festo nel cap. 25 e davanti al re Agrippa nel cap. 26. Una serie di apologie di Paolo che si difende, a differenza di Gesù che dice solo brevi parole.
È interessante notare la diversità delle situazioni: Paolo non è un pedissequo imitatore di Gesù. Sente di avere in sé lo Spirito di Dio e, ispirandosi alla vita del Maestro, vive le situazioni con propria responsabilità e si comporta con dignità e con fermezza. Imita Gesù nella dignità, nel senso della giustizia, nella nobiltà d’animo; però agisce in altro modo, nell’ampiezza e nel calore con cui difende se stesso, nel tentativo di confondere gli avversari; e riesce a dividere il Sinedrio facendo litigare fra loro i suoi accusatori.
Gesù testimonia in brevissime parole la perseveranza nell’affermazione della propria missione e il coraggio della parola: «Tu lo dici, tu dici che io sono re; vedrete il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della potenza di Dio ».
In tutti e due i processi, vediamo che dietro a una parvenza di giustizia prevalgono interessi personali, paure, scontri di ambizioni individuali o di gruppi. Sia Gesù che Paolo sono sottoposti alle incertezze del giudizio umano; se Paolo poteva avere qualche speranza – l’aveva sempre fomentata nelle sue lettere, là dove insiste sul rispetto dell’autorità -, si accorge che il tornaconto personale, avido e meschino, prevale anche in chi dovrebbe garantire il diritto.

Le sofferenze fisiche di Cristo e di Paolo

Le sofferenze di Gesù sembrano molto più grandi perché sono descritte ampiamente nel resoconto della Passione. Di Paolo si può solo intuire la situazione pesante dell’essere in prigione: di fatto ha già avuto in precedenza sofferenze notevoli nelle flagellazioni o nelle lapidazioni alle quali è stato sottoposto. Egli le riferisce quasi considerandole come un avvenimento che si aspettava.
Paolo dà più rilievo alle sofferenze morali, soprattutto alla solitudine. Questo aspetto è quello che maggiormente indica cosa accomuna la nostra passione con la passione di Cristo e di Paolo.

Certamente le sofferenze morali più gravi che Cristo sopporta sono dovute all’abbandono totale in cui viene lasciato da parte degli uomini. Tutti fuggono: solo Pietro lo segue da lontano e poi lo rinnega. Gesù che in fondo si era abituato ad avere sempre qualcuno che lo sosteneva – e questa è un’abitudine che ci si fa – si vede rapidamente ridotto alla solitudine più estrema. La solitudine è accresciuta dal misterioso abbandono di Dio che si esprime nel grido: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ». È stato scritto moltissimo per cercare di comprendere che cosa significa.
Le pagine più drammatiche e più belle sono forse quelle di Hans Urs von Balthasar nel suo «Mistero pasquale»: egli cerca di interpretare, partendo da queste parole, il venerdì santo di Gesù, l’oscurità che si abbatte nella sua anima e la discesa agli inferi.
Balthasar parte dal principio che possiamo interpretare la passione di Gesù a partire dalla passione dei santi: comprendendo le oscurità, le desolazioni, i momenti drammatici di esperienza di abbandono che i grandi santi hanno vissuto, possiamo cogliere qualcosa di ciò che Gesù ha sperimentato prima di tutti, per tutti, a conforto e sostegno di tutti.

Che cosa dire della sofferenza morale di Paolo?
Paolo sperimenta lungo la sua passio, intesa fino alla fine della sua vita, un abbandono progressivo dei discepoli. Lui, che è così pieno di carica vitale, esce in affermazioni che non riescono a nascondere che è stanco e ha l’impressione di aver sofferto al limite delle forze; dice: «Cerca di venire presto da me sono parole di chi veramente non ne può più – perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito. il secolo presente ed è partito per Tessalonica; Crescente è andato in Galazia, Tito in Dalmazia – come dire: eccomi qua solo -. Solo Luca è con me. Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero ». E continua: «Alessandro, il ramaio, mi ha procurato molti mali. Il Signore gli renderà secondo le sue opere; guardatene anche tu, perché è stato un accanito avversario della nostra predicazione. Nella mia difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2 Tim 4, 9-11.14-16). Quest’ultima è la frase più dura.

È un Paolo diverso da quello che siamo abituati a conoscere; è stanco anche fisicamente, prostrato dalla prigionia, come appare anche nelle altre lettere « pastorali» a Timoteo e a Tito. A noi qui non interessa stabilire se questi scritti sono di sua mano, se riportano frasi sue; li prendiamo come la Chiesa ce li ha tramandati, come espressione della figura dell’Apostolo così come la Chiesa primitiva l’ha conosciuta e ce la trasmette.
Certamente ci danno l’immagine di un Paolo in parabola discendente. Non è più l’entusiasta della lettera ai Galati, della lettera ai Romani, con le grandi sintesi teologiche. È un uomo che lotta contro le difficoltà quotidiane, nella solitudine, e lascia trapelare anche un certo pessimismo. Denuncia ciò che sta avvenendo e prevede dei mali futuri; il tono oscuro e deplorativo ha preso il posto della speranza, della baldanza, dell’ardore.

Questa prova attraverso cui Paolo è passato, è una prova reale, nella quale riconosce che non ha più un possesso completo delle sue forze, dell’ottimismo, dell’entusiasmo, ma deve fare i conti con la fatica e l’accumularsi di pesi e delusioni. Dio ci vuole mostrare in lui il segno che l’uomo viene purificato in tanti modi e questa è una profonda forma di purificazione.
Ci possiamo chiedere se Paolo abbia provato anche abbandono da parte di Dio, le tenebre interiori, la desolazione, la notte dello spirito. Autobiograficamente non è possibile determinarlo. Tuttavia, parla più volte delle forze oscure del male che cercano di ottenebrare l’uomo, che lo insidiano e non lo risparmiano. Egli conosce, quindi, queste potenze delle tenebre che insidiano continuamente l’intimo di ciascuno di noi.
Se ci basiamo su quello che Balthasar dice di Gesù, dobbiamo pensare che probabilmente anche Paolo ha vissuto momenti in cui la fede è stata avvolta da tenebre e ha dovuto camminare col solo ricordo di tutta la ricchezza posseduta e della forza di Dio non più sensibilmente presente.

La passione del cristiano

Mi ha colpito, qualche tempo fa, un libro che descrive la prova della fede di Teresa di Lisieux. L’ultima parte della vita di questa santa è stata profondamente oscura e, dopo i doni meravigliosi che aveva avuto da Dio, è entrata in uno stato quasi incomprensibile. Ella stessa dice che è una prova dell’anima indicibile ed ha quasi paura di parlarne. Poi scrive: «Suppongo di essere nata in un paese circondato da una bruma spessa, mai ho contemplato l’aspetto ridente della natura inondata, trasfigurata dallo splendore del sole; …d’un tratto le tenebre che mi circondano, divengono più spesse, penetrano nell’anima mia e la avviluppano in tal modo che non riesco più a ritrovare in essa l’immagine così dolce della mia Patria: tutto è scomparso! Quando voglio riposare il cuore stanco delle tenebre che lo circondano; ricordando il paese luminoso al quale aspiro, il mio tormento raddoppia; mi pare che le tenebre, assumendo la voce dei peccatori mi dicano facendosi beffe di me: Tu sogni la luce, una patria dai profumi più soavi, tu sogni di possedere eternamente il Creatore di tutte queste meraviglie, credi di uscire un giorno dalle brume che ti circondano. Vai avanti! Vai avanti! Rallegrati della morte che ti darà non già ciò che speri, ma una notte più profonda, la notte del niente ». E ancora: «Quando canto la! felicità del Cielo, il possesso eterno di Dio non provo gioia alcuna, perché canto semplicemente ciò che voglio credere. A volte, è vero, un minimo raggio scende a illuminare la mia notte, allora la prova si interrompe per un attimo, ma subito dopo, il ricordo di questo raggio, invece di rallegrarmi, rende ancora più fitte le mie tenebre ». «È l’agonia pura – dice il 30 settembre, giorno della morte – senza alcuna traccia di consolazione» .
Sono parole che ci colpiscono. Forse una delle più -dure è quella riferita al processo di beatificazione da una consorella che l’aveva sentita: «Se sapeste in quali tenebre sono immersa; non credo nella vita eterna, mi sembra che dopo questa vita mortale non vi sia più nulla. Tutto è scomparso per me, non mi rimane altro che l’amore ».
Ha l’impressione di non credere più, però sente che l’amore c’è: non è una contraddizione, è la purificazione terribile della carità. Sono esperienze che fanno parte del cammino cristiano.

Possiamo trovare anche in altri santi confessioni di questo tipo.
S. Paolo della Croce durante la sua ultima malattia esce in espressioni che fanno davvero pensare. Confida a un confratello: «Oggi mi sentivo impeti gagliardissimi di andarmene disperso e fuggiasco per queste selve, stimolato a gettarmi da una finestra – quindi tentazioni di suicidio -, e continue gagliardissime tentazioni di disperazione ». E ancora: «Un’anima che ha provato carezze celesti e poi si trova a dover stare del tempo spogliata di tutto, anzi, arrivare a segno di trovarsi, a suo parere, abbandonata da Dio, che Dio non la voglia più, non si curi più di lei e che sia molto sdegnato, onde le pare che tutto ciò che fa una tal anima sia tutto malfatto. Ah, non so spiegarmi come desidero! Le basti sapere che questa è una sorte quasi di pena di danno, pena che supera ogni pena».
E poi; «L’impressione di non avere più né fede né speranza né carità, di sentirsi come sperduto nel profondo di un mare in tempesta senza avere chi gli porga una tavola per sfuggire al naufragio, né dall’alto né dalla terra. Non ha nessun lume di Dio, incapace di un minimo buon pensiero, incapace di trattare alcun argomento di vita spirituale, desolato come i monti di Gelboe e sepolto nel ghiaccio. Nelle orazioni stesse vocali non so far altro che passare i grani della corona».
Racconta un suo confratello: «Entrando nella sua camera quando stava infermo, con voce da muovere a compassione anche le tigri disse per tre volte: “Sono abbandonato” ».
Certamente conta molto il carattere delle persone. Chi è molto sensibile in certi momenti di fatica, di depressione e di malattia giunge a parlare così di sé. Comunque è vero che Dio permette misteriosamente nei suoi santi la prova dell’abbandono. È una situazione reale e quando avviene deve farci pensare che è il cammino percorso da Cristo sulla croce, percorso da Paolo e percorso da tanti santi.
Paolo, scrivendo a Timoteo, subito dopo aver detto: «Tutti mi hanno abbandonato» aveva affermato: « Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza… Il Signore mi libererà da ogni male e mi salverà per il suo regno eterno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (2 Tim 4, 17-18).
La potenza dello Spirito in lui gli aveva permesso di superare un momento in cui poteva essere tentato addirittura di disperazione. Non possiamo però sapere se l’ultimo quarto d’ora della sua vita sia stato un tempo di luminosità, di chiarezza, oppure di tenebra. Il mistero del cammino umano va verso l’esperienza della morte.
Proprio per questo dobbiamo riflettere su di noi, sulle sofferenze attraverso le quali altri possono passare e sulla necessità di saper prestare aiuto. Un malato, soprattutto grave, difficilmente apre il suo animo: forse solo a qualcuno di cui ha piena fiducia. La missione è di suscitare questa fiducia per poter essere collaboratori nelle prove contro la fede e contro la speranza che l’uomo prossimo alla morte può vivere.
Si racconta che Teresa di Gesù Bambino verso la fine della sua vita rimase in preda ad un’ agitazione e angoscia inesprimibili, che spaventarono le consorelle. La sentirono dire: «Quanto bisogna pregare per gli agonizzanti! Se si sapesse! ».
Ecco come la vita dei santi può aiutarci a penetrare meglio la passio Christi e la passio Pauli.

Come Paolo ha vissuto la comunione con la passione di Cristo

- Dalle lettere in cui Paolo parla delle sue sofferenze ricaviamo, prima di tutto, che ha da Dio il dono di viverle con grande spirito di fede, valutandone il significato alla luce del piano salvifico. «…il Salvatore nostro Gesù Cristo… del quale io sono stato costituito araldo, apostolo e maestro. È questa la causa dei mali che soffro» (2 Tim 1, 9-11).
Se soffro, soffro per Cristo e « non me ne vergogne: so infatti a chi ho creduto e sono convinto che egli è capace di conservare fino a quel giorno il deposito che mi è stato affidato» (2 Tim 1, 12).

- Lo spirito di fede è intriso di senso ecclesiale per ciò che soffre. « Ricordati che Gesù Cristo, della stirpe di Davide, è risuscitato dai morti, secondo il mio Vangelo, a causa del quale io soffro fino a portare le catene come un malfattore; ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò sopporto ogni cosa per gli eletti, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù insieme alla gloria eterna» (2 Tim 2, 8-10). lo soffro ma per gli altri, per tutta la Chiesa, per l’opera di Cristo. «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro, secondo la missione affidatami da Dio presso di voi: di realizzare la sua parola» (Col 1, 24-25).
Il profondissimo senso di missione che è la molla interiore di tutto ciò che fa per la Chiesa, non lo abbandona neanche in questi momenti, ma gli dà la grazia di considerarli come il completamento del servizio che vuol compiere fino in fondo.

Domande per noi

Potremmo concludere chiedendoci qual è il nostro atteggiamento.
Innanzitutto dobbiamo riconoscerci estremamente fragili, suscettibili di essere tentati, forse anche in cose da poco e di dover passare per questi momenti difficili. Il senso della fragilità è importante perché, altrimenti, rischiamo di parlare di queste cose con facilità, e quando ci troviamo a viverle reagiamo in modo del tutto contrario, cambiando, per così dire, mondo e linguaggio. La coscienza della nostra fragilità ci permette di collegare meglio ciò che leggiamo con ciò che in realtà viviamo.
Per questo è necessaria la vigilanza di cui abbiamo già parlato e che Paolo ricorda spesso: «E quando si dirà: pace e sicurezza, allora d’improvviso vi colpirà la rovina, come le doglie di una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro; V’pi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri» (1 Ts 5, .3-6).
«Rivestitevi con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza» (1 Ts 5, 8). «Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove» (Ef 6, 11-13).

L’esistenza cristiana è una prova non da poco perché ci mette di fronte ad un avversario implacabile che continuamente torna ad attaccarci. Quando consideriamo la realtà quotidiana, le cose semplici di ogni giorno, questo linguaggio ci sembra eccessivo; ma se andiamo più a fondo nella nostra storia, nella storia degli altri uomini, nelle prove dolorosissime che la gente vive, nei problemi che portano all’angoscia e alla disperazione, allora vediamo molto più chiaramente che il nemico dell’uomo è all’opera. Esso cerca in tutte le maniere più semplici, più coperte, più subdole, di portare ciascuno di noi a mancare di fede e di speranza, suggerendoci una visione rassegnata della vita, senza la luce interpretativa del piano salvifico di Dio. Continuamente vuol distruggere la scintilla della fede che ci permette di vedere tutto come cammino di Dio in noi e cammino nostro verso di lui.
Il Nuovo Testamento esorta alla vigilanza e alla lotta, perché conosce benissimo la condizione umana e sa che le prove sono riservate a tutti; quando pensiamo che sono passate, sono invece più vicine che mai.

Chiediamo al Signore che nella riflessione sulla passione di Cristo e sulla passione di Paolo, sia dato anche a noi di camminare nella via di Dio e di stare in piedi, di resistere con coraggio nelle difficoltà, e di poter aiutare altri, molti altri, affinché non soccombano nella prova.

07 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – La trasfigurazione di Paolo -C.M. Martini

La trasfigurazione di Paolo

Partendo dall’episodio storico della sofferenza nella vita di Paolo, riflettiamo sulla trasfigurazione a cui l’ha portato l’interiore purificazione, per meditare poi sulla trasfigurazione del pastore.
Come grazia di questa meditazione chiediamo di potere, attraverso la conoscenza dell’ Apostolo, giungere alla conoscenza di Cristo, la cui gloria risplende sul suo volto e vuole risplendere in noi.

Ti ringraziamo, Padre, per il dono di gloria luminosa, affascinante, che hai posto sul volto del tuo Figlio Risorto. Questa gloria l’hai mostrata alla tua Chiesa, nel tuo servo Paolo, come l’avevi mostrata interiormente a Maria, Madre di Gesù, a Pietro e agli Apostoli.
Ti ringraziamo perché continui a mostrare questa gloria nella storia della Chiesa attraverso i santi. Ti ringraziamo per i santi che abbiamo conosciuto, per tutti coloro i cui scritti, le cui parole ci edificano, per tutti coloro la cui vita ci è di sostegno. Manifesta la gloria del volto di Cristo anche a noi, perché qualcosa di quello splendore risplenda in noi stessi e, interiormente trasformati, possiamo conoscere il tuo Figlio Gesù e farlo conoscere come sorgente di trasformazione della vita di ogni uomo. Te lo chiediamo, Padre, per Cristo nostro Signore. Amen.

Quanto abbiamo detto della sofferenza di Paolo per la rottura con Barnaba può essere esteso ad altri conflitti, che hanno segnato la vita di quest’uomo straordinario: i conflitti con le comunità, soprattutto quelli a cui fanno riferimento la seconda lettera ai Corinti e la lettera ai Galati. In esse Paolo ei appare chiaramente in contrasto con certi modi di agire e in situazioni di tensione, di dolore, di solitudine. Emblematico è il conflitto con Pietro ad Antiochia, in cui Paolo si trova in una situazione estremamente imbarazzante e difficile.

Innanzitutto ciò che dobbiamo ricavare da queste considerazioni è che non ei si deve stupire di queste cose: nella storia della Chiesa questi conflitti nascono. Le difficoltà di collaborazione tra preti, le difficoltà di collaborazione tra parroco e coadiutore sono di origine apostolica, cioè le troviamo già nel Nuovo Testamento.
È una realtà sulla quale dobbiamo, come Paolo, continuamente riflettere per purificarci e per trovarne la soluzione in un approfondimento delle cose e non in una semplice rassegnazione. Non stupirei, ma crescere nella comprensione di noi stessi e degli altri. Se nella vita di Paolo sono entrati, in qualche momento, dei personalismi, quanto più in noi. Bisogna sapersi conoscere, sapere comprendere come nei conflitti che viviamo non sempre è in gioco soltanto l’onore e la gloria di Dio, ma qualche volta anche la nostra personalità. Bisogna saper crescere nella misericordia che è l’atteggiamento con cui Dio considera la storia e le realtà umane.

Cosa si intende per trasfigurazione

Diamo alla meditazione il titolo di « trasfigurazione » perché il punto di riferimento è la Trasfigurazione di Cristo: «Mentre pregava, il suo volto cambiò di aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (Lc 9, 29). È interessante osservare che il verbo usato qui è lo stesso che Luca userà nel descrivere la luce nella quale Paolo entra nel momento dell’apparizione di Damasco: anche Paolo vive il riflesso del Cristo trasfigurato.

Per descrivere la stessa scena il Vangelo di Marco parla di trasformazione: «Si trasformò, si trasfigurò» (cf. Mc 9, 2 ss). Il verbo greco è: «metamorfòthe: si trasformò», tradotto « si trasfigurò davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime ». Questo verbo è il medesimo che Paolo usa nella lettera scritta ai Corinti per descrivere il processo di trasformazione che lui – e ogni apostolo e pastore dietro di lui ~ esperimentano, riflettendo la gloria di Cristo: «Noi tutti – è chiaro che esprime una sua esperienza che poi vuole condividere con noi – a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3, 18). È la descrizione di quanto stiamo considerando: Paolo investito della gloria del Signore a Damasco, si trasforma. Ma il verbo è al presente per indicare una azione di continua trasformazione, di gloria in gloria, per la forza dello Spirito di Dio. Si trasforma ad immagine di Gesù, acquista la luminosità di Cristo.

Non dimentichiamo che la festa e l’episodio della Trasfigurazione è ampiamente usato nella liturgia della Chiesa greca per indicare ciò che avviene nel cristiano attraverso l’integrazione progressiva che egli fa dei doni battesimali e, per noi, della grazia dell’Ordinazione.

Parlando di «trasfigurazione» di Paolo voglio riferirmi al crescendo di luminosità e di trasparenza che avviene in lui lungo il suo cammino pastorale e che si riflette in maniera inimitabile nelle grandi lettere.
Leggendole siamo affascinati dalla chiarezza e dallo splendore della sua anima e dopo duemila anni sentiamo che dietro alle parole scritte c’è una persona viva, ricca, palpitante e illuminante.
Il suo aspetto trasfigurato attraeva la gente e costituiva uno dei segreti della sua azione apostolica. Era il risultato del lungo cammino di prova, di sofferenza, di preghiere incessanti, di confidenza rinnovata.

Anche il pastore, come Paolo, è chiamato a diventare, attraverso l’esperienza, le sofferenze, le fatiche, i doni di Dio, luminoso e trasparente.
Nelle sue parole e nella sua azione la gente deve trovare quel sentimento di pace, di serenità, di confidenza, che è indescrivibile ma che si percepisce senza alcun ragionamento.
Ciascuno di noi ha avuto modo, per grazia di Dio, di conoscere preti che sono stati così nella loro vita: irradiavano ciò che Paolo lascia trasparire abbondantemente da tutto il suo modo di parlare e di esprimersi.
Vediamo di descriverlo analiticamente perché possa essere specchio ideale del pastore su cui confrontarci. – Quali sono le caratteristiche della luminosità di Paolo?
Possiamo ricavarle da tre atteggiamenti interiori tipici di questa trasfigurazione e da due più esteriori. – Come raggiungere e mantenere in noi qualcosa di simile a questa trasfigurazione, che è dono di Dio anche per noi?

Gli atteggiamenti interiori della trasfigurazione

a) Il primo atteggiamento, che troviamo in tutte le lettere, anche le più conflittuali, è una grande gioia interiore e pace: «Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Paolo mette chiaramente insieme le sue moltissime tribolazioni con la gioia, anzi con una gioia sovrabbondante. Che non sia forzata o idealistica lo ricaviamo dalle stesse lettere: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2 Cor 4, 7). Paolo riconosce che questa gioia straordinaria viene da Dio: da sé non potrebbe averla. È tipica della trasfigurazione, non frutto di buon carattere, non dote naturale, non umana. «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti ma non disperati; perseguitati ma non abbandonati; colpiti ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo»(2 Cor 4, 8-10). Non è una situazione di tranquillità; è una gioia vera che fa i conti con tutti i tipi di pesantezze, di difficoltà, di cose spiacevoli che gli avvengono; coi malintesi, coi malumori nei quali vive la sua giornata. Come la viviamo noi. Paolo era un po’ nevrastenico di carattere e perciò soggetto a depressioni e a momenti di sconforto. Egli sperimenta gradualmente nella sua vita che non c’è momento di sconforto in cui non appaia qualcosa di più forte dentro di lui.
Ancora, è una gioia che guarda intorno a sé, è per la sua comunità, non è privata; è gioia per ciò che succede intorno a lui, per le comunità che sta seguendo. « Siamo i collaboratori della vostra gioia» (2 Cor 1, 24). E scrivendo ai Filippesi definisce le comunità come « mia gioia e mia corona» (Fil 4, 1). Non illudiamoci che fosse una comunità ideale, perfetta: anzi dalla lettera sappiamo che Paolo deve scongiurarli, quasi in ginocchio, di non litigare, di non mordersi, di non dividersi: «Non fate nulla per spirito di rivalità, per vanagloria» (Fil 2, 3). Vuole dire che c’erano rivalità e vanagloria, che la comunità non era facile, che gli creava problemi e molestie. Eppure riesce a considerarla come la sua gioia perché gli è stata donata una visuale di fede che va aldilà della considerazione delle cose puramente pragmatica, abituale, di routine. È un vero dono soprannaturale, potenza dello Spirito che era in lui ormai in grado eminente.

b) Il secondo atteggiamento interiore conseguente al primo è la capacità di riconoscenza. Esorta i suoi a ringraziare con gioia il Padre (Coll, 12). È tipico dell’Apostolo unire la gioia al ringraziamento.
Tutte le lettere cominciano con una preghiera di ringraziamento, eccetto quella ai Galati perché è di rimprovero. Paolo sa ringraziare e le sue parole non sono un formulario vuoto ma esprimono ciò che sente. D’altra parte lo stesso Nuovo Testamento incomincia con una preghiera di ringraziamento: infatti, con ogni probabilità, lo scritto più antico del Nuovo Testamento, quello che ha preceduto anche la stesura definitiva dei Vangeli, è la prima lettera ai Tessalonicesi. Quindi, la prima parola del Nuovo Testamento è: «Grazia a voi e pace. Ringraziamo sempre Dio per tutti voi ».
All’opposto, non troviamo mai in Paolo la deplorazione sterile. C’è il rimprovero, non la rassegnata amarezza. Come dono di Dio, nella sua trasfigurazione apostolica ha la capacità di vedere sempre per prima cosa il bene. Cominciare ogni lettera col ringraziamento, vuol dire saper valutare innanzitutto il positivo che c’è nella comunità a cui scrive, anche se poi ci saranno cose gravissime, negative. All’inizio della prima lettera ai Corinti la comunità è lodata come piena di ogni dono, di ogni sapienza; poi vengono i rimproveri; ma non è un’incongruenza. Gli occhi della fede gli permettono di vedere che un briciolo di fede dei suoi poveri pagani convertiti è un dono talmente immenso da fargli lodare Dio senza fine.
Il pastore maturo ha la capacità di riconoscere il bene che c’è intorno e di esprimerlo con semplicità.

c) Il terzo atteggiamento è la lode.
In Paolo abbiamo quelle lodi meravigliose che continuano la tradizione giudaica delle benedizioni. Egli le sa ampliare per tutto quello che riguarda la vita della comunità, nel Cristo. Per esempio: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli in Cristo» (Ef 1, 3). La preghiera di Paolo, così come la conosciamo nelle lettere, è prima di tutto di lode: diventa anche di intercessione ma spontaneamente la prima espressione che gli viene è di lode. Così può valorizzare i suoi momenti più oscuri: «Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio» (2 Cor 1, 3). Potremmo usare le sue frasi come specchio per domandarci se possiamo dirle in prima persona come espressione di ciò che c’è in noi di più profondo (o se invece sentiamo la fatica di dire queste cose).

La grazia da chiedere a Dio è che questi atteggiamenti tipici del pastore trasfigurato dal Cristo risorto, diventino nostra esperienza abituale. Il demonio ci tenta continuamente per farci ricadere nelle forme mondane della vita: la tristezza è caratteristica dell’uomo che vive nella chiusura delle prospettive. E la tristezza di fondo poi cerca l’evasione, il divertimento, tutto ciò che sembra rendere allegra la vita pur di non affrontare la tristezza.

Gli atteggiamenti esterni di Paolo trasfigurato nel Cristo

a) Il primo atteggiamento esterno è l’instancabile ripresa che ha davvero del prodigioso.
Fin dal primo giorno della sua conversione: predica a Damasco e deve fuggire; va a Gerusalemme, predica e lo fanno partire; a T arso rimane finché la provvidenza non lo richiama; quando lo richiama, dimenticati i risentimenti passati, riparte. Nel suo viaggio missionario praticamente ogni stazione è un ricominciare da capo; predica ad Antiochia di Pisidia, viene cacciato e va a Iconio; a Iconio minacciano un attentato contro di lui, tentano di lapidarlo e va a Listra. A Listra è sottoposto a una gragnuola di sassi. È interessante notare l’impassibilità con cui Luca descrive la scena: «Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali trassero dalla loro parte la folla; essi presero Paolo a sassate e quindi lo trascinarono fuori della città, credendolo morto. Allora gli si fecero attorno i discepoli ed egli, alzatosi, entrò in città. Il giorno dopo partì con Barnaba alla volta di Derbe. Dopo aver predicato il Vangelo in quella città e fatto un numero considerevole di discepoli, ritornarono a Listra, Iconio e Antiochia» (At 14, 19-21).
È così un po’ tutta la sua vita: da Atene esce umiliato, preso in giro dai filosofi, eppure va a Corinto e ricomincia, anche se ha l’animo pieno di timore.

Questa ripresa non è umana: un uomo dopo alcuni tentativi falliti, umanamente resta fiaccato. Noi non possediamo la sua instancabilità, nemmeno lui la possedeva: è un riflesso di quella che chiamerà «la carità ». «La carità non si stanca mai» (1 Cor 13, 7). È la carità di Dio: «La carità di Dio è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 5). Il suo modo di agire è riversato dall’alto, è un dono, ed è quello che fa sì che la delusione non sia mai definitiva. «Siamo addirittura orgogliosi delle nostre sofferenze» (Rm 5, 3), «perché sappiamo che la sofferenza produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5, 3-5).

Se queste parole fossero dette da un neo-convertito ai primi inizi dell’entusiasmo, potremmo pensare che parli senza esperienza. Dette da un missionario che ha vissuto vent’anni di prove, acquistano un suono diverso e ci fanno profondamente riflettere. Nessuno sforzo umano può giungere a questo atteggiamento: è la carità di Dio diffusa nei nostri cuori per lo Spirito che ci è dato.
La trasfigurazione di Paolo è, ancora una volta, la forza del Risorto che entra nella sua debolezza e vive in lui.

b) Il secondo atteggiamento esterno è la libertà dello spirito. Sente di avere raggiunto una situazione in cui non agisce più per costrizione o per conformazione volontaristica a modelli esterni: agisce perché è ricco dentro. Può allora assumere atteggiamenti arditi che sarebbe temerario imitare. Vediamo questa libertà di spirito nella lettera ai Galati quando dice che umanamente sarebbe stato più prudente circoncidere Tito secondo le richieste dei giudeo-cristiani: «Ad essi però non cedemmo per riguardo neppure un istante perché la verità del V angelo continuasse a rimanere salda tra di voi» (Gal 2, 5). Paolo è libero da ogni giudizio o opinione corrente: è molto difficile perseverare isolati di fronte ad una mentalità comune, ad una cultura avversa. Lo fa con estrema libertà, senza vittimismi, perché la ricchezza che sente dentro non è paragonabile in peso all’opinione altrui. Questa sua forza gli permette, a un certo punto, di opporsi addirittura a Cefa. È un caso-limite di libertà: «(Ad Antiochia) anche gli altri Giudei imitarono Pietro nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia» (Gal 2, 13). Quella che chiama ipocrisia evidentemente per Barnaba era il desiderio di mediare tra le parti. Paolo non accetta e di qui la sua resistenza che chiarisce la situazione.
Una libertà che non è arbitrio o presunzione ma senso di assoluta e totale appartenenza come schiavo, come servo di Cristo. Lui stesso mette talora in parallelo l’essere servo di Cristo con l’essere libero da tutte le altre opinioni umane.
In questa luce la libertà diventa una forma rigorosissima di servizio: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: Se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato a osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia. Noi infatti pei virtù dello Spirito attendiamo dalla fede la giustificazione che speriamo. Poiché in Cristo Gesù non è la circoncisione, ma la fede che opera per mezzo della carità. Correvate così bene; chi vi ha tagliato la strada che non obbedite più alla verità? Questa persuasione non viene sicuramente da colui che vi chiama! Un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta. Io sono fiducioso per voi nel Signore che non penserete diversamente; ma chi vi turba, subirà la sua condanna, chiunque egli sia. Quanto a me, fratelli, se io predico ancora la circoncisione, perché sono tuttora perseguitato? È dunque annullato lo scandalo della croce? Dovrebbero farsi mutilare coloro che vi turbano. Voi fratelli, siete stati chiamati a libertà… Purché questa libertà non divenga pretesto» – e noi sappiamo che sotto la parola libertà c’è molto spesso un pretesto – « per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri» (Gal 5, 1-13). È uno dei pochi passi in cui essere a servizio – in greco essere schiavi – si applica gli uni agli altri. L’assolutezza del servizio di Cristo rende l’uomo libero al punto di non temere di farsi schiavo del fratello. Questa libertà quindi è fonte di servizio umilissimo ed è la radice di quel «con tutta umiltà»che è la caratteristica dell’apostolato di Paolo.
È difficile esprimere queste cose a parole perché si rimpiccioliscono, si banalizzano: il tentativo serve da invito a riprendere i testi di Paolo e a lasciare che agiscano su di noi come parola ispirata, in tutta la loro forza.

La trasfigurazione di Paolo
è modello della trasfigurazione del pastore

Ci proponiamo di riflettere quale sia la metodologia per raggiungere e mantenere questa condizione di trasfigurazione.
Paolo incomincia a diventare un pastore secondo il cuore di Cristo dopo quindici anni di fatiche e sofferenze. Lo diventa per dono di Dio, non per sua conquista.
Riconoscere che Dio nella sua misericordia ci trasfigura è la metodologia fondamentale.

- Il primo modo per ricevere il dono divino è la contemplazione del cuore di Cristo crocifisso, che effonde lo Spirito. Contemplazione che potremmo chiamare eucaristica: prendere sul serio la duplice mensa della Parola di Dio e dell’Eucaristia, lasciarsi nutrire dalla Parola di Dio come forza che chiarisce il significato storico-salvifico del cibo che è Cristo morto e risorto. Questo cibo diventa nostro nutrimento e ci inserisce nella storia di salvezza di cui la Parola di Dio ci comunica la realtà, l’ampiezza, la direzione.
Come per Paolo, anche per noi questa contemplazione è la via della Trasfigurazione. L’Apostolo ha vissuto la preghiera incessante e prolungata che è la contemplazione del Cristo morto e risorto.

- Il dono del cuore trasfigurato nella gioia, nella lode, nella riconoscenza, nella perseveranza, nella libertà, viene per intercessione di Maria.
Maria, come mistero di Dio nella storia della Chiesa e della salvezza, è colei che sostiene e che alimenta in noi la luminosità della fede. Una esperienza cristiana matura sa scoprire il posto .della Vergine come modello e intercessione per raggiungere l’umile dipendenza dalla Parola di Dio che ci trasfigura, assicurando la nostra continua apertura alla forza rinnovatrice dello Spirito. Maria ci richiama a vivere autenticamente quel livello di contemplazione e di ascolto che è il livello che essa occupa nella Chiesa.

- Il dono della trasfigurazione pastorale viene anche dalla condivisione} dalla capacità di mettere la mano nel buio sulla spalla di colui che vede la luce. È questa la nostra comunione ecclesiale e presbiteriale: tenere la mano sulla spalla di chi ha visto la lucei a vicenda.
Si innesta qui il tema della direzione spirituale, del colloquio penitenziale che sono molto importanti perché significano il tenerci la mano gli uni gli altri, la maniera pratica di aprirci e conservare in noi i doni di trasfigurazione che ammiriamo in Paolo.

- Il dono della trasfigurazione ha bisogno della vigilanza evangelica. «Vegliate e pregate per non cadere in tentazione»; «lo spirito è pronto ma la carne è debole»; «vegliate e resistete saldi nella fede». Questo invito ripetuto è l’espressione esortativa della intuizione fondamentale che l’uomo è un essere storico, che si stanca, che di natura sua non è capace di perseveranza.
Ogni cristiano, ogni vescovo, ogni prete deve convincersi che nessuno è assicurato nella perseveranza e che il maggior rischio è in coloro che pensano di aver raggiunto un grado di stabilità tale che le precauzioni non sono più necessarie. La vigilanza neotestamentaria ci dice che fino all’ora della morte il demonio cerca di togliere in noi la gioia, la fede, la lode. Siamo sempre attaccati su questi atteggiamenti fondamentali.
Occorre vigilare sapendo che non c’è tregua in questa lotta e che rapidamente possiamo ritrovarci tristi, stanchi, nervosi, irritati, oppure dissipati in gioie esteriori che infiacchiscono la fede. Paolo ritorna più volte sul tema della vigilanza e della insistenza nella preghiera.

Chiediamo per intercessione di Maria, di poter vigilare con lei, con Gesù e con Paolo perché si compia in noi la trasfigurazione apostolica che assicura una vita pastorale in cui – malgrado le difficoltà, le sofferenze, le delusioni – il fondo di noi è afferrato da Cristo e saldamente posseduto dalla mano di Dio.

 

06 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – Conversione e rottura – C.M. Martini

Conversione e rottura

Rifletteremo sopra un altro episodio fortemente drammatico e oscuro della vita di Paolo: la rottura con Barnaba.
Negli ultimi istanti della sua vita Paolo, ripensando ai momenti che più l’hanno scosso, non avrà dato probabilmente molto peso alla prigionia, alle percosse, ai naufragi, ai trentatré colpi di flagello, insomma alla lista della 2 Cor, 11. Niente pare l’abbia segnato più di questo evento.
Paolo non ne parla mai nelle sue lettere. Questo episodio difficile anche per la nostra interpretazione fa parte di quelle oscurità dell’esistenza attraverso le quali l’uomo di Dio passa, si raffina e si purifica.

Chiediamo al Signore, nella preghiera, di aprirci gli occhi del cuore per capire il significato di questi eventi oscuri nella vita della Chiesa primitiva, nella vita della Chiesa di tutti i tempi e della nostra vita.

Signore Gesù, tu sai che noi passiamo per tanti eventi difficili a capirsi ed incontriamo intorno a noi, nella storia della Chiesa e dei tuoi Santi, tanti avvenimenti di cui non comprendiamo bene il senso. Signore, non ti chiediamo di capire, vorremmo invece saper amare di più, vorremmo trarre da ciò che possiamo comprendere la capacità di amare, perché noi siamo certi che niente ci può separare dal tuo amore, niente ci può separare dalla forza dello Spirito diffusa nei nostri cuori.
Che la forza dello Spirito sia ora presente in noi mentre leggiamo la Scrittura.
Concedici, o Maria, Madre del Signore, che se non sappiamo capire, sappiamo almeno amare. E tutto questo chiediamo a Dio Padre, fonte dell’amore e della luce, che vince ogni oscurità per mezzo di Cristo luce del mondo, nello Spirito fuoco che illumina la nostra notte, per Cristo nostro Signore. Amen.

Procederemo domandandoci:

- prima di tutto chi era Barnaba;
- poi chi era Barnaba per Paolo;
- che cosa è successo;
- con quali conseguenze;
- come Paolo ha vissuto questa lacerazione traumatica.

Chi era Barnaba

Uno dei giganti della Chiesa primitiva, uno dei primissimi che aveva preso sul serio il Vangelo. Non aveva probabilmente conosciuto il Signore, ma era tanto meritevole che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni, che erano stati col Signore, gli avevano dato fiducia.
È uno dei primi a credere alla parola degli apostoli, uno dei primi che si butta, il primo che vende tutto. Ci viene presentato negli Atti: «Giuseppe, soprannominato dagli apostoli Barnaba, che significa” figlio dell’esortazione”, un levita originario di Cipro, che era padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli apostoli» (At 4, 36). In un momento in cui la comunità ancora non significava quasi niente, era un gruppo sparuto di uomini, che potevano apparire fanatici, lui ha creduto, si è sbarazzato di tutto e si è messo totalmente dalla parte degli apostoli e di Cristo. Per questo è chiamato «figlio dell’esortazione, figlio della consolazione ».
Come personalità, Barnaba, era un uomo ricco di sapienza, di ottimismo, irradiava fiducia, e volentieri gli altri camminavano con lui e facevano affidamento su di lui.

Infatti lo vediamo adoperato in missioni di somma importanza. Ritorna il suo nome nel cap. 11 degli Atti: quando si tratta di verificare quello che sta succedendo ad Antiochia, da Gerusalemme inviano Barnaba. Barnaba va ad Antiochia e « quando questi giunse e vide la grazia del Signore, si rallegrò e, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede, esortava tutti a perseverare con cuore risoluto nel Signore. E una folla considerevole fu condotta al Signore» (At 11, 23-24).
Barnaba è l’uomo che ha saputo riconoscere l’autenticità del cristianesimo di Antiochia da cui è nato tutto il cristianesimo dell’occidente greco e dell’Asia Minore.
Senza di lui la Chiesa sarebbe rimasta ancora chissà quanto tempo prigioniera delle pastoie giudeo-cristiane di Gerusalemme. Barnaba ha una intuizione profonda, è libero da pregiudizi, da paure, e capisce che ad Antiochia sta operando lo Spirito. È capace anche di mediare: di rassicurare Gerusalemme e di incoraggiare Antiochia, evitando le rotture. Uomo, perciò, prezioso per la primitiva cristianità.

Chi è stato Barnaba per Paolo

È stato d’importanza fondamentale: dopo Anania è l’uomo a cui Paolo deve di più. Anzi ad Anania deve il primo ingresso, la prima accoglienza, ma poi tutto il resto lo deve a Barnaba. Egli è stato per Paolo colui che l’ha cercato (l’abbiamo accennato parlando del periodo doloroso di Tarso), l’ha capito, l’ha sostenuto. È stato l’amico, il padre spirituale, il maestro di apostolato, quello che l’ha introdotto nell’esperienza apostolica.

Vediamo qualche testo. Dopo essere fuggito da Damasco, Saulo va a Gerusalemme: «Cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo» (At 9, 26). Le diffidenze che c’erano state tra Gerusalemme ed Antiochia, ci sono ora, a Gerusalemme, verso questo nuovo arrivato che non si sa bene cosa voglia.
Il testo continua: «Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù» (At 9, 27).
È molto bello poter commentare questo testo parola per parola. «Barnaba lo prese con sé »: il verbo greco è « epilabòmenos », lo stesso che viene usato per Gesù che prende per mano Pietro che sta per affondare nel lago durante la tempesta (cf. Mt 14, 31). L’immagine che possiamo avere davanti è quella di Paolo smarrito a Gerusalemme: tutti gli chiudono la porta in faccia, non ha neanche dove dormire, e Barnaba va, gli tende la mano e gli dice: «Vieni con me, ti accompagno, ti presento io ».
Per Paolo, attraverso Barnaba, le porte si riaprono. Dicono gli Atti: «Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme parlando apertamente nel nome del Signore» (At 9, 28).

Anche in seguito, quando si tratta della comunità di Antiochia, Barnaba è il primo dei profeti: «C’erano nella comunità di Antiochia profeti e dottori: Barnaba, Simeone soprannominato Niger, Lucio di Cirene, Manaen, compagno di infanzia di Erode tetrarca, e Saulo » (At 13, 1). Dunque la gente di Antiochia riconosce i profeti, ma il primo è Barnaba e Saulo è l’ultimo venuto, e sappiamo come: «Barnaba poi partì alla volta di T arso per cercare Saulo e trovatolo lo condusse ad Antiochia; Rimasero insieme un anno intero in quella comunità e istruirono molta gente; ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani » (At 11, 25-26).
Dietro a questo versetto c’è l’immagine di una meravigliosa collaborazione tra Barnaba e Paolo: Barnaba è il primo dei profeti, Paolo è l’ultimo venuto, ma Barnaba lo sa valorizzare e lo introduce in una attività che diventa la più fruttuosa di tutta la Chiesa antica, quella da cui nasce una cristianità, che si impone talmente che il nome di cristiani deriva da lì. È la comunità che ha cominciato veramente a farsi notare nella storia.
Barnaba è stato tutto questo per Paolo.

Barnaba è anche il primo scelto dallo Spirito per la missione. È descritto l’inizio della missione che poi diventerà la grande missione ai pagani: «Mentre essi – questi profeti – stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati» (At 13, 2). Barnaba è il primo e Saulo è l’aggiunto. Barnaba è il capo della nuova spedizione; descrivendola, l’autore menziona per primo sempre Barnaba. L’ordine non è mai indifferente: Barnaba è colui che viene riconosciuto ufficialmente capo della missione: al v. 7 dice che arrivarono dal proconsole, persona di senno, « che aveva fatto chiamare a sé Barnaba e Saulo e desiderava ascoltare la parola di Dio ».
Ed ecco che, molto rapidamente, in questa missione la personalità di Paolo comincia ad emergere. Pochi versetti dopo, noi vediamo che l’attore principale della situazione in cui il mago Elìmas viene accecato è Saulo: «Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia» (At 13, 9); e più avanti: «Salpati da Pafo, Paolo e i suoi compagni giunsero a Perge di Panfilia» (13, 13). Barnaba è già ridotto al rango di « compagno ».
Possiamo qui cogliere lentamente il cambiamento psicologico che è avvenuto e la mutazione di ruoli in questa primitiva spedizione.

E purtroppo, proprio poco dopo, quando la mutazione di ruoli è ormai quasi codificata – il primo discorso di missione del cap. 13 degli Atti è attribuito a Paolo e non a Barnaba: «Si alzò Paolo e, fatto cenno con la mano, disse: Uomini di Israele… » (At 13, 16) – accade che. Giovanni-Marco se ne va e la spedizione si restringe di numero.

Durante tutta la prima missione noi assistiamo ad una alternanza di primato tra Barnaba e Paolo.
Nell’episodio di Listra, quando i pagani vedono la guarigione dell’uomo paralizzato e scambiano i due missionari per esseri divini, il testo dice: «Chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes » (At 14, 12). In questo caso Barnaba era l’anziano, l’uomo dalla lunga barba che si imponeva come figura di vecchio, Paolo era l’uomo attivo, intraprendente, che sapeva parlare. Quindi i ruoli erano divisi e la gente oscillava nel riconoscere l’uno o l’altro come principale: «Sentendo ciò gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando: Cittadini, perché fate questo? » (At 14, 14-15). Barnaba torna ad essere primo nell’ordine.

Poco dopo, nasce un’opposizione radicale alla loro missione ed è Paolo – come dice il testo – ad essere preso a sassate e trascinato fuori dalla città. È chiaro che pur essendo ancora un po’ incerta la designazione di chi era il capo reale della missione, gradualmente Paolo prende importanza di fronte agli occhi della gente. La missione termina senza rotture, a parte l’incidente dell’allontanamento di Marco che lascia amareggiati i due missionari, ma non causa, per il momento, difficoltà.
Il capitolo seguente, il 15 degli Atti, mostra Paolo e Barnaba in strettissima collaborazione, ormai però sempre nell’ordine, prima Paolo e poi Barnaba. I due sono pienamente d’accordo, agiscono con piena concertazione e condivisione di scopi là dove si tratta di resistere all’ingiunzione dei giudaizzanti di circoncidere i pagani convertiti. Tutto il cap. 15 è presentato ancora sotto il segno di una precisa collaborazione fra i due.

Che cosa è accaduto

Verso la fine del capitolo 15 viene presentato il dramma della rottura.
C’è stato il Concilio di Gerusalemme. La lettera è stata consegnata a Paolo, a Barnaba e ad altri due fratelli, Giuda-Barsabba e Sila, perché la portassero ad Antiochia. Scendono ad Antiochia, rimangono là ad insegnare, ad annunciare la Parola di Dio e poi Paolo decide di riprendere la missione. Leggiamo il testo:
« Dopo alcuni giorni Paolo disse a Barnaba: “Ritorniamo a far visita ai fratelli in tutte le città nelle quali abbiamo annunziato la Parola del Signore, per vedere come stanno” » (At 15, 36). Non è più la comunità che manda Barnaba e Saulo, ma è Paolo che si sente responsabile di tutta l’attività dell’Asia Minore e vuole rivisitare i fratelli. « Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, raccomandato dai fratelli alla grazia del Signore» (At 15, 37-40).

Che cosa è successo? Dal punto di vista immediato il racconto è evidente: un dissenso su un collaboratore. Per Barnaba andava bene, per Paolo no. Si aggiungeva il fatto imbarazzante che Barnaba era cugino di Giovanni-Marco, e probabilmente difende anche un po’ se stesso, l’immagine di famiglia.
Paolo si irrigidisce su una questione di principio: « Il dissenso fu tale che si separarono» (At 15, 39). Discutono forse per parecchi giorni, forse la comunità cerca di riconciliarli, di convincerli; ma la discussione raggiunge un punto tale di tensione che pare davvero meglio che ciascuno se ne vada per conto proprio. Questo culmine è indicato nel greco con la parola « paraxusmòs », «parossismo », anche se, in altri casi, ha un significato più blando, cioè provocazione o stimolo.
Ma in At 17, 16 questo termine viene usato per dire che Paolo fremeva Bel suo spirito, al vedere la città piena di idoli. Possiamo immaginare come fosse il fremito di Paolo e a quale incandescenza fosse giunta la discussione con Barnaba.
C’è anche un altro uso del verbo, là dove Paolo, nella prima lettera ai Corinti, descrive le qualità della carità: la carità « ou paroxunetai » (1 Cor 13, 5), non si adira, non giunge a questi eccessi di irritazione.
È interessante pensare che forse Paolo fa qui un giudizio su se stesso perché lui stesso è arrivato a quell’eccesso e non era stato capace di frenarsi nella discussione con Barnaba.

È naturale chiederci se un punto di vista diverso a proposito di un collaboratore possa giustificare una rottura così drammatica; o se in realtà sia stato solo un pretesto. Non c’era dietro qualcosa di più? Non ci poteva essere, dal punto di vista psicologico, quel crescente imbarazzo su chi doveva essere il capo missione tra Paolo e Barnaba? Barnaba era l’uomo di grande autorità, che fin dai tempi di Gerusalemme era noto a tutta la Chiesa. Come poteva lasciare il posto a un uomo nuovo, che ancora molti non conoscevano, che a Gerusalemme era inviso, e per questo avrebbe magari screditato la figura della missione? Oppure motivi psicologici più profondi: Barnaba era a disagio nell’avere da una parte la responsabilità e accorgersi, d’altra parte, che in fondo era Paolo a prendere le decisioni. Paolo dal canto suo aveva l’imbarazzo opposto. Non possiamo sapere quanto questi elementi abbiano giocato nella decisione finale.
C’è un altro fatto: Paolo stava tirando la corda per la rottura con i giudaizzanti e Barnaba invece era l’uomo delle grandi amicizie con la Chiesa giudeo-cristiana e vedeva più opportuno non tirare troppo la corda, perché le conseguenze sarebbero state gravi. Barnaba già intravedeva la spaccatura con la Chiesa giudeocristiana, che poi è avvenuta, e avrebbe voluto a tutti i costi evitarla. Anche Paolo diceva a parole di volerla evitare, ma in realtà agiva in maniera da irritare ed esasperare gli avversari.
Pensiamo ancora al fatto di Pietro ad Antiochia: Paolo scriverà che Barnaba si è lasciato attirare dalla ipocrisia dei Giudei (cf. Gal 2, 11-14).
Ci è impossibile storicamente determinare cosa sia stato. Tuttavia, dobbiamo concludere che quella lacerazione è stata molto dolorosa e drammatica per entrambi.

Con quali conseguenze?

Una conseguenza paradossale, dal punto di vista dell’incontro tra le persone. Paolo che aveva goduto della fiducia di Barnaba e, grazie a questa fiducia, si era salvato ed era stato rimesso in circolazione, non riesce a dare fiducia a Barnaba per Marco.
La sofferenza di Barnaba è assai dolorosa: si sente respinto forse anche come amico, non per una volontà cattiva di Paolo, ma come conseguenza delle cose che stavano accadendo.
Barnaba, dopo questo episodio, scompare. Un gigante della Chiesa primitiva, ad un certo punto, non lascia quasi più traccia di sé. Lo ricorda ancora Paolo come una persona che si conosceva e che aveva buona reputazione (cf. 1 Cor 9,6), e un’altra volta, in modo indiretto che sembra riparatorio: «Vi salutano Aristarco, mio compagno di carcere, e Marco, il cugino di Barnaba, riguardo al quale avete ricevuto istruzioni; se verrà da voi, fategli buona accoglienza» (Col 4, lO). Paolo si è riconciliato con Marco e, menzionandolo come cugino di Barnaba, pare voler dire: «quello che io non avevo accolto un tempo ».
Al di fuori di questi brevissimi ricordi, di Barnaba sappiamo solo quel poco che ci dice la tradizione. Rinchiusosi a Cipro, non ha più fatto grandi viaggi missionari, ma, ritornato in patria, vi è rimasto. Tutta la sua enorme capacità si è ridotta entro un limite ristretto.

Un testo su S. Paolo sempre classico, anche se di qualche anno fa, è quello dello Hollzner: «L’Apostolo Paolo ». L’autore riflette sui fatti narrati e dice: «Guardando le cose da un punto di vista umano forse l’atteggiamento di Barnaba ci potrebbe apparire il più simpatico, mentre Paolo avrebbe giudicato con troppa severità il giovane Marco. Anche di fronte a Barnaba egli ci può apparire duro e quasi ingiusto: doveva pur nutrire verso di lui della riconoscenza per il suo intervento che lo aveva tratto dall’ombra ». E più avanti: «Il suo spirito doveva progredire di conoscenza in conoscenza, passo passo e così la sua totale immedesimazione col Cristo avveniva per gradi successivi ». E qui cita un altro autore tedesco che scrisse una vita di Paolo e che commenta così: «Non pervenne Paolo sempre a rendersi padrone del tempestoso palpito del suo cuore; riuscì a uno soltanto di camminare sulla terra senza raccogliere nemmeno un granello della sua polvere, a colui che non aveva nessun peccaminoso legame di natura con Adamo ». Poi conclude: «È sempre cosa dolorosa lo spezzarsi di una antica e santa amicizia e quanto più profondo era il vincolo tanto più riesce doloroso il distacco ». « Quante volte avrà rievocato il tempo in cui Barnaba era il solo che credeva in lui, mentre tutti ne diffidavano, specialmente il giorno indimenticabile nel quale egli si era portato a Tarso per cercarlo, e quella notte quando a Listra, Barnaba, con l’animo pieno di angoscia si era chinato piangente sull’amico che credeva morto. Non si lacerano simili legami senza che il cuore ne sanguini».

Chi aveva ragione? Il tempo ha dato ragione a Barnaba; tuttavia gli eventi si sono svolti così e, da un certo punto, ciascuno ha dovuto adattarsi alla nuova situazione.
Potremmo fare ancora una riflessione e dire cosa sarebbe stato per la Chiesa primitiva se i due non si fossero separati. Forse Barnaba avrebbe operato da mediatore e da moderatore e le Chiese giudeo-cristiane non sarebbero giunte alla rottura a cui giunsero. È difficile fare delle ipotesi su ciò che non è avvenuto. Tuttavia è probabile che, in seguito, Paolo abbia più volte rimpianto la capacità mediatrice, l’affabilità, il senso della misura di Barnaba, che in parecchie situazioni avrebbe contribuito a chiarire le cose. Eppure l’Apostolo ha dovuto camminare per questa via, in fondo senza aver nulla da rimproverarsi, oppure ben poco, perché era venuta fuori un’esasperazione senza che nessuno capisse bene cosa stesse accadendo.
Negli anni successivi Paolo imparerà a convivere con queste difficoltà e con questi problemi.

Come Paolo ha vissuto la rottura

Paolo ha vissuto questa rottura certamente con sofferenza, sentendo il peso della solitudine. E anche questo evento gli ha fatto approfondire sempre meglio l’intuizione fondamentale della prima visione di Damasco. Il Signore è il solo amico perfetto, di sempre, il solo fedele, il solo che capisce .fino in fondo, che non ci abbandona mai.
Comprendendo l’animo affettuoso e vulcanico di Paolo, possiamo intuire come si sia chiarito in lui quell’amore personale per Cristo, amato fino in fondo, in maniera tenerissima, ardente, che lo caratterizzerà sempre più. Ancora oggi leggiamo con stupore le frasi meravigliose delle sue lettere che non possono essere nate se non da un travaglio di sofferenza, dall’aver capito che il Signore è davvero tutto. Lui ci ha fatto e ci conosce fino in fondo; le amicizie umane, per belle e grandi che siano, impallidiscono di fronte alla forza della « conoscenza di Cristo nostro Signore» .
«Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3, 8-11). « Per me vivere è Cristo» (Fil 1, 21). Cristo è divenuto l’inseparabile e per questo potrà scrivere nella lettera ai Romani: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? » (Rm 8, 35). Di fronte a qualunque possibile infedeltà egli mi amerà ancora e mi chiamerà a sé.

Attraverso vicende diverse, non tutte chiare e limpide come noi vorremmo, Paolo gradualmente viene condotto dalla misericordia di Dio a concentrare sempre di più la sua attenzione dall’impresa apostolica come impresa sua, verso l’impresa apostolica come impresa di Dio, dal Regno di Dio verso il Re Gesù Signore.
Matura in lui l’identificazione del Regno di Cristo con Cristo stesso: era stato il faticoso cammino che Gesù aveva fatto seguire agli apostoli durante tutta la sua vita e che ci è presentato, in particolare, dal Vangelo di Marco. Nella prima parte, Gesù è il grande guaritore, il taumaturgo, l’uomo la cui opera entusiasma. Nella seconda parte si rivela il mistero messianico: Gesù stesso è il Regno, Gesù nella sua morte e nella sua risurrezione è la pienezza del Regno.

Paolo ha capito che l’essenziale per lui è Cristo: tutto il resto che egli fa, opera, predica con tutto l’entusiasmo di cui è capace non è se non Cristo che vive in lui. La sua inseparabilità da Cristo è la radice di tutto.
Egli è colui nel quale ogni altra amicizia acquista senso, significato, bellezza. L’Apostolo ritornerà spesso sul tema dell’amicizia con i suoi, con la comunità, con i collaboratori, perché certamente sapeva anche collaborare, pur avendo momenti così difficili. Ma ritroverà sempre meglio questa bontà profonda a partire dall’esperienza che non delude: l’amicizia piena col Cristo che è la sua vita.

Chiediamo anche noi che, attraverso le vicende del cammino apostolico, la nostra esperienza pastorale ci si chiarisca sempre più come dipendente dall’amicizia con Cristo nostra vita.

05 -LE CONFESSIONI DI PAOLO – Esame di coscienza pastorale – C.M. Martini

Esame di coscienza pastorale

A questo punto del corso di Esercizi, tutti, più o meno, ci disponiamo per fare la confessione sacramentale. Tenendo conto dell’importanza dell’argomento, riprendo brevemente alcuni punti secondo lo schema che parte da una riflessione sul nuovo « ordo paenitentiae ». È uno schema suddiviso in tre parti:

- «confessio laudis »,
- «confessio vitae »,
- «confessio fìdei ».

- Confessio laudis. Occorre iniziare la confessione con un atto di ringraziamento, rispondendo alla domanda: di che cosa devo ringraziare Dio principalmente in questo tempo?

- Confessio vitae. Si tratta di rispondere alle domande: «Che cosa in me vorrei che non fosse stato davanti a Dio? Che cosa mi pesa maggiormente in questo momento? ». La risposta va estesa dalle mancanze agli atteggiamenti interiori da cui le mancanze derivano: antipatie, risentimenti, sospetti, delusioni, amarezze; cose tutte che forse non costituiscono un peccato vero e proprio ma sono la radice ordinaria dei peccati. Messe con umiltà davanti a Dio e alla Chiesa, ci danno la possibilità di lasciarci medicare dalla grazia.

Confessio fidei. È la certezza che Dio, nel suo amore, mi accoglie e mi risana. L’atto di dolore diventa allora una manifestazione di fede.

La meditazione che ha come titolo « esame di coscienza pastorale », sarà un’ulteriore riflessione su come Paolo ha vissuto i diciannove anni dopo la conversione. Avremo in tal modo materia abbondante per prepararci alla confessione sacramentale.

Signore Gesù, tu sai quanto desideriamo servirti e come ci sentiamo spinti dallo Spirito nell’impegno pastorale. Conosci che spesso, in questo servizio, siamo presi da dubbi, da timori e ci domandiamo se ciò che stiamo facendo è veramente importante, se lo facciamo nel modo migliore. Ti chiediamo, Signore Gesù, pastore supremo del gregge della Chiesa, Vescovo delle nostre anime, di illuminarci perché in ogni cosa imitiamo te pastore, e imitiamo Paolo pastore del tuo gregge.
Medica il nostro cuore da ciò che lo turba e gli impedisce di comprendere le parole dell’ Apostolo. Fa’ che, dimenticando le nostre pesantezze, possiamo cogliere con animo libero il senso di quelle parole e la verità di amore e di salvezza che racchiudono. Tu vedi che non sappiamo esprimere queste realtà e non sappiamo comprenderle se tu non ci illumini nello spirito, nella mente e nella parola. Lo chiediamo a te, Signore Gesù, che con il Padre e lo Spirito Santo vivi e regni in eterno per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Partiamo dalle prime battute del discorso di Paolo a Mileto. Quel discorso corrisponde un po’ a quello che stiamo facendo noi in questi Esercizi. Molto prima di noi l’evangelista Luca, nel libro degli Atti, riferendo le parole di Paolo a Mileto, ha cercato di richiamare i punti che l’Apostolo avrebbe avuto maggiormente a cuore ricordando il suo passato in relazione ad una comunità.
Questo discorso che si chiama anche il « testamento pastorale di Paolo », oppure il « discorso di addio », è un capolavoro insuperato.
Come discorso di addio si colloca nella linea di tanti simili discorsi di addio che la Scrittura ci presenta: il cap. 49 della Genesi con il discorso di addio di Giacobbe ai suoi figli; il Deuteronomio con i discorsi di addio di Mosè; gli ultimi due capitoli di Giosuè, 23 e 24, con il testamento di Giosuè; e così via per Samuele, Davide, Tobia, Mattatia. Gesù stesso, nell’ultima cena (Gv 13-17), fa un lungo discorso di addio che è anche uno sguardo retrospettivo alla sua vita. Il discorso di Paolo si colloca in questa linea.
È interessante notare che il Nuovo Testamento ci dà soltanto due discorsi conclusivi: di Gesù e di Paolo. In tal modo sottolinea l’importanza di queste due figure.

Il testamento di Paolo è impostato, dal punto di vista di analisi logica, sul rapporto io-voi: io mi sono comportato…; voi sapete…; io vado a Gerusalemme…; voi non vedrete più il mio volto…
Un linguaggio come questo non gli è abituale: nel discorso ad Antiochia di Pisidia, il soggetto è sempre Dio, ciò che Dio ha fatto. Per questo, appunto, il discorso di Mileto è un discorso pastorale in cui Paolo riflette sui rapporti fra sé e coloro che per tre anni egli ha guidato nella via di Dio.
È quindi adattissimo per un esame di coscienza pastorale. Qui scorgiamo le cose che a Paolo sono sembrate importanti, quelle che più hanno caratterizzato la sua azione verso la comunità.
Con questo spirito cerchiamo di approfondire il discorso. Non potendo medi tarlo tutto, mi limito ad un esempio di analisi del primo versetto e mi servo di un libro molto bello: «Il testamento pastorale di San Paolo », di Jacques Dupont. È un commento ricchissimo di riflessioni su questo testo pastorale fondamentale del Nuovo Testamento.
Il metodo con cui il Dupont procede è molto semplice: prende le singole parole, le soppesa attentamente, lungamente, rimettendole nella luce della storia di Paolo e di tutte le affermazioni simili che si trovano nelle lettere. In questo modo si riesce a cogliere il discorso come sintesi della pastoralità paolina e del suo modo di riferirsi alle comunità.

Il versetto su cui ci soffermeremo: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime» (At 20, 19) sottolinea un atteggiamento pastorale importante per la Chiesa di tutti i tempi.

«Essere con»

Con le parole introduttive del discorso Paolo abbraccia in sintesi il suo ministero di circa tre anni ad Efeso: «Voi sapete come mi sono comportato con voi fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia e per tutto questo tempo» (v. 18). E lo abbraccia con una formula che rimanda immediatamente il gioco agli uditori. Non ha bisogno di descrivere prima di tutto se stesso; si riferisce all’esperienza che gli altri hanno fatto.
Fin da questa battuta introduttiva, comprendiamo che Paolo si sente uno con la sua comunità, si sente conosciuto, familiare. Non deve raccontare niente perché: «Voi sapete, mi avete visto, sono stato con voi ». Il suo ministero si può riassumere con: «è uno che è stato fra la gente », uno che la gente conosce, di cui sa tutto, e può renderne testimonianza.
È un ministero fondato sull’« essere con», sul comunicare, sul convivere. Paolo sa benissimo che guardavano a lui come ad un esempio e sente perfettamente la responsabilità non soltanto delle parole che ha detto, ma di ciò che ha fatto. Non: «voi ricordate ciò che vi ho detto in questi anni… », ma: «voi sapete come mi sono comportato ». La gente ha guardato a ciò che lui era, a come viveva, prima ancora di giudicare se le sue parole erano interessanti, belle, vere, pratiche.
E lui si è comportato servendo.

«Ho servito il Signore»

Il suo modo di essere nella comunità è definito con: « Ho servito il Signore, tra le lacrime, in tutta umiltà ». Servire il Signore è la prima realtà. Paolo si vede, e sa che gli altri lo vedono prima di tutto come un servitore di Cristo e non come un servitore della comunità. Questa qualifica caratterizza il suo attaccamento a Cristo e la sua libertà verso la comunità. Talora, noi parliamo del ministero come un « servizio» e lo intendiamo come un « servire la Chiesa », la diocesi, la gente. Il Nuovo Testamento parla di servizio e di servo in rapporto a Cristo Gesù. È vero che in qualche occasione Paolo dice: «Sono servo vostro per Cristo» (Gal 5, 13), ma ordinariamente è « servitore di Cristo».
Quindi il pastore deve vivere primariamente a servizio della persona di Cristo. Soltanto così può servire la Chiesa, la gente, il popolo.
Stupenda questa libertà che Paolo vive: non deve niente a nessuno se non a Cristo; e attraverso lui, poi, a tutti. Non deve piacere a nessuno, non deve rispondere a nessuno, se non a Cristo e la comunità sa benissimo che lui non è lì per piacere, per accontentare, per rispondere alle attese, ma è lì per servire Cristo.

«Tra le lacrime»

Se avessimo dovuto completare noi la frase, avremmo aggiunto: con zelo, con fervore, con intelligenza, con coraggio, con competenza, con perseveranza.
La sua esperienza gliene fa dire altre: «tra le lacrime, con tutta umiltà». Rimaniamo stupiti davanti ad una sottolineatura che appare negativa e ce ne chiediamo il perché.
Indubbiamente c’è da considerare che è un discorso di addio. Ed è un addio che non lo porta verso una nuova missione importante. Ciò che lo attende è chiaramente la persecuzione e le sofferenze. È un saluto pieno di nostalgia e che giustamente fa emergere elementi di sofferenze già vissute e che preludono a quelle future.
Al di là di questo bisogna però dire che, se emergono l’umiltà e le lacrime come modo di servire il Signore, vuol dire che questa era l’esperienza di Paolo, che nella sua vita risaltavano umiltà, lacrime, prove, insidie, difficoltà.
Si presenta come si sente: l’Apostolo mentirebbe, in questo caso, se sottolineasse elementi che non gli sono così presenti al cuore e allo spirito.
Proviamo a pensare attentamente alla sua azione apostolica ad Efeso, per meglio capire il senso della sua umiltà e delle lacrime. Di lacrime parla molte altre volte: è un tema che ricorre sia nel discorso di Mileto, che nelle lettere. Ritorna nel testo degli Atti: « Vigilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime ciascuno di voi» (v. 31). Sono lacrime versate nello sforzo affettuoso, amoroso e insistente di convincere qualcuno.
Dalle lettere possiamo citare: «Vi ho scritto in un momento di grande afflizione e col cuore angosciato, tra molte lacrime» (2 Cor 2, 4). È un’esperienza-limite quella delle lacrime, per Paolo. Non sembra che fosse un uomo facile al pianto, eppure si trovava in situazioni di tale tensione, di tali violente difficoltà, di tali amarezze e delusioni che scoppiava in pianto sia parlando con la gente, sia scrivendo.

Tutto questo fa vedere l’intensità emotiva con cui Paolo viveva la sua missione pastorale. Esattamente l’opposto del funzionario, del burocrate, del programmatore intelligente.
Paolo è un uomo di intensissima partecipazione emotiva, che ha evidentemente riscontro nelle profondissime gioie. Proprio perché partecipava cosi emotivamente alle sofferenze del suo ministero poteva avere delle gioie e degli entusiasmi grandiosi di cui parla ancora più spesso nelle sue lettere.
Scriveva: «Quale ringraziamento possiamo rendere a Dio riguardo a voi, per tutta la gioia che proviamo a causa vostra davanti al nostro Dio? » (1 Ts 3, 9). Le intense sofferenze sono compensate da gioie profondissime, da entusiasmi straordinari: «Sono molto franco con voi e ho molto da vantarmi di voi. Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione» (2 Cor 7, 4). Sono cosi contento di voi che le sofferenze non le sento più se penso alla vostra corrispondenza, al vostro affetto e alla vostra fede. Tutti sappiamo cosa significano queste esperienze: chi ama molto, soffre molto, gode molto; chi ama poco, soffre meno e gioisce meno.

L’immagine del pastore che Paolo ci dà, in queste prime battute, è di un uomo profondamente, affettivamente, emotivamente coinvolto in ciò che fa. Ama moltissimo la gente e non con un amore generico: ha presente i nomi, le situazioni personali, di famiglia, di lavoro, di malattia. Uno per uno quei cristiani gli stanno davanti, conosciuti, uno per uno sono fonte di amarezza, di tristezza, di lacrime oppure di gioia intensa.
Ecco il senso del suo aver servito il Signore tra le lacrime.

«Con tutta umiltà»

Anche qui vogliamo capire come mai tra le mille altre qualifiche del suo ministero Paolo sceglie questa, sottolineandola come fondamentale atteggiamento pastorale.
Il termine greco con cui si esprime può essere inteso « in ogni genere di umiliazione », con riferimento non all’atteggiamento ma alle situazioni. Cosi va inteso nel Magnificat là dove Maria dice: «Il Signore ha guardato all’umiltà della sua serva ». Indica l’insignificanza, l’abiezione, la piccolezza, il non contare nulla, e non la virtù dell’umiltà. Ma mentre nel Magnificat il vocabolo greco è esattamente «tapéinosis », qui è « tapeinofrosune »: sentimento di umiltà. Paolo qui si riferisce all’atteggiamento di umiltà con cui ha servito il Signore nell’attività pastorale. Umiltà è una parola che ripetiamo mille volte, ma di cui non è sempre facile cogliere tutte le implicazioni che ha per l’Apostolo.
In senso generale si potrebbe dire che l’umiltà è l’opposto di ciò che è detto nel Magnificat: «Dio ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore ». I superbi sono quelli che credono di essere qualcuno, che hanno di sé un concetto così alto da fame quasi una ragione di vita, per cui gli altri devono piegarsi al loro servizio, e neppure vanno ringraziati perché fanno ciò che è dovuto. È l’atteggiamento che Paolo stigmatizza altre volte nelle sue lettere. Ad esempio scrivendo ai Romani: «Non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12, 16). L’atteggiamento umile è quello di chi non si gonfia e non si illude.
È importante riflettere su questo atteggiamento di non-sapere: esso è utile sempre, ma è indispensabile soprattutto nel rapporto con Dio. Infatti « noi non sappiamo neanche pregare, non sappiamo neanche cosa chiedere» (cf. Rm 8, 26).
Spesso non riusciamo a pregare bene perché incominciamo con la presunzione di saper pregare, mentre dovremmo partire sempre confessando: «Signore, non so pregare; so di non sapere pregare ». Già questa è preghiera, perché fa posto allo Spirito che dobbiamo chiedere.
L’umiltà come atteggiamento che qualifica l’attività pastorale di Paolo si può descrivere secondo tre aspetti:

- aspetto sociale: un modo di comportarsi;
- aspetto personale: una certa coscienza di sé;
- aspetto teologale: un certo rapporto verso Dio.

a) L’aspetto sociale è da una parte assenza di pretese e, dall’altra, attenzione agli altri. «Ho cercato di essere tra voi senza pretese, non pretendendo per me niente di speciale, ma stando molto attento a ciascuno di voi », direbbe Paolo.
Si descrive così anche nella prima lettera ai Tessalonicesi, dando uno sguardo retrospettivo al suo rapporto con la comunità: «Come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo, così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità di apostoli di Cristo. Invece siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi, avremmo desiderato darvi non solo il Vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1 Ts 2, 4-8).
L’umiltà è socievolezza senza pretese, colma di affetto, di attenzione, amorevolezza, prevenienza. Paolo sente che, per grazia di Dio, è stato così e che il suo modo di essere è modello per ogni pastore. L’umiltà come virtù sociale comporta anche distinzione, correttezza, un certo riserbo, un’educazione profonda, finezza sacerdotale che conquista il cuore, perché non è espressione semplicemente di un’affettazione esteriore. Niente commuove di più le persone che sanno di contare poco nella società, che il vedersi trattate con estremo rispetto e con grande valorizzazione di ciò che sono. I cristiani di Paolo erano in gran parte schiavi, abituati ad essere maltrattati, presi in giro, disprezzati, trascurati, e possiamo immaginare cosa volesse dire per loro sentirsi rispettati e sinceramente amati. Come doveva sconvolgerli il metodo apostolico di Paolo!

b) L’aspetto personale è un giudizio di valore semplice dato su di sé. Paolo ritorna diverse volte su questa capacità di valutarsi giustamente e secondo ciò che le nostre debolezze e fragilità ci fanno comprendere.
Nella prima lettera ai Corinti parla della apparizione di Gesù a lui: «Ultimo fra tutti apparve anche a me. lo sono l’infimo degli apostoli, non sono degno di essere chiamato apostolo» (1 Cor 15, 8-9). Lo dice con verità e con sincerità: non è affettazione, è chiarezza di giudizio su di sé.
E questo giudizio, è una maniera di comportamento che ha acquisito attraverso la scuola della vita, che gli ha fatto conoscere la sua fragilità e povertà. Ha imparato a pensare di sé in maniera umile, distaccata, tranquilla, senza colpevolizzarsi, con pace.
«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in Asia ci ha colpito oltre misura, aldilà delle nostre forze, si da dubitare anche della vita. Abbiamo addirittura ricevuto su di noi la sentenza di morte per imparare a non riporre fiducia in noi stessi, ma nel Dio che risuscita i morti» (2 Cor 1, 8-9). Ci stupisce un apostolo che parla di sé in quèsto modo, a rischio quasi di scandalizzare.
L’umiltà personale, venendo da una storia vissuta, difficilmente può averla un giovane. Magari avrà meditato queste cose, ma non potrà sentirle come naturali, perché non è passato per quella scuola di prove e di esperienza della propria debolezza che ci mettono al posto giusto e ci liberano da ogni presunzione.
È doloroso vedere come a volte passiamo per queste prove senza saperle vivere. Se Paolo di fronte alle tribolazioni che gli sono venute in Asia si fosse messo ad imprecare contro tutto e tutti, invece di riconoscere la propria debolezza e fragilità, non avrebbe tratto alcun profitto dalla prova. Invece si è formato come vero pastore perché ha saputo accogliere dal dolore quella umiltà vissuta, che poi espresse nella sua vita.

c) Aspetto teologale. Paolo si esprime cosi perché vive profondamente la sua verità davanti a Dio: «Chi dunque ti ha dato questo privilegio? Che cosa mai possiedi che tu non l’abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché te ne vanti come non l’avessi ricevuto? » (1 Cor 4, 7). Al fondo dell’atteggiamento di umiltà, che è uno dei segreti della sua capacità di conquistare la gente, stava un senso profondo di Dio ‘creatore, padrone, signore, misericordioso, datore di ogni bene. Di fronte a Lui Paolo è un povero peccatore che riceve grazia, misericordia, salvezza. La stessa Parola è Parola di Dio, non di Paolo: a lui è stata data nella misura del dono di Cristo. Lo stesso zelo apostolico non è di Paolo, ma gli è stato dato da Cristo che vive in lui.
Questa umiltà è trasparenza del divino che vive in lui, una trasparenza cristologica, di Cristo come lui l’ha conosciuto e capito, di Cristo Servo di Jahvè, di Cristo umile, umiliato, che non ha scelto di primeggiare, di buttarsi dal pinnacolo del tempio per fare scalpore, di cambiare le pietre in pane, di dominare sui regni della terra, ma che ha scelto di essere servo di tutti.
L’umiltà di Paolo è quella di Cristo che egli ha recepito e che esprime lasciandolo vivere in sé.
Per questo egli può presentarla come l’atteggiamento fondamentale di chi serve il Signore, così come il Signore ha servito. Cristo ha servito con tutta umiltà e il suo servo sceglie la sua stessa via esercitando l’autorità con l’umiltà, la mansuetudine e la mitezza del Maestro.
Questa è certamente una delle caratteristiche che distinguono radicalmente il potere pastorale da quello politico. Il potere pastorale è fondato sulla mitezza di Cristo e proprio per questo può assumere, come in Paolo, anche atteggiamenti duri, taglienti, risoluti, basati non sulla pretesa di difendere la propria personalità ma sulla mitezza e l’umiltà di Cristo che sa prendere posizione di fronte alla vita.
Ciascuno di noi deve meditare profondamente, con la coscienza che siamo molto lontani da questo ideale. Istintivamente il personalismo interviene tutte le volte che è in gioco il potere e noi siamo continuamente tentati di inserire nel servizio del Signore il nostro prestigio personale.
Abbiamo bisogno di essere purificati sull’esempio dell’Apostolo e soprattutto di essere purificati dalla forza di Cristo in noi.

Chiediamo per intercessione di Maria, di cui Dio ha guardato l’umiltà, di saper seguire Cristo come Paolo lo ha saputo seguire, con la coscienza che è un compito arduo e che siamo lontani da questa meta.
Con la grazia di Dio cerchiamo di metterci di fronte ad essa, di riconoscere le nostre mancanze, di chiedere che la potenza di Cristo, che vive in noi, ci renda simili a lui.

04 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – Conversione e delusione – C.M. Martini

Conversione e delusione

Ci proponiamo di riflettere su come Paolo ha vissuto il periodo che comprende circa dieci anni dall’evento di Damasco. Se collochiamo l’incontro di Damasco verso l’anno 34-35 arriviamo fino al 45-46, che segna l’inizio della prima missione dell’ Apostolo veramente riuscita, a Cipro ed in Asia Minore.
Sono dieci anni di esistenza oscura e difficile.
Paolo non ne parla molto, forse anche per un certo pudore, perché dovrebbe dire delle cose spiacevoli verso la comunità che l’ha accolto: qua e là, però, qualcosa trapela.
Teniamo poi presente che egli incomincia a scrivere dopo 13-14 anni dall’esperienza di Damasco, quando ha ormai raggiunto la maturità e la pienezza del Mistero di Cristo che aveva visto.
Vogliamo capire cosa è successo, perché rappresenta un tipico approfondimento doloroso e insieme costruttivo della conversione fondamentale.

Signore, tu tieni in mano ogni cosa. Tu hai tenuto in mano la vita di Paolo in maniera aperta e grandiosa dal momento della sua conversione. Tu non l’hai mai abbandonato anche nei momenti difficili in cui egli forse non sapeva che cosa gli stava succedendo. Tu ti sei manifestato a lui con amore misericordioso forse proprio là dove stava per abbandonare il ministero. Donaci di comprendere la tua misericordia su di noi perché possiamo, con fiducia, accettare la tua guida, credere nel significato provvidenziale di ciò che è avvenuto e avviene nella nostra esistenza cristiana e sacerdotale. A gloria tua, nella forza dello Spirito, per intercessione di Maria e di tutti i Santi. Amen.

Per la nostra riflessione:
- prima leggeremo i testi;
- poi ci domanderemo qual è la storia che si può ricavare da questi testi;
- in un terzo momento vedremo quali sono le motivazioni dietro la storia;
- ci chiederemo qual è stata l’esperienza di Paolo in quei dieci anni;

- infine concluderemo con una parola su di noi.

I testi

« Rimase alcuni giorni insieme ai discepoli a Damasco, e subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Figlio di Dio. Tutti quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?”. Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo. Trascorsero cosi parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo. Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta. Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Cosi egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso. La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria» (At 9, 19-31).
Già qui si potrebbe notare, un po’ maliziosamente, anche se non è nell’intenzione del testo, che, partito Paolo per Tarso, la Chiesa è in pace; si è tolta di mezzo una persona che creava scompiglio e disturbo.

Un altro testo interessante lo troviamo nella lettera ai Galati: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre… si compiacque di rivelare a me suo Figlio… senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
In seguito, dopo tre anni, andai a Gerusalemme per consultare Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo, il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo, io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia. Ma ero sconosciuto personalmente alle Chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: “Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere”. E glorificavano Dio a causa mia.
Dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito» (Gal 1, 15 – 2,1). È un’altra serie di fatti.

Per analogia con questi quattordici anni, aggiungiamo un altro testo: «Bisogna vantarsi? Ma ciò non conviene! Pur tuttavia verrò alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo in Cristo che, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò fuorché delle mie debolezze» (2 Cor 12, 1-5).

Paolo è molto rispettoso nel descrivere l’atmosfera di questi anni, ma qualche volta si scatena. Come, ad esempio, nella lettera ai Filippesi, là dove, ritrovandosi in situazione analoga a quelle già vissute, dice: «Guardatevi dai cani, guardatevi dai cattivi operai, guardatevi da quelli che si fanno circoncidere! Siamo infatti noi i veri circoncisi, noi che rendiamo il culto mossi dallo Spirito di Dio e ci gloriamo in Gesù Cristo, senza avere fiducia nella carne, sebbene io possa confidare anche nella carne» (Fil 3, 2-4). Ritornano alcune frasi della lettera ai Galati che fanno pensare ad un collegamento delle emozioni di quel tempo.

La storia dei fatti

Cosa è avvenuto in realtà? Alcuni fatti sono abbastanza evidenti. Dopo la conversione, Paolo comincia a predicare, probabilmente non abitando sempre a Damasco; e qui c’è la sua permanenza in Arabia, forse nei dintorni delle città presso popolazioni arabe, perché la sua presenza non era tanto gradita.
Ad un certo punto le autorità si preoccupano e suscitano una tale opposizione che deve fuggire. Non si legge che la comunità lo abbia né sostenuto né richiamato: rappresentava un fattore di disturbo, anche se lo ammiravano per il suo zelo.
Dopo questa fuga non si ricorda più che sia ritornato a Damasco o abbia di nuovo coltivato quel gruppo di discepoli.
A Gerusalemme succede un po’ la stessa cosa: non dei pericoli clamorosi come quelli di Damasco, e quindi non una fuga cosi avventurosa. Però la sua predicazione diventa via via troppo vistosa, i fratelli si preoccupano di lui e lo riportano in patria. In altre parole, viene ringraziato e rimandato.

Ai due eventi di Damasco e di Gerusalemme segue un periodo di assoluta solitudine in patria e di sconforto. Lo si deduce dal fatto che questo tempo termina con la grande visione di cui parla la seconda lettera ai Corinti, che si può considerare come una ripresa che il Signore fa della prima apparizione di Damasco. La nuova visione della gloria di Dio, della quale forse era stato tentato di dubitare, chiude: un periodo di solitudine e di amarezza.

Riassumendo, i dieci anni dalla prima conversione sono stati anni di difficoltà, di scontri, di disagi provocati dal suo modo troppo focoso di predicare, dal suo esporsi eccessivamente. Sono stati anche anni di solitudine, di silenzio, di sconforto.
Quando Paolo racconta queste cose, le vive ormai nella pienezza del suo secondo ministero, e quindi non vi indugia più.
È interessante notare questa sequenza dei quattordici anni che viene ripetuta due volte. Il primo doppio settenario va dalla conversione alla seconda visita a Gerusalemme.
L’altro doppio settenario è quello indicato nella seconda lettera ai Corinti: tra il momento della visione e il momento in cui scrive la lettera. Mentre scrive, la sua vita gli appare come due periodi sabbatici. Gli Ebrei, infatti, solevano, a quel tempo, calcolare anche gli eventi e la vita secondo un ciclo settenario che corrispondeva al periodo che si concludeva con l’anno sabbatico.
Dopo ventotto anni dalla conversione, Paolo ha imparato a calcolare la vita secondo un ritmo sacro: ha già visto in una luce provvidenziale ciò che gli è avvenuto e si è addirittura accorto che questo coincideva con il computo sacro del tempo. Ma mentre viveva quei periodi intermedi, non aveva ancora la chiarezza del perché la sua vita si svolgesse così.
La storia dei dieci anni dopo Damasco (che copre l’arco dell’età di Paolo dai 25-30 anni ai 35-40 anni) possiamo ricostruirla, dunque, come disagio a Damasco, incomprensione a Gerusalemme, momenti di solitudine e di sconforto.

Le motivazioni dei fatti

Ci chiediamo: durante questo tempo c’è in Paolo qualcosa che non ha girato bene, oppure tutta la colpa è degli altri che non l’hanno capito, l’hanno osteggiato, non l’hanno difeso, hanno preferito disfarsi di lui, non l’hanno saputo valorizzare? Probabilmente, come in ogni cosa umana, il torto sta da entrambe le parti.
È vero che soprattutto i giudeo-cristiani, legati ad una visione angusta dell’apostolato, con molte paure e molte riserve, non l’hanno capito, non l’hanno saputo valorizzare nel timore che il suo modo di agire producesse più danno che vantaggio. Gli avversari poi si sono scagliati contro di lui perché intuivano che era un uomo-chiave. Dai primi e dai secondi, con quegli accordi taciti che talora avvengono, Paolo è stato eliminato.

Al di là di questo, però, io penso che Paolo stesso, interrogato, confesserebbe che qualcosa anche in lui non ha girato del tutto bene. Gli è accaduto ciò che avviene nelle conversioni grandi e rapide, in cui tutto appare nella luce migliore e più pura, e il motivo della conversione non è un cambiamento di bandiera o di campo, ma è la nuova visione della vita che in Gesù gli si presenta: è il totalmente altro, è l’opera di Dio.
Ma quando poi si tratta di riprendere la vita quotidiana, l’uomo si ritrova se stesso, e Paolo si butta nella nuova missione con lo stesso entusiasmo con cui si era buttato in quella precedente, trasferisce il suo zelo da un campo all’altro e ritorna ad appassionarsi dell’opera come se fosse sua.
Allora il Signore permette un periodo di durissima prova di purificazione perché impari che la conversione non gli ha fatto cambiare oggetto di attività, ma ha formato in lui un altro modo di essere, un altro modo di vedere le cose, che deve macerare lentamente prima di integrarsi nella sua personalità.
Le idee erano chiare, le parole anche; però il modo istintivo di agire ritornava ad essere quello di prima.

Facendo queste reinterpretazioni stiamo forse parlando più di noi che di Paolo. Nel cammino della ricerca di Dio noi desideriamo chiarire sempre meglio le nostre motivazioni, ma sappiamo bene che ciò non va d’accordo con l’immediato cambiamento del nostro modo istintivo e possessivo di collocarci in rapporto alle cose e alle situazioni. Questa possessività si trasferisce dal campo materiale al campo spirituale, dal campo degli interessi economici a quello degli interessi dello spirito e ci ritroviamo sempre un po’ noi stessi, sempre bisognosi di purificazione continua, al di là delle parole che diciamo o dei bei concetti che formuliamo.

L’esperienza vissuta da Paolo

Possiamo, a questo punto, chiedere a Paolo: Come hai vissuto questi dieci anni? Che cosa è stata per te questa prova di solitudine e di emarginazione rispetto alla comunità? Che cosa pensavi a Tarso la sera, in riva al fiume,’ quando andavi a passeggiare là, solo, e nessuno ti conosceva e riandavi alla via di Damasco? Che cosa sono state le prime prediche a Gerusalemme mentre ti sentivi tanto lontano da quel mondo, e a un certo punto ti veniva quasi l’idea che tutto fosse stato un sogno? Come hai vissuto questa esperienza drammatica?
Paolo ci ricorda innanzi tutto che non è stato il primo a vivere questa esperienza.
Mosé, cacciato dall’Egitto e dimenticato dal suo popolo, molti secoli prima di lui ha vissuto nel deserto una simile esperienza. Anche Elia si è sentito abbandonato da tutti, è fuggito nel deserto, tremendamente solo.
Parlandoci dei suoi sentimenti, Paolo ci può dire che la prima reazione è stata certamente di indignazione, di rivalsa ed anche di risentimento. Perché perdere le forze e la vita per gente che tratta male, per una Chiesa e per dei cosiddetti fratelli che non ne vogliono sapere? È un risentimento che cova dentro, che non lascia in pace e che alla fine – come sempre accade – diventa anche risentimento contro Dio. Perché Cristo mi ha chiamato con tante parole per poi ridurmi a lavorare nella mia bottega di T arso senza prospettive? C’è veramente un disegno di Dio sulla mia vita oppure sono sogni del passato? Che cosa volevano dire quelle parole che mi erano risuonate all’orecchio (le parole che riprenderà nel discorso ad Agrippa: «Ti sono apparso per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani» – At 26, 16-17)? Il risentimento contro Dio è la difficoltà ad accettare la provvidenza e il modo misterioso e incomprensibile dell’azione divina.

Paolo è passato – possiamo dire con certezza – per questi momenti. Sono momenti attraverso i quali passano i santi. Nessun santo è stato risparmiato da questo travaglio interiore e quindi nemmeno l’Apostolo. Ma dopo l’indignazione e il risentimento, come succede con la grazia di Dio quando la prova viene macerata dentro, emerge la riflessione e nasce una domanda piccola ma capace di squarciare il nero di un cielo che non presenta aperture: «E se ci fosse anche qui una parola provvidenziale di Dio per me? ». Al termine dell’ora media, mi veniva in mente, ascoltando il brano biblico da Giobbe 5, 17-20, che una parola come questa può essere penetrata adagio adagio, quasi come una medicina, nel cuore di Paolo. « Felice l’uomo che è corretto da Dio: perciò tu non sdegnare la correzione dell’Onnipotente, perché egli fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana. Da sei tribolazioni ti libererà e alla settima non ti toccherà il male; nella carestia ti scamperà dalla morte e in guerra dal colpo della spada ».
Lui che certamente leggeva e rileggeva la Scrittura, viene medicato dalla Parola di Dio che anche qui attua la sua funzione di balsamo, di liberazione e di consolazione.
Riascoltandola, la riflessione diventa illuminazione e Paolo rientra in quella luminosa rivelazione che era stato l’incontro di Damasco. Vi rientra secondo due linee che appaiono dalle sue lettere.

a) Una linea è una riflessione escatologica che svilupperà nella 1 Corinti: «Fratelli, il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano come se non possedessero; quelli che usano del mondo come se non ne usassero appieno» (1 Cor 7, 29 ss.). Paolo ridimensiona il suo zelo appassionato, accorgendosi che si era legato a progetti immediati, mentre il Regno di Dio è al di là e al di sopra di tutto; che le cose per buone e interessanti che siano, passano, “ma è il Signore che rimane.

b) Una seconda linea è una illuminazione: l’opera è di Dio: è Dio che pone tempi e condizioni.
Si attua: per Paolo una seconda espropriazione di sé. La prima, quando aveva buttato dietro di sé i suoi privilegi di fariseo, di ebreo figlio di ebrei. La seconda espropriazione sta nel dover perdere ciò di cui poteva giustamente vantarsi: apostolo dalla parola facile, dal linguaggio persuasivo, focoso, violento, molto superiore alla timida espressione degli altri di Gerusalemme.

Paolo capisce che tutto questo è importante, ma l’opera è del Signore: «Chi sei tu per giudicare un servo che non è tuo? Stia in piedi o cada, ciò riguarda il suo padrone» (Rm 14, 4). Nelle nostre ipotesi le cose dovevano andare in un certo modo, però è il Signore che ha in mano l’opera: «Che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? » (1 Cor 3, 5). E prosegue: «Siamo ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. lo ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Non c’è differenza tra chi pianta e chi irriga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio» (1 Cor 3, 5-9). Non siete il « mio» campo, il « mio» edificio: è l’edificio di Dio.

Attraverso le esperienze dolorose Paolo giunge alla percezione molto semplice che Dio è il Signore e che il ministro di Dio si prepara liberando il cuore da tutto ciò che poteva essere successo proprio, divenendo strumento sempre più adatto nelle mani di Dio.
Nella visione del terzo cielo descritta nella seconda lettera ai Corinti, l’Apostolo comprende cose che non sappiamo perché non le abbia volute descrivere. Certamente riprende coscienza dell’assolutezza e della trascendenza indescrivibile del mistero di Dio che gli era diventato così vicino nell’apparizione del Cristo da sembrargli suo, mentre in realtà è al di là di ogni capacità umana di parlarne e di disporne.
È a questo punto che giunge a T arso la notizia che è arrivato Barnaba per dire a Paolo che, se vuole, ad Antiochia c’è una comunità giovane che lo desidera. Gli propone di andare con lui per cominciare a lavorare. È il secondo momento dell’attività apostolica. Egli riprende, in forma nuova, ciò che già dieci anni prima aveva iniziato con tanto zelo ma mettendoci dentro non poco di sé. Nel misterioso disegno di Dio, tutto questo aveva dovuto passare per il fuoco purificatore.

Una domanda per noi

Dopo aver cercato di interpretare la vicenda di Paolo nel suo esilio di Tarso, ci facciamo l’ultima domanda: il nostro zelo per chi è?
È difficile rispondere perché lo zelo è fondamentale nell’impegno apostolico; la parola stessa indica qualcosa che divora, che coinvolge. Proprio perché ci coinvolge tanto, corriamo il rischio della possessività.

- Quando ci siamo convertiti nella seconda maniera?

- Ci sono stati, nella nostra vita, momenti nei quali la prima conversione, la prima integrazione tranquilla delle realtà battesimali nella famiglia, nella parrocchia – pur senza indicare una conversione precisa -, è stata rimessa alla prova, magari in un’esperienza nella quale alcuni aspetti della nostra possessività apostolica sono stati vagliati, passati attraverso il setaccio e forse attraverso difficoltà che ei hanno notevolmente colpito?

- A prescindere da quando il Signore ei ha chiamati alla seconda conversione, qual è la qualità del nostro zelo?

Lo zelo autentico è quello che coinvolge profondamente senza mettere in questione noi stessi. Se siamo respinti o se non troviamo lo sbocco che desideriamo, ciò non deve diventare un problema personale che causa depressioni, sconforti e che porta al limite dell’abbandono o al limite della rassegnazione.
Tutto questo avviene, quasi sempre, perché siamo fatti in maniera che non possiamo buttarci in una cosa senza coinvolgerei in essa e non possiamo coinvolgerei storicamente senza che la nostra figura, anche personale e psicologica, vi sia dentro. Non possiamo vivere le vicende in cui l’opera di Dio si manifesta senza sentircene toccati e talora in maniera dolorosa. Ma è proprio lì che la Provvidenza ei attende e non per rimproverarci. Se Paolo è passato tra queste prove noi non siamo migliori di lui. Se lui si è sentito coinvolto nella propria immagine, capiterà anche a noi. Non ei viene detto di non aspettarci questo tempo: piuttosto, ei è detto che è un tempo provvidenziale, che è tempo di rivelazione del mistero di Dio, che è apparizione di Cristo sulla via di Damasco.
Non ci viene chiesto di essere invulnerabili ma di aprire gli occhi al disegno misericordioso di Dio. Come per Paolo c’è stata una via di misericordia, così anche per noi: in tutte le difficoltà, piccole o grandi, che il nostro coinvolgimento apostolico comporta, c’è una parola misericordiosa di salvezza.
La parola di Giobbe: «Dio ferisce e risana », prova che il Signore ei ama e ei purifica perché vuole fare di noi dei servitori adatti del Vangelo, interiormente liberi.

Chiediamo l’intercessione di Maria. Lei che fin dall’inizio ha vissuto questa libertà ma che ha dovuto integrarla alla sua vita attraverso la sofferenza, domandi al Signore di farei passare attraverso le prove senza che la nostra libertà interiore ne sia condizionata, diminuita, o mortificata. Il Signore ei purifichi e la nostra libertà sia pronta per riprendere ad Antiochia l’esperienza della nuova chiamata di Paolo.

03 – CONFESSIONI DI PAOLO…- LE TENEBRE DELL’UOMO PAOL – C.M.Martini

Le tenebre dell’uomo Paolo

Ci proponiamo in questa meditazione di approfondire un aspetto dell’evento di Damasco: «la cecità» che segue immediatamente la conversione. Le tenebre non soltanto del Paolo storico, ma di Paolo come uomo che vive questo momento di tenebra.
Il tema è difficile perché tocca le tenebre che sono in noi e che non vorremmo mai affrontare. È un tema penitenziale. Chiediamo la grazia dello Spirito Santo per entrarvi con verità e con apertura di cuore:

O Signore, tu ci scruti e ci conosci, sai quanto siamo incapaci di comprendere il tuo e il nostro mistero. Conosci la nostra incapacità a parlare di queste cose con verità. Ti chiediamo, o Padre, nel nome di Gesù: manda a noi il tuo Spirito che scruta le profondità dell’uomo, che sa ciò che c’è dentro di noi, perché ci renda capaci di conoscerci come siamo conosciuti da te nelle profondità del nostro male, con amore e con misericordia. Fa’ che noi guardiamo con occhio vero ciò che c’è in noi di peso, opacità e opposizione a te; fa’ che sappiamo guardarlo nella luce misericordiosa che viene dalla morte e risurrezione del tuo Figlio, Gesù Cristo nostro Signore, che con lo Spirito vive e regna con te per tutti i secoli. Amen.

È stato importante definire la conversione di Paolo come « rivelazione e illuminazione ». Ora ci domandiamo come mai dopo la conversione Paolo è cieco.
Questo fatto è sottolineato, con una certa enfasi, dal racconto degli Atti: «Saulo si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Cosi, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco, dove rimase tre giorni senza vedere e senza prendere né cibo né bevanda» (At 9, 8-9). Si direbbe che l’illuminazione di Cristo, invece di riempirlo di gioia, di luce, di chiarezza, lo abbatte, quasi gli fosse caduta addosso una grave malattia; è incapace a vedere, a nutrirsi, è bisognoso di essere condotto.
La stessa cosa viene ripresa più avanti: «E poiché non ci vedevo più, a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni, giunsi a Damasco» (At 22, Il). E acquistò la vista quando Anania gli si accostò dicendogli: «Saulo, fratello, torna a vedere! E in quell’istante io guardai verso di lui e riebbi la vista» (At 22, 13).

Perché Paolo è colpito da cecità dopo che gli è stato rivelato il mistero luminoso di Cristo?
La cecità nella Scrittura è chiaramente collegata col peccato, col disorientamento dell’uomo, con il suo barcollare incapace di trovare una direzione. È un castigo: Elimas a Cipro viene colpito da cecità per castigo: « Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui e disse: “O uomo pieno di ogni frode e di ogni malizia, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, quando cesserai di sconvolgere le vie diritte del Signore? Ecco, la mano del Signore è sopra di te: sarai cieco e per un certo tempo non vedrai il sole” » (At 13, 9-11). Nel caso di Elimas però il significato simbolico della cecità è molto ben spiegato: egli deve smettere di sconvolgere le vie diritte del Signore, di opporsi, con il suo modo di agire, alla vera immagine di Dio. Quindi è il simbolo dell’uomo incapace di trovare la via giusta, dell’uomo prigioniero delle forze di Satana, «figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia », « pieno di frode e di ogni malizia ». È chiaramente l’immagine del peccato, di ciò che nel peccato parte dall’interno: «frode e malizia »; di ciò che parte dall’esterno: «figlio del diavolo »; e nelle conseguenze: «nemico di ogni giustizia ».
Per la cecità di Paolo non è facile invece rispondere, perché gli Atti degli Apostoli non ce la spiegano, ma si limitano a descrivere il fatto a cui l’Apostolo non sembra mai accennare nelle sue lettere.
Cercando di riflettere e di entrare nel suo animo, possono emergere due motivi.

La cecità come riflesso dello splendore di Dio

C’è anzitutto un motivo biblico ricorrente: «L’uomo non può vedere Dio senza morire ». La visione di Dio è luce ma per la carnalità dell’uomo è motivo di spavento e fa percepire all’uomo tutta l’oscurità in cui si trova. A contatto con Dio che è luce, l’uomo si riconosce tenebra. Paolo vive cosi il cammino penitenziale che non era mai stato capace di vivere prima. La conoscenza della gloria di Cristo si riflette nella conoscenza della propria oscurità, vissuta da Paolo simbolicamente, con un simbolo reale, finché la parola della Chiesa, la parola di Anania, non interverrà a dargli il senso della sua accettazione nella Chiesa e della sicurezza di camminare nella via di Dio.
La cecità è il riflesso negativo della gloria di Dio che gli è stata manifestata. È tipico della conversione cristiana il fatto che l’uomo venga a conoscere molto di più se stesso e a spaventarsi delle proprie tenebre quando conosce la luce di Dio, che non attraverso un esame rigoroso, quasi una psicanalisi delle proprie profondità. È al contatto col volto di Cristo che l’uomo si scopre tenebra!

La cecità come cammino penitenziale

Il secondo motivo che può spiegare la cecità è la partecipazione di Paolo al peccato del mondo, la sua inserzione nell’umanità peccatrice.
Ci chiediamo come l’ha vissuta e come gli si è presentata.
Non è necessario lavorare di fantasia, perché Paolo ha avuto modo di esprimere in diverse occasioni la propria visuale della peccaminosità di ogni uomo, dell’abisso di tenebre che è in agguato, sempre, in ciascuno di noi. Esso è vinto soltanto dalla forza di Dio, ma potrebbe riemergere ad ogni momento se Dio non fosse continuamente vincente. E quando la forza di Dio è da noi rifiutata o trascurata, allora torna a galla ciò che Paolo chiamerà il peccato personificato.

Riflettere sulle tenebre che sono nel cuore dell’uomo non è semplicemente fare una meditazione descrittiva di qualcosa che è lontano da noi, ma è realtà che è in noi, anzi è in agguato dentro di noi. La dolorosa esperienza storica di ciascuno di noi sa che questo essere in agguato può trasformarsi, certe volte, rapidamente ed in maniera imprevista, in realtà. È questo un discorso impopolare e difficile da tradurre in linguaggio quotidiano.
Noi oscilliamo sempre fra due posizioni. Da una parte talora deploriamo la malizia dell’uomo, quando vediamo fatti sconcertanti. Intendo accennare alle violenze, a forme di crudeltà tipiche del terrorismo, la crudeltà stessa delle prigioni, con le uccisioni tra detenuti, dove si raggiunge una situazione da inferno e le persone si odiano, pur essendo sottoposte alla stessa pena. Noi stessi rimaniamo attoniti di fronte a certi omicidi barbari che succedono vicino a noi, nel tempo e nello spazio. Dall’altra parte ci culliamo nell’idea degli uomini di buona volontà: tutti hanno buona volontà, tutti sono abbastanza buoni.
Non riusciamo mai a cogliere veramente il fondo di queste due posizioni e ad accordarle tra loro: ci muoviamo un po’ in senso moralistico-deplorativo e un po’ in senso di bonaria comprensione per tutto. Spesso ci manca lo sguardo che sappia vedere il male dell’uomo, ma con misericordia, e non soltanto in maniera deplorativa e pessimistica.

Quali sono dunque le dimensioni delle tenebre e dell’oscurità di cui Paolo ci parla nelle sue lettere, riflettendo su quanto gli è accaduto nel momento della conversione?
Possiamo esprimerle secondo tre livelli diversi:
a) il livello del peccato personale;

b) il livello del peccato fondamentale;
c) il livello del peccato strutturale.

Il peccato personale

A tal proposito i testi da segnalare sono due: «Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio» (Gal 5, 19-21). Siamo al livello dei peccati singoli, personali: è un elenco impressionante dei quattordici atteggiamenti negativi dell’uomo, che Paolo trae dalla esperienza sua e del suo tempo. Una visuale molto realistica ed insieme pessimistica dell’uomo che si muove nell’ambito dei propri interessi.
Sono le opere della carne. Sono le opere che nascono nell’uomo che vive nell’ambito del proprio puro tornaconto. L’uomo si rivela allora come un essere pieno di «fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia… ». È uno sguardo drammatico sulla società e la gente del suo tempo.
L’altro testo riprende questo quadro con nuove pennellate, facendo una lista di ventuno atteggiamenti negativi: «Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno, colmi come sono di ogni sorta di ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; pieni d’invidia, d’omicidio, di rivalità, di frodi, di malignità; diffamatori, maldicenti, nemici di Dio, oltraggiosi, superbi, fanfaroni, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia» (Rm 1, 2831). È una descrizione che sembra persino retorica tanto è gonfiata nelle parole, ma reale, dei fatti e della società del suo tempo.

Rileggendo queste due liste ci domandiamo che tipo di descrizione è. Sono peccati sociali, cioè peccati nel comportamento verso il prossimo: tutto il modo distorto dell’uomo di agire verso il fratello, frutto di una errata cognizione di Dio, e in ultima analisi di una sbagliata concezione della vita fondata sull’egoismo.
L’Apostolo vuole dimostrare alla gente del suo tempo – che era orgogliosa tanto quanto la nostra, che pensava di avere cultura, civiltà, diritto, leggi, di essere infinitamente superiore ai barbari – che sono dei poveri uomini in preda ad ogni forma di depravazione perché cercano il proprio tornaconto personale.
Paolo fa una descrizione delle cose così come le vive e le vede, ma sa benissimo che ciò che descrive ha radice anche in lui. Secondo la parola fondamentale di Gesù nel cap. 7 di Marco ai vv. 21-22: «Dal cuore dell’uomo nascono queste cose ». E non soltanto dal cuore di un uomo che per caso è nato in situazione disgraziata, ma dal cuore di ogni uomo.
Confrontando la lista paolina con quella di Gesù, cogliamo l’insegnamento fondamentale: tutte queste cose sono dentro di noi.
Sapere che sono dentro di noi ci spinge a prenderle molto più sul serio e a riflettere con attenzione. Pensiamo per esempio a un tema che ricorre in tutte e due le liste: l’invidia. Oppure ai dissensi, divisioni, fazioni. Com’è vero che sono sentimenti che albergano nel nostro cuore! Clemente Romano scrive che Paolo è stato ucciso per invidia: non è stata la persecuzione, la cattiveria dei pagani, ma l’invidia di alcuni che, essendo suoi rivali, lo hanno denunciato. Ciò vuol dire che la comunità cristiana era soggetta a dissensi, rivalità, divisioni, fazioni che ad un certo punto si avvalevano dei pagani per le proprie manovre e le proprie vendette. C’era certamente l’autorità pagana che portava avanti la persecuzione ma non sarebbe arrivata a tanto, nei riguardi di Paolo, se i cristiani fossero stati più uniti.
La stessa morte di Pietro viene attribuita ad invidia, a delazioni e a spinte venute dall’interno del gruppo dei credenti giudeo-cristiani, o di gruppi rivali.
Pensiamo ad altre parole di quella lista: diffamatori e maldicenti, e ci accorgiamo che spesso lo siamo anche noi nel modo di parlare degli altri.

Se continuiamo a rileggere l’elenco, scopriamo come esso è vicino all’esperienza nostra di ogni giorno e che talora questi atteggiamenti emergono in maniera clamorosa, proprio perché è mancata la vigilanza e l’attenzione a cogliere il male dentro di noi e a sottoporlo continuamente alla luce di Dio. Non c’è niente di più dannoso come il venir meno alla vigilanza evangelica che è una delle virtù fondamentali.
Anche il prete che non vigila o che comincia a non vigilare più su di sé, che pensa con la forza dell’abitudine di aver trovato un certo modo di vivere, può soccombere sotto il peso di qualcuna di quelle forze negative descritta da Paolo, che emergono e si affermano in lui.
Queste opere della carne che troviamo nelle lettere dell’ Apostolo servivano da liste penitenziali sulle quali si esaminavano i catecumeni e su cui si confrontavano i cristiani nella loro esperienza di penitenza.
Questo livello del peccato personale ci tocca tutti, perché sono cose immediatamente percepibili nei loro effetti di ingiustizia e sono in noi con le loro radici, nelle propensioni negative che abbiamo.

Il peccato fondamentale

Paolo va ancora in profondità e, seguendo l’insegnamento di Gesù, denuncia il peccato fondamentale che sta alla radice di tutti gli altri: «E poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati in balia d’una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno» (Rm 1, 28).
È questo uno degli aspetti del peccato radicale a cui l’uomo è inclinato e a cui ciascuno di noi è profondamente proteso e inevitabilmente attratto, se la forza di Dio non venisse in nostro soccorso.

Qual è questo peccato fondamentale?

Si può esprimerlo in tanti modi e ciascuno a partire dalla propria esperienza. È «il peccato» di cui Giovanni parla nel quarto vangelo usando quasi sempre il singolare. È, sostanzialmente, il non voler riconoscere Dio come Dio, è il peccato che sta alla radice della rivolta di Satana: non riconoscere che la nostra vita è determinata solo dall’ascolto di Dio.
La radice nascosta, e quindi non facilmente esplicitabile, di tutto ciò che è chiamato laicismo sta proprio qui. Non si tratta di una propensione cattiva, come ad esempio nella scelta del furto, dell’ingiustizia, della menzogna. Il peccato sta nel dire che non c’è bisogno dell’ascolto di Dio, che non è la Parola di Dio a determinare la vita ma, ultimamente, la nostra sola scelta.
Ecco il peccato fondamentale da cui tutto il resto deriva, al quale sono sottese tutte le mancanze personali. Per Paolo la distorsione fondamentale è quella di non riconoscere il Dio del Vangelo; . è la tendenza a negare che l’uomo è fatto per l’ascolto di Dio, a vivere della sua Parola; è il rifiuto istintivo e diabolico in sé, perché irragionevole, di lasciarsi amare e salvare da Dio e di vivere del suo amore. Questo rifiuto può assumere, come in Paolo, persino il colore dello zelo: vantandosi della sua tradizione, della sua onorabilità, egli di fatto rifiutava la misericordia di Dio come determinante per la sua vita.
È il peccato che veramente ha bisogno di essere curato nell’uomo, perché sia curata la radice delle opere della carne. Ingiustizia, malvagità, cupidigia, malizia, invidia non sono semplici fragilità e debolezze ma derivano da un’origine più profonda.

L’uomo è maledettamente scontento di sé e la sua scontentezza è venuta fuori in forme paradossali, abnormi. Questa scontentezza di sé è, in radice, il rifiuto di essere amato, di lasciarsi amare; il fissarsi talmente nella propria autonomia da farsene un idolo, con tutte le reazioni di tristezza o di disperazione che ne seguono e con tutte le conseguenze di crudeltà, di ingiustizia che sono l’apice della malvagità umana. Solo così possiamo spiegare i grandi massacri, anche recenti, della storia, le uccisioni spietate che sono avvenute e che avvengono in momenti di rivolgimenti politici, sociali, in cui si sfoga un’interiore disperazione dell’uomo. Chi è scontento di sé infierisce sugli altri.
Grazie a Dio solo raramente noi incontriamo nella vita questi casi limite: però li incontriamo, ci sono e fanno la storia. Ciò che è avvenuto infatti nei campi di concentramento al tempo di Hitler non si può spiegare se non con questo sorgere del demoniaco rifiuto di Dio.

Paolo parlando di questo peccato ci sconcerta perché, riferendolo a se stesso e ad ogni uomo, sottolinea che è invincibile.
« Sappiamo infatti che la legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato.
Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. lo so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 14-19).
È una impotenza umana storica, misteriosa, paradossale fino a sfiorare l’assurdo. L’uomo desidera il bene ma si accorge che non lo realizza. Condizionato dalle vicende, dalle tensioni, dalle difficoltà, dalle opposizioni che deve superare, si indurisce e, indurendosi, si rinchiude in sé, si arriccia contro le difficoltà, si rinchiude nel possesso e nell’autodifesa e così rifiuta la dipendenza da Dio, dalla sua Parola e dalla sua misericordia.
Nei casi peggiori resta travolto e nega la trascendenza di Dio. Nei casi migliori, l’uomo arriva a vivere il dualismo per cui nei momenti buoni gli sembra di essere teso all’ascolto della Parola, e poi, nell’incalzare delle circostanze, specialmente avverse – amarezze, delusioni, odii, contrasti, ingiustizie che subisce e che ha voglia di ritorcere – si difende ad ogni costo, si oppone agli altri e soprattutto non fa più riferimento alla Parola di Dio.
Paolo ha toccato con quel « peccato che abita in me » la profonda miseria dell’uomo, difficile a capirsi, però sperimentabile negli effetti, nelle conseguenze, nelle situazioni storiche.

Il peccato strutturale

È la condizione dell’uomo storico per cui, di fatto, nelle durezze della vita si restringe in se stesso e, senza volerlo, diventa avido, ingiusto, difensore del proprio bene ad ogni costo. Non è evidentemente soltanto il frutto della malizia individuale ma è la condizione culturale nel senso vasto della parola, sociale, dell’uomo storico. È il peccato inserito nei sistemi di vita, nella mentalità, nelle idee ricevute; è un modo di essere e di vivere che la Scrittura chiama « mondo », in senso negativo, in cui, aldilà delle belle parole, prevale il tornaconto, il bisogno di sopraffare gli altri, di contrattaccare, di polemizzare per primo per non essere sottomesso. Questa realtà conflittuale noi non l’abbiamo scelta e potremmo, come don Abbondio, pensare di esserne a lato. Resta però il fatto che ci accorgiamo di non poterla sfuggire.
La condizione umana che lo stesso Paolo analizza in modo molto drammatico, non possiamo dire che non sia vera; se riflettiamo con attenzione vediamo che noi stessi ne siamo condizionati. Non poche delle idee ricevute come ovvie sono frutto di questa mentalità, non poche delle nostre scelte istintive sono dovute a questa mentalità. Quando esaminiamo la storia del passato e ci meravigliamo che si siano compiute alcune scelte, anche nella storia della Chiesa – come la tortura o la guerra – dovremmo capire che quella gente viveva secondo le idee ricevute. Era praticamente impossibile per loro sottrarsi ad una certa mentalità, che poteva portare a commettere ingiustizie. Fa parte del cammino storico dell’uomo il vivere sottomessi alla mentalità del proprio tempo e compiere delle scelte inavvertite che forse fra uno o due secoli appariranno sbagliate ma che oggi, istintivamente, compiamo.
Questo peccato strutturale, inserito nella vita sociale, economica e nella mentalità, Paolo lo denuncia, ed è un aspetto della realtà perché, mentre lo denuncia, afferma che nel più profondo del cuore dell’uomo c’è una mentalità opposta: l’apertura a Dio.

L’uomo è prima aperto a Dio che chiuso; però storicamente la chiusura a Dio è quella che scoppia e si manifesta in determinate circostanze.
La salvezza che Dio offre all’uomo è il ritrovare, il rivivere per grazia e per misericordia, nella pienezza dell’incontro con Cristo, la potenzialità di quell’apertura originaria che crea la mentalità del bene, la cultura positiva.
L’uomo non può riconoscere tutto questo se prima non ha la percezione del male. Tale conoscenza del male non dev’essere fonte di pessimismo sistematico; essa è un fatto che ci permette un giudizio vero sulla realtà.

Può spiegare meglio ciò che ho detto sul peccato strutturale e sul modo con cui ci avvolge, un esempio della vita di Gesù. È l’episodio che prelude alla passione: «Gesù si trovava a Betania nella casa di Simone il lebbroso. Mentre stava a mensa, giunse una donna con un vasetto di alabastro, pieno di olio profumato di nardo genuino di gran valore; ruppe il vasetto di alabastro e versò l’unguento sul suo capo. Ci furono alcuni che si sdegnarono fra di loro: “Perché tutto questo spreco di olio profumato? Si poteva benissimo vendere quest’olio a più di trecento denari e darli ai poveri! “. Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: “Lascia tela stare; perché le date fastidio? Ella ha compiuto verso di me un’opera buona” » (Mc 14, 3-6).
Si tratta di un giudizio su un’azione particolare. Gesù e la donna si trovano soli e coloro che li circondano, agendo per motivi istintivi, condannano quel gesto, non lo sanno capire. È un caso tipico della forza della mentalità che si comunica dall’uno all’altro e non permette l’apertura alla verità di un gesto che ha un significato profetico. Agendo con le convinzioni ordinarie, con quello che sembra il comune buon senso, tutti si mettono contro Gesù che rimane solo.

Paolo vive in sé, e con il mondo con cui si sente solidale, tutta la realtà di questa mentalità comune quando dice: «lo sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? » (Rm 7, 24). In altri termini: non c’è scampo per me di fronte alla realtà di questa situazione. E subito aggiunge: «Sia-. no rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7, 25).
Nella sua cecità l’Apostolo è penetrato, fino in fondo – al di là di quello che è dato all’uomo normale nel mistero delle tenebre dell’uomo e ha così potuto comprendere la potenza della luce di Cristo e delle sue capacità di rifare un mondo nuovo.
Nell’esperienza delle tenebre ha percepito la potenza dell’illuminazione battesimale a cui, allora, si è sottoposto volentieri per mano di Anania, ricevendo nella Chiesa e dalla Chiesa la potenza di salvezza.

L’enciclica «Dives in misericordia », parlando della inquietudine e delle fonti di inquietudine, dice:
«Evidentemente un fondamentale difetto o piuttosto un complesso di difetti, anzi un meccanismo difettoso, sta alla base dell’economia contemporanea e della civiltà materialistica, la quale non consente alla famiglia umana di staccarsi da situazioni così radicalmente ingiuste» (n. Il). Il Papa applica alla realtà della famiglia umana quella incapacità che Paolo applicava all’uomo: vedo, voglio e non posso. Viene estesa ad una situazione di struttura la realtà che l’uomo sperimenta già nel fondo di sé, nel peccato strutturale che sta in lui.