02 – LE CONFESSIONI DI PAOLO..LA CONOSCENZA DI GESU’ – C.M.Martini

La conoscenza di Gesù

Vogliamo cercare di approfondire l’episodio di Damasco così come Paolo stesso lo approfondisce in alcune lettere. Confessiamo la nostra titubanza nel penetrare il mistero di Dio in un’altra persona, anche se Paolo è figura emblematica per tutto il cristianesimo.
Confessiamo volentieri anche la nostra incapacità di cogliere il senso dei testi. Il Signore ci usi misericordia e ci faccia cogliere qualcosa di quella indescrivibile luce che ha avvolto e trasformato la vita dell’Apostolo.

Ci rivolgiamo direttamente a te, apostolo Paolo. Tu vedi con quanta presunzione pretendiamo di penetrare nel mistero della tua vita che tu stesso hai ripensato in tanti anni. Se lo facciamo è perché vogliamo conoscerti attraverso la conoscenza di ciò che Dio ha fatto in te, conoscere chi è Dio, chi è Gesù Cristo, chi è Gesù per noi. Noi sappiamo che tu, apostolo Paolo, non sei indifferente di fronte al nostro desiderio; anzi è il tuo desiderio. Tu hai vissuto per questo, hai sofferto e sei morto per questo. È per la tua sofferenza e per la tua morte che ora ti preghiamo. Apri i nostri occhi come il Signore ha aperto i tuoi, perché comprendiamo la potenza di Dio in te e la potenza di Dio in noi. Donaci di comprendere ciò che tu eri prima della conversione, ciò che noi eravamo prima che Dio ci chiamasse, ciò che noi siamo di fronte alla chiamata di Dio.
Ci rivolgiamo anche a te apostolo Matteo perché, uscendo da ciò che crediamo di sapere o di avere già capito, entriamo nella terra sconfinata che è la Parola di Dio.
In questa terra sconfinata troviamo il nutrimento, l’acqua e la manna che ci fanno camminare, il fuoco che ci riscalda e ci illumina, ascoltiamo la Parola di Dio, vediamo il lampo della sua gloria.
Anche a noi sia concesso, come a Paolo e a Matteo, di portare il tuo messaggio con coraggio e con libertà di parola e di spirito.
Ascolta, o Padre, la preghiera che ti facciamo insieme con gli Apostoli Paolo e Matteo, insieme con Maria, Madre di Gesù. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Per comprendere la ricchezza dell’azione divina in Paolo, per capire ciò che lui ha detto della sua esperienza a cui fanno riferimento milioni di uomini, occorre aggiungere ai testi già citati le tre descrizioni della sua conversione che si trovano negli Atti degli Apostoli al cap. 9 (in terza persona) e ai capitoli 22 e 26 in forma autobiografica.
La descrizione del cap. 26 è la più ricca di spunti autobiografici, la più distesa e diffusa. Essa può servire come punto di partenza per chiarire quali domande fare a Paolo, ascoltare le risposte che ci dà, sulla base del testo degli Atti e di quelli delle lettere già evocate. È l’ultimo discorso che Paolo fa in sua difesa di fronte ad Agrippa, a Cesarea.

Recentemente sono stati scoperti i resti del palazzo imperiale: ed è proprio là, presso il mare, dove oggi le onde si infrangono sui ruderi delle costruzioni romane, che Paolo ha parlato di sé: «Anch’io credevo un tempo mio dovere – aveva un forte senso del dovere – di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando venivano condannati a morte, anch’io ho votato contro di loro – il caso cui si riferisce è evidentemente quello di Stefano e l’approvazione da lui data alla sua morte, anche se non ha buttato le pietre -. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (At 26, 9-11).

Qui si pongono dei problemi di critica storica. Non sembra che il sinedrio, a quel tempo, avesse il potere di andare aldilà delle sinagoghe della Palestina e nelle sinagoghe stesse aveva un potere limitato, non certo quello di uccidere. La stessa uccisione di Stefano è probabilmente un atto inconsulto, frutto di sommossa popolare e al di fuori del diritto. Le sinagoghe potevano interrogare, flagellare, imporre alcune penalità ed è in questo ambito che Paolo aveva operato all’inizio. Gli storici sono quindi dubbiosi davanti alla dizione « città straniere ». Forse Paolo si è fatto dare delle lettere di raccomandazione e poi, con uno zelo superiore a quello di quasi tutti gli altri, si è recato in queste città per convincerle a perseguitare i cristiani. È un uomo dotato di grande inventiva nel perseguire ciò che gli sembra giusto: «In tali circostanze, mentre stavo andando a Damasco con autorizzazione e pieni poteri da parte dei sommi sacerdoti, verso mezzogiorno vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo, più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio» (At 26, 12-13).
Le parole sono da considerare con attenzione: «una luce dal cielo ». Su questo Paolo ha molto riflettuto e ci ritornerà scrivendo ai Corinti: «Quel Dio che ha detto: Sia la luce, è lo stesso che ha rifulso nei nostri cuori» (2 Cor 4, 6).
Il Dio della creazione che ha creato ogni luce gli si è manifestato con una luce ancora più grande: Paolo collega tutte le grandi opere creative di Dio nell’Antico Testamento con ciò che in lui è avvenuto. Una profonda illuminazione la cui sorgente è la gloria del Cristo stesso, alla luce del quale tutto il resto impallidisce.
« Tutti cademmo a terra e io udii dal cielo una voce che mi diceva in ebraico: Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? Duro è per te recalcitrare contro il pungolo. E io dissi: Chi sei, o Signore? E il Signore rispose: lo sono Gesù, che tu perseguiti. Su, alzati e rimettiti in piedi; ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto e di quelle per cui ti apparirò ancora. Per questo ti libererò dal popolo e dai pagani, ai quali ti mando ad aprir loro gli occhi, perché passino dalle tenebre alla luce e dal potere di Satana a Dio e ottengano la remissione dei peccati e l’eredità in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me» (At 26, 14-18).

Mettendo insieme questo testo con gli altri, possiamo fare a Paolo alcune domande:

- Da dove ti ha fatto uscire il Signore a Damasco, e dove eri quando la Parola di Dio ti ha raggiunto? – Verso quale direzione ti ha portato questo avvenimento fondamentale della tua vita?

- Come è avvenuto questo passaggio, cioè la tua pasqua dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, dalla non-conoscenza di Dio alla conoscenza di Dio?

Suggerisco qualche risposta.

Dove eri quando la Parola ti ha raggiunto?

La risposta è nel testo autobiografico della lettera ai Filippesi, dove Paolo afferma che la Parola di Dio lo ha colto mentre era in pieno possesso di valori fondamentali, a lui cari, e conquistati, in parte, a caro prezzo: «sebbene io possa confidare anche nella carne » (Fil 3, 4). Sono le realtà che vengono all’uomo dalla sua natura, dalla sua storia, dalla forza delle sue mani: «io più di lui ». Appartengono alla storia gloriosa di Paolo:

- circonciso l’ottavo giorno: non come i pagani, chiamati con disprezzo gli incirconcisi, nel senso di maledetti, abbandonati, quelli di cui Dio non sembra curarsi;

- della stirpe di Israele: del popolo eletto, luce delle nazioni;

- della tribù di Beniamino: conosco il mio passato, i miei antenati, il legame che mi riporta al figlio di Giacobbe;

- ebreo da ebrei: i possessi ricevuti, cioè padre, madre, nonni, tutti di questa gloriosa generazione;

- fariseo quanto alla legge: cioè ebreo della stretta osservanza, del rigore morale più assoluto, che più conosce la legge, che più vive le tensioni spirituali profonde del giudaismo. Fariseo era nome glorioso che sottolineava l’impegno di vita vissuta nell’ambito della legge, con una grande carica morale interiore.

- Quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’ osservanza della legge. È la stessa parola di lode che viene applicata a Giuseppe: uomo giusto. Così vengono anche descritti i genitori di Giovanni Battista, Zaccaria ed Elisabetta: erano entrambi giusti. La massima lode che si può fare dal punto di vista biblico, Paolo la applicava a sé.

- Irreprensibile: «Chi di voi mi convincerà di peccato? », avrebbe potuto dire;

- Non c’era in me niente che mi si potesse rimproverare dal punto di vista della legge: noi sappiamo quanto fossero minuziosi i comandamenti, le prescrizioni cerimoniali, e complicati i rituali. Anche oggi il pasto ebraico è molto complicato, con tante prescrizioni di cibi, alcune mescolanze da evitare, alcuni cibi da verificare all’origine. È tutta un’attenzione che richiede una grande tensione spirituale.

Paolo è colto quindi in una situazione in cui possiede tradizioni, impegno personale, zelo, giustizia: un insieme di grandi beni che gli è immensamente caro, di cui fa l’elenco con profonda commozione. Bisogna avere conosciuto gli ebrei per sentire con quanta intensità, anche oggi, dicono di essere ebrei, confessano la loro stirpe e la loro tradizione. È qualcosa che entra nella carne come una seconda natura, un modo di essere irrinunciabile. Il caso più tipico è quello di Simone Weil. Ella ha intuito in una maniera profondissima i misteri del Battesimo, dell’Eucaristia, della preghiera, ha scritto delle pagine forse tra le più belle sulla vita cristiana, sul lavoro, sulla contemplazione; ma non è mai giunta al Battesimo, perché le sembrava di non poter rinunciare al suo essere ebrea. Pur intuendo profondamente la bellezza della realtà cristiana, morendo dalla voglia di nutrirsi dell’Eucaristia, nella quale vedeva davvero il culmine della storia e della creazione, è stata fino all’ultimo bloccata dalla pienezza delle cose che le sembrava di possedere e dal bisogno di solidarietà con il suo popolo martoriato.
Paolo usa, sempre nella lettera ai Filippesi, una espressione che riferiste a Gesù, ma che certamente, a questa luce, acquista un sapore autobiografico: «Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio». Il testo greco sembra voler dire « non considerò come preda », cioè come oggetto di possesso avido, da tenersi con bramosia. Così Paolo viveva la sua realtà: un tesoro geloso che non poteva consegnare a nessuno. La risultanza di questo possesso era la grande cura nel difenderlo, il grande zelo nel promuoverlo, la grande violenza contro tutti quelli che potevano attentare al tesoro.
Ciò spiega la sua intolleranza verso i cristiani e il bisogno di sterminarli, perché coglieva, giustamente, che essi andavano proprio alla radice di quel tesoro.

Possiamo capire allora anche le autoaccuse che si farà e che vengono riferite nella prima lettera a Timoteo: «Ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 13). Non un bestemmiatore nel senso che si rivolgeva contro Dio, ma nel senso che, senza saperlo, – ed è qui tutta la sua conversione, il dramma che lui vive – si rivolgeva contro Cristo, Figlio di Dio, per la difesa del suo tesoro. Ora è comprensibile che descriva la sua vita come vissuta nel peccato perché, in realtà, – e se ne accorgerà sempre più – il suo atteggiamento verso Dio era profondamente sbagliato. Non considerava Dio come Dio, autore e origine di ogni bene; ma al centro di tutto c’era il suo possesso, la sua verità, i tesori che gli erano stati affidati. Un atteggiamento esteriormente irreprensibile ma che interiormente era di una possessività esasperata, tale da turbare in radice il suo rapporto con Dio, padre e creatore.
È lo stravolgimento che viveva senza saperlo e dal quale scaturirà la sua comprensione nuova del Vangelo, della grazia, della misericordia, dell’iniziativa divina, dell’attività di Dio.
Egli viveva non il Vangelo della grazia, ma la legge dell’autogiustificazione che gli faceva dimenticare di essere un pover’uomo, graziato da Dio non perché fosse qualcosa in sé, ma perché Dio lo amava.

Il dramma di Paolo è un dramma sottile, difficile, quale lo può vivere un uomo profondamente religioso e minacciava di diventare distorsione radicale dell’immagine di Dio in lui.
Ecco da dove viene Paolo e la sua violenza ideologica. La violenza ideologica, frutto di fanatismo e dell’incapacità di capire gli altri se non come sottomessi a se stessi, non è scomparsa ai nostri giorni. Ancora l’uomo cerca una salvezza propria, cerca una giustizia e un’autogiustificazione che porta ad ogni genere di aberrazioni, pago di un possesso in cui ci si crede totalménte padroni, e non servi, della verità.
La situazione di Paolo è istruttiva a riguardo di alcune delle perversioni più profonde. Quelle che affronterà Gesù nel Vangelo quando dirà: «I peccatori vi precedono nel Regno di Dio ». Vuol dire che chi commette dei peccati perché, ad esempio, si ubriaca o si lascia vincere dalla sensualità, commette peccato, certo, ma è sempre, in qualche modo, conscio di fare il male: ha bisogno di comprensione, di aiuto e di misericordia per superare la propria debolezza e confessa di essere fragile. Paolo invece non avrebbe mai confessato di essere fragile e debole. Ed è questo il peccato che Gesù attacca nei farisei: quella perversione fondamentale per cui l’uomo si fa salvezza di se stesso e, credendo di essere giunto all’apice della perfezione, giunge alle più gravi aberrazioni della violenza.

Verso quale direzione ti ha portato il Signore?

Paolo stesso ci fa comprendere nella lettera ai Filippesi e nella lettera ai Galati il significato di questa direzione.

a) Prima di tutto il Signore lo ha portato verso un totale distacco da ciò che prima gli era sembrato sommamente importante: «Quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ormai tutto io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3, 7-8).
Lo ha portato verso la percezione che tutto questo non vale niente di fronte a Cristo: non in sé, ma di fronte a Cristo.
Lo ha portato ad una visione completamente nuova delle cose. Non a un cambiamento morale immediato, ma ad una illuminazione: egli parla di rivelazione, perché mettendosi da un punto di vista nuovo, quello di Cristo, tutte le cose gli appaiono diverse. Egli giudica la sua vita in maniera così nuova che l’esclamazione che meglio riassume la sua risposta interiore alla parola di Gesù sulla via di Damasco è: ho sbagliato tutto. Ho creduto valido ciò che non lo era e mi sono lasciato trascinare ad un modo di agire violento e, alla fine, ingiusto. lo che mi gloriavo della mia giustizia sono diventato giustiziere degli innocenti.
Mentre Gesù gli chiede: «Perché mi perseguiti? », capisce, d’un colpo, che ha confuso, miserevolmente, la verità delle cose. È comprensibile il terribile choc di Paolo che, non attraverso un ragionamento, ma attraverso una presa di contatto della verità, capisce che è tutto da rifare, da ribaltare dall’alto in basso. Analogamente Matteo al cap. 13 descrive il mercante che, avendo trovato una perla preziosa, si accorge che tutto il resto non vale niente; così come l’uomo che, avendo trovato il tesoro nascosto nel campo, comprende che tutto il resto non ha alcun significato.
Quello che è avvenuto in Paolo è una tale rivelazione dell’essere di Gesù che gli ha fatto cambiare giudizio e atteggiamento su ciò che era e su ciò che faceva: una rivelazione che ha capovolto il suo atteggiamento interiore.

b) Il secondo modo che esprime « verso quale direzione » lo troviamo soprattutto in un capitolo della lettera ai Galati: «Si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunzi assi in mezzo ai pagani» (Gal 1, 15). È la missione che viene affidata a Paolo. È sconvolgente per Paolo che le due cose avvengano insieme: nello stesso momento in cui Gesù gli fa capire: «hai sbagliato tutto», gli dice: «tutto ti affido», ti mando.
Il Dio del V angelo e della misericordia è Colui che nell’istante in CUI mi fa capire che ho sbagliato tutto su di lui, perché ho messo me stesso al suo posto, mi dimostra la sua misericordia nel perdonarmi e mi dà fiducia nel chiamarmi al suo servizio, affidandomi la sua stessa Parola.

Questo istante riassume per Paolo tutto ciò che egli sapeva di Dio in maniera sbagliata. L’oscuro diventa chiaro, il violento diventa misericordioso.

Come è avvenuto questo passaggio?

Vogliamo capire che cosa gli è stato rivelato e perché Paolo parla di rivelazione, prima che di conversione.

- Tutto gli è stato donato: non c’è stato da parte sua sforzo, meditazione, esercizi spirituali, lunghe preghiere, digiuni. Tutto gli è stato donato, perché egli fosse per tutti i popoli segno del Dio misericordioso, la cui iniziativa precede sempre la nostra ricerca.
Sarebbe bello rianalizzare il v. 15 del cap. 1 della lettera ai Galati che usa un linguaggio antico testamentario per descrivere ciò che è avvenuto in Paolo:
« Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio… ». Il soggetto della conversione non è Paolo: è Dio. Tutto il peso è dalla parte di Dio, lui è l’autore della conversione.
Come per la creazione « Dio disse e fu fatto », così per la conversione l’iniziativa è Sua, al di là di ogni nostro merito, di ogni nostro desiderio o pensiero.
Dio ci chiama e si compiace di manifestare a noi suo Figlio.
Questo è il primo aspetto del « come»: per grazia, per dono, perché piacque a Dio.

- Tutto gli è stato dato, nella conoscenza di Gesù. Abbiamo già visto, infatti, che Paolo descrive la conversione in termini di incontro (1 Cor 15, 8). Cristo è la rivelazione dell’iniziativa divina e misericordiosa per me. Cristo è l’incontro tra Paolo e Dio.

Poniamoci anche noi alcune domande

- Che cosa c’è in me di affine, di diverso o di analogo, all’esperienza di Paolo?
Come posso cogliere nella mia vita l’azione preveniente di Dio che mi fa essere ciò che sono?

- Come e in quale maniera Gesù, che è stato per Paolo la rivelazione della misericordia divina, è per me il punto di riferimento fondamentale per comprendere chi sono, che cosa sono, da dove vengo, a che cosa sono chiamato?

- Quali sono i possessi che mi impediscono di cogliere con libertà l’iniziativa divina verso di me?

Dobbiamo farci queste domande con amore: se le poniamo con spirito possessivo o autogiustificativo, risponderemo in fretta e non riusciremo a vedere in profondità la storia della nostra vita sotto lo sguardo di Dio. Ma se ci interroghiamo con amore e misericordia potrà emergere ciò che in noi è l’opera di Dio e ciò che in noi è la resistenza di Paolo all’opera di Dio.

Concludiamo rileggendo il racconto di 1 Tim 1,15 ss: « Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io ».
Il peccato fondamentale dell’uomo, che è alla radice di tutti i peccati è non riconoscere Dio come Dio, il non riconoscersi come dono suo, come frutto del suo amore: è l’atteggiamento satanico di opposizione dell’uomo a Dio. Paolo ha vissuto questo atteggiamento sotto colore di possesso di cose buone, ha vissuto il rifiuto della bontà di Dio su di lui. Tutti noi ci portiamo dentro l’incapacità a riconoscere Dio come Dio. « E di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua longanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna ».
È la giustificazione del nostro corso di Esercizi su Paolo che è stato ed è segno per altri, per la storia e per il mondo.
«Al Re dei secoli incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli ». Dio. solo, unico meritevole di onore e di gloria per ciò che ha operato e opera in noi, ci conceda di vivere con questa lode nel cuore.

01 – LE CONFESSIONI DI PAOLO – SULLA VIA DI DAMASCO – C. M. Martini

Posted on Marzo 11th, 2009 di Angelo

LE CONFESSIONI DI PAOLO

Meditazioni

ANCORA 1981

 

Prefazione

Nella storia delle origini del cristianesimo, la conversione di Paolo è solo seconda, per importanza, ai fatti riguardanti Cristo Gesù.
La potente figura dell’ Apostolo domina su ogni altro apostolo e discepolo.

Le sue parole sono state luce all’incerto cammino degli uomini di tutte le epoche.

Anche in coloro che hanno ascoltato queste meditazioni si è radicata la certezza che una più intima conoscenza di Paolo e un approfondimento del suo pensiero, conduce inevitabilmente a Cristo.

Tutto di lui sprigiona fascino: l’evento di Damasco, l’amore appassionato per Gesù e il desiderio ardente di vivere in lui e per lui, l’inarrestabile andare per il mondo sospinto e consumato dalla carità, l’instancabile e febbrile passione per la Chiesa, l’impeto della sua tenerezza per i fratelli.

Lo guardiamo, con stupore, flagellato, percosso, naufrago, abbandonato dagli amici, umiliato e, infine, prigioniero a Roma.

Pallido, ammalato e sfinito è condotto in una valle solitaria, a circa tre miglia dalla città, in un luogo chiamato allora Aquae Salviae, oggi Tre Fontane. Il suo corpo, per l’ultima volta, è flagellato. Piega il capo per aspettare la spada che lo condurrà al martirio: la testa cade a terra, tre volte rimbalza e poi si ferma.

L’unico desiderio della sua vita si avvera: Paolo è col suo Signore e Maestro Gesù Cristo.


Mons. Martini si è recato molte volte a pregare e a riflettere – lo dirà lui stesso nell’introduzione presso le antiche Aquae Salviae.

Lentamente, a partire da quel luogo, è maturata in lui, fino ad urgere una risposta, la domanda su come Paolo, in quel quarto d’ora prima di morire, abbia colto in una visione riassuntiva, il significato della sua densa e travagliata esistenza.

Di qui è nato il desiderio di dettare un Corso di Esercizi Spirituali per indurre l’Apostolo a fare le sue «confessioni».

Gli Esercizi spirituali non sono capitoli di un libro e nemmeno un corso di studi biblici. Piuttosto, per chi li detta e per chi li fa, sono un episodio della storia della propria salvezza.

Indubbiamente, dalle meditazioni traspare la profonda conoscenza che Mons. Martini ha degli Atti degli Apostoli e delle lettere paoline. Ciò che va sottolineato però è il fatto che si accosta a Paolo sino a identificarsi con lui.

A chi legge comunica lo stesso amore appassionato per Cristo che aveva Paolo, la sua ansia di servirlo assai prima di servire la Chiesa di Cristo, la sua tensione spirituale a guardare a lui sempre, a cercarlo in tutto e, soprattutto, a vivere di lui.

Con tono semplice e modesto, con parole piene di umanità, l’Arcivescovo, ancora una volta, svela un po’ di se stesso e lo comunica lasciando nel cuore il desiderio di imparare.

Forse queste pagine potranno suscitare nell’uomo di oggi distrutto dall’ansia frenetica del nostro tempo, il bisogno di ripercorrere la sola via sulla quale ogni uomo può camminare sicuro: Cristo Gesù. Di ritornare a lui, Figlio di Dio, nella preghiera, nella stima rinnovata per la Croce, e, soprattutto, nella sete di ascoltare la sua Parola e di contemplare il suo Volto.

e. d.

* Questo corso di Esercizi è stato dettato ai Sacerdoti della Diocesi di Milano, a Rho, nel settembre 1981. Il testo, trascritto dalla registrazione, non è stato rivisto dall’autore.

Introduzione

Ti ringraziamo, Padre, per averci riuniti nel nome del tuo Figlio. È lui che ci ha portato qui e noi abbiamo obbedito alla voce del suo Spirito, più profonda di tutte le altre ragioni umane. Siamo davanti a T e per dire la tua Parola e per ascoltarla. Risveglia nel nostro cuore il dono che ci hai dato con l’imposizione delle mani, risveglia in noi il dono del battesimo e della cresima, risveglia la pienezza dei doni che ci hanno condotto fino a questo momento perché, ringraziandoti nella gioia, possiamo conoscere ora la tua volontà. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. Amen.

Ci troviamo insieme per le necessità di tutto il popolo di Dio: vogliamo santificarci per tante intenzioni e per tante sofferenze che ciascuno porta nel proprio cuore.

Possiamo riassumerle nella parola esortatrice che Paolo rivolgeva alle comunità dell’ Asia Minore, rianimando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede perché «è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio» (At 14, 22).

È la ripetizione di ciò che Gesù disse ai discepoli di Emmaus: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? » (Lc 24, 26).

La corrispondenza verbale tra Gesù e Paolo è significativa: l’Apostolo reincarna, per le comunità, il messaggio del Risorto.

Il tema degli Esercizi

Il tema di questo corso di Esercizi vuole partire proprio dall’esperienza di Paolo.

Il luogo tradizionale del suo martirio è alle Tre Fontane, in Roma. Ci si arriva attraverso un lungo viale che invita al silenzio; si entra nell’atrio della chiesa cistercense; proseguendo, si giunge ad una chiesa rotonda (la scala del Paradiso).

 Più avanti ancora, la chiesa delle Tre Fontane, così chiamata a ricordo della testa di Paolo che per tre volte batté sul terreno prima di arrestarsi nell’istante drammatico della morte.

A me è capitato di andarci spesso, quando stavo a Roma, soprattutto nei momenti di oscurità o di confusione spirituale. E mi sforzavo di immaginare come Paolo avesse percorso quell’ultimo tratto della sua vita: spogliato della clamide, afferrato dai soldati. Come avrà rivisto la sua esistenza, la sua conversione, le difficoltà, i litigi con Barnaba e con Pietro, le depressioni, i momenti di solitudine, i quattordici anni nel deserto, il sentirsi respinto dalla comunità? Come avrà ripensato le gioie vissute, le grandi lettere, l’attività intensa?

Quali elementi gli saranno sembrati validi e importanti davanti alla morte, quando l’uomo è totalmente vero, senza più possibilità di retorica o di nascondimento?

Più d’una volta ho pensato che sarebbe stato interessante fare un corso di Esercizi riflettendo insieme a Paolo sul suo apostolato e rivivendolo con lo sguardo con cui lui lo rivisse nell’ultimo quarto d’ora della sua vita terrena.

Ecco come è nato il tema degli Esercizi di quest’anno.

Cercheremo dunque con fraternità e amicizia di fare confessare a Paolo la sua vita, un po’ a modo delle confessioni di Agostino o di Geremia.
Naturalmente occorrerà collegare l’esperienza di Paolo con l’esperienza di Chiesa e con quella di ciascuno di noi, in modo da rispondere alla domanda fondamentale: qual è il disegno di Dio su di me? In che maniera posso scorgere nella mia vita, così come la vedo adesso e con l’aiuto delle confessioni di Paolo, un disegno di misericordia?

Le confessioni di Paolo, d’altra parte, sono anche la storia delle sue conversioni.
La prima fu talmente grande, sconvolgente e violenta che soltanto negli anni seguenti ha potuto integrarne il significato a livelli sempre più profondi.

Anche per noi la conversione iniziale del battesimo e l’evento fondamentale di chiamata che è l’ordinazione presbiterale, sono così sconvolgenti che soltanto a poco a poco, attraverso conversioni successive, riusciamo ad approfondire ed a inverare la potenza trasformatrice della grazia.

Il lavoro fondamentale

In un corso di Esercizi, però, non conta tanto il tema, perché il lavoro fondamentale è quello che ciascuno deve compiere secondo una linea che ha alcuni punti portanti:

- ascolto della Parola di Dio proclamata nella proposta di meditazione, nella liturgia, nell’ufficio, nella celebrazione eucaristica;

- lettura di alcuni testi della Scrittura suggeriti di volta in volta;

- riflessione meditativa, secondo diversi metodi e modi che vanno dalla riflessione diretta sulle cose lette e ascoltate, all’esame della propria vita davanti a Dio;

- preghiera: preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento, di pentimento e di richiesta;

- comunicazione nella fede: è un elemento non necessario ma utile per chi lo desidera. Dopo la Compieta ci si può incontrare per scambiarsi ciò che abbiamo sentito come particolarmente importante per noi e tale da poter essere utile agli altri.

Difficoltà e modi per ovviarle

L’abitudine: non è la prima volta che facciamo gli Esercizi e proprio per questo c’è il pericolo di cominciarli senza aspettarci molto, senza impegnarci, e magari anche di non ricordarci bene che cosa siamo venuti a fare.

Il numero: siamo tanti, troppi per un corso di Esercizi. L’ideale, per un corso, è che sia possibile uno scambio e una certa attenzione di chi propone le meditazioni al cammino di ciascuno. Quando si è tanti, la proposta diventa più generica, con il rischio di essere più anonima.

Conviene, allora, che io proponga due punti pratici perché si possa ovviare alle difficoltà.

Massima cura per la solitudine interiore perché ciascuno possa sentirsi solo con Dio. Questo non esclude la comunicazione con gli altri, la quale deve avvenire a livello profondo, nella comunione di preghiera. Solitudine con Dio come radice di comunione.

La solitudine non è isolamento ma immersione nella misericordia di Dio, base della vera comunione tra gli uomini. Vi invito quindi ad evitare tutto ciò che può disturbare gli altri, in modo che ciascuno viva l’esperienza degli Esercizi come se fosse solo.

Fissare il tempo o i tempi. Alcuni tempi sono fissati da un ritmo necessariamente comune: le meditazioni quotidiane, la liturgia eucaristica, alcuni momenti della liturgia delle ore, qualche momento di adorazione. Ma è anche importante che ciascuno fissi i suoi tempi personali, rispondendo a tre domande:

a) Quanto e quale tempo intendo dare alla riflessione, alla preghiera contemplativa propriamente detta. Occorre evitare di lasciarsi guidare dall’arbitrio del momento, dall’umore, dalla stanchezza o dall’entusiasmo.
b) Quanto e quale tempo intendo dare alla lettura biblica. Parte di questa lettura la faremo già durante il pranzo e la cena: saranno letture della vita di Paolo, dagli Atti degli Apostoli, dal cap. 9, la prima conversione, e poi passando al cap. 13 fino alla fine del libro.
Come lettura raccomandata converrebbe rileggere attentamente alcune delle maggiori lettere di Paolo, che forse non abbiamo mai avuto modo di leggere per intero, in un momento di calma, dedicato proprio a questo. L’ignoranza delle lettere di Paolo ci porta a non comprendere a fondo il Vangelo.

Suggerisco cinque lettere fondamentali: 1 Tessalonicesi, Galati, 2 Corinti, Filippesi, Colossesi. Con queste cinque lettere abbiamo tutti i temi toccati da Paolo:

- i temi escatologici, nella 1 Tessalonicesi;
- i temi della presenza della salvezza in Galati;
- i fondamentali problemi ecclesiologici nella 2 Corinti (anche se 1

Corinti li sviluppa molto ampiamente, la 2 Corinti presenta però alcuni punti essenziali dell’ecclesiologia in luce autobiografica);

  • - la lettera ai Filippesi, che è riassuntiva dell’esperienza di Paolo;

  • - e una lettera tipica della concezione cosmica della salvezza del mondo e della storia, che è la lettera ai Colossesi.

c) Quale frutto vorrei ottenere da questi Esercizi. Che cosa in questo momento mi sta più a cuore nella mia vita. Il frutto fondamentale potrebbe essere quello di capire il disegno di Dio, adesso, per me. L’abbiamo capito quando ci siamo preparati all’ordinazione,ma forse ora è il momento provvidenziale per cogliere tutto il cammino dall’ordinazione ad oggi e cercare di comprendere il disegno che Dio ha su di noi.

Ho parlato di frutto fondamentale, ma ciascuno può evidentemente proporsi il frutto che gli sembra più importante.

Chiediamo alla Madonna addolorata, che ha compreso sempre più profondamente il disegno di Dio su di sé, che ci faccia capire ciò che abbiamo intuito, nello Spirito, fin dal nostro battesimo e, con coscienza più matura, nella nostra ordinazione.

Sulla via di Damasco

In queste meditazioni sulle confessioni di Paolo procederemo secondo un metodo di alternanza. Dapprima ci fermeremo su un episodio di conversione cercando di ripensarlo e di riviverlo. Nella successiva meditazione, passeremo all’approfondimento dottrinale e spirituale dei temi emersi dall’episodio, così come Paolo li propone nelle sue lettere.

Il primo episodio di conversione è l’avvenimento di Damasco. Infatti se domandassimo a Paolo che si prepara a subire il martirio, quale fatto sia stato determinante per la sua vita, non c’è dubbio che ci risponderebbe: l’incontro di Damasco.

Tutta la vita dell’Apostolo è segnata da quell’evento. È difficile per noi capirlo, perché, in realtà, Paolo stesso comprende solo al momento della morte che cosa abbia significato per lui quell’episodio. Probabilmente anche noi capiremo che cosa è stato il dono del battesimo e dell’ordinazione sacerdotale soltanto al termine del nostro cammino.

D’altra parte, se partire da Damasco è difficile, perché è l’episodio che racchiude tutto e che si può comprendere solo nell’esame delle conversioni successive, tuttavia è certo che per Paolo tutto comincia da lì.

Prima era tutto diverso; dopo tutto sarà diverso.

False interpretazioni

1. Cominciamo ad abbattere innanzitutto alcune idee false che noi ci possiamo fare di questo episodio.

È un racconto talmente trito e ripetuto nella catechesi, nella liturgia, nell’arte – i quadri su Paolo, per lo più, raffigurano il cavallo, la caduta, la luce -, da essere facilmente banalizzato, frainteso, colto riduttivamente, con delle conseguenze gravi per il nostro modo di capire la via di Dio nell’uomo.

- Una prima idea falsa, o incompleta, è di pensare a Damasco solamente nell’ ottica di una conversione morale: Paolo era un grande peccatore e, a un certo punto, avendo capito il male che stava facendo, cambia il modo di viverre. La conversione a livello di mutamento etico, che dénota la tenace volontà di Paolo, segna un profondo rivolgimento e un cammino. interiore.

In questa ottica tutto si concentra su ciò che Paolo era, su ciò che fa per cambiare, su ciò che Paolo diviene.

- Un’altra interpretazione riduttiva è quella di pensare a Paolo come all’uomo che cambia bandiera. Uno zelante osservatore della Legge che, a partire da un certo punto in avanti, butta il suo zelo, la sua abilità oratoria, la sua instancabile attività, nel servizio della nuova bandiera di Cristo.

Qui c’è solo cambiamento di oggetto, cambiamento di chiesa: prima serviva la Sinagoga, dopo la Chiesa di Cristo che ha visto come il cammino vincente. Anche nella storia cristiana si ripetono quelle che chiamiamo conversioni e che invece sono cambi di bandiera; alle volte, poi, hanno anche un successivo passaggio ad un terza bandiera.

Si entra nella dinamica in cui il vulcano delle proprie energie, messo su una cosa, si sposta su un’altra che sembra migliore. Di questo passo, va a finire magari che ritorna alla prima, generando inquietudine in tanti che non capiscono più cosa avviene. Non si tratta perciò di una conversione ma semplicemente di un cambio di campo.

Se noi interpretiamo la conversione di Paolo in questo modo, la conseguenza è che applichiamo alla conversione nostra o altrui questi modelli interpretativi, riducendo di molto l’azione di Dio.

2. Cerchiamo inoltre di sbarazzare il campo da ciò pensiamo egli che noi facciamo dire a Paolo o che abbia detto sulla sua conversione.

La prima è proprio la parola « conversione ».

Mi pongo il problema se sia corretto parlare di « conversione di Paolo », anche perché lui non usa mai quel termine per l’evento di Damasco. Forse non abbiamo capito molto di ciò che gli è accaduto: l’abbiamo classificato in un certo modo, riducendolo ad una categoria semplice ma non esaustiva.
Sappiamo che il termine « conversione» è tipico del Nuovo Testamento: oggi, nelle nostre traduzioni, leggiamo « conversione» là dove le traduzioni più antiche, che riflettevano soprattutto la Volgata, parlavano di «penitenza ». C’è stato evidentemente un cambio di linguaggio.

Un tempo il primo annuncio di Gesù riportato in Mc 1, 15 veniva tradotto: «Fate penitenza e credete al Vangelo ». Era un calco del latino paenitemini. Oggi traduciamo « convertitevi ». La parola conversione ha preso più esattamente il posto di « pentitevi » o « fate penitenza».
Nel Nuovo Testamento c’è quindi un vocabolario specifico della conversione che è bene ricordare, perché ci fa capire cose non del tutto esatte.
Il termine «conversione» è tipico della Bibbia in cui si usa il verbo ebraico “sub” che vuol dire “ritornare” .

Conversione è esattamente quella manovra per cui si va in una direzione, a un certo punto ci si blocca e si ritorna indietro.

Nel Nuovo Testamento l’idea del ritorno è espressa soprattutto con due verbi che troviamo nei sinottici e negli Atti: «metanoéin », che significa cambiamento di mentalità; «epistréfo », che più propriamente indica il « ritornare ».

In Mc 1, 15: « Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al V angelo », il vocabolo è « metanoéite ». Mentre in Atti 3, 19 (il secondo discorso di Pietro) troviamo sia « metanoéin »sia «epistréfo »: «Pentitevi, dunque, e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati ». Ritorna la traduzione « pentitevi» per avere una varietà di termini rispetto all’altra «cambiate vita », ma il senso è questo: cambio di mentalità; è il ritorno.

Anche la parola «pentitevi» ha un suo significato preciso; si riferisce sia al dolore interiore per ciò che si è fatto, sia alle forme penitenziali che si assumono come simbolo dell’avvenuto cambiamento. Tutti i vocaboli vanno quindi presi insieme e il tema fondamentale è quello del « ritorno ». Secondo gli Atti degli Apostoli, Paolo stesso usa questo linguaggio quando deve riassumere la sua predicazione: «lo predicavo ai pagani di convertirsi e di rivolgersi a Dio compiendo opere di vera conversione» (At 26, 20); i due verbi sono «metanoéin» ed «epistréfein»; e parla anche di opere di « metanoias ».

Proprio per questo dobbiamo stupirci anche di più che l’Apostolo non abbia mai descritto il proprio evento con la parola «conversione ». Non dice di aver fatto un’azione che definisce con « metanoéin » o con « epistréfein ».

Paolo capiva bene ciò che era una conversione e sapeva che la sua aveva tutte le caratteristiche di una conversione. Tuttavia l’evento da lui vissuto ha avuto modalità più grandi e più profonde. C’è anche da dire che, mentre i sinottici e gli Atti usano di frequente il vocabolario della conversione, Giovanni non lo usa mai. Questo dimostra che ci sono, nel Nuovo Testamento, punti di vista diversi per cogliere la complessità del fenomeno del cammino dell’uomo verso Dio. Giovanni preferisce dire: venire a Gesù, venire a lui, andare a lui. L’idea fondamentale della conversione – che è profondamente biblica – è espressa nel quarto Vangelo in termini di rapporto personale con Gesù, di sequela. Questo è già più vicino alla lettura che Paolo ha fatto della propria conversione.

Il mistero di Damasco

Spianata la strada da interpretazioni false e riduttive, vediamo come l’Apostolo descrive l’evento di Damasco.

La prima sorpresa è che lo descrive poco. Quell’evento fondamentale per lui e da lui sviluppato in tutte le sue lettere, quasi lo tace. È l’episodio che al momento della morte penso abbia in maniera chiara davanti agli occhi; eppure lui, che è così autobiografico, direttamente non ne parla quasi mai. Forse per Paolo ha contato di più l’integrazione di Damasco nella sua vita, come l’ha vissuto e come l’ha riespresso nella teologia.

Quali sono i pochi testi in cui ne parla?

a) Delle grandi lettere, l’unico testo fondamentale in cui descrive l’incontro di Damasco è la lettera ai Galati: «Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani… » (Gal 1, 15-16). I verbi che usa per parlarne sono quattro: mi scelse… mi chiamò… si compiacque di rivelare… perché lo annunziassi. Di questi verbi soltanto il terzo si riferisce direttamente alla conversione. Gli altri collocano la conversione in un quadro di provvidenza: mi scelse, si compiacque, cioè decise, volle rivelare a me. L’esperienza è quindi descritta essenzialmente come rivelazione del Figlio a lui (secondo il testo greco « in » lui) e come missione.

b) In un passo della lettera ai Romani Paolo trasferisce in un quadro di descrizione generale ciò che lui stesso ha sperimentato: «Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» (Rm 8, 29-30).

c) Nella prima lettera ai Corinti c’è un brevissimo accenno, in un contesto polemico: «Non sono forse libero, io? Non sono un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro? » (1 Cor 9, 1): Damasco è stato un.-« vedere il Signore ». E più avanti, nella stessa lettera: «Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. lo infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15, 8-9). Da lui che perseguitava la Chiesa l’evento di Damasco è definito come apparizione « a me indegno ». Ci sono gli elementi di conversione morale; ma il fatto è: Gesù è apparso.

d) C’è un altro passo importante perché, pur non parlando dell’evento, descrive il modo in cui Paolo l’ha vissuto: «Se alcuno ritiene di poter confidare nella carne, io più di lui: circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla Legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede» (Fil 3, 4-9).

Il prima e il dopo è in termini di possesso e povertà (nuovo possesso di Cristo). Ma la descrizione di tutte le cose che aveva prima ci deve far pensare. Nella lettera ai Corinti ha scritto: «Sono l’infimo» (noi diremmo peccatore); ora si definisce « irreprensibile quanto alla osservanza della legge ». Ecco perché non è facile usare la categoria del peccatore e del bestemmiatore parlando di Paolo.

Se è irreprensibile, che cosa è cambiato? « Quello che poteva essere per me un guadagno l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo ». In lui è avvenuta una rivalutazione completa di tutto il suo mondo; ciò che prima considerava importante, ora gli appare zero, non gliene importa più niente. Ciò che prima sarebbe stato per lui irrinunciabile, adesso è diventato spazzatura, perché la conoscenza di Cristo ha assunto un primato assoluto, è la capacità di riempire tutto. L’incontro, la conoscenza, la pienezza di Cristo fa impallidire i suoi giudizi e le sue valutazioni.

e) Un altro testo importante: «E Dio che disse: Rifulga la luce nelle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo» (2 Cor 4, 6). Qui il riferimento è ad ogni apostolo, ma ha una forza particolare se lo applichiamo alla conversione di Paolo. Il Dio della creazione rifulge nel suo cuore e lo illumina per fargli comprendere la ricchezza di Cristo, sua vita.

f) L’ultimo passo è quello che più facilmente ci fa interpretare moralmente la conversione di Paolo. Sarebbe ingiusto trascurarlo, anche se presenta dei problemi dal punto di vista del linguaggio: «Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1 Tim 1, 12-13).

Ma allora, era un bestemmiatore e un violento? Era irreprensibile – come scrive ai Filippesi -, o era un peccatore anche moralmente?

Prosegue: «Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo senza saperlo, lontano dalla fede; così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è sicura e degna di essere da tutti accolta: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori e di questi il primo sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Gesù Cristo ha voluto dimostrare in me, per primo, tutta la sua magnanimità, a esempio di quanti avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1 Tim 1, 13-16). Ecco tutto l’incomprensibile, ricchissimo mistero di questa conversione.
L’evento di Damasco è dunque molto più complesso di un semplice episodio di una conversione morale, di un cambio di mentalità.

È qualcosa di talmente ricco che dobbiamo accostarci ad esso con grande umiltà e riverenza, convinti che ne capiamo poco, che ne sappiamo poco ma che ne potremo conoscere molto di più per grazia di Dio. Allora capiremo meglio noi stessi, il cammino della nostra vita e le nostre conversioni.

Le domande per noi

Terminiamo facendoci una domanda fondamentale, in consonanza con la meditazione: quando mi sono convertito io?

C’è nella mia vita un « quando» della conversione, a cui posso fare riferimento come momento storico?

Anche se non c’è stato un « quando» temporale, certamente sono avvenuti momenti di cambio, di rivolgimento, di crisi, che ci hanno portato a una nuova comprensione del mistero di Dio.

Se non abbiamo mai realizzato fino in fondo questo cambio di mentalità che è essenziale per la vita cristiana, noi non abbiamo ancora colto che cosa è la novità del cammino cristiano, il ritornare indietro. Se non capisco bene le cose dette su Paolo, probabilmente è difficile che capisca che cosa è avvenuto in me. Mi devo allora affidare alla preghiera e dire così:

Signore, fammi conoscere la mia via. Fa’ che, come dice Geremia, io possa mettere nel mio passato dei paletti: «Rivedete le vie del passato, mettete dei paletti di riferimento». Aiutami a capire le tappe del tuo disegno, i momenti di luce e i momenti di ombra, di prova, magari fino al limite della tolleranza. Donami di conoscere a che punto sono in questo cammino e dove mi trovo. Te lo chiedo per Cristo Signore nostro. Amen.

 

CONVERSIONE INTELLETTUALE E PREGHIERA CONVENIENTE – C.M. Martini

Posted on Marzo 20th, 2009 di

Martini Carlo Mariai - Fiaccola

 

La conversione intellettuale

e la preghiera conveniente

di S. Em. Card. Carlo Maria Martini

Riportiamo due meditazioni ai sacerdoti della diocesi di Milano del Cardinal Martini – che ha compiuto da poco gli ottanta anni – tenute la prima a Triuggio il 18 ottobre 1991 e la seconda il 30 ottobre 1991 a Rozzano diocesi di Milano. Il cuore di questo grande Pastore continua a battere al ritmo del cuore di Cristo, e illumina con la sua spiritualità e la testimonianza della sua fede le coscienze di tanti cristiani e uomini di buona volontà in cerca della verità nella carità.I testi che seguono sono tratti da: Carlo Maria Martini, Briciole dalla Tavola della Parola, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp.46- 54, e 55-61 Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

04/03/2007


L’importanza della conversione intellettuale

Le diverse tappe dei vangeli

La festa liturgica di san Luca, che oggi celebriamo, mi ha suggerito di meditare su quella «conversione» che possiamo chiamare «intellettuale».

Essa infatti è bene espressa nell’insieme dell’opera lucana – vangelo e Atti degli apostoli -.

A modo di premessa, ci domandiamo: come si collo­cano i due libri di Luca rispetto agli altri tre vangeli?

Ricordo che nel 1980, all’inizio dunque del mio epi­scopato, avevo presentato, negli incontri di zona con i presbiteri, la figura globale del cristiano attraverso i quattro vangeli.

E dicevo che Marco è il vangelo del catecumeno, per­ché contiene l’essenziale per introdurre al battesimo; Matteo è il vangelo del catechista, perché introduce alla vita della comunità, della Chiesa; Luca è il vangelo del testimone, ín quanto prepara il cristiano all’evangelizza­zione; Giovanni è il vangelo del presbitero, perché mo­stra la sintesi spirituale cui giunge un cristiano maturo che, dopo essere passato per le tre precedenti esperien­ze, diventa capace di assumere responsabilità di una co­munità, come prete o come padre o madre di famiglia.

Di queste quattro tappe lungo le quali si snoda il cammino cristiano, esaminavo poi alcuni aspetti particolari chiedendomi, per esempio: Qual è lo stato di preghiera proprio di ciascuna tappa? Perché, evidente­mente, non é lo stesso pregare come catecumeno o pre­gare come catechista o come evangelizzatore o come cristiano perfetto, illuminato. E quali sono i ministeri delle singole tappe? Quali le forme di intelligenza della fede, di cultura cristiana?

Oggi, supposta la quadruplice divisione dei vangeli secondo diversi livelli della vita cristiana, desidero aggiungere un’ulteriore riflessione sulla conversione.

La conversione è un evento molto importante, fon­damentale per l’uomo. Cristiano è chi si converte dagli idoli a Cristo Gesù rivelatore del Padre e vive la, sua esi­stenza in modo nuovo, con quel modo nuovo di guar­dare la realtà tipico di colui che si riconosce peccatore, ma salvato, figlio di Dio, amato e perdonato.

Se tuttavia esaminiamo da vicino l’evento della con­versione ci accorgiamo che comporta diversi volti, aspetti – non propriamente delle tappe – che storica­mente si presentano talora anche separati.

Possiamo così parlare di conversione religiosa, di conversione morale, di conversione intellettuale e di conversione mistica. A titolo puramente esemplificati­vo (e nell’intento di illuminare meglio il tema della conversione intellettuale, che ci siamo proposti come centro della nostra riflessione) vorrei contemplare quattro figure di santi – Agostino, Ignazio di Loyoia, Newman e Teresa d’Avila – per cogliere, in ciascuno di essi, un volto della conversione cristiana. Tenendo tuttavia presente che questo volto, in loro, non è 1′u­nico. Ogni cristiano, infatti, dopo la prima conversio­ne, quella battesimale, dovrebbe giungere gradual­mente anche alle altre.

La conversione religiosa

Agostino ci mostra chiaramente il passaggio dalla non conoscenza del Dio della Bibbia alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo.

Egli era molto confuso sull’idea di Dio e pensava ad­dirittura a una duplice divinità, al principio del Bene e del Male. Dunque, prima ancora di una conversione morale e di una conversione mistica, Agostino ebbe una radicale conversione religiosa, grazie al contatto con Cicerone.

La racconta nelle Confessioni, quando parla della sua lettura dell’Ortensio: «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspira­zioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza im­mortale con incredibile ardore di cuore. Così comincia­vo ad alzarmi per tornare a te». Il ritorno, il cambia­mento di direzione del cammino, è l’inizio della conver­sione religiosa. «Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa volessi fare di me» (1II, 4. 7-8).

Era ancora incerto sul futuro, viveva ancora un’esi­stenza disordinata, però aveva intuito che in ogni ca­so Dio è tutto, è al di sopra di tutto, che Dio ha il primato.

E se ci domandiamo dove questo è espresso nelle tappe della predicazione evangelica e dei vangeli scritti, rispondiamo che si trova indubbiamente nel libro di Marco: esso proclama la «Buona notizia di Gesù Cristo, figlio di Dio» (1, 1) e chiama l’uomo a una scelta irrevo­cabile del Padre di Gesù Cristo, di questo Dio di Gesù morto sulla croce.

Il vangelo di Marco rappresenta il livello della conver­sione religiosa cristiana.

La conversione morale

Ignazio di Loyola ci permette di vedere un secondo volto della conversione. Credeva in Dio, era stato edu­cato alla fede cristiana, si dedicava anche a qualche pra­tica religiosa, ma gli piacevano le vanità del mondo e la sua vita era piuttosto disordinata.

Trovandosi infermo a seguito di una ferita alla gam­ba, si mise a leggere una «Vita» di Cristo e alcune bio­grafie di santi, che lo posero a confronto con se stesso. Riflettendo seriamente sul suo passato, comprese che pur riconoscendo già il primato di Dio, per essere de­gno dell’amore di Gesù, morto per salvarci, doveva cambiare modo di comportarsi. Da quel momento in­comincia un cammino che lo porterà ad essere un vero uomo di Chiesa, profondamente obbediente alla realtà e all’istituzione ecclesiastica.

La sua è una conversione morale anche negli aspetti so­ciali, perché sfocia nel servizio alla comunità ecclesiale.

A tale aspetto della conversione richiama il vangelo di Matteo rivolto in particolare a quei fedeli che, avendo già accettato Cristo come la pienezza della legge e il predetto dai profeti, devono convertirsi alla Chiesa quale corpo di Cristo, devono accoglierla nella sua di­sciplina, nelle sue regole, nella sua struttura dogmatica.

La conversione intellettuale

E vengo a quel livello di conversione intellettuale su cui vorrei più precisamente concentrare la vostra atten­zione, una conversione sottile e difficile da definire. La leggiamo nella figura del cardinale Newman.

Egli credeva profondamente in Dio e in Gesù, era moralmente molto retto, di grande austerità e santità

di vita. Intellettualmente, però, era molto confuso. Non sapeva quale Chiesa rappresenta veramente la Chiesa istituita da Gesù. Ed è interessante vedere nella sua autobiografia, la fatica mentale che ha dovuto com­piere. Non dunque una fatica morale, e nemmeno reli­giosa, ma proprio la fatica di cogliere tra i diversi ragio­namentí, le diverse argomentazioni, le molteplici teolo­gie e filosofie, quella giusta.

A un certo punto del suo cammino, riflettendo atten­tamente sulle eresie del IV secolo, su come la Chiesa ave­va superato 1′aríanesímo e il donatismo, intuì il principio di unità e la centralità di Roma. In proposito, Newman parla di «illuminazione» che cambiò la sua vita.

Si tratta di una conversione intellettuale; tocca, infat­ti, l’intelligenza che, dopo aver vagato attraverso opi­nioni e punti di vista confusi, diversi, contraddittori, fi­nalmente trova un principio per il quale riesce a deci­dersi e a operare, non sotto l’influenza dell’ambiente o del parere degli altri, bensì per una illuminazione chiara e profonda.

Mi preme sottolineare che la conversione intellettua­le è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più como­do, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell’influenza del­l’ambiente anche buono.

Tuttavia il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segna­to da bufere di opinioni contrastanti.

In altre parole, la conversione intellettuale è propria, di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a coglie­re la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare altri.

L’opera di Luca – vangelo e Atti – rappresenta quel­lo stadio dell’itinerario cristiano in cui una persona, do­po la decisione religiosa di essere tutta del Dio di Gesù Cristo, dopo quella morale di vivere un’esístenza secon­do la disciplina e gli insegnamenti della Chiesa, vuole a ogni costo cogliere il cammino cristiano nel mondo, nell’insieme delle filosofie e delle teologie tra loro diver­se, con una chiarezza che deriva appunto dall’aver im­parato a orientarsi in mezzo a un contesto difficile.

Luca insegna a orientarsi nel mondo pagano, a para­gonare le tradizioni religiose pagane con quelle ebrai­che, a mantenere la fedeltà al Dio di Israele, al Dio creatore e, in Gesù, redentore, pur vivendo al di fuori del popolo ebraico. La comunità primitiva si trovava di fronte a gravi problemi intellettuali e teologici: per esempio, bisogna imporre le forme religiose ebraiche, anche disciplinari, ai pagani oppure occorre operare una nuova sintesi?

Gli Atti degli apostoli ci fanno capire che è possibile un’evangelizzazione planetaria, che non è necessario ri­produrre semplicemente il modello israelitico di pensie­ro e di pratica religiosa. Il grande merito di Luca consiste nell’aver affrontato in modo diretto ed esplicito il problema della cultura religiosa, della conversione intellet­tuale, quindi anche dell’evangelizzazione delle culture.

E la sua opera deve esserci particolarmente cara oggi, dal momento che viviamo in un universo culturale scomposto e confuso. Anche al tempo di Luca erano venute meno le ideologie e si assisteva a una mescolan­za di vecchie e di nuove filosofie, di riti che venivano dall’oriente, di religioni misteriche; la gente era perplessa­ inquieta, aveva bisogno di orientamento, di certezze,di imparare a cogliere l’unità del disegno divino.

Ispirato da Dio, Luca ci ha offerto un modello di ,comportamento missionario al quale riferirci ancora og­gi. Giovanni Paolo II lo riprende nell’enciclica Redemptoris missio, dove presta attenzione alle diverse religioni, al1e varie culture, al dialogo interculturale, ma con quella libertà, chiarezza e serenità che sono proprie di Luca.

Vorrei inoltre osservare che la stessa grande teologia di Paolo è uno sviluppo delle intuizioni di Luca. L’A­postolo costruisce una teologia che non si limita a rin­negare gli errori; essa tiene conto dei concetti buoni del rabbinismo sulla giustizia di Dio e delle riflessioni dello gnosticismo sull’unicità del cosmo. Per questo è molto importante leggere il vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli nell’approfondimento teologico di Paolo, in particolare nelle Lettere ai Romani, ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi.

Il Signore ha dunque provveduto alle colonne della sua Chiesa, a dirigere il consiglio e la scienza di questi uomini per insegnarci a meditare sui misteri di Dio, per permetterci di viaggiare tra genti straniere investigando il bene e il male, senza lasciarci contaminare, indagando la sapienza di tutti gli uomini e dedicandoci allo studio delle profezie (cf. Siracide 39).

Luca è riuscito a operare una sintesi tra visione giu­daica del mondo, a partire da Abramo e dalle profezie, e una visione cosmica che poteva anche essere compre­sa dai pagani, partendo dal Dio creatore e dal primo uomo, considerando quindi tutta la successione dell’u­manità chiamata a un unico disegno.

Lasciamoci perciò scuotere dal messaggio lucano verso una conversione intellettuale, nel desiderio di uti­lizzare la nostra intelligenza per valutare i fenomeni e gli eventi che si verificano intorno a noi, per non esser­ne emarginati o intimoriti.

Quello che propongo nella lettera pastorale Il lembo del mantello è proprio un aspetto della conversione in­tellettuale. Non chiedo di non guardare la televisione, bensì di imparare a giudicare, a criticare, a non essere succubi. Non guardarla sarebbe forse una buona con­versione morale, ma non ci metterebbe a raffronto con molte delle opinioni del nostro tempo. La mia è davvero la richiesta di un salto di qualità nella capacità di autocritica, di critica dei mass media, nella capacità di non lasciarci ipnotizzare da essi. Eliminarli del tutto equivarrebbe a non parlare con i nostri contemporanei.

So bene, ripeto, che il passaggio alla conversione in­tellettuale richiede sforzo, volontà, pazienza, tempo, ma vi invito a farlo. Rimango sempre perplesso quando in­contrando qualche comunità religiosa, anche contem­plativa, mi accorgo che pur conducendo una vita pia, devota, santa, sacrificata, questi uomini o queste donne non hanno l’intelligenza spirituale della situazione della Chiesa. I nostri Padri, come Agostino e Ambrogio, non si sono distinti solo per la pietà o per la moralità; essi avevano acquistato quell’intelligenza che può giudicare da sé ciò che è bene e ciò che è male, che può rendere ragione delle proprie opzioni di fede.

Di questa maturità cristiana, che nasce dalla conver­sione intellettuale, noi abbiamo bisogno oggi per evan­gelizzare un’Europa così sofisticata e attraversata dalle più strane correnti di pensiero.

La conversione mistica

Il vangelo di Giovanni delinea il quarto volto della conversione cristiana, quella mistica che è bene esem­plificata in Teresa d’Avila.

Teresa credeva in Dio, viveva una vita buona, e però lei stessa scrive che il monastero non l’aveva aiutata a compiere veramente un salto di qualità.

Dopo più di vent’anni di «mediocrità» ella entra, per grazia, in quello stato di semplificazione nel quale con­templa il Signore presente in lei, in ogni membro del suo corpo mistico, in ogni persona e in ogni situazione, e contempla tutta la realtà in lui.

La conversione mistica è infatti quella condizione che ci permette di cogliere immediatamente la presenza di Dio ovunque. E lo stadio contemplativo del IV vangelo, il più consono per chi ha responsabilità presbíterali. Perché il presbítero è l’uomo della sintesi, l’uomo che sa vedere sempre lo Spirito santo in azione nella storia, e tutta la storia in Dio. Non è soltanto 1′evangelizzatore che proclama la Parola, ma anche il responsabile e, co­me tale, deve cogliere l’unità nei frammenti, l’unità nel­le disparate attività, attraverso la preghiera continua e il senso dell’onnipresenza divina.

Conclusione

Gli evangelisti ci presentano un ideale di cammino cristiano da cui siamo certamente lontani, e tuttavia cí conforta sapere che Dio ci chiama a percorrerlo. Luca, in particolare, ci stimola a raggiungere una tappa estre­mamente importante per il nostro ministero.

Per il momento di silenzio, vi suggerisco di doman­darvi se provate gratitudine per il dono degli scritti di Luca. Pensiamo come saremmo poveri se non li avessi­mo, se mancassero alla nostra vita i racconti dell’annun­ciazione, della natività di Gesù a Betlemme! Luca arric­chisce grandemente la nostra sensibilità spirituale.

Come cerchiamo di trarre profitto dal suo vangelo e dagli Atti, per la nostra formazione a essere evangelizza­tori? Come ci sforziamo di arrivare alla conversione in­tellettuale, che ci introduce nella comprensione del mondo e della storia? Ci lasciamo aiutare anche dalle iniziative che portano avanti il discorso di attenzione al significato dell’ambiente culturale circostante, che Luca ha avuto così vivo, senza perdere nemmeno una virgola della forza straordinaria della buona notizia di Gesù?


La natura misteriosa della preghiera

Introduzione

Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima setti­mana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con in­sistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, per­ché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.

Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Uffi­cio di Lettura delle settimane venticinquesima e venti­seiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?

A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po­ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio»1.

Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.

Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?

Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera con­scia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costitui­sce una porta molto interessante per costringerci a en­trare in questo mondo immenso.

Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi ri­prendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.

Le due definizioni della preghiera

In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionalí della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.

- La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale del­l’orazione, che sale dal basso verso l’alto.

- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La ri­chiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nel­l’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazio­ne, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’e­levazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa ri­chiesta di preghiera per noi peccatori.

Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nel­le orazioni della messa).

Come si realizza questo secondo elemento della pre­ghiera, che è la richiesta di cose convenienti?

Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le pa­role, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uominí»2.

Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bí­sogni. Non tanto però – dice Agostino – con la molti­plicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Vie­ne così introdotta la nozione di «gemito» che ritrovia­mo nella pagina di san Paolo.

Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, si­gnifica anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisícamente il gemito è l’espressione di chi, man­cando di aria, cerca di aspirarla.

Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera

Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristi­ca dice: decentium, cose conveníenti. E comincia il pro­blema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a ca­so Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che con­vengono (Matteo 7, 11).

Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con­viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.

I Padri insistono soprattutto su una cosa convenien­te, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbia­mo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non dícia­mo piuttosto col salmista: “Una cosa ho chiesto al Si­gnore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signo­re tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario” (Salmo 26, 4)?».

E Agostino specifica: si tratta della «vita beata»3. Ta­le formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradi­zione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoi­cismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.

La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita feli­ce. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbia­mo però riflettere che a lui non importa tanto la mani­festazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: “Pregate inces­santemente” (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desi­derate, senza stancarvi, da colui che solo può conceder­la, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna4.

La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.

 

Ogni richiesta che non è orientata a questa non è con­veniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.

E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio­ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.

Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desi­derio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, di­ventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.

Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.

Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, in­vece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spi­rito santo».

Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cerca­re, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dun­que voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vo­stri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spi­rito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della doman­da è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.

Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito san­to) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongo­no come l’oggetto fondamentale della preghiera di do­manda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.

Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua ve­nuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito san­to venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfet­ta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantag­gio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.

Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con  assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scríttura e dell’insegnamento dei Padri.



1 Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
2 Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63
3 130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60

06 – METTERE LA NOSTRA VITA SOTTO IL RAGGIO DI DIO – Mons. Luigi Serenthà

Le pagine che seguono sono di Mons. Luigi Serenthà, Rettore Maggiore dei Seminari Milanesi,  che ha concluso gli Esercizi Spirituali. Il testo è stato trascritto da registratore e non rivisto dall’Autore.

Mettere la nostra vita

sotto il raggio della parola di Dio

Preparazione alla Confessione comunitaria

Mons. Luigi SerenthàL’Arcivescovo non sa più che parole usare per dire quanto siete bravi, quanto l’avete colpito; ha ripetuto più volte: «Si vede che sono attenti; che sono dei ragazzi formati, diligenti, e ciò nonostante non hanno perso la loro freschezza, la loro vivacità; sono ragazzi pieni di vita, pieni di sincerità, di gioia». Con queste parole l’Arcivescovo vi ha già assolti tutti! Potremmo quindi chiudere qui questo rito penitenziale, perché l’Arcivescovo ha dato un giudizio generale di bontà e bravura per tutti voi!

Ma ho letto una volta in una pagina di santa Teresa d’Avila, una grande santa, vissuta nel 1500 in Spagna, questo paragone molto bello: «Provate a prendere un bicchiere pieno d’acqua e mettetelo in una stanza in un angolo un po’ buio, in ombra. A voi quel bicchiere d’acqua sembra tutto limpido, tutto pulito; ma se per caso, da una fessura di una finestra, entra in quella stanza un raggio di sole e voi collocate quel bicchiere sotto quel raggio, vi accorgerete che dentro l’acqua c’è del pulviscolo, c’è tanta impurità, qualche scoria». Ecco, io penso che uno può dire che tutti noi siamo bravi, buoni, se guarda le cose un po’ da lontano; ma se lasciamo attraversare la nostra vita dalla luce della parola di Dio, ci accorgiamo che la nostra vita, purtroppo, non è limpida, non è bella; porta dentro di sé alcune cose sbagliate, alcuni peccati.

Allora, anche se l’Arcivescovo ha detto che siete bravi, buoni, generosi, simpatici, noi quest’oggi vogliamo mettere la nostra vita sotto il raggio della parola di Dio, per poter scoprire anche le cose meno belle che sono presenti nella nostra esistenza. E io personalmente, senza voler insegnare niente a santa Teresa d’Avila (e sapete che è stata proclamata dal Papa «Dottore della Chiesa», cioè maestra di vita cristiana), vorrei prolungare l’immagine che ha scritto in quella sua pagina, dicendo che la luce del sole, attraversando quel bicchiere, non soltanto fa vedere le cose sporche, il pulviscolo, le scorie, che ci sono, ma con la sua forza, col suo calore riesce a distruggerli, e fa diventare l’acqua ancora limpida e pulita.

Ecco, questo è ciò che vorremmo fare: lasciarci attraversare dalla parola di Dio, per raggiungere due risultati:

1) Vedere le cose sbagliate che sono dentro di noi.
2) Chiedere alla forza e al calore della parola di Dio di distruggere, di bruciare queste cose sbagliate.

Mi sono detto allora: cercherò nella Bibbia qualche parola di Dio da usare come raggio di sole, nel quale collocare la nostra vita; ma poi ho pensato: è da due giorni che l’Arcivescovo dice tante parole di Dio, le ha commentate con la sua parola autorevole di Vescovo, le ha fatte cercare anche a voi… Allora proviamo insieme a ricordare alcune di queste parole forti, luminose, intense, che l’Arcivescovo vi ha suggerito. Intanto anch’io imparo qualcosa…

Faremo due cose: la prima è di raccogliere le parole che vi hanno impressionato; cercherò poi di aiutare me e voi a fare sì che queste parole entrino come un raggio di sole nella nostra vita per farci capire i nostri sbagli, i nostri peccati; ma entrino nella nostra vita anche per darci coraggio, per non avere paura.

Mi pare di capire che le parole che l’Arcivescovo ha commentato con particolare insistenza sono state:
- Gesù conosce tutto e tutti.
- Gesù conosce perdonando e donando.

1. Gesù conosce tutto e tutti, niente e nessuno sfugge alla sua conoscenza piena di amore

Signore, tu mi scruti e mi conosci,
tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.

+ La luce di Gesù penetra tutto. La luce di Gesù non lascia nessuno indifferente.

Se dico: «Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte»;
nemmeno le tenebre per te sono oscure,
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.

+ Gesù conosce di me anche tutto quello che io non conosco.

Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo, perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo.

Il brivido di sentirsi conosciuti. Il brivido di gioia o di rabbia, secondo che noi siamo felici che ci guardi o abbiamo paura che ci scopra!

2. Gesù conosce perdonando e amando

Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri;
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita.

Gesù ci vuole e ci accetta così come siamo; ma incontrandolo, facendoci e lasciandoci conoscere, ci trasforma, perdonandoci e donandoci una vita rinnovata.
Quando incontra la samaritana (e si lascia incontrare), quando incontra la peccatrice (e si lascia amare), quando incontra Zaccheo (lasciandosi vincere dalla sua voglia di vederlo) Gesù li fa diventare diversi; li ha accolti così come erano, ma poi li ha fatti diventare diversi.
(Si può utilmente riprendere il salmo 138 o i diversi episodi del Vangelo sopra ricordati e altri ancora).

* * *

Adesso facciamo due minuti di silenzio, affinché la nostra vita venga attraversata con coraggio da questa sciabola di luce che è la parola di Dio che l’ Arcivescovo ci ha detto in questi giorni e che in questo momento abbiamo ricordato.
Cerchiamo di pregare su quelle parole del Signore. E questa preghiera è anche un po’ un esame di coscienza, un parlare a Gesù come introduzione alla celebrazione del sacramento della Penitenza.

1. Mancanze contro la gioia di essere cristiano e seminarista

O Gesù, io sono rimasto colpito anzitutto da questo fatto, che la tua conoscenza, il tuo sguardo dovrebbe suscitare in me tanta gioia; ma riconosco che purtroppo non sempre ciò si verifica, non sempre sono felice di esserti amico. Se fossi davvero felice di esserti amico, pregherei molto volentieri quando mi è possibile; penserei a te, verrei con gioia in chiesa per celebrare la tua Eucaristia; non avrei paura di dedicare qualche tempo in più della mia vita a leggere la parola di Dio, non soltanto qui in Seminario ma anche quando vado a casa, quando ci sono le vacanze. Forse io sono contento che tu mi guardi e mi conosci, però non provo la gioia di essere conosciuto e guardato da te! Ecco una prima impurità che scopro dentro di me: non sono un cristiano felice.

A volte sopporto la vita cristiana. Con fatica prego, con fatica ascolto la tua parola; non sono uno che prega con entusiasmo, con gioia; che è felice di essere amico

di Gesù; anzi, qualche volta arrivo a dire: «Magari sono più fortunati quelli che non sono stati conosciuti e guardati da Gesù, perché fanno quello che vogliono!». Quante volte forse ho detto: «Come sono fortunati i ragazzi che Gesù non ha conosciuto e non ha guardato come me!».

O Signore, tu che sei tanto buono, perdona se non sempre mi sono lasciato guardare e conoscere da te con gioia, se ho portato la vita cristiana come un peso e non come un dono prezioso che tu mi hai fatto e che mi deve rendere felice!

2. Incapacità di vedere i propri difetti

E poi una seconda cosa bella, o Gesù, io ho ascoltato in queste parole: tu sei venuto per i peccatori, tu sai capire fino in fondo i nostri peccati, tu sei venuto non per quelli che si ritengono giusti, ma per quelli che sanno di essere peccatori, e che cercano il perdono come la samaritana, come Zaccheo, come il buon ladrone, come la peccatrice che è entrata durante il pranzo in casa di Simone. Ecco, io, o Signore, qualche volta faccio fatica a riconoscere di essere peccatore e continuo a guardare i difetti degli altri, e non ho il coraggio di guardare i miei; non ho il coraggio di riconoscere dove sbaglio; faccio fatica anche a farmi conoscere con i miei difetti ai miei educatori e a quelli che vogliono conoscermi bene, perché possano aiutarmi ad essere un bravo cristiano, un bravo seminarista.

Io apprezzo, ammiro la samaritana, Zaccheo, il buon ladrone, ma non so fare come loro; non ho il coraggio, o Gesù, di riconoscere i miei sbagli, di presentarti le mie povertà, i miei peccati. O Gesù, aiutami a non aver paura di me, aiutami a guardare dentro, per scoprire anche le cose che tu soltanto conosci e che io non so conoscere. Comunicami tu la tua conoscenza; fammi vedere dove sbaglio; fammi essere luminoso, coraggioso con me stesso; fammi essere limpido, trasparente verso di te e verso i miei educatori.

3. Non corrispondenza alla generosità del Signore

Terza cosa che mi è piaciuta molto, o Gesù, delle cose che hai detto in questi giorni a questi ragazzi attraverso l’Arcivescovo è che tu conosci tutto e tutti, e, conoscendo tutto e tutti, ti doni, dai tutto te stesso. È questa parola «tutto» che ho sentito continuamente ritornare: Gesù conosce tutto e tutti, Gesù perdona e sopporta tutto, Gesù dona tutto se stesso a noi… e mi ha colpito.

Ecco, anche su questa totalità mi scopro pieno di difetti, perché io ti voglio bene in certi momenti, ti darei veramente tutta la mia vita… Ma poi comincio a dire: questa cosa la tengo per me, per esempio un po’ del tempo della mia preghiera; mi piace pensare ad altre cose mentre prego. Un po’ del mio tempo di studio non lo do a te, ma lo tengo per me per far niente, per disturbare i miei compagni, che sono così indotti dal mio cattivo esempio a distrarsi, a non studiare.

O Signore, quante cose trattengo per me stesso; non do a te tutto il mio tempo, non ti do tutto il mio cuore perché voglio coltivare alcune amicizie non buone; non ti do tutto il mio corpo perché accontento la mia golosità, perché non mi alzo presto la mattina, accontento gli istinti che sento nascere in me.

Tu conosci tutto e tutti; tu doni tutto te stesso a me e io invece continuo a fare degli sconti; qualche cosa di me, del mio cuore, del mio corpo, del mio tempo, del mio studio non te lo do, lo tengo per me.

4. Il nostro amore diverso da quello del Signore

E infine, Gesù, la quarta cosa molto bella che ho sentito viene dalla parabola del buon samaritano.
Questo signore, che non aveva speciali vocazioni, che non aveva particolari compiti nel popolo di Dio (era anzi un forestiero, un nemico), ha saputo imitare la carità di Dio; ha visto quel poveretto e si è comportato così come avrebbe fatto Dio, con tenerezza, con amore, con comprensione.

Ho sentito dire tante belle parole; Gesù ci ama senza differenza, e allora anche noi dobbiamo interessarci dei nostri fratelli; Gesù ci ama, ci conosce, sopporta, perdona nei nostri confronti, noi dobbiamo essere come Gesù per i nostri fratelli, dobbiamo donare, perdonare, sopportare, capire; e anche qui, o Gesù, quante cose sbagliate scopro nel bicchiere della mia anima e della mia vita; quante volte io non do tutto ai miei fratelli, non sono capace di sopportare qualche loro difetto, non sono capace di dare qualche cosa di mio, di dire una buona parola, di perdonare un torto che ho ricevuto. ..

O Signore, aiutami ad essere come te; aiutami a conoscere gli altri con lo sguardo pieno di amore, che sa perdonare, che sa capire, che sa sopportare.

PREGHIERA

Grazie, Gesù, perché mi scruti e mi conosci.
Grazie, Gesù, perché mi conosci perdonando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci illuminando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci separando.
Grazie, Gesù, perché mi conosci sopportando.

Perdona, Gesù, le mie mancanze contro la gioia.
Perdona, Gesù, la mia incapacità di vedere i miei difetti.
Perdona, Gesù, le mie mancanze di trasparenza, di ge
nerosità.
Perdona, Gesù, se ti ho rubato qualcosa che ti dovevo.
Perdona, Gesù, se non ho amato i miei fratelli come te.

Un cammino in tre tappe
Omelia durante la celebrazione eucaristica conclusiva
(Letture: Gn 37,1-7; Prv 3,13-18; Mt 6,19-24)

Dobbiamo rendere grazie al Signore perché la sua parola che questa sera ci è stata annunciata sembra arrivare proprio al momento giusto.
Il rischio che possiamo correre al termine degli Esercizi spirituali è quello di dire: «Ho camminato tanto, ho fatto un lungo percorso di preghiera, di silenzio, di riflessione. Ecco, sono come arrivato in cima ad una montagna. Ho finito di camminare. Adesso mi siedo e riposo un po’».
Mentre il vero significato degli Esercizi non è di invitarci a riposare, ma piuttosto di camminare di più. Gli Esercizi non segnano una mèta raggiunta, ma sono un punto di partenza per una vita cristiana più vera, più seria, più profonda. E mi pare che proprio in questo contesto riusciamo a cogliere la bellezza della parola che il Signore questa sera ci ha rivolto. È una parola che traccia davanti a noi un cammino in tre tappe da percorrere e che potremmo intitolare così:

1) la prima tappa: dall’esterno verso l’interno; 2) la seconda tappa: dall’interno verso l’alto; 3) la terza tappa: dall’alto verso l’altro.

Prima tappa: dall’esterno verso l’interno

Penso soprattutto al Vangelo, che ci ha ricordato come le realtà più importanti da coltivare non siano le cose esterne, ma il nostro cuore, cioè i nostri desideri più profondi, che coltiviamo nella mente e nell’animo.
Il nostro cuore è il nostro intimo, il nostro interno da cui parte ogni decisione di orientare la vita verso i tesori del cielo che sono quelli veri, autentici, che rimangono; oppure verso le cose che passano e vengono distrutte dalla ruggine, dalla tignuola e portate via dai ladri. È importante dare una direzione giusta alla nostra esistenza. Questa direzione giusta dipende dal nostro cuore, dalla capacità che noi abbiamo di penetrare dentro di noi, di meditare, di capire, di riflettere, di non essere tutti dispersi fuori di noi stessi, attratti da tante cose. Questa direzione giusta dipende dalla nostra capacità di fare silenzio per ascoltare parole più grandi e più vere; per riflettere su ciò che accade, così da sapere confrontare un episodio con un altro e distinguere ciò che mi ha fatto bene da ciò che mi fa male, per cercare di coltivare le cose che mi fanno bene ed evitare ciò che fa male a me e agli altri.
Gesù dà importanza al cuore, cioè all’interno della nostra vita. Forse voi in questi giorni, con tanta gioia e anche con un po’ di fatica, avete sperimentato come è importante il vostro cuore. Tutti voi mi avete detto che sono stati giorni belli, che avete pregato, avete fatto silenzio; ma mi avete anche detto che avreste voluto pregare di più, tacere ancora di più, perché avete sco
perto che nella preghiera e nel silenzio uno impara tantissimo.
Ecco la prima tappa di viaggio che Gesù ci propone: saper passare dall’esterno di voi verso l’interno, coltivando l’abitudine al silenzio, alla riflessione, alla preghiera.

Quando ero bambino mi è tanto piaciuta una leggenda che ora vi racconto. Parla di un eremita, che viveva solo in cima ad una montagna, e una volta vide arrivare nella sua grotta una signora che gli disse:
- Signor eremita, sono disperata, sono vedova. Mi è morto il marito. Mi ha lasciato una grande fattoria e tutto va a rotoli. Ogni anno quando tiro le somme della mia attività sono sempre sotto zero; sono sempre piena di debiti. Tutto va male nella mia fattoria.
L’eremita, lisciandosi la barba, cominciò a dire: – Senti, figliuola mia, raccontami cosa fai durante la tua giornata.
- Signor eremita, io mi alzo verso le 9,30-10. – Così tardi? – replicò l’eremita.
- Sì! Poi faccio la mia toilette, e arrivano le 11 – continuò la signora -. Faccio un passeggino in città, a vedere i negozi. Arriva l’una e tomo a casa a mangiare. Poi faccio un riposino. Alle 16 prendo il tè da qualche mia amica. Arrivo a casa la sera. Faccio cena e poi guardo la televisione oppure vado a teatro, o a fare una passeggiata…
L’eremita, lisciandosi la barba, disse:
- Ora ti do io un rimedio per questa tua disgrazia. Si ritirò in un angolo nascosto della grotta e dopo un po’ comparve con in mano una scatoletta, che consegnò alla signora con queste parole:
- Senti, figliuola mia, in questa scatoletta c’è un rimedio eccezionale per la tua disgrazia. Tu però non puoi guardarlo. Tra un mese tornerai qui, e apriremo insieme la scatoletta. Tu devi fare soltanto questa cosa: ogni ora della tua giornata, iniziando dalle sette del mattino sino alle sette di sera, porterai questa scatoletta dapprima nel frutteto, poi nel vigneto, poi nel campo seminato a grano, poi nel mulino, e vedrai che questa scatoletta farà miracoli; farà fiorire ancora la tua azienda.
Fiduciosa nelle parole dell’ eremita, la signora ritornò a casa. Era tentata di aprire la scatoletta, ma pensava: «L’eremita ha detto che se l’apro tutto il rimedio svanisce» .

E così cominciò ad ascoltare l’eremita. Alle sei del mattino si alzava, lei abituata ad alzarsi alle nove! Poveretta, era tutta assonnata, sbadigliava, ma pensava: «L’eremita mi ha detto…», e così si faceva coraggio.
Alle sette era nel mulino, dove stavano macinando il grano, e scoperse che i mugnai spandevano la farina e la buttavano via; ma quando videro arrivare la padrona misero la farina tutta nei sacchi ben pigiata.
Alle otto la signora prendeva la scatoletta preziosa e la portava nel vigneto. I contadini, anziché raccogliere l’uva per fare il vino, la mangiavano oppure la distribuivano ai passanti. Ma visto che arrivava la padrona, dissero:
- Ragazzi, arriva la padrona! Mettiamo tutta l’uva nei tini per poter fare il vino.
E così di ora in ora quella signora portava la scatoletta in tutte le parti della sua fattoria. Così si accorse che anche i mungitori che dovevano mungere le mucche non lo facevano e lasciavano soffrire quelle povere bestie; e altrove gli operai anziché lavorare facevano altre cose.

Per un mese ogni giorno, dalle sette di mattina alle sette di sera, la signora portava la scatoletta preziosa in un posto diverso della sua fattoria, e alla fine del mese cominciò a vedere che i conti tornavano giusti.
Piena di gioia, andò dall’eremita a dire:
- Adesso deve aprirmi questa scatoletta, perché contiene un rimedio veramente formidabile. Ha fatto funzionare alla perfezione tutta la mia azienda.
L’eremita aprì la scatoletta e ne uscì il rimedio misterioso: un piccolo fogliettino su cui c’era scritto: «Alle cose tue pensaci tu!»; e commentò:
- Sappi stare in casa tua. Sappi badare alle cose della tua azienda e vedrai che funzioneranno. Se sei sempre in giro, o a dormire, a chiacchierare, a prendere il tè, invece di pensare a governare la tua casa, sarà impossibile che la casa funzioni.

Ecco, questo saggio eremita ci aiuta a interpretare l’invito del Signore a passare dall’esterno verso l’interno. Impariamo a stare in casa, dentro quella casa interiore che ognuno di noi porta dentro di sé. Tante volte noi pensiamo ad altro, pensiamo a centomila cose. Ma non pensiamo a noi stessi. Non siamo capaci di stare dentro di noi per ascoltare ciò che il Signore ci dice, per capire quello che dobbiamo fare. Ecco la prima tappa che gli Esercizi ci invitano a percorrere: andare dentro di noi.

Imparare a pensare. Imparare a riflettere. Penso che un aiuto importante a percorrere questa tappa ci è dato anche dalla scuola. I vostri educatori e professori vi insegnano a pensare, a ragionare, a riflettere. È un grandissimo aiuto che vi danno. Anche se qualche volta dite che sono troppo esigenti o rigidi – ed è normale che vi lamentiate un po’ – tuttavia dovete dire a loro un grazie immenso, perché vi aiutano ad «andare verso l’interno», a diventare gente che sa badare alle sue cose, che non è sempre con la testa fra le nuvole, dispersa fra centomila distrazioni, ma che sa abituarsi a pensare, a riflettere, a guardarsi dentro.

Seconda tappa proposta dalla parola del Signore: dall’interno verso l’alto

Gesù ci dice: «Il tuo cuore, che è dentro di te, va orientato verso i beni del cielo, verso Dio, verso Gesù, non verso le cose che possono essere rubate dai ladri, o distrutte dalla ruggine e dalla tignuola».
Occorre che i nostri desideri interni vengano orientati verso Dio, verso Gesù. È anche il messaggio che l’Arcivescovo vi ha suggerito in questi giorni. Dobbiamo capire sempre più profondamente questo invito di Gesù ad «andare verso l’alto».
Gesù ci dice che non basta pensare a Dio e servirlo con il nostro cuore qualche volta, dedicandoci poi qualche altra volta a Mammona, cioè al dio del denaro, all’egoismo, al possesso. Gesù ci chiede di andare dall’interno verso l’alto non soltanto qualche volta, ma sempre. Il nostro interno deve sempre essere orientato verso Gesù, in uno sforzo continuo di generosità. Penso che tutti i buoni cristiani di questo mondo ogni tanto sanno orientarsi verso l’ «alto», perché pregano, vanno a Messa, leggono la Bibbia, dicono di sì a Gesù. Ma il guaio è che poi in tanti altri momenti della loro vita non pensano a Gesù; non pensano ad andare verso l’alto, si separano da Gesù con il loro egoismo e i loro peccati.

Dobbiamo noi, tutti insieme, fare il proposito di orientare tutta la nostra vita verso Gesù: senza venire a mezze misure, senza dividere la vita Un po’ per Gesù e un po’ senza Gesù. Tante volte noi dividiamo a metà la nostra vita. Per esempio, con il corpo siamo qui in chiesa, siamo in ginocchio, con le mani giunte, ma la nostra anima è altrove, perché pensiamo ad una cosa e all’altra e così ci distraiamo. In questo caso, metà del nostro essere è con Gesù, ma l’altra metà non è con Gesù. Qualche altra volta facciamo l’inverso: con i nostri pensieri diciamo a Gesù: «Ti voglio bene, voglio pensare a te», ma poi il corpo lo teniamo per accontentare la nostra pigrizia, i nostri comodi, i nostri istinti, i nostri capricci.

Gesù ci chiede di non dividerci a metà, ma di essere tutti intieri per lui.

Ho letto alla porta della cappella una bellissima frase di Madre Teresa di Calcutta: «Essere con Gesù e come Gesù, non qualche ora o per un po’ della nostra giornata, ma ventiquattro ore su ventiquattro». Dobbiamo essere generosi con Gesù; dare tutto noi stessi a lui, e proprio questo vi ha richiamato l’Arcivescovo quando insisteva in questi giorni nel dire che Gesù conosce tutto e tutti; che ha dato tutto se stesso a noi e perciò noi dobbiamo dare tutto noi stessi agli altri.

Quando si tratta di entrare in rapporto con Gesù, gli scarti non vanno bene. Quando ad esempio so che devo fare la meditazione di venti minuti, mentre in realtà la riduco a diciotto…; quando so che devo studiare un’ora e tre quarti, mentre in realtà mi impegno solo per un’ora e mezza, e sciupo l’ultimo quarto perdendo tempo e disturbando gli altri; allora gioco a tirare di prezzo… Ma con Gesù non va bene mirare all’economia. Con Gesù bisogna essere generosi al massimo.

Mi viene in mente al riguardo un’ altra storiella, breve breve, che mi è stata raccontata quando ero in seconda media e come voi stavo facendo gli Esercizi spirituali. Mi è rimasta impressa, perché è un racconto simpatico. Non è un episodio contenuto nei Vangeli, è una leggenda, che però dice una verità molto importante.

Un giorno Gesù disse agli apostoli Pietro e Giovanni: «Andiamo a fare una bella passeggiata in montagna. Però vi raccomando di portare insieme con voi un sasso». Pietro, che era un tipo realista, ragionò così tra sé: «Andare in montagna costa fatica, ci sono delle salite lunghe. Conviene portare un sasso piccolo piccolo». E così si mise in tasca un leggero sassolino.

Giovanni, invece, che era un generoso, senza fare troppi calcoli, prese una grossa pietra, e messala sulle spalle si incamminò dietro a Gesù, verso la cima della montagna. Dopo un bel po’ di strada, Giovanni moriva dalla fatica ed era tutto sudato, mentre Pietro camminava fresco fresco, fischiettando e prendendo in giro Giovanni: «Chi ti ha fatto fare tutta quella fatica lì! Basta un sassolino…».

Arrivarono in cima alla montagna stanchi morti, pieni di fame. Gesù si sedette tra i due apostoli e benedisse quei sassi che, d’incanto, diventarono un pane fragrante. Pietro si trovò tra le mani un minuscolo boccone di pane con cui sfamarsi; Giovanni invece una bella pagnotta, così grande che poté mangiarla insieme con Gesù, e ne avanzò anche per la sera.
Questa leggenda ci insegna ad essere generosi. Con Gesù non si deve giocare a mezze misure o stare sul minimo: a lui occorre dare tutto, e darlo con gioia.

Terza tappa del nostro viaggio, suggerita dalla parola di Dio: dall’alto verso l’altro, cioè verso i fratelli

Quest’ultima tappa non la trovo scritta nel brano del Vangelo proposto, ma la ricavo dall’episodio del libro della Genesi narrato nella prima lettura.

Giacobbe, che ha conosciuto Dio, che ha toccato con mano il suo favore e la sua bontà misericordiosa, sente il bisogno di dire a tutti i suoi familiari: «Buttate via gli idoli. Cercate anche voi di credere in Dio con tutto il vostro cuore!».

È l’esempio di un uomo che ha conosciuto Dio, ha orientato il suo cuore verso l’alto e ora va verso gli altri per dire a ciascuno: «Credete in Dio insieme con me. Sapete come è bello amare Gesù; come è bello conoscerlo; come è bello sapere di essere conosciuti e scrutati dal suo sguardo che illumina e purifica, che separa in noi il bene dal male, che perdona».

E qui capite, cari amici, che voglio alludere alla vostra vocazione. Gesù, chiamandovi a diventare preti, vi invita proprio a spendere la vostra vita per dire agli altri uomini che è bello amare il Signore. Altre persone offrono agli uomini altri doni, come il vestito, il cibo, il vino da bere, la giustizia, ecc.; voi darete agli uomini soprattutto la certezza di essere conosciuti e amati dal Signore.

E qui mi rivolgo in particolare a quelli di terza media che stanno vivendo questi Santi Esercizi quasi come ultima tappa verso una decisione importante che dovranno prendere: se passare in ginnasio, e così continuare il cammino vocazionale, oppure incamminarsi per qualche altra strada.

Può darsi che uno, ragionando con calma col suo Rettore e col suo Direttore Spirituale, capisca che Gesù gli chiede un altro modo di volergli bene e di servirlo nella Chiesa. Quindi niente di male se lascia il Seminario per continuare a seguire la vocazione di Gesù su un’ altra strada, diversa dal sacerdozio.

Però penso che tanti di voi sono realmente chiamati a fare il prete. Qualcuno potrebbe dubitare, pensando: «Ma io ho tanti difetti, faccio tanti sbagli. Come posso fare il prete?»; oppure: «Cosa serve fare il prete. La gente ha bisogno di altre cose più importanti che non la preghiera, il Vangelo, i Sacramenti…».

Ecco, io vi dico: se voi scoprite che la vostra strada è un’altra, benissimo, seguite ciò che Gesù vi indica. Ma se Gesù vi chiama a diventare preti, non scoraggiatevi per i vostri difetti. Chiedetegli piuttosto il coraggio di vincerli pian piano. Soprattutto non pensate che il mondo non abbia bisogno di Gesù. lo ho girato un po’ il mondo in questi anni e dappertutto ho visto un immenso bisogno di persone che parlino di Dio agli uomini.

Ho in mente una scena straziante: nel luglio scorso sono stato in Africa, nel Sudan, e ho visitato a Quirick vicino a Giuba un grosso lebbrosario. C’è chi dice che lì siano raccolti 5.000 lebbrosi, altri dicono che siano 15.000, altri infine che ve ne siano 25.000; nessuno sa il numero preciso, perché i lebbrosi sono abbandonati a se stessi. C’è solo qualche capanna e una piccola cappella costruita da un prete. Ricordo che quando sono arrivato ho incominciato a distribuire un po’ di vestiti e altro… ma quando hanno capito che ero un prete, uno dì loro, che fa un po’ da sacrista, è corso subito in cappella a suonare la campana a più non posso per dire alla gente che era arrivato un prete.

In breve tempo si è radunato un bel gruppo di lebbrosi, e io dicevo: «Ma la Messa l’ho già detta, poi non so parlare l’arabo. L’inglese lo so appena appena». Essi mi rispondono: «Non fa niente, non fa niente! Father, bless us: Padre, benediteci!». Ecco, quella gente affranta aveva bisogno di incontrare un prete per essere benedetta. Uno può dire: «Certo in Africa, poveretti, non hanno niente, cercheranno i preti per consolarsi». No, non è così. Anche in altre parti del mondo ho fatto la medesima esperienza.

Ad esempio, nel 1970 sono stato un mese intero in America, ospite di mio fratello. Vicino c’era la casa di un protestante, più precisamente di una famiglia presbiteriana che ho cominciato a conoscere piano piano fino a diventare amici.

In America tanta gente ha tutto: il frigorifero, il condizionatore d’aria, soldi a palate, due o tre macchine… Eppure questa gente ha un immenso bisogno di Dio. Ricordo che quando recitavo il breviario nel giardino, dalla finestra della casa vicina la signora mi vedeva e sempre mi urlava: «Father Louis, pray also for us! (Don Luigi, preghi anche per noi!». Questa gente, che ha tutto, cerca qualcuno che preghi per loro.

E infine l’ultimo episodio che vi racconto si riferisce all’estate scorsa, quando sono stato in Germania con i seminaristi più grandi della Scuola Vocazioni Adulte di Milano.

Eravamo alloggiati in un ostello della gioventù, dove c’erano anche dei soldati impegnati per alcuni giorni in esercitazioni militari. La sera della nostra partenza abbiamo organizzato una festa assieme, bevendo birra, mangiando salsicce e cantando un po’ in italiano e un po’ in tedesco. Alla fine ci siamo salutati, e un soldato mi è venuto incontro e mi ha detto: «Padre, so che voi siete cattolici e so che questi giovani sono seminaristi. lo sono un protestante evangelico, voglio molto bene al Signore, dica ai suoi seminaristi di pregare tanto per me».

Il mondo ha un immenso bisogno di gente che parli loro di Gesù, che annunci il Vangelo, che trasmetta le cose che l’Arcivescovo vi ha detto in questi giorni.

La gente ha bisogno di uomini che con la loro vita dicano a tutti che Gesù ci conosce, ci ama, ci perdona, sopporta con noi tutte le nostre prove e difficoltà e ci sostiene con la sua grazia.

lo prego tanto in questa Messa soprattutto per voi più grandi di terza media, perché viviate questi ultimi mesi di scuola con coraggio, con gioia, con responsabilità.

Se il Signore vi chiama a diventare preti non siate pigri. Non spaventatevi dei vostri difetti. Non dite che non c’è bisogno di preti in questo mondo, Mentre prego per tutti i seminaristi, prego in modo speciale per voi, perché il vostro cammino sia pieno di speranza e di coraggio.

05 – GESU’ CONOSCE DONANDO – C. M. Martini

IV. GESÙ CONOSCE DONANDO

martini-carlo-maria-omelia20martini«Signore Gesù, siamo giunti all ‘ultima meditazione e mi accorgo di non essere riuscito a dire tutto quello che avrei voluto. Sii tu, te ne prego, a dire loro le parole che veramente contano! Fa’ loro comprendere chi tu sei affinché ciascuno comprenda come tu lo ami.
Maria, madre di Gesù, insegnaci a conoscere Gesù come tu l’hai conosciuto soprattutto quando, sulla croce, ha dato tutto se stesso per noi. Tu, Maria, che sei l’aiuto dei cristiani, prega per noi. Amen».

In questa nostra ultima meditazione vorrei riassumere il segreto di tutte le cose dette precedentemente sotto il titolo: «Gesù conosce donando», ed è per questo che ho voluto affidare alla Madonna la riflessione che cercheremo di fare.
«Gesù conosce donando» significa che noi lo conosciamo quando ci accorgiamo che cosa fa per noi.

Il testo della lavanda dei piedi

Mi fermo alla lettura di un solo brano evangelico, uno dei più belli del vangelo secondo Giovanni, perché è una pagina ricchissima. Mentre io leggo cercate di seguire, come si fa davanti a un testo che vogliamo penetrare, e anzitutto vi consiglio di mettervi in una posizione che favorisca la riflessione. La parola di Dio va ascoltata per quello che è: parola di salvezza, per la nostra salvezza.

Gv 13,1-11: «Prima della festa di Pasqua, Gesù sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine. Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e che a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita». Vi confesso che leggo queste parole con particolare emozione perché, come sapete, il Vescovo, nel giovedì santo, compie lo stesso gesto in Cattedrale.

«Poi versò dell’ acqua e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: “Quello che io faccio tu ora non lo capisci ma lo capirai dopo”. Gli disse Simon Pietro: “Non mi laverai mai i piedi!”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i piedi ma anche le mani e il capo”. Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo. E voi siete mondi ma non tutti”. Sapeva infatti chi lo tradiva e per questo disse: “Non siete tutti mondi”».

La comprensione del testo

1. Qual è lo scenario di questo avvenimento? Gesù si trova verso la fine della sua vita con i discepoli, i quali pensano di conoscerlo a fondo, di conoscerlo già abbastanza. L’hanno infatti sentito parlare per tre anni, hanno visto i suoi miracoli, l’hanno visto pregare e probabilmente pensano: «Ormai sappiamo tutto di lui, sappiamo chi è».
In realtà, non lo conoscono ancora perché non hanno capito che cosa Gesù è capace di fare per loro. Il simbolo della mancanza di comprensione, di conoscenza, è Pietro che si rifiuta di farsi lavare i piedi da Gesù, non lo ammette. Pietro non sa che Gesù è colui che si dona, che serve, che si dà sino in fondo: «Li amò sino alla fine».
Il racconto della lavanda dei piedi è dunque molto importante per conoscere Gesù e vi invito a rileggerlo attentamente.

Da parte mia voglio indicarvi tre punti.

- Primo: Gesù è pronto a servirmi. Sembra incredibile ma è vero. Mi ama fino a servirmi, fino a mettersi a mia disposizione.

- Secondo: Gesù è pronto a servirmi con il dono della sua vita sulla croce. Il racconto della lavanda prelude alla croce. E Pietro, che già in precedenza si era ribellato al pensiero che Gesù potesse andare incontro alla morte di croce, anche qui si ribella ad essere servito da Gesù nel gesto simbolico della lavanda.

- Terzo: Gesù si mette a mia disposizione nell’Eucaristia facendosi cibo. Mi conosce fino in fondo ed entra in me, come cibo eucaristico, come dono del suo corpo.

Noi comprendiamo bene la reazione di Pietro per::ché, pur avendo una grande voglia di essere amati, rion riusciamo a credere che qualcuno ci possa amare fino a dare la sua vita per noi!
Il testo di Giovanni sottolinea, invece, che Gesù ci conosce donandosi, donando tutta la sua vita per noi, per me.

2. Che cosa significa il donarsi di Gesù? Ora è necessario capire che cosa sta dietro alla donazione di Gesù, e mi richiamo a tre brani del Nuovo Testamento: 1 Cor 15,3; Gai 2,20; Ef 5,2. Sono tre parole di san Paolo che ci spiegano cosa vuoI dire che Gesù ci conosce fino in fondo e viene a noi donandosi.

- 1 Cor 15,3: «Vi ho trasmesso, dunque, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture».
Gesù ci ama fino a morire per i nostri peccati. Si mette al nostro posto, entra dentro di noi come se questi peccati li avesse commessi lui, assume su di sé la nostra responsabilità.

- Gal 2 ,20: «Il figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me».
Paolo mette al singolare la stessa affermazione della prima lettera ai Corinzi. Il figlio di Dio mi ha amato e ha dato se stesso per me: potremmo meditare per ore intere su questa parola. Gesù mi vuole essere così vicino da dare se stesso per me! Talora, quando distribuisco l’Eucaristia nella Messa della Visita pastorale, mi capita di pensare: Gesù ha dato la sua vita per questa persona alla quale sto dando l’ostia, perché l’ostia è il suo corpo! Ciascuno di noi quando riceve l’Eucaristia può dire veramente: Ecco il corpo di Gesù per me. Nell’Eucaristia c’è una rivelazione altissima di Dio perchéè la prova, per così dire, fisica che mi sta dando il suo corpo, cioè che mi ama. È un segno irrefutabile dell’a- . more di Dio per ciascuno di noi.

- Ef 5,2: «Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi».
Dal momento che Gesù ha dato se stesso per noi, noi dobbiamo amarci e camminare nella carità, essere una Chiesa della carità. Il programma pastorale che la nostra diocesi vuole vivere quest’anno è la prossimità, il farsi prossimo, l’essere Chiesa della carità. E il motivo è che Gesù ci ha amato e ha dato se stesso per noi. Questa è la radice di tutto, di tutta la vita della Chiesa. Tutto quello che io faccio come Vescovo, quello che fanno i preti, quello che si fa nelle parrocchie e nei seminari, quello che fa il Papa, ha una unica radice: il figlio di Dio ci ha amato e ha dato se stesso per noi.
Senza questa radice la Chiesa diventa incomprensibile, la vita cristiana perde il suo senso, i sacerdoti non avrebbero ragione di essere.
Non dimenticate dunque mai la fondamentalità del dono che meditiamo guardando Gesù in croce.

La preghiera sul testo

La preghiera che il racconto della lavanda suscita in noi deve essere preceduta da una domanda: Che cosa posso dare a Gesù, che cosa gli darò per ricambiare ciò che lui ha fatto per me?

1. Anzitutto cercherò di fare la visita al SS.mo Sacramento. Nella visita, infatti, posso contemplare Gesù che mi serve e mi ama dando se stesso per me: mi metto in ginocchio o compostamente seduto, e gli metto a disposizione un po’ del mio tempo. È un segno di grande riconoscenza la visita, e se ci costa, meglio ancora! «Gesù sono qui con te, sto qui con te perché tu hai fatto tutto per me».

2. In secondo luogo devo vivere la S. Messa come centro della giornata. Nella Messa io dono a Gesù tutto me stesso. È vero che la Messa è il centro della mia giornata? «Gesù, fa’ che lo sia, fa’ che lo diventi!». Penso durante il giorno alla Messa e mi rioffro al Padre con Gesù? «Gesù, fammi vivere la Messa in unione con te, come offerta al Padre!».

3. Il terzo modo per rispondere alla domanda è di chiedermi se c’è qualcosa, nella mia vita, che Gesù vuole e che mi costa dargli. Forse si tratta di una cosa molto piccola e tuttavia non mi decido a darla. «Gesù, fammi comprendere che cosa vuoi da me e, dopo avermelo fatto comprendere, dammi il coraggio di donartela così come tu hai avuto il coraggio di morire per me sulla croce».
Se, ad esempio, in questi giorni abbiamo capito che Gesù vuole una cosa particolare, questa può costituire il proposito degli Esercizi e sarà allora utile metterla per iscritto: magari un difetto che devo vincere, una ripugnanza da superare, un’antipatia o un malumore da lasciar cadere. Tutto questo può essere un dono a Gesù, un modo per rispondere a quell’ amore che il racconto della lavanda dei piedi ci ha fatto comprendere.

Il salmo 138

Possiamo, per concludere, provare a rileggere il salmo 138. L’abbiamo letto all’inizio, però adesso molte parole del salmo ci saranno più chiare avendo capito di più che Gesù ci conosce, che ci conosce illuminandoci, standoci vicino, costruendoci e perdonandoci, che ci conosce sopportando e soffrendo le nostre prove e le nostre tentazioni, che ci conosce donandoci se stesso fino alla morte di amore in croce.

Lo leggiamo lentamente per recitarlo come una preghiera nostra, che ci nasce dal di dentro e che riassume le riflessioni comunitarie e personali che abbiamo fatto.

E prima di leggerlo possiamo invocare il Signore dicendo: «Signore, noi sappiamo pregare così poco! Manda il tuo Spirito perché preghi il salmo per noi, perché ci insegni la vera preghiera. Tu che hai ispirato il salmista, ispira il nostro cuore affinché possiamo leggerlo con quell’amore con cui l’ha pregato Gesù, con cui l’ha pregato Maria. Donaci di leggerlo con quell’amore con cui l’hanno pregato i tuoi Santi: Ambrogio, Carlo, Agostino. Vogliamo pregarlo insieme con tutti i Santi del cielo e della terra, con l’intera Chiesa diocesana di Milano, con i nostri genitori, i nostri fratelli e sorelle, con i superiori del seminario, con le suore, con tutti coloro che in questo momento sono sotto lo sguardo di Dio».

«Signore, tu mi scruti e mi conosci.
Tu sai quando seggo e quando mi alzo.
Penetri da lontano i miei pensieri,
mi scruti quando cammino e quando riposo.

Ti sono note tutte le mie vie;
la mia parola non è ancora sulla lingua
e tu, Signore, già la conosci tutta.

Alle spalle e di fronte mi circondi
e poni su di me la tua mano.
Stupenda per me la tua saggezza,
troppo alta, e io non la comprendo.

Dove andare lontano dal tuo spirito,
dove fuggire dalla tua presenza?
Se salgo in cielo, là tu sei,
se scendo agli inferi, eccoti.

Se prendo le ali dell’aurora
per abitare all’estremità del mare,
anche là mi guida la tua mano
e mi afferra la tua destra.

Se dico: “Almeno l’oscurità mi copra
e intorno a me sia la notte”,
nemmeno le tenebre per te sono oscure
e la notte è chiara come il giorno;
per te le tenebre sono come luce.

Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio;
sono stupende le tue opere.

Tu mi conosci fino in fondo.
Non ti erano nascoste le mie ossa
quando vènivo formato nel segreto,
intessuto nelle profondità della terra.

Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i miei giorni erano fissati, quando ancora
non ne esisteva uno.

Quanto profondi per me i tuoi pensieri,
quanto grande il loro numero, o Dio;
se li conto sono più della sabbia,
se li credo finiti, con te sono ancora.

Scrutami, o Dio, e conosci il mio cuore,
provami e conosci i miei pensieri:
vedi se percorro una via di menzogna
e guidami sulla via della vita».

04 – GESù CONOSCE SOPPORTANDO – C. M. Martini

III. GESÙ CONOSCE SOPPORTANDO

martini-carlo-maria-omelia20martini«Ti ringraziamo, Signore Gesù, perché ci chiami davanti a te. Tua è la parola che ascoltiamo e non parola di uomini; tu parli al nostro cuore. Sei tu che ci parli con amicizia, è a te che diciamo grazie perché ci hai dato tante cose. E noi, Gesù, che cosa daremo a te?
Fa’ che oggi sappiamo darti qualcosa di importante, fa’ che ti conosciamo come tu ci conosci perché possiamo essere veramente tuoi amici, così come tu sei amico nostro.
Maria, madre di Gesù, sede della sapienza e aiuto dei cristiani, prega per noi. Amen».

Abbiamo visto come Gesù conosce tutto e tutti, abbiamo compreso che Gesù ci conosce illuminando e separando in noi la luce dalle tenebre. Forse qualcuno di voi avrà anche pensato che la prima grande illuminazione che Gesù ha fatto nella nostra vita – l’illuminazione che resta fondamentale – è il Battesimo. Nel Battesimo ci ha chiamato per nome e ci ha dato il dono della fede, della speranza e dell’amore.

Sarebbero molti i temi sulla conoscenza che Gesù ha di noi, sul come Gesù ci conosce, e tuttavia io mi devo limitare a suggerirvi quattro meditazioni in tutto. Vorrei però çhe voi continuaste, terminati questi giorni di ritiro spirituale in comune, a cercare altri titoli. Ad esempio, sarebbe bello approfondire la tesi: «Gesù ci conosce perdonandoci». Quando Gesù ci perdona nel sacramento della Confessione, ci perdona dal di dentro, come uno che ci conosce e ci ama a fondo.

Il perdono è uno dei modi migliori per diventare amici! Ci sono amicizie che nascono dal trovarsi bene insieme, e ce ne sono altre che nascono da un perdonarsi sincero dopo aver litigato: questo secondo tipo di amicizie è certamente più forte. Non so se ricordate il grande gesto di perdono eroico che il figlio di Vittorio Bachelet ha avuto nei riguardi dei terroristi che avevano ucciso suo padre, o il gesto eroico di perdono di Maria Fida Moro: da questi gesti è nata una profonda amicizia tra il figlio di Bachelet e i terroristi, tra Maria Fida Moro e i terroristi. Il perdonare è segno di amicizia. Confido quindi che voi saprete riflettere su altri modi con cui Gesù ama ciascuno di voi.

In questa terza meditazione vorrei svolgere il titolo: «Gesù mi conosce sopportando». Non vuol dire che Gesù mi conosce sopportando la mia pigrizia, la mia svogliatezza, il mio poco impegno! Si tratta di qualcosa di molto più profondo: Gesù mi conosce vivendo delle prove e delle tentazioni simili a quelle che vivo io, Gesù mi conosce facendosi simile a me nelle prove. Svolgiamo il titolo attraverso i tre momenti che ormai avete certamente imparato.

La raccolta dei testi

Sono tre i testi evangelici che ho pensato di suggerire.

1. Le tentazioni di Gesù: Mt 4,2. Gesù dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, ha avuto fame e allora il tentatore gli si avvicina. Mi fermerò soltanto sul significato delle seguenti parole: «Gesù ebbe fame».
È una fame diversa da quella che si può avere dopo aver giocato tutta la mattina, dopo essersi impegnati a fondo in una gara sportiva. La fame che Gesù prova si avvicina alla grande fatica di coloro che fanno, ad esempio, lo sciopero della fame. Per quaranta giorni e quaranta notti aveva vissuto con pochissimo – un po’ d’ acqua da una pozzanghera, qualche erba -; è stanco, affaticato, con la testa vuota e non ha più voglia di niente. Gesù prova la tentazione di pesantezza che noi sentiamo nella vita quotidiana quando tutto ci è difficile e ci dà disgusto: facciamo fatica a vedere i compagni, facciamo fatica ad alzarci e a rispondere al richiamo della campana.
Gesù ci conosce perché ha provato anche lui queste cose.

2. Il secondo testo è il racconto del Getsemani: Mt 26,38. Gesù prende con sé Pietro e i due figli di Zebedeo (Giacomo e Giovanni) e va con loro nel podere chiamato Getsemani. Poi dice loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Da ragazzo questo brano mi faceva molta impressione e mi chiedevo: «Come è possibile che Gesù provi tristezza e angoscia fino alla morte? Come è possibile che Gesù provi le tristezze che posso sentire io, i momenti di ansietà che talora vivo?». Gesù mi conosce anche in quei momenti di turbamento e di angoscia che nessun altro forse conosce.

3. Il terzo testo è la terribile tentazione di Gesù sulla croce: Mt 27,40. I passanti insultano Gesù crocifisso e gli dicono: «Tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso! Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce!».

La comprensione dei testi

Abbiamo già detto sufficientemente della prima tentazione, quella della fame, della stanchezza infinita provata da Gesù.

- Pensando all’angoscia del Getsemani dovremmo approfondire la riflessione leggendo, sempre al c. 26 del vangelo secondo Matteo, là dove si dice che «tutti i discepoli fuggirono» (v. 56). Gesù si sente solo e nessuno dei suoi gli dà più retta, nessuno sta più dalla sua parte. La tristezza giunge fino all’esperienza della solitudine, del sentirsi abbandonato. Talora ci capita di sentirci soli, anche se abbiamo intorno i compagni di scuola, i superiori del seminario, se ci sono con noi i genitori e gli amici. È una sensazione che non riusciamo a spiegare, che ci fa soffrire, che ci toglie ogni gioia. Gesù ha già vissuto tutto questo e l’ha voluto provare per me, per darmi la certezza che lui conosce tutto di me e sempre mi è vicino, mi ama.

- Nel terzo testo, Gesù viene tentato in ciò che gli sta più a cuore: «Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce». Ma Gesù è figlio di Dio e l’insulto vuol costringerlo a scegliere la via del potere, del trionfo, lasciando la via dell’obbedienza e dell’umiltà. È quindi tentato sulla sua strada, sulla sua vocazione. Spesso vi sarà capitato o vi capiterà che altri dicano: Ci sono tante cose da fare per la Chiesa e perché tu scegli la via del seminario, una via di sacrificio, di rinuncia? Perché scegli la via del sacerdozio, una via povera e difficile?
La fame e la fatica, la tristezza fino alla solitudine, la tentazione sulla vocazione, sono tre esempi attraverso i quali vediamo che cosa Gesù sopporta per noi.

- Comprendere i tre testi vuol dire approfondire la domanda: Perché, Signore Gesù, tu che non avevi bisogno di viverle, sei passato per queste prove così dure? E Gesù ci risponderà: Per esserti vicino, per conoscere e sperimentare quello che tu puoi provare e provi.
Sarebbe utile che ciascuno di voi, personalmente, cercasse di leggere un altro brano della Scrittura, che si trova nella lettera agli Ebrei – forse la più difficile di tutto il Nuovo Testamento -: «Gesù doveva rendersi in tutto simile ai fratelli per diventare un sacerdote misericordioso e fedele… Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova» (Eb 2,17-18).
Leggendo e rileggendo questi versetti sono certo che, con la grazia del Signore, potrete capire meglio che cosa significa che Gesù ci conosce sopportando e che non situazione nella quale non possa darci una mano, anche se il demonio tende a suggerirci: «TI Signore ti ha abbandonato, nessuno più pensa a te!».

La preghiera sui testi

Sono cinque le domande che vi aiuteranno a pregare insieme con Gesù.

Prima domanda: Quali sono le mie tentazioni? Ciascuno dovrà naturalmente rispondere personalmente e potrà poi parlarne con il confessore o con il direttore spirituale.
Sarà forse la fatica di pregare, la svogliatezza, oppure la tentazione degli alti e bassi, il cambiamento di umore con passaggi dalla gioia alla malinconia, voglia di piangere, tristezza… Altre tentazioni possono riguardare la nostra vita, la nostra fantasia, il nostro corpo, i nostri progetti, il nostro futuro. Pensare a quelle che mi toccano più da vicino chiedendo al Signore: «Gesù, tu che hai sofferto tante prove per me, fammi capire quali sono adesso le mie prove». Perché ci sono prove che non riusciamo a cogliere e sarà importante forse fare un elenco, per iscritto, delle più decisive.

Seconda domanda: Mi spavento delle prove? Mi fanno paura? Quando, ad esempio, abbiamo l’impressione di vivere una prova che nessuno può capire, sopravviene il timore. Ricordo il grande bene che mi ha fatto il Diario di Giovanni XXIII, là dove parla delle difficoltà e delle prove che ha passato quando era un giovanissimo seminarista, delle prove avute con la famiglia, dei suoi difetti, dei problemi che ha dovuto affrontare da prete, da delegato apostolico in Turchia, in Bulgaria, e poi da Papa. Mi ha fatto bene perché ho capito che prima o poi passiamo tutti per le stesse tentazioni, le stesse difficoltà. Tra l’altro Giovanni XXIII ne parla con tale semplicità da aiutarmi a ridere un po’ sulle mie prove.
Il demonio invece cerca di farci paura mettendoci in mente che la nostra è la prova più grande di tutte, che nessuno l’ha mai vissuta, che è meglio non parlarne perché non saremmo capiti, ecc.

Terza domanda: Mi sento solo nelle mie prove? Sentirsi solo è già una prova. Le prove più dure sono quelle che non vogliamo esprimere nemmeno nella preghiera, dicendo a noi stessi che Gesù non può aiutarci, che siamo fatti così e non c’è altro da fare. E, naturalmente, il demonio si accanisce a farci credere che siamo davvero soli.

Quarta domanda: Mi faccio aiutare da Gesù nella preghiera, dalla Madonna, da una visita al SS.mo Sacramento, da una lettura del Vangelo, soprattutto da un colloquio con il direttore spirituale? Oppure penso che posso cavarmela da me? In questo secondo caso cadremmo in una grandissima tentazione.

Quinta domanda: Mi difendo? Bisogna, infatti, imparare a difendersi nelle tentazioni. In questi giorni, trovandomi con voi, mi sono venute in mente abbastanza chiaramente le prove e le tentazioni che ho avuto da ragazzo e per questo vi dico: è estremamente importante non che il Signore ci tolga le prove o tentazioni bensì che ci aiuti a saperci difendere, a saper resistere. Le prove hanno una grande utilità nel nostro cammino: senza di esse non si riesce a crescere, a diventare maturi e io ringrazio il Signore per tutti i momenti difficili attraverso i quali sono passato e ancora passerò. Tuttavia dobbiamo imparare a difenderci. Come ci si difende?

1. Non indugiare nei pensieri che ci vengono, non rimuginare sul perché e sul come. Se indugiamo, ad esempio, nelle prove depressive – scoraggiamento, malinconia – ne rimaniamo avvolti come ci avvolge un serpente quando attacca. Bisogna interrompere con decisione il corso dei pensieri.

2. Fare qualche cosa, qualche attività: cantare, correre, ascoltare una bella musica, leggere un salmo, dedicarci a una cosa che ci interessa. Se non si reagisce fortemente, ci deprimiamo sempre di più.

3. Per difenderci dalle tentazioni che riguardano la fantasia, la curiosità, i sensi, occorre saperci chiaramente disciplinare, cioè rendere ferma la nostra attenzione sui pensieri o sulla curiosità. Se ci lasciamo prendere dalla curiosità, sarà difficile vincere le distrazioni. Un esempio pratico è quello della televisione: la televisione sempre accesa costituisce un grosso danno. Come pure il manovrare la televisione passando continuamente da un canale all’altro, da un’immagine all’altra, perché è fonte di divagazione. Se dunque mi accorgo di essere distratto nella preghiera e non mi decido a dare un taglio netto alla televisione e alla curiosità, non potrò controllare i pensieri inutili durante la preghiera.

Quando ero ragazzo io, la televisione non c’era e però mi piaceva moltissimo il cinematografo: uno dei miei sogni era, una volta diventato grande, di comprarmi la tessera del cinema in modo da poter andare sempre senza fare la coda per il biglietto! Ad un certo punto ho compreso chiaramente che dovevo fare un passo decisivo, che dovevo troncare con l’abitudine del cinema e con i sogni della tessera. Forse il mio fu un taglio un po’ duro, un po’ rigido, e tuttavia sincero e coraggioso. Da quel momento ho avuto un grande giovamento nella preghiera.

Credo quindi che una decisione possa vincere le tentazioni di distrazioni, di curiosità, di fantasia, di incapacità a pregare assai più che non tanti consigli buoni. Per difendersi è allora necessario conoscere le proprie tentazioni e le proprie prove e applicare per ciascuna i rimedi giusti. Il direttore spirituale è la persona più adatta per aiutare, con la sua esperienza, ad applicare i rimedi giusti.

Poco per volta ci lamenteremo sempre meno delle prove. Le prove ci saranno, ma diventeranno occasione di crescita e potremo ricordarle come i momenti più belli della nostra vita, i momenti della lotta e del coraggio, i momenti in cui abbiamo sentito davvero che Gesù ci conosce e che noi lo conosciamo sopportando le prove e le tentazioni, lo conosciamo come amico che ha condiviso le nostre difficoltà e le nostre sofferenze, come amico vero.

«Signore, fa’ che ti conosciamo nelle nostre prove. Fa’ che ti ringraziamo per le nostre prove».

03 – GESU’ MCONOSCE ILLUMINANDO – C. M. Martini

II. GESÙ CONOSCE ILLUMINANDO

martini-carlo-maria-omelia20martini«Vieni, Spirito Santo, e riempi i nostri cuori della conoscenza di Gesù, allarga il nostro cuore perché possiamo conoscere l’ampiezza della sua conoscenza! Maria, madre di Gesù, aiutaci a comprendere che Gesù ci conosce illuminando; tu che sei la fonte della nostra gioia, prega per noi!».

Dopo aver detto che Gesù conosce tutto e tutti incominciamo a vedere come, in quale modo Gesù ci conosce. li titolo di questa seconda meditazione è: «Gesù conosce illuminando» e, applicandolo a ciascuno di noi: «Gesù mi conosce illuminandomi».

Prima di raccogliere i testi del Vangelo su questo tema della luce, vorrei spiegare il significato stesso del titolo. Se, per esempio, entra qui una persona, si siede al mio posto e getta un’occhiata su di voi, ecco che vi conosce. E se voi la guardate, la conoscete. Si tratta tuttavia di una conoscenza molto superficiale, che non ci tocca dentro; è come quando si va in autobus o in treno e vedendo tanta gente la si conosce. Però ciascuno rimane com’è. La conoscenza di Gesù è di una qualità diversa perché lui è luce, luce vera che illumina ogni uomo e ogni cosa, esattamente come la luce del sole illumina tutto ciò su cui si posa, avvolgendolo. Ricordate il salmo 138 là dove dice: «Nemmeno le tenebre per te sono oscure»?

Gesù quindi ci conosce non da lontano, non superficialmente, ma venendo vicino a noi come luce e operando in noi il duplice effetto della luce. Qual è il duplice effetto della luce?

La luce penetra nei corpi trasparenti, creando invece un’ombra quando trova un corpo opaco. Gesù ci conosce come una luce che, arrivando in noi, distingue quello che è luce da tutto quello che è tenebra. Potremmo anche dire che Gesù mi conosce illuminando e separando nella mia coscienza la luce dalle tenebre.

Può sembrare un po’ difficile il concetto, ma i testi che raccoglieremo ci aiuteranno a capirlo.

La raccolta dei testi

Cerchiamo allora quei brani del Vangelo dove si vede che Gesù conosce come luce, con il duplice effetto di rendere luminosi coloro che lo accolgono e mettendo in rilievo l’ombra di coloro che sono opachi e non lo accolgono.

Ve ne suggerisco due molto belli, lasciando a voi di trovarne altri.

1. Il primo brano racconta la scena di Gesù in casa di Simone, di fronte alla donna peccatrice: Lc 7,36-50. La luce, che è Gesù, colpisce due persone, Simone e la peccatrice, e però con un effetto diverso. Simone è opaco e la luce di Gesù fa emergere la sua oscurità; la donna è trasparente, aperta e la luce di Gesù la conosce trasformandola.

2. Il secondo brano è un racconto della passione di Gesù: Lc 23,39-43. Crocifissi con Gesù ci sono due ladri e Gesù li illumina entrambi: uno si lascia illuminare e lo accoglie; l’altro respinge la luce e resta nella tenebra.

Ci sono tanti altri episodi evangelici che ci parlano di persone trasparenti nelle quali penetra la luce di Gesù, e di persone opache che la respingono. Sono certo che voi saprete trovarli.

La comprensione dei testi

Passiamo al momento della riflessione nel desiderio di capire i testi evangelici che abbiamo trovato.

- Lc 7,36-50. Gesù è invitato da un fariseo, di nome Simone, entra in casa sua, si mette a tavola. Ad un tratto giunge una donna, con un vasetto di olio profumato e si mette ai suoi piedi: piange, bacia i piedi di Gesù, li cosparge di olio. Simone, che l’aveva invitato, pensa dentro di sé: «Se costui fosse un profeta saprebbe che specie di donna è costei che lo tocca: è una peccatrice!». È interessante quello che il fariseo pensa. Egli sa che Gesù conosce i cuori degli uomini e tuttavia non si immagina che li conosce illuminandoli, cioè entrando nella loro coscienza.

Che cosa avviene? Essendo luce per tutti e due, Gesù conosce con amore sia Simone che la donna, è disposto e pronto a volere il loro bene. Sono queste due persone che si comportano in maniera diversa.

Simone è pieno di sé, della propria dignità, è convinto di aver fatto un piacere a Gesù invitandolo a mangiare e si aspetta che Gesù lo ringrazi, che apprezzi il coraggio da lui avuto facendolo entrare in casa sua! La luce di Gesù non può penetrare in Simone, perché trova materia opaca ed emergono le ombre della superbia e della vanità, della presunzione e del disprezzo che Simone ha degli altri. Pur essendo luce, Gesù incontra la resistenza e la chiusura del cuore.

La donna, invece, piange ai piedi di Gesù pensando di non valere niente, di non meritare niente perché ha sbagliato. La gente mormora di lei ed ecco che lei si affida a Gesù. La luce la penetra perdonandola e rifacendola nella sua vita.

Simone si erge a giudice, giudica Gesù e la donna; la donna si lascia giudicare da Gesù e si lascia trasformare dalla sua luce.

Gesù, conoscendoci come luce, può rivelare la nostra superbia e la nostra bontà. Per questo dice a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei, da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai cosparso il mio capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha molto amato. Quello invece a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7,44-47).

Gesù dunque capovolge la situazione: Simone, che presumeva di avere grandi meriti, è smascherato come uomo meschino, gretto, freddo, arido, incapace di accogliere bene un ospite; la donna, che era disprezzata, rivela di avere il cuore più grande di tutti.

Questo è il modo in cui siamo conosciuti da Gesù, e fino a quando non ci lasciamo conoscere così non abbiamo ancora capito come ci conosce, non abbiamo veramente compreso come Gesù, con la sua conoscenza, entra dentro di noi.

- Lc 23,39-43. L’episodio ci è noto: Gesù è appeso alla croce e vicino a lui sono crocifissi due ladri. Uno lo insulta dicendo: «”Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso”».

La scena è simile a quella di Simone e della peccatrice.

C’è Gesù che sta morendo, e con la sua morte e con il suo amore illumina i due uomini crocifissi. Uno però è chiuso, pieno di rabbia e di amarezza e non vuole accettare di avere sbagliato, getta la colpa sugli altri, grida contro la società, non riconosce di aver fatto del male, di essere stato ingiusto.

L’altro, invece, ammette i suoi errori, sa di ricevere un castigo corrispondente alle azioni malvagie che ha compiuto e riconosce che Gesù non ha fatto nulla di male.

È lo stesso Gesù che ha messo in luce le tenebre del primo e che rischiara il cuore del secondo: lo rischiara al punto che il buon ladrone afferma la grandezza di Gesù e il suo potere nel regno di Dio.

Ci sarebbero tante altre riflessioni da fare e affido a voi questo lavoro: se troverete altre pagine evangeliche che parlano della conoscenza di Gesù che illumina i cuori trasparenti e mette in evidenza le ombre dei cuori chiusi e presuntuosi, potrete paragonarle l’un l’altra, approfondendo sempre più il tema della meditazione.

La preghiera sui testi

Proviamo a metterci ora nella situazione di preghiera dei personaggi che abbiamo cercato di capire.

- La preghiera della peccatrice ai piedi di Gesù può diventare la nostra preghiera: «Gesù, sono anch’io ai tuoi piedi, ho la fortuna di essere davanti a te che sei nel tabernacolo come Eucaristia. Mi verrebbe voglia di cantarti tutti i miei meriti, come Simone, e invece preferisco riconoscere che ho degli sbagli e dei peccati. Signore, non sono sempre come vorrei ,essere, non sempre prego volentieri, spesso mi lascio vincere dalle distrazioni. Signore, talora ce l’ho con i miei compagni, sono invidioso, ho dei risentimenti, mi irrito ed esprimo la mia ira con parole e con gesti. Signore, tante volte non lascio il primo posto agli altri, me lo prendo io il primo posto, convinto che mi spetti». In questo momento Gesù mi illumina perché sono sincero davanti a lui.

- Se, al contrario, mi metto nella situazione di Simone, prego così: «Signore, gli altri hanno sbagliato, ce l’hanno con me, mi trattano male e ingiustamente, non mi capiscono, mi mettono da parte, credono di valere più di me».

- Sono due modi di pregare che ci fanno venire alla mente un altro brano del vangelo di Luca, là dove si parla del fariseo e del pubblicano: due personaggi che reagiscono diversamente alla luce di Gesù (Le 18,9-14). E poi c’è pure il racconto parabolico del buon samaritano, del levita e del sacerdote (Lc 10,30-37). Un uomo ferito è sulla strada, e Gesù illumina tutti coloro che gli passano accanto: la sua luce è accolta dal samaritano ed è respinta dal sacerdote e dal levita.

La preghiera di fiducia in Gesù e di riconoscimento del nostro peccato è una preghiera di preparazione al sacramento della Confessione.

Confessarsi significa mettersi, come la peccatrice, ai piedi di Gesù, significa porsi vicino al ladro sulla croce, vicino al pubblicano che prega nel tempio e al buon samaritano che si ferma accanto al ferito, e dire: «Signore, illumina la mia vita, fammi capire chi sono io veramente, entra in me come luce che illumina, purifica, riscalda, fa’ che io mi lasci conoscere da te fino in fondo… Signore, come vorrei poterti gridare, come il ladro, di ricordarti di me nell’ora della mia morte! Ho sbagliato, è vero, ma io confido in te».

Gesù allora entra nel nostro cuore, nella nostra vita e resta con noi.

Applicazioni pratiche

- Come prima applicazione pratica della nostra riflessione, chiediamo la grazia di prepararci al sacramento della Confessione avvicinandoci a Gesù come luce che entra in noi, che ci chiarisce e dona serenità al nostro cuore mettendo a posto le cose che sono sbagliate. Do. mandiamoci: Come vivo il sacramento della Confessione? È per me un avvicinarmi a Gesù come luce?

- Una seconda applicazione pratica, sulla quale vi invito a riflettere, riguarda la direzione spirituale che è la continuazione della parola di Gesù che ci illumina.

Chi è aperto nella direzione spirituale, chi si manifesta facilmente, chi si esprime con tranquillità, certamente si lascia illuminare da Gesù.

Chi invece cerca di nascondersi, di mostrarsi diverso da quello che è, magari per vergogna, mette in risalto la sua oscurità e non permette a Gesù di essere luce.

La direzione spirituale, che voi avete, è un dono immenso e vorrei che ve ne rendeste conto. Girando le parrocchie per la visita pastorale, incontro tanti ragazzi, pieni di buoni propositi, desiderosi di impegnarsi, e io mi dico che la maggior parte di loro non potrà fare un grande cammino perché non hanno un po’ di direzione spirituale: i loro buoni propositi si scioglieranno e non riusciranno ad accettare fino in fondo Gesù come luce.

Credo infatti che sia molto difficile che un ragazzo, a partire dai 12-13 anni [mo ai 18 anni, viva una vita cristiana seria senza l’aiuto della direzione spirituale. Voi avete quindi una grande fortuna e forse alcuni vostri compagni di parrocchia vi invidiano perché il loro sacerdote ha poco tempo e fanno fatica a trovare chi li guidi con la direzione spirituale.

«O Maria, madre di Gesù, aiutami ad accogliere Gesù come luce nella mia vita. Tu vedi che ci sono in me le tenebre che io stesso non conosco. Fa’ che esse non resistano alla luce di Gesù, ma che si aprano a lui nell’esame di coscienza, nella Confessione, nella direzione spirituale, nella meditazione e nell’ascolto della parola di Gesù. O Maria, tu che hai permesso a Gesù di illuminare la tua vita, aiutami affinché in ogni momento della mia vita io lasci che Gesù illumini la mia coscienza. Fa’ che io possa conoscerlo come mio amico, mio Salvatore e Redentore!

Donami, o Maria, questa grazia e donala a tutti noi, a tutti i seminaristi, a tutti i ragazzi della nostra parrocchia che talora hanno più buona volontà di me ma non hanno i mezzi che a me sono offerti. Fa’ che io mi lasci illuminare da Gesù anche per loro. A volte invidio i miei compagni che non sono in seminario perché hanno una vita più libera della mia; ti prego, Madre, fammi conoscere i doni grandi che mi sono stati dati rispetto a loro. Di questi doni io sono responsabile per tutti, sono responsabile perché quei miei compagni possano crescere nella verità e nell’amore, perché anch’essi possano conoscere Gesù come lo conosco io!».

02 – GESU’ CONOSCE TUTTO E TUTTI – C. M. Martini

I. GESÙ CONOSCE TUTTO E TUTTI

martini-88055mIl titolo della prima meditazione è: «Gesù conosce tutto e tutti». Cercheremo di svolgerla secondo i tre momenti del raccogliere i testi, capirli, pregarli.

La raccolta dei testi

Vi segnalo quattro brani del Vangelo dai quali appare che Gesù conosce tutto e tutti. Naturalmente, nel vostro lavoro personale, ciascuno potrà aggiungerne altri.

1. Il primo è un testo molto bello, cui diamo il nome: «Gesù conosce Natanaele», ed è riportato dall’evangelista Giovanni. «Natanaele domandò a Gesù: “Come mi conosci?”. Gli rispose Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse io ti ho visto quando eri sotto il fico”»(Gv 1,48).

«Sotto il fico», indica probabilmente che Natanaele stava pregando o leggendo la Scrittura all’ombra di quella pianta. Gesù lo conosceva già e Natanaele si sente conosciuto da Gesù.

2. Il secondo testo, sempre dall’evangelista Giovanni, riporta alcune parole del dialogo tra Gesù e la samaritana. Lo indichiamo così: «La samaritana è conosciuta da Gesù». Cosa le dice, in realtà?

«Le disse: “Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui”. Rispose la donna: “Non ho marito”. Le disse Gesù: “Hai detto bene… Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito. In questo hai detto il vero”. Gli replicò la donna: “Signore, vedo che sei un profeta”» (Gv 4,16-19).

3. li terzo brano è nel vangelo secondo Matteo: «Gesù conosce i farisei». A Gesù viene portato un indemoniato e lui lo guarisce lasciando sbalordita la folla. I farisei, invece, cominciano a mormorare: «”Costui scaccia i demoni in nome di Beelzebul…”. Ma egli, conosciuto il loro pensiero, disse loro: “Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde puòreggersi”» (Mt 12,24-25).

Gesù conosce dunque persino i pensieri dei farisei.

4. L’ultimo testo è dal vangelo secondo Luca e possiamo chiamarlo: «Gesù conosce gli apostoli».

«Frattanto sorse una discussione tra loro, chi di essi fosse il più grande. Allora Gesù, conoscendo il pensiero del loro cuore, prese un fanciullo, se lo mise vicino e disse: “Chi accoglie questo fanciullo nel mio nome accoglie me”» (Lc 9,46-48).

La comprensione dei testi

Adesso dobbiamo metterci al posto dei personaggi chiedendoci come hanno vissuto la situazione descritta dagli evangelisti. Che cosa avviene in loro quando si sentono conosciuti da Gesù?

Avvengono due cose che ciascuno di noi ha sperimentato o sperimenta.

- La prima è il brivido di sentirsi conosciuto. Ma come mai tu mi conosci? Natanaele, infatti, lo chiede: «Sai davvero chi sono? E come fai a saperlo, come mai mi conosci e conosci ciò che nessuno conosce di me?».

È il brivido di scoprire che c’è qualcuno che mi conosce dentro e dall’alto, che mi conosce davvero, come mai avrei pensato di essere conosciuto. Ogni volta che noi ci accorgiamo di essere conosciuti da una persona che pensavamo ci fosse estranea, ci meravigliamo e restiamo scossi.

È questa la situazione dei personaggi dei testi. La samaritana resta stupita: «Ma come mai sa chi sono?». Gli apostoli non credevano che Gesù potesse vedere nei loro cuori.

Ricordo ancora l’emozione semplicissima che ho vissuto una volta a Parigi – città ancora più grande di Milano -, nella metropolitana. Nelle metropolitane delle città molto grandi ci sono moltissime persone che si affollano, si urtano senza mai salutarsi, senza avere il tempo di guardarsi. Tra l’altro, io non conoscevo nessuno a Parigi. Ad un certo punto, ecco che mi sento chiamare! Mi sembrava impossibile, non riuscivo a crederci. Si trattava di una persona che, quasi per caso, avevo conosciuto tempo prima; non ho dimenticato il senso di stupore provato in quella occasione. Pensavo di essere solo, sperduto in una grande folla, e invece c’era qualcuno che mi conosceva.

È il brivido che ha vissuto Mosè quando, nel deserto, si sentì chiamato per nome. Era solo nel deserto, abbandonato ed era certo che nessuno pensava a lui. Ad un tratto, la voce: «Mosè, Mosè!».

È il brivido di Natanaele, della samaritana, dei farisei e degli apostoli; è il brivido di capire che c’è uno, più alto di me, che sa leggere in me, nel mio cuore.

- La seconda cosa non la provano forse tutti, e vedremo più avanti il perché. L’hanno però sperimentata i personaggi di tre dei testi evangelici, non i farisei di cui ci parla il brano di Matteo. È la gioia di sapere che c’è uno che mi conosce davvero. Se siamo ben disposti ad accogliere il brivido di sentirci conosciuti, se non abbiamo paura di essere giudicati (come l ‘hanno avuta i farisei), se siamo pronti come Natanaele o la samaritana, c’è la grande gioia, una gioia immensa.

Perché c’è una gioia immensa nella scoperta di sapere che c’è uno che mi conosce davvero? Perché talora capita – almeno a me, e mi capitava spesso alla vostra età – di avere il timore di non essere conosciuti per ciò che siamo. Mi capiscono gli altri? Mi capiscono veramente? Forse mi sono comportato goffamente, forse ho detto delle cose sbagliate, non quelle che volevo dire, e il risultato è forse che non mi sono fatto conoscere.

I superiori, ad esempio, mi conoscono davvero? E i compagni? Magari pensano di conoscermi, mi hanno addirittura dato un soprannome, ma mi conoscono per per quello che io sono? E i miei genitori mi conoscono, mi capiscono? Se mi capissero non sarebbe nato quel malinteso!

Ecco la gioia di sapere che c’è uno che mi conosce fino in fondo, che conosce i miei momenti cattivi, i miei desideri, che conosce di me anche ciò che non riesco a dire, a spiegare, che non ha bisogno di parole perché mi ha già visto dentro. Quando troviamo una persona che ci conosce in questo modo restiamo sorpresi e comprendiamo che la sua conoscenza viene da Dio, è qualcosa di divino.

Gesù è quindi Dio che mi conosce così.

Un’ultima riflessione è sui farisei. Hanno rabbia di sapere che un altro li conosce, hanno timore di essere smascherati, di essere colti nella loro ipocrisia. È una situazione difficile e pericolosa, perché se ci si incaponisce nella rabbia, si rifiuta la conoscenza di Gesù, non si ammette il proprio peccato.

La preghiera sui testi

Per pregare sui brani evangelici occorre semplicemente mettersi al posto di Natanaele o della samaritana o dei farisei o degli apostoli, non per indagare sulle loro reazioni bensì per parlare con Gesù. È questo il momento più importante del nostro lavoro. Se dalla lettura del Vangelo non passiamo alla preghiera, non ricaviamo grande frutto per la nostra vita.

- Cominciamo da Natanaele. Che cosa direi io, al posto di Natanaele?

Natanaele probabilmente non era molto stimato, non era un personaggio importante. lo, allora, direi: «Grazie, Gesù, perché mi conosci davvero, perché mi hai capito e hai capito che valgo qualche cosa. Grazie perché ti preoccupi di me, pensi a me, mi stimi. Grazie, Gesù, perché vedi anche il poco bene che faccio e sai valorizzare quello che forse né i miei compagni e nemmeno i miei superiori capiscono di me. Grazie perché mi conosci più a fondo di tutti e vedi il bene che tu hai messo dentro di me».

- Cosa direi al posto della samaritana?

«Grazie, Signore, perché conosci quanto poco valgo, perché conosci le mie sconfitte e le conosci con amore. Grazie perché conosci tutte le mie negligenze, le mie vigliaccherie che quasi nessuno conosce. Grazie perché conosci i miei peccati, le mie pigrizie, la mia sonnolenza, le mie chiacchiere, le mie arrabbiature, i miei litigi: tu però li conosci con amore, non te ne spaventi e mi resti vicino egualmente, li conosci e mi vuoi migliorare. Gesù, tu vedi in che situazione sono! Certe volte non so proprio da che parte voltarmi; sono come la samaritana, una povera donna senza cultura e senza istruzione; sono incapace di uscire dalla situazione in cui mi sono venuto a trovare. Tu mi conosci, Gesù, e questo mi basta».

La conoscenza di Gesù ci dà una grande calma, ci mette la pace nel cuore. Quando siamo arrabbiati perché siamo stati capiti male, quando ci sentiamo trattati ingiustamente, un po’ calunniati, forse derisi, oppure ci sentiamo incapaci a fare qualcosa e ne proviamo vergogna, è il momento di appellarci alla conoscenza che Gesù ha di noi.

«Gesù, tu mi conosci e questo mi basta; sai che sono così e mi vuoi bene così, mi aiuti a camminare così, anche quando zoppico, anche se non sono il più bravo della classe. Tu mi aiuti sempre, anche se non sono il primo davanti agli altri, mi vuoi bene lo stesso. Sono contento di sapere che mi conosci così».

Come dicevo, questa conoscenza di Gesù è fonte di grande pace e non solo per voi. È fonte di pace per gli adulti, per i preti, per il Vescovo, per il Papa. Ci sono le critiche, ci sono tante cose da fare e non si riesce, e tuttavia c’è Gesù che ci conosce, che conosce la nostra povertà, che perdona i nostri peccati.

- Cosa direi al posto degli apostoli?

Qui la preghiera si fa più difficile perché bisogna accettare che Gesù conosce e capisce anche quello che io non capisco di me. Gli apostoli, quando discutevano chi fosse tra loro il più grande, non si comprendevano e non riuscivano a capire tutti i movimenti di superbia che avevano nel cuore. Gesù li conosce più di quanto loro non si capiscono e la loro preghiera, una volta che si sono un po’ calmati, potrebbe essere: «Grazie, Signore, perché sai anche quello che io non so di me».

È importante sapere che Gesù conosce ciò che io non capisco di me stesso.

A me capitava, quando avevo la vostra età e anche dopo, di non capire, ad esempio, perché in certi momenti ero tanto entusiasta e poi, improvvisamente, diventavo triste, mi irritavo, provavo sentimenti che non avrei voluto avere. È difficile capire se stessi, e occorrono molti anni per giungere a conoscersi abbastanza bene: dico abbastanza perché, in realtà, ci sono sempre delle sorprese amare e là dove credevamo di essere forti ci siamo comportati da deboli, là dove pensavamo di essere coraggiosi siamo stati vigliacchi, là dove ci sentivamo tenaci e perseveranti ci siamo scoperti fiacchi!

«Tu però, Gesù, mi conosci e mi capisci! Stando con te, adagio adagio capirò meglio anche me. il mio modo di discutere era sbagliato, come era sbagliato il modo di discutere degli apostoli, e sono lieto di sapere che tu mi conosci meglio di me, che conosci ciò che faccio fatica a chiarire a me stesso. Signore, io mi affido a te!».

- Ancor più difficile è mettersi al posto dei farisei perché sono chiusi, non accettano di essere conosciuti da Gesù, anzi ritengono che Gesù non li conosca affatto. Non c’è quindi preghiera ma rifiuto. Non ci interessa questa conoscenza di Gesù, sappiamo bene ciò che noi siamo e ciò che vogliamo.

Molte vie sbagliate della nostra vita sono dovute al rifiuto della conoscenza di Gesù ed è necessario riflettere sull’atteggiamento dei farisei.

Prima di lasciarvi al lavoro personale, all’esercizio di raccolta dei testi, di comprensione e di preghiera, concludo con una breve invocazione: «Ti chiedo, Signore, come san Paolo, di saper apprezzare talmente la conoscenza di te da desiderarla sopra tutte le cose. Donami, Padre, la conoscenza di Gesù! Te lo chiedo per Gesù Cristo nostro Signore. Amen».

Vivere per Gesù e con Gesù

(omelia nella S. Messa del 4 marzo)

Ascoltando il brano del vangelo secondo Matteo (6,7-18) avrete già notato che parla della conoscenza che il Padre ha di noi, quella conoscenza che comunica a Gesù, perché Gesù è una sola cosa con il Padre.

Possiamo partire dalla parola finale del brano: «Il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà» (6;18). Il Padre vede là dove nessuno vede, nel segreto del mio cuore. Anzi, il Padre non soltanto vede nel segreto ma è nel segreto (6,18). Quando sono in camera, da solo, o in qualunque luogo io mi trovi solo, e nessuno può vedermi, lui è là. Il Padre è. Pensiamo all’esperienza di chi, trovandosi nella solitudine di un deserto, può dire: Dio, il Padre è qui, è con me. Il Padre è nel momento più nascosto della mia vita, nel bene e nel male.

Sono due affermazioni: «vede nel segreto», «è nel segreto», che corrispondono alla tesi svolta nella meditazione: Gesù conosce tutto e tutti.

Ci domandiamo: chi sono coloro che non credono che Dio vede nel segreto ed è nel segreto? Chi sono coloro che magari lo credono a parole e però non a fatti? Come si chiamano queste persone?

Gesù dà loro il nome di «ipocriti». Ipocrita è chi non crede che Dio vede nel segreto e quindi ha sempre bisogno di farsi vedere dagli altri, credendo che sia questa la cosa importante. Ipocrita è chi recita, chi si mette la maschera, chi vive recitando una parte per farsi applaudire, approvare, lodare dai superiori, dai compagni, dagli amici.

L’ipocrisia significa essere contenti che gli altri ci stimino ed essere tristi quando gli altri ci trascurano o pensano male di noi.

La vera vita, ci insegna Gesù, consiste invece nel vivere davanti al Padre, per il Padre e con il Padre, per Gesù e con Gesù.

È una sorte terribile quella di chi si lascia prendere dalla mania dell’ipocrisia, del fare cioè ogni cosa pensando a quello che gli altri potranno dire. È una vera e propria schiavitù che ci toglie la libertà, che ci impedisce il coraggio nelle convinzioni. È una mancanza di libertà anche nel bene. Infatti Gesù prende in giro coloro che assumono l’aria malinconica, che si sfigurano il volto per mostrare agli uomini di aver digiunato!

È veramente libero chi si preoccupa del Padre che vede nel segreto, chi vive, come Abramo, davanti a Dio e cammina davanti a lui.

«Gesù, fa’ che noi camminiamo sempre solo davanti a te! Tu lo sai che abbiamo paura del giudizio degli altri, che quando gli altri ci deridono ci rattristiamo e ci arrabbiamo. Però, quando pensiamo a te, ci accorgiamo che la sola cosa importante è il giudizio che tu hai di noi, è ciò che tu ci dici.

Aiutami, Signore, a vivere questi giorni di Esercizi nel segreto, facendo quindi silenzio, pregando, non per farmi notare dai compagni, non per farmi lodare, bensì perché so che tu mi conosci. Fa’ che io conosca il modo meraviglioso con il quale tu mi conosci, perché allora non sarò mai un ipocrita, non sarò triste; sarò una persona libera e piena di gioia».

01 – GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA – Carlo Maria Martini

Posted on Aprile 1st, 2009 di Angelo

 

 

San Riccardo Pampuri o.h.

Laici o religiosi, anche se cresciuti, proviamo per una volta a tornare bambini, sui banchi del catechismo.

Ma questa volta a farci da guida non saranno nè il parroco o il don, nè la suora o i  catechisti dell’ Oratorio, ma un Cardinale in persona: l’amatissimo Carlo Maria Martini, già Arcivescovo di Milano.

Ho detto “catechismo” ma non è esatto: si tratta di veri “Esercizi Spirituali” dettati da lui a ragazzi delle medie. Quindi, non proprio bambini.

Il Dr. Erminio Pampuri, da medico condotto a Morimondo, appena poteva, agli “Esercizi” ci andava volentieri e sempre cercava di portarsi dietro anche dei giovani. E se non riuscivano a pagarsi  le spese, provvedeva lui, tanto rriteneva utile per l’anima e per il corpo questa “revisione di vita”.

Qui oggi è tutto gratis. Giacchè paga il convento, sarebbe un peccato non approfittarne.

Anni fa è uscito un libro scritto da un parroco francese, Pierre  Richer e che ha riscosso un grande successo. Il titolo: “NOTE DI CATECHISMO PER IGNORANTI COLTI”.

Dobbiamo ammetterlo: noi laici, magari bravissimi in tante altre discipline, in materie che riguradano lo spirito ed il nostro definitivo destino, ignoranti lo siamo un po’ tutti. E non ci fa onore.

L’itinerario in compagnia del Card. Martini, suddiviso in sei tappe, può essere un’opportunità da non perdere per tentare umilmente di riempire le tante lacune.

 

Introduzione

 Abbiamo invocato lo Spirito Santo e ora rivolgiamo la nostra preghiera alla Madonna:

  • «O Maria, noi ti ringraziamo perché è tuo dono se noi siamo qui riuniti.

  • Ti ringraziamo perché ci troviamo tutti insieme ad ascoltare, con te, Gesù.

  • Donaci di conoscerlo come tu lo conosci.

  • Donaci di saperlo pregare e ascoltare come tu lo preghi e lo ascolti.

  • Sorreggi i momenti facili e i momenti difficili delle nostre giornate e fa’ che le tentazioni non ci turbino e non ci spaventino.

  • Sii sempre vicina a ciascuno di noi nel giorno e nel la notte, in ogni istante della nostra vita.

  • Tu, sede della sapienza, prega per noi. Tu, aiuto dei cristiani, prega per noi. Tu, rifugio dei peccatori, prega per noi».

Il tema degli Esercizi

Sono molto contento di essere tra voi per trascorrere alcuni giorni di riflessione comune e di preghiera.

Ho pensato di parlarvi di Gesù perché credo sia questo il desiderio del Signore; più precisamente, della conoscenza di Gesù. Il suggerimento mi è venuto da un piccolo volume scritto dal teologo Hans Urs von Balthasar: «Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?».

La domanda, a prima vista, potrebbe sembrare superflua, ma se ciascuno di noi si chiede: «Come mi conosce Gesù? Chi sono io per lui?» ci accorgiamo subito che occorre riflessione e approfondimento.

Ci potrà essere utile leggere il salmo 138 che inizia con un’affermazione: «Signore, tu mi scruti e mi conosci». Per questo vi consiglio di tenerlo presente in questi giorni.


Il tema dei nostri Esercizi vorrebbe quindi comprendere un interrogativo: «Gesù mi conosce?», e poi una risposta: «Tu mi ami e mi conosci».

 

 Metodo degli Esercizi

Gli Esercizi spirituali sono un vero e proprio lavoro perché si tratta di «fare esercizio» personalmente, non di guardare un altro che si esercita o semplicemente di ascoltare un altro che parla.
Provate a pensare alla ginnastica: fare esercizio di ginnastica non significa guardare una partita di football, bensì fare degli esercizi ginnici.
In questi giorni voi dovrete fare un esercizio spirituale, un lavoro: il mio compito sarà soltanto quello di guidarvi. Volta per volta vi darò una traccia che comprenderà tre momenti. Enuncerò il titolo della singola meditazione e poi:

1) vi insegnerò a raccogliere i testi del Vangelo o della Scrittura;

2) vi spiegherò come capirli;

3) vi farò vedere come pregarli.

Questi tre momenti dovrete ripeterli per conto vostro, ma non sarà difficile perché cercherò di offrirvi degli esempi: lavorerete dunque sul titolo che vi darò ad ogni meditazione raccogliendo i testi, sforzandovi di capirli e di pregare su di essi.

Comunione e comunicazione

Sono venuto non solo per aiutarvi a riflettere, ma per pregare e per stare con voi. È la cosa più importante per il Vescovo vivere un momento di comunione, sia pregando in comune sia facendo silenzio. Perché anche nel mio silenzio pregherò con voi.

Tuttavia ho previsto un incontro con le varie classi per potervi anzitutto ascoltare. In questi incontri vorrei che ciascuno riuscisse ad esprimere quelle domande o quelle riflessioni che nascono dal lavoro fatto durante la giornata, e che riuscisse a esprimerle con libertà e tranquillità.

Naturalmente potrete anche scrivermi parlandomi di voi o di ciò che emerge dagli Esercizi. Quando non si tratta di cose strettamente personali risponderò in pubblico. Infine, nei limiti consentiti dal tempo, potrò ricevere chi avesse veramente bisogno di un colloquio privato.

Vorrei però sottolineare l’importanza della coscienza di comunione: soprattutto nella preghiera dobbiamo avere la certezza di essere una sola cosa e dobbiamo pregare come se fossimo una persona sola davanti al Signore.

 

 Lettura del salmo 138

Per introdurci alla meditazione di domani leggiamo ora quel salmo 138 che ci spiega come Dio ci conosce.

Dapprima lo leggerò io e voi seguirete il testo (tralascerò i versetti 19-22).

Quando avrò terminato, voi farete l’esercizio di sottolineare con la penna tutti i verbi che parlano del come Dio ci conosce: ad esempio, va sottolineato mi scruti, mi conosci, tu sai.

Dopo un momento di silenzio, ciascuno dirà ad alta voce i verbi che ha segnato. Concluderemo rileggendo insieme il salmo lentamente, in preghiera.

(Pausa di silenzio)

ARCIVESCOVO: Ho già ripetuto i primi tre verbi. Cosa viene adesso?

RAGAZZO: «Penetri da lontano i miei pensieri».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Come dici tu?

RAGAZZO: «Ti sono già note le mie vie… Già le conosciMi circondi».

ARCIVESCOVO: Sì, anche «mi circondi» è un modo di conoscere. E tu?

RAGAZZO: «Poni su di me la tua mano».

ARCIVESCOVO: Bene, e poi tu hai segnato: «Mi guida la tua mano». Questo guidare è un conoscere di Dio. Mi guida perché mi conosce. Anche «mi afferra» è un’altra metafora per indicare la conoscenza che il Signore ha di me. La stessa espressione: «Mi hai creato» significa che Dio mi conosce come colui che mi sta facendo. Tu cosa hai detto?

RAGAZZO: «Hai tessuto».

ARCIVESCOVO: Sì, il Signore ci conosce come un tessitore conosce il suo tessuto. Non avete sottolineato, al v. 14: «Ti lodo perché mi hai fatto»? È la conoscenza attiva di Dio. È più facile che venga all’occhio il verbo che viene dopo: «Mi conosci fino in fondo». E poi?

RAGAZZO: «Non ti erano nascoste».

ARCIVESCOVO: Qui la conoscenza di Dio è espressa in maniera negativa. Possiamo anche segnare: «Mi hanno visto i tuoi occhi». Cosa c’è nella riga seguente?

RAGAZZO: «Era scritto».

ARCIVESCOVO: È un altro modo di conoscere, cioè la mia vita, le mie cose sono scritte in Dio. Adesso dovete passare al versetto 23.

RAGAZZO: «Tu scrutami… conosci».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Prima però metterei: «Provami» perché il Signore, provandomi, mi conosce, mi mette alla prova e mi entra dentro. Poi c’è: «Vedi», Dio vede e, quindi, «guidami».

Forse non pensavamo che il salmo 138 potesse esprimere così intensamente la conoscenza di Dio verso di noi: è un conoscere, uno scrutare, un penetrare, un esplorare, un comprendere, un circondare, un mettere sopra la mano, un far riposare la mano sul capo, un afferrare. I verbi attivi parlano di plasmare, creare, tessere, ricamare (nel testo ebraico il verbo è appunto ricamare, anche se in italiano è tradotto con tessere), fare, vedere, provare, guidare.

Il salmo ci offre l’immagine di tutto quello che cercheremo di dire in questi giorni, per capire come Gesù mi conosce. Mi conosce non come uno che da lontano guarda col binocolo! Mi conosce perché opera in me, mi è vicino, è dentro di me, mi fa, mi plasma, mi costruisce.

Se il salmi sta che non conosceva ancora Gesù poteva già indicare, con tanta ricchezza di esempi, di metafore, di similitudini, che cosa è la conoscenza che Dio ha dell’uomo, che Dio ha di me, quante cose potremmo dire sul modo in cui Gesù mi conosce!

Ora, per concludere, rileggeremo il salmo pregando, cioè parlando con Dio, rivolgendoci a Gesù eucaristico e quindi guardando il tabernacolo. Lo leggeremo in piedi, che è una posizione di preghiera, lasciando che il respiro accompagni il momento della preghiera e, più lentamente, la pausa di silenzio.

Pronunciando il pronome «Tu» pensiamo che è il «tu» di Gesù: è Gesù che mi scruta e mi conosce, e desideriamo che questi giorni si riempiano di stupore e di meraviglia di fronte alla scoperta del come lui ci ama.

È importante sapere che Gesù mi conosce?

Qualcuno potrebbe chiedersi se è davvero importante conoscere il modo in cui Gesù ci conosce. È una cosa che aiuta nella vita, che serve?

Vorrei rispondere a questa possibile domanda con le parole che Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, rivolge alla samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva!» (Gv 4, 10).

Se noi conoscessimo il dono di Dio e chi è Gesù che ci parla, la nostra vita sarebbe completamente diversa. Senza questa conoscenza di Gesù la nostra vita è fiacca, si trascina. Quando, ad esempio, ci sentiamo privi di volontà, di entusiasmo, oppure andiamo avanti per alti e bassi, significa che non abbiamo la conoscenza di Gesù o che si è sfocata. Quando in una parrocchia c’è grigiore, stanchezza, mancanza di gioia, i giovani si lamentano e sono scontenti, la gente frequenta poco la chiesa, possiamo dire: «Qui non c’è conoscenza di Gesù». Se poi il grigiore e la fiacchezza dominassero una classe, un seminario, rivelando una poca conoscenza di Gesù, la vita diventerebbe pesante, per non dire impossibile.

Per quanto riguarda voi, credo che ciascuno, se non avesse questa conoscenza di Gesù, potrebbe dire: «Il mio futuro è incerto e buio, vorrei sapere ma non so se Gesù mi chiama davvero, non so come fare a capire se sono chiamato».

Se non ho la conoscenza di Gesù, le domande che mi pongo restano confuse e senza risposta.

Già san Paolo diceva che la conoscenza di Gesù è così importante da far dimenticare tutto il resto: «Quello che poteva essere per me un guadagno, tutto ciò che mi dava successo, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,7-8).

Sono parole fortissime, con le quali l’Apostolo dice: «Se ho la conoscenza di Gesù non mi importa più niente del resto, mi sento pieno dentro di me».

È quindi fondamentale per la nostra vita la conoscenza di Gesù di cui parleremo in questi giorni, e dobbiamo insistere nella preghiera: «O Gesù, fa’ che io ti conosca, fa’ che ti conosca come mi conosci tu, fa’ che io conosca come tu mi conosci!». 

LA SPERANZA – Lettere: Rom; 1Cor; – C. M. Martini

Posted on Aprile 6th, 2009 di Angelo

CARD. CARLO MARIA MARTINI

(temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)

LA SPERANZA (*)

CARD. CARLO MARIA MARTINI

(temi: la speranza; Lettere: Rm; 1Cor)

 

Premessa

Desidero iniziare la riflessione sulla speranza raccontandovi un’intuizione, molto semplice, che ho avuto trentaquattro anni fa, nel 1959, celebrando per la prima volta la Messa al Santo Sepolcro, a Gerusalemme.

Si tratta di una piccola cella e per entrarvi bisogna curvarsi a fatica. In quel luogo misterioso e affascinante si venera la pietra su cui è stato deposto il corpo di Gesù morto. Era il 13 luglio, anniversario della mia ordinazione sacerdotale, tra le quattro e le cinque del mattino.

 

 

Ricordo ancora con grande impressione il pensiero che mi illuminava: tutte le religioni – dicevo a me stesso – hanno considerato il problema della morte, il senso di questo evento, e si sono chieste se esista qualcosa al di là di esso. E io sto celebrando nel posto in cui Cristo morto ha riposato e da dove è risorto vivo. Qui è la risposta unica, cristiana, alla domanda universale: che cosa si può sperare dopo la morte?

Il tema della speranza riguarda anzitutto il momento drammatico, di non ritorno, che è la morte: ecco a che cosa si riferisce la virtù, la forza della speranza. Al problema della morte nessuno può sfuggire; anche se poi l’arco delle attese di futuro diventa amplissimo, coglie tutta l’esistenza umana, il destino e le speranze dei popoli, del mondo inteso come unità. I molteplici interrogativi su ciò che sarà di me, di noi, dell’umanità, hanno a che fare con la speranza, perché

sperare è vivere,

è dare senso al presente,

è camminare,

è avere ragioni per andare avanti.

 

(*) Questa catechesi è stata tenuta dall’Arcivescovo nel Duomo di Milano, dove erano convenute migliaia di persone da tutta la diocesi.

 

Abbiamo speranza?

 

Il punto focale della nostra riflessione si riassume in una sola domanda:

  • noi che siamo radunati insieme, abbiamo speranza?
  • ho in me la speranza cristiana?
  • oppure è soltanto una parola?
  • la speranza cristiana abita davvero dentro di me?

Occorre rispondere seriamente, non avendo paura di riconoscere che, forse, la nostra speranza si riduce a un lumicino (e sarebbe già molto).

Un esegeta contemporaneo, Heinrich Schlier, descrive, partendo da san Paolo, gli effetti della mancanza di speranza nel mondo, in questi termini:

“Dove la vita umana non è protesa verso Dio, dove non è impegnata al suo appello e invito, ci si sforza di superare la spossatezza, la vacuità e la tristezza che nascono da tale mancanza di speranza” .

E aggiunge che i sintomi della non speranza sono

  • “la verbosità dei vuoti discorsi,
  • l’esigenza costante della discussione,
  • l’insaziabile curiosità,
  • la sbrigliata dispersione nella molteplicità e nell’arruffio,
  • l’intima ed esteriore irrequietezza” – noi diremmo: le varie forme di nevrosi -
  • “la mancanza di calma,
  • l’instabilità nella decisione,
  • il rincorrersi di continuo verso sempre nuove sensazioni” .

Cercherò dunque di aiutarvi a rispondere alla domanda su che cosa sia la speranza, per verificare se e in quale misura ci abiti.

 

Che cos’è la speranza cristiana?

 

Da quando ho pensato di preparare la lettera pastorale Sto alla porta, ho continuato a riflettere sulla speranza cristiana e, più vi rifletto, più mi appare indicibile.

La speranza è come un vulcano dentro di noi, come una sorgente segreta che zampilla nel cuore, come una primavera che scoppia nell’intimo dell’anima; essa ci coinvolge come un vortice divino nel quale veniamo inseriti, per grazia di Dio, ed è appunto difficilmente descrivibile.

Tuttavia desidero darvi un tentativo di definizione attraverso sei brevi tesi.

1. La prima tesi paragona la speranza cristiana con le speranze del mondo. Perché la speranza è un fenomeno universale, che si trova ovunque c’è umanità, un fenomeno costituito da tre elementi: la tensione piena di attesa verso il futuro; la fiducia che tale futuro si realizzerà; la pazienza e la perseveranza nell’attenderlo.

La vita umana è inconcepibile senza una tensione verso il futuro, senza progetti, programmi, attese, senza pazienza e perseveranza. Ma è pure intessuta di delusioni e quindi è permeata dalla speranza e anche dalla disperazione.

Ora – è la prima tesi – la speranza cristiana è qualcosa di tutto ciò, ed è diversa da tutto ciò: è diversa da ogni forma che il mondo chiama speranza, perché ha a che fare sì e no con le speranze di questo mondo.

 

2. La speranza cristiana viene da Dio, dall’alto, è una virtù teologale la cui origine non è terrena. Infatti essa non si sviluppa dalla nostra vita, dai nostri calcoli, dalle nostre previsioni, dalle nostre statistiche o inchieste, ma ci è donata dal Signore. Spesso dimentichiamo questa verità e consideriamo la speranza cristiana come “qualcosa in più”, che si aggiunge alle altre cose.
Dunque, sperare è vivere totalmente abbandonati nelle braccia di Dio che genera in noi la virtù, la nutre, l’accresce, la conforta.

Mentre la prima tesi paragonava la speranza cristiana con le speranze di questo mondo, asserendo che in qualche modo è uguale alle altre ma anche diversa, la seconda tesi ci dà la ragione della diversità: la speranza è da Dio soltanto, è fondata sulla sua fedeltà.

3. Dobbiamo allora comprendere qual è il contenuto, l’oggetto della speranza cristiana. Sappiamo che, essendo virtù divina, ci rende partecipi della vita di Dio, è un mistero ineffabile, inimmaginabile, inesplicabile, indicibile appunto. Scrive san Paolo, nella Lettera ai Romani: “Ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?” (Rm 8, 24). In un’altra Lettera afferma che “mai cuore umano ha potuto gustare ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano” (1Cor 2,9): mai cuore ha potuto gustare, dunque neppure il nostro cuore, che è il centro di noi stessi.

La speranza è uno strumento conoscitivo di straordinaria lungimiranza, acutezza, lucidità. Neppure il nostro cuore può comprendere, con tutti i suoi sogni, aspirazioni e desideri, quel bene senza limiti che Dio ci prepara, che è l’oggetto della nostra speranza: qualcosa che è al di là di ogni attesa e di ogni desiderio, anche se li colma e li riempie in modo indescrivibile. Il contenuto della speranza cristiana è quello di cui Dio ci riempie e ci riempirà, se ci fidiamo totalmente di lui.

4. La speranza cristiana ha però un termine, un punto di riferimento come suo oggetto: guarda a Gesù Cristo e al suo ritorno. A questo si appunta, perché ciò che Dio ci prepara, nel suo amore infinito, non è un’incognita: è Gesù, il Signore della gloria.

Noi speriamo che Gesù si incontrerà pienamente, svelatamente, in tutta la sua divina potenza di Crocifisso-Risorto, con ciascuno di noi, con la Chiesa, e ci farà entrare nella sua gloria di Figlio accanto al Padre: sarà il regno di Dio, la celeste Gerusalemme, la vita in Dio.

La nostra speranza è che vivremo sempre con lui, saremo con lui, nostro amore, e lui sarà con noi; saremo, come figli nel Figlio, nella gloria del Padre, nella pienezza del dono dello Spirito. Questo è il termine della speranza cristiana.

5. Dobbiamo fare, tuttavia, un chiarimento importante. Il ritorno di Gesù, che noi speriamo, è anche un giudizio. È necessario sottolinearlo in questi giorni in cui si parla tanto di giustizia, di crisi. La manifestazione di Cristo Gesù sarà pure un giudizio, una “crisi” nel senso originario della parola greca, che significa appunto “giudizio”.

 

Quando Cristo apparirà, nell’ora voluta dal Padre, si verificherà per ogni uomo la decisione definitiva sulla sua vita, sarà per ciascuno di noi e per l’umanità intera il momento critico, la crisi per eccellenza, il giudizio finale.

Nella nostra vita terrena e nella vita delle nostre società ci sono spesso crisi, grandi o piccole, personali o familiari, economiche, sociali, politiche, congiunturali, strutturali. Ma tutte queste crisi, anche quando ci sembrano quasi totali, raggiungono sempre soltanto una parte dell’esistenza umana e ne lasciano intatti altri aspetti.

 

Non si dà sotto il sole una crisi davvero totale; e dunque nessuna crisi dovrebbe turbarci, spaventarci, se non in relazione alla crisi provocata dalla manifestazione definitiva del Signore, l’unica totale, l’unica in cui il giudizio sarà irrevocabile e irresistibile.

Per questo san Paolo avverte di “non giudicare nulla prima del tempo finché venga il Signore, il quale metterà in luce ciò che è nascosto nelle tenebre e renderà manifesti i pensieri dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio” (lCor 4, 5). In quel momento del giudizio e della crisi finale, tutto ciò che è stato sepolto nelle profondità delle coscienze e tutto ciò che è stato rimosso di fronte agli altri o addirittura a noi stessi, sarà rivelato e consegnato al tribunale inappellabile della decisione divina. In pubblico sarà emanato il giudizio pieno e definitivo di ciascuno e di tutti: giudizio imparziale, vero, sicuro.

6. Se attendiamo il giudizio di Dio, come mai possiamo guardare a esso con speranza?

La risposta è semplice:

  • perché ci aggrappiamo ancora una volta a Gesù nostra speranza, che ci giudicherà come Salvatore di quanti hanno sperato in lui;
  • come colui che ha dato la vita morendo per salvarci dai nostri peccati;
  • come colui che ha uno sguardo misericordioso per coloro che hanno creduto e sperato, che sono stati battezzati nella sua morte e risorti con lui nel Battesimo,
  • che gli sono stati uniti nel banchetto dell’Eucaristia,
  • che si sono nutriti della sua Parola e riconciliati con lui nel Sacramento del perdono,
  • che si sono addormentati in lui sostenuti dal sacramento dell’Unzione dei malati.

La speranza è, quindi, fin da ora la fiducia incrollabile che Dio non ci farà mancare in nessun momento gli aiuti necessari per andare incontro al giudizio finale con l’animo abbandonato in Colui che salva dal peccato e fa risorgere i morti.

Gesù, nostra speranza, nostra salvezza, nostra redenzione, nostra certezza, ci sostiene nei cammini difficili della vita e ci permette di superare, giorno dopo giorno, le piccole e grandi crisi della quotidianità e della società. E noi camminiamo guardando a un termine di gioia perfetta, di giustizia piena, di riconciliazione totale in lui che, nell’Eucaristia, continuamente si offre per noi sull’altare unendoci alla sua misericordia e ci immerge nell’amore del Padre.

Domande per la riflessione personale

Dopo aver cercato di descrivere la speranza cristiana, il suo orizzonte, il suo termine e che cosa comporta di gioia e di vigilanza fin da ora, vi propongo quattro domande per la riflessione personale.

  • Noi cristiani, io stesso, il nostro tempo, la nostra società, abbiamo davvero speranza?
  • Siamo adeguati all’ampiezza della speranza cristiana?

Se constatiamo di avere una speranza fioca, tenue, di orizzonte ristretto, già questo può diventare motivo di preghiera: Donaci, o Padre, la speranza, donaci il pane quotidiano della speranza; rimetti a noi i nostri peccati di poca speranza!
È importante esprimere al Signore il desiderio che lui infonda la speranza vera.

. Quali sono, in me e intorno a me, nella società, i segni di mancanza di speranza? Ne abbiamo indicati alcuni citando l’esegeta Heinrich Schlier: ogni cedimento al malumore, al nervosismo, all’inquietudine, all’amarezza; ogni mancanza di calma, la verbosità di discorsi vuoti, la voglia di discutere sempre, la. curiosità, la dispersione nella molteplicità delle cose, l’instabilità di decisioni nella vita. Sono tutti segni di non speranza.

E, nella società, sono segni di mancanza di speranza la non chiarezza, la non obiettività, la non linearità, l’incoerenza, la disonestà. Talora, guardandoci intorno con occhio indagatore, ci sembra di scorgere dietro a tante forme di vita dei segnali dolorosi di disperazione nascosta, che attende di essere curata, lenita, medicata, guarita.

  • Quali sono, dunque, in me e intorno a me, i segni di mancanza di speranza?
  • Quali, al contrario, i segni positivi che vedo in me di speranza teologale?

Non semplicemente segnali di buon umore, di buona salute (pur se sono doni di Dio), ma segni di vera speranza. Per esempio,

quando nelle difficoltà non mi perdo d’animo;

quando nelle crisi personali, familiari e sociali so contemplare la provvidenza di Dio che ci viene incontro, ci purifica, ci ricopre con la sua misericordia;

quando so guardare all’eternità, al giudizio di Dio con serenità.

Ci sono in noi questi piccoli o grandi segni di speranza teologale?

E quali i segni positivi che scorgo nella comunità, nella parrocchia, nella società?

Dove ho più bisogno di speranza?

Dobbiamo porci questa domanda cercando di pregare sui punti deboli della nostra speranza, perché la speranza è vita e senza di essa non siamo cristiani, anzi non possiamo neppure essere persone umane capaci di sostenere il peso dell’esistenza. La speranza ci è necessaria come l’aria, come l’acqua, come il pane, come il respiro.

Signore, dona speranza a noi e alla nostra società che ne ha tanto bisogno!

Conclusione

Desidero concludere con una preghiera, bellissima, di un nostro carissimo prete, don Luigi Serenthà, morto a 48 anni, nel settembre 1986:

“Signore Gesù, tu sei i miei giorni.

Non ho altri che te nella mia vita.

Quando troverò un qualcosa che mi aiuta,

te ne sarò intensamente grato.

Però, Signore,

quand’anche io fossi solo,

quand’anche non ci fosse nulla che mi dà una mano,

non ci fosse neanche un fratello di fede che mi sostiene,

tu, Signore, mi basti,

con te ricomincio da capo.

Tu sei il mio desiderio!”.

dal sito: http://www.atma-o-jibon.org/italiano7/martini_virtu6.htm

SAN BRUNO celebrato dal Card. C.M. Martini

Posted on Aprile 7th, 2009 di Angelo

È grande l’emozione e trepidazione che provo, carissimi fratelli e sorelle nel Signore, nel vivere con voi questo momento solenne di spiritualità, di preghiera e di fede, anche perché mi trovo qui come Inviato speciale del santo Padre, non solo come pellegrino. Devo quindi rappresentare con le mie parole l’animo del Papa, la sua benevolenza, la memoria gioiosa che conserva del suo viaggio pastorale in questa terra nell’ottobre 1984, il suo amore per voi e la sua devozione per san Bruno.

 Saluto e ringrazio cordialmente anzitutto l’Arcivescovo di Catanzaro Squillace, Monsígnor Antonio Cantisani, per l’invito che mi ha rivolto qualche tempo fa. L’affetto e la stima che nutro verso questo mio confratello mi ha spinto ad accettare il suo amabile invito, e lo ringrazio per le parole di bontà con cui mi ha accolto. Come pure ringrazio la Certosa e il Priore per la loro affabile ospitalità.

Desidero inoltre salutare e ringraziare tutti gli Arcivescovi e Vescovi Eparchi di Calabria; voglio ringraziare le autorità che fin da ieri sera mi hanno attestato quella squisita ospitalità che è patrimonio vivo della vostra terra. Saluto e ringrazio cordialmente tutti i sacerdoti e diaconi, religiosi e religiose presenti.

Saluto e ringrazio ciascuno di voi, membri del popolo di Dio, che avete una forte tradizione di spiritualità, di religiosità, di fede; una tradizione della quale godiamo anche a Milano, dove risiedono numerosi vostri conterranei e concittadini, e ci auguriamo che la loro carica di spiritualità e di religiosità sappia opporsi al gelo dell’indifferenza e della secolarizzazione. Dunque, come arcivescovo di Milano, mi sento in comunione con voi e partecipo intensamente alla celebrazione che ci ha riuniti.

 Celebriamo infatti il dies natalis di san Bruno, avvenuto il 6 ottobre 1101 in questo luogo silenzioso. I contemporanei hanno descritto il passaggio del santo fondatore della Certosa dalla vita mortale alla vita eterna con parole sacre, tratte dal vangelo di Giovanni, e ricordate nel Messaggio dei Vescovi calabresi: Bruno “sapendo che era giunta per lui l’ora di passare da questo mondo al Padre, convocò i suoi fratelli e ricordò tutte le tappe della sua vita. Poi espose, con un ampio e profondo discorso, la sua fede nella Trinità”. Commentano i Vescovi: “Come un bambino che si addormenta nelle braccia di suo padre, Bruno si abbandona al Padre rimettendo un’ultima volta nelle sue mani tutta la sua vita, le sue opere, la sua anima”. E il documento antico continua: “La domenica successiva quell’anima santa fu sciolta dalla carne”.

 

 Questo evento di 900 anni fa noi ricordiamo con devozione e con amore.

 Vorrei lasciarmi ispirare dalle letture bibliche che sono state proclamate per poi passare a una riflessione più globale sulla figura di san Bruno; successivamente cercheremo di cogliere il messaggio che oggi viene consegnato ai monaci certosíni, a voi conterranei del santo, che continuate ad amarlo e a venerarlo, e alla Chiesa universale.

 “Ricòrdati“

 La prima lettura, dal libro del Deuteronomio (8,2-5), inizia cosi: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere”. È un invito al popolo di Israele di rileggere il suo passato, scoprendo in esso la provvidenza di Dio e l’amore con cui il Signore lo ha condotto anche attraverso sentieri difficili.

 Questa parola è detta oggi a voi: ricordatevi del cammino che il Signore vi ha fatto percorrere in 900 anni, come vi è stato vicino mediante la presenza dei Certosini e della Certosa – momenti di gioia e di dolore, momenti di costruzione e di distruzione. Sempre il Signore ha trionfato, e la vostra fede, sostenuta dalla forza dello Spirito, ha vinto e continua a vincere. Molte delle realtà di 900 anni fa sono scomparse, sono state dimenticate, ma la Certosa è vivente, è ancora un forte segno di spiritualità, segno della fede e dell’amore con cui avete accompagnato, protetto, difeso, aiutato questa presenza straordinaria di Dio in mezzo a voi.

 Attendere, aspettare

 Della seconda e della terza lettura sottolineo una parola significativa, ricca di simboli e di insegnamenti: aspettiamo, attendiamo. Nel testo tratto dalla lettera ai Romani (8,22-30), san Paolo afferma:

  • “Gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli”

  • e ripete: “attendiamo con perseveranza” quello che speriamo.

  •  La pagina del vangelo di Luca (12,35-40) parla di coloro che “aspettano il padrone per aprirgli subito, appena arriva e bussa”.

 “Aspettare, attendere” è una parola chiave della spiritualità certosina.

  • Il Papa, ricalcando l’insegnamento di san Bruno, ha descritto i Certosini come coloro che “in una perseverante vigilanza attendono il ritorno del loro Signore”.

E lo attendono con speranza, quella speranza che ritma il brano di san Paolo:

  •  “Nella speranza siamo stati salvati”,

  • “ciò che si spera, se visto, non è più speranza”,

  • “speriamo quello che non vediamo”.

 Di speranza e di attesa il mondo di oggi ha un immenso bisogno. Siamo in un tornante grave della storia umana; dopo decenni in cui ci sembrava di godere di pace e di sicurezza, ci ritroviamo in un momento di insicurezza e di timore. Solo l’attesa con speranza della pienezza della manifestazione di Gesù può sostenere i nostri cuori in questi giorni difficili.

 Ed è confortante pensare che 250 Vescovi rappresentanti degli episcopati di tutto il mondo sono riuniti a Roma, insieme col santo Padre – li ho lasciati per venire da voi -, per un mese intero nel desiderio di riflettere sul “Vescovo, segno di speranza”.

 Vi chiedo anzi di pregare perché questo Sinodo universale sia davvero segno di speranza per la Chiesa e l’umanità intera, in un momento grave e difficile della storia contemporanea.

 La figura di san Bruno

 

*     Bruno è un santo europeo, che precorre per così dire l’unità dell’Europa. Nato a Colonia, insegna a Reims, in Francia, e diventa Rettore dell’Università. All’età di 50 anni fonda, sempre in Francia, la Chartreuse, quindi viene in Italia, a Roma, e poi in Calabria: in questi luoghi termina i suoi giorni, dopo aver dato vita a una nuova forma di vita monastica.

È bello pensare come i santi, in tempi da noi lontani, giravano l’Europa trovandosi ovunque a casa loro, sentendosi sempre a loro agio, senza frontiere. Noi stiamo cercando di realizzare negli ultimi decenni il grande disegno di un’Europa senza frontiere, di un’Europa in cui ciascun popolo e ciascuna città mantengano la propria identità, ma uniti dalla solidarietà nel difendere la dignità umana e la pace.

San Bruno potrebbe certamente essere considerato, con i santi Benedetto, Cirillo e Metodio, patrono d’Europa e dell’unità europea.

*     È anche un santo completo, ricco di carismi: cristiano esemplare, è stato studioso, teologo, pastore e consigliere di pastori, contemplativo. Da teologo ha servito la Chiesa nell’insegnamento e nella formazione di studiosi; chiamato a Roma dal suo antico alunno, diventato papa Urbano II, lo aiuta nel servizio pastorale di tutte le Chiese; nella Chartreuse e a Serra di Calabria cerca Dio solo, distinguendosi per la sua tensione spírituale. Come ricordava l’Arcivescovo Monsignor Cantisani, Bruno ha vissuto un grandissimo amore per la Chiesa da costruire, da edificare, da sostenere e per la quale intercedere incessantemente nella preghiera.

 *     È il santo della contemplazione, e soprattutto per questo aspetto è passato alla storia ed è giunto fino a noi. È il santo del primato assoluto di Dio, di Dio amato sopra ogni cosa, di Dio cercato e gustato nel silenzio contemplativo. Nel silenzio accoglieva e viveva la Parola, nel silenzio la irradiava.

 *     Perciò è stato un testimone coraggioso della verità. Non ha esitato a richiamare i pastori aì loro doveri di amore alla Chiesa, di povertà e di fedeltà al Signore. Ha pagato di persona per il suo coraggio, ma ha continuato a servire la verità pur nei problemi e nelle difficoltà della Curia romana. Infine, dal silenzio della Certosa ha detto sempre la verità ai suoi fratelli, senza compromessi e insieme con grande tenerezza e amore. Davvero la carità e la verità erano in lui una sola cosa.

 *  È un santo che ha cercato sempre la solitudine, non come fuga o disprezzo del mondo. Le sue lettere attestano un profondo amore verso i fratelli e verso la Chiesa universale, e anche un senso profondo per la bellezza del creato, per lo splendore di questi luoghi che descrive con parole appassionate. Ha cercato la solitudine semplicemente per essere sempre di più nel cuore della Chiesa e del mondo.

 

 Il messaggio di san Bruno

 

 Di fronte a una figura tanto alta, tanto eccelsa e ricca di carismi, ci domandiamo che cosa dice oggi, in questo inizio del nuovo millennio, ai Certosini, a noi suoi devoti, alla Chiesa.

 San Bruno evoca il senso della vita certosina per la Chiesa universale, espresso dal Papa nel messaggio che è stato letto e, più ampiamente, nella Lettera del maggio scorso al Ministro generale dei Certosíni: “Voi siete nel cuore della Chiesa” – e io lo ripeto a tutti i monaci nel nome del santo Padre – “siete quei forti che combattono per il regno di Dio e che hanno un messaggio da dare a tutto il mondo. Voi non avete soltanto da richiamare e da raccontare una storia gloriosa di 900 anni, ma avete da costruire per il futuro una storia grande. Guardate all’avvenire, dove lo Spirito vi invia per fare, per mezzo vostro, cose ancora più grandi”.

E vorrei citare come rivolte ai Certosini le parole del Papa nella Novo millennio ineunte: “‘Duc in altum!’, gettate al largo le reti … andate avanti con speranza nell’oceano vasto del terzo millennio”. La vostra missione contemplativa di intercessione, di silenzio e di preghiera è e sarà sempre essenziale per la Chiesa di oggi e di domani.

A voi, fedeli devoti di san Bruno, pellegrini, concittadini di questo grande santo, viene consegnato un messaggio di preghiera e di fede. Come dicono i vostri Vescovi delle Chiese in Calabria, “anche quando si è nella notte più oscura, rimane nel profondo del cuore un desiderio nascosto, un qualcosa che chiama verso il cielo. È proprio in questo che Bruno si rivela più vicino alla fede schietta e semplice, spesso sofferta, della gente di Calabria e ci spinge perciò a non abbandonare o dimenticare la preghíera: non quella occasionale, che cerca e chiede interventi straordinari di Dio, ma quella che accompagna tutto lo scorrere dei giorni e fa che Dio non resti una bella parola, o un’idea astratta, o al più un passeggero sentimento, ma sia la presenza d’amore e di luce che dà senso ed interpreta tutti i colori, chiari o scuri. di cui la nostra vita è come intessuta”.

La vostra preghiera, la vostra religiosità è importante sia per voi sia per la Chiesa italiana e il mondo intero. Carissimi amici e devoti di san Bruno, avete un grande messaggio da portare.

C’è un secondo messaggio specifico per voi, richiamato nella lettera dei Vescovi: quello della libertà. Un messaggio che continua ad avere il suo peso e che va in qualche maniera rínnovato, “non sottovalutando le nuove forme di schiavitù che emergono più sottili e subdole” – la schiavitù del consumismo, della indifferenza, del denaro e del successo. “Tutti noi credenti ci sentiamo invitati da Bruno a trovare in Cristo la misura di ogni autentico e vero bene”.È questa libertà dai condizionamenti che vi viene raccomandata.

 *     Infine mi interrogo sul messaggio per l’intera Chiesa, che nasce dalla nostra celebrazione.

 

In proposito mi piace utilizzare ancora alcune parole del Papa nella splendida lettera Novo millennio ineunte, là dove pone la domanda:

  • “Non è forse compito della Chiesa riflettere la luce di Cristo in ogni epoca, farne risplendere il volto anche davanti alle generazioni del nuovo millennio?”.

 Egli ci esorta a far risplendere per gli uomini del terzo millennio il volto di Gesù. E commenta:

  • “La nostra testimonianza sarebbe, tuttavia, insopportabilmente povera, se noi per primi non fossimo contemplatori del suo volto” (n.16).

Per questo il II capitolo della bellissima lettera è dedicato a contemplare il volto di Gesù. E la Chiesa italiana, nel documento programmatico dal titolo Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, guardando al decennio che abbiamo davanti insiste per un intero capitolo sulla contemplazione del volto di Gesù.

Ecco la grande missione affidata alla Chiesa: far risplendere il volto misterioso, mite e umile di Cristo in un mondo che fatica a comprenderlo.

Aggiunge il Papa: “La contemplazione del volto di Cristo non può che ispirarsi a quanto dice di lui la sacra Scrittura” (n. 17). Dobbiamo contemplare il volto di Gesù leggendo la Scrittura, a partire dal vangelo, in un clima di silenzio e di preghiera.

 

Però “alla contemplazione piena del volto del Signore non arriviamo con le sole nostre forze, ma lasciandoci prendere per mano dalla grazia.

  • Solo l’esperienza del silenzio e della preghiera offre l’orizzonte adeguato in cui può maturare e svilupparsi la conoscenza più vera, aderente e coerente, di quel mistero che ha la sua espressione culminante nella solenne proclamazione dell’evangelista Giovanni: ‘Il Verbo si fece carne’” (n.20).

  • Tutto ciò non è concepibile “che a partire da un rinnovato ascolto della parola di Dio”. Per tutti i cristiani, non solo per i monaci o per i preti, è necessario “che l’ascolto della Parola diventi un incontro vitale nell’antica e sempre valida tradizione della lectio divina, che fa cogliere nel testo biblico la parola viva che interpella, orienta, plasma l’esistenza” (n.39).

 Posso dire che nella mia esperienza più che ventennale di Vescovo di Milano, ho visto accadere cose meravigliose dal contatto con la parola di Dio.

  • Quanti giovani si sono sentiti interpellati dalle pagine dei vangeli meditate nel silenzio!

  • Quanti hanno trovato la strada verso la fede e verso la consacrazione piena!

  • Quante persone sofferenti hanno compreso il senso del loro dolore grazie alla Parola!

  • Quante donne e quanti uomini scoraggiati hanno ripreso forza nel cammino anche di servizio caritatívo e civile alla società, per costruire la civiltà dell’amore!

 Nei momenti trepidi che stiamo vivendo abbiamo molto bisogno di meditare la parola di Dio, perché ci infonda conforto e coraggio, perché ci renda capaci di essere servitori instancabili della pace, di attutire i conflitti che insanguinano il mondo, in particolare la terra di Gesù, di vivere da figli di Dio.

 Affido queste intenzioni alla Madonna, da secoli invocata qui come Madre, e a lei ripeto: “Donna, ecco i tuoi figli, ecco coloro che Gesù ti ha affidato”. Insieme con Maria cammineremo su strade di pace.

 Serra San Bruno,

6 ottobre 2001

“COSI’ VEDO INFERNO E PARADISO – Carlo Maria Martini

Posted on Aprile 14th, 2009 di Angelo

 

Gli “inferi” non sono un luogo “vuoto”,

sono una «possibilità tragica e necessaria»,
che comporta l’«esclusione eterna dal “dialogo”

 con l’amore divino».

  I «novissimi» riletti dall’Arcivescovo “emerito” di Milano.

  

    Card. Martini:

  

«Così vedo “inferno” e “paradiso“»   

«Il “purgatorio” invece è lo spazio della “vigilanza”,
esteso misericordiosamente al tempo dopo la morte.

 

La “beatitudine” è essere in eterno col Signore: ricchezza per noi inimmaginabile».  

 

(”Avvenire”, 13/2/’09)

Il Dio che ha fatto suoi il tempo e la morte, ha dato a noi la sua vita, nel tempo e per l’eternità. La Pasqua del Signore rivela la solidarietà del Dio vivente alla nostra condizione di “abitatori del tempo”, e insieme ci dà la garanzia di essere chiamati a divenire gli “abitatori dell’eternità”.

Nella “risurrezione” di Cristo ci è promessa la vita, così come nella sua morte ci era assicurata la vicinanza fedele di Dio al dolore e alla morte. La Pasqua è l’evento divino nel quale ci è rivelata e promessa la destinazione del tempo al suo felice compimento nella comunione in Dio. 

 

Lo spazio temporale che sta tra l’”ascensione” e il ritorno di Cristo nella gloria appare così come un estendersi del “mistero pasquale” all’intera vicenda umana: nella sofferenza e nella morte, che ancora caratterizzano la nostra storia, si fa presente la sofferenza della Croce, perché la vita del Risorto sia pregustata da chi con Cristo percorre il suo “esodo pasquale”. L’intera vita del cristiano è un pellegrinaggio di morte e “risurrezione” continua, vissute con Cristo e in Cristo nello Spirito, portando anzi Cristo in noi, «speranza della gloria».   

 

 

 

 

Vigilare è accettare il continuo morire e “risorgere” quale legge della vita cristiana; le condizioni della “vigilanza evangelica” non sono dunque la “stasi” o la “nostalgia”, bensì la perenne novità di vita e l’alleanza celebrata sempre nuovamente col Signore Gesù che è venuto e che viene.
Nella luce dell’”evento pasquale” si coglie allora il pieno significato cristiano della “morte fisica”, ultima vicenda visibile della nostra esistenza. La morte è “evento pasquale”, segnato contemporaneamente dall’abbandono e dalla comunione col Crocifisso risorto. Come Gesù abbandonato sulla Croce, ogni morente sperimenta la solitudine dell’istante supremo e la “lacerazione” dolorosa; si muore soli!
 
Tuttavia, come Gesù, chi muore in Dio si sa accolto dalle braccia del Padre che, nello Spirito, colma l’abisso della distanza e fa nascere l’eterna comunione della vita. Perciò, per la grande tradizione cristiana la morte è “dies natalis”, giorno della nascita in Dio, dell’uscire dal grembo oscuro della “Trinità” creatrice e redentrice per contemplare “svelatamente” il volto di Dio, in unione col Figlio, nel vincolo dello Spirito Santo.
Tutto ciò che segue alla morte viene letto dalla fede nella luce dell’”evento pasquale” di Gesù. Il “giudizio” è l’incontro con lui che raggiunge la persona col suo sguardo penetrante e creatore e la porta alla piena conoscenza della verità su se stessa davanti all’eterna verità di Dio. La sua “vigilante anticipazione” avviene nel confronto della coscienza con la “Parola”, nella celebrazione del “Sacramento”, in particolare della “riconciliazione”, nell’incontro con il fratello bisognoso di aiuto.
 

L’anticipazione di tale spazio è il tempo dedicato alla cura della finezza dello spirito che si nutre di “sobrietà”, distacco, onestà intellettuale, frequenti “esami di coscienza”, trasparenza del cuore, unificazione della vita sotto la “regia” della sapienza evangelica: come pure dell’”ascesi” e della “purificazione” necessarie per fortificarci nella tentazione, scioglierci dall’inerzia delle nostre colpe e liberarci dall’opacità delle nostre abitudini cattive. Il “paradiso” è l’essere eternamente col Signore, nella “beatitudine” dell’amore senza fine: «Oggi sarai con me nel paradiso» (”Lc 23,43″).  

 

La parola del Crocifisso al “ladrone pentito” è la rivelazione di ciò che il paradiso è: un «essere con Cristo», un vivere eternamente in lui il dialogo dell’amore col Padre nello Spirito Santo. Questa relazione con il Signore, di una ricchezza per noi inimmaginabile, è il principio essenziale, il fondamento stesso di ogni “beatitudine” dell’esistere. La “vigilanza” si esercita nell’anticipazione della gioia dell’incontro con il Signore e nella letizia della “comunione fraterna” vissuta con tutti coloro che ne condividono il desiderio.

La figura di tale anticipazione è così profonda e delicata da farci comprendere l’importanza della “vita contemplativa”, pur se la sostanza dell’anticipazione appartiene a ogni vita di fede, sollecitata a diventare esperienza vissuta nella confidenza con il Signore e nella fiducia della sua tenera cura.

La spiritualità del “Cantico dei Cantici” – lo insegna una tradizione spirituale costante e sempre rinnovata del cristianesimo – è dunque una dimensione vitale della nostra relazione quotidiana con Dio; è il tempo dell’”innamoramento”, destinato a consumarsi nell’esuberanza dell’amore, da coltivare, custodire, impreziosire nell’intimità di un “dialogo” che raggiunge le fibre più sensibili del nostro essere.

Infine, nella luce della “risurrezione” di Gesù possiamo intuire qualcosa di ciò che sarà la “risurrezione” della carne. In essa l’essere con Cristo si estenderà ad abbracciare la pienezza della persona e la globalità dell’esperienza umana anche nella sua dimensione corporea, così come la “risurrezione” del Crocifisso nella carne ha portato nella vita eterna la carne del nostro tempo mortale, fatta propria dal Figlio di Dio. L’anticipazione “vigilante” della “risurrezione” finale è in ogni bellezza, in ogni letizia, in ogni profondità della gioia che raggiunge anche il corpo e le cose, condotte alla loro destinazione propria, che è quella delle opere dell’amore.

Non dobbiamo dimenticare che il cristianesimo, con alterne vicende, ha condotto una dura battaglia per respingere l’impulso al “disprezzo” del corpo e della materia in favore di una malintesa “esaltazione” dell’anima e dello spirito. L’”esaltazione” dello spirito nel “disprezzo” del corpo, come l’”esaltazione” del corpo nel “disprezzo” dello spirito, sono di fatto il “seme maligno” di una divisione dell’uomo che la grazia incoraggia a combattere e a sconfiggere. La “vigilanza” consiste nell’esercizio quotidiano dei “sensi spirituali”, ossia degli stessi sentimenti che furono di Gesù, nella coltivazione della “sapienza evangelica” che unifica l’esperienza e ci consente di apprezzare i legami fini e profondi del corpo con lo spirito. In tal modo possiamo custodire fin d’ora, in attesa che si compia la promessa della “risurrezione” della carne, il piacere della libertà del corpo da tutto ciò che è falso e ottuso, “laido” e volgare, avido e violento.

 

 

La fede nella “risurrezione finale” ci aiuta quindi a valorizzare e amare il tempo presente e la terra. La “vigilanza cristiana”, illuminata dall’orizzonte ultimo, non è fuga dal mondo, bensì capacità di vivere la fedeltà alla terra e al tempo presente nella fedeltà al cielo e al mondo che deve venire. Nella luce della Pasqua, i “novissimi”
  • morte,
  • giudizio,
  • inferno,
  • purgatorio,
  • paradiso,
  • “risurrezione finale” della carne 

sono tutte forme dell’essere con Cristo, che è promesso e donato all’”abitatore del tempo” e si configura a seconda del rapporto che, nella “vigilanza” o nel rifiuto, si stabilisce tra ogni persona umana e il Signore Gesù.

 

 

BUONA PASQUA ANCHE A TE, AMATISSIMO PADRE, CARLO MARIA MARTINI, DALLA COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI CHE OGNI GIORNO EDUCHI AD UNA FEDE PENSANTE.

 

 

 

 

L’ESSENZIALE DELLA PASQUA – C. M. Martini

Posted on Aprile 15th, 2009 di Angelo

  

L’Arcivescovo emerito:

come avere fede nel Signore
anche nei tempi
delle grandi sventure
e delle catastrofi

09.04.2009di Carlo Maria MARTINI
Cardinale, Arcivescovo emerito di Milano
 

  • Che cosa è essenziale alla Pasqua?

  • Dove sta il fatto originario che celebrano i credenti?

Chi in questi giorni ha assistito alle funzioni liturgiche nei diversi giorni della Settimana Santa, può avere avuto l’impressione di un succedersi di gesti, di riti, di preghiere, in cui non era semplice mettere a fuoco il tema fondamentale, capire dove stava la loro unità. Molti infatti sono gli eventi richiamati in quei giorni, in cui si è ripercorso il cammino dell’ultima settimana di Gesù a Gerusalemme, dal solenne ingresso nella città, rivissuto nella Domenica delle Palme, fino alla sua cattura, alla passione e morte, alla scoperta del sepolcro vuoto e alle sue apparizioni ai discepoli.

Di fronte a questa ricchezza di eventi, letti anche alla luce di una lunga serie di altre letture bibliche, ci si domanda: quale è il fatto centrale, originario, quello nel quale tutto questo trova insieme la sua origine e la sua spiegazione?

Questo fatto non è descritto da nessuno, non è stato visto da nessuno. La liturgia romana ci dice, nel canto solenne che precede le funzioni della notte di Pasqua: «O notte beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi».

Che cosa è avvenuto in quell’ora sconosciuta, nell’oscurità nella tomba di Gesù? Possiamo comprendere qualcosa di questo evento guardando gli effetti di questo mistero con gli occhi della fede. Lo Spirito santo è sceso con tutta la sua potenza divina sul cadavere di Gesù. Lo ha reso «spirito vivificante» (cfr Lettera di san Paolo ai Romani, 1.4), gli ha dato la capacità di trovarsi presente dovunque, in qualunque luogo e in qualunque tempo della storia. È stato come uno scoppio di luce, di gioia, di vita. Là dove c’era un corpo morto e una tomba senza speranza è iniziata un’illuminazione del mondo che dura ancora fino a oggi.

Il dono e la storia della Chiesa

Quando Gesù diceva, alla fine del Vangelo secondo Matteo: «Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» intendeva questa presenza di risorto, di quella forza di Dio operante in Gesù che ciascuno può sentire dentro di sé, purchè apra gli occhi del cuore. Questo spirito non si manifesta con parsimonia, ma con ampiezza e liberalità.

Comincia da qui la storia della Chiesa, che è storia anzitutto delle conseguenze di questo dono. Gli uomini possono magari utilizzare male questo dono o anche opporsi a esso, ma in realtà esso fa il suo cammino nella storia, crea le moltitudini di Santi, sia conosciuti che sconosciuti.

Dà, a ciascuno che lo desidera sinceramente, di entrare nelle intenzioni di Cristo, nel suo amore ai poveri, nella sua lotta per la giustizia, nella sua dedizione per ogni persona, nel suo spirito di libertà, di umiltà, di adorazione e di preghiera. Chi guarda al mondo di oggi con gli occhi della fede, ne riconosce tutte le brutture e le distorsioni, ma vede anche lo Spirito operante per salvare questo mondo.

Ma chi riconosce oggi il cambiamento che è avvenuto nella storia? Chi sente la presenza del Risorto che ci accompagna?

Chi ha una fede piena in Gesù, chi si volge a Dio con tutto il cuore, chi si libera dalla schiavitù del successo e del denaro.

Vi sono tempi in cui questo riconoscimento è particolarmente difficile: sono i tempi delle grandi sventure, delle catastrofi che toccano molta gente, in particolare i bambini. Ma anche qui, per chi sa leggere con gli occhi della fede, non manca una presenza del Risorto. Proprio ora ricevo dalle zone terremotate dell’Abruzzo un messaggio che suona così:

«Dalla tendopoli… i più cari auguri. Il Signore venuto a curare le ferite dei cuori spezzati ci ha scelti perché lo aiutassimo. Sia questa la nostra vera gioia. Un fraterno abbraccio».

BENEDETTO MENNI – L’UOMO E IL SANTO – Di Manuel Iglesias, S. J.

menni

- L’uomo e il santo .

Di   MANUEL IGLESIAS, S. J.


Chi è Benedetto Menni?

Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora! Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re. Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni. Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?

I primi passi .

Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso… Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione.

Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria. “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine. La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità. . L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.

Abbiamo già il santo? .

No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa. Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma. Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?

Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli. Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario.

Il Papa Pio IX lo riceve in udienza: – “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867. Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine. In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli.

Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi. Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni. Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito. . Tutte le cose hanno un inizio . .

Continua

Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli. Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.

Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.

La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità.
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L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.
Abbiamo già il santo?
.
No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa.
Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma.
Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?
Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli.
Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza:
- “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867.
Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine.
In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi.
Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni.
Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.
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Tutte le cose hanno un inizio
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Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867.

E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

menni - guerraAltre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa. Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.

La centrale della carità

Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri.

I santi fanno pazzie

Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile.

Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.

Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

María Josefa Recio

Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.

María Angustias Jiménez Vera

Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (”Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie“), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita. Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere“.

Continua

E presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.

I santi non vanno in pensione

Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati.

Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911).

In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine - scriveva loro - porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (”non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico“); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:“Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”



    La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto: Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente.

    Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (”questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino… Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio.

    Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse. Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo? Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male.

    Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità.

    Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912. Il cammino Regale della Santa Croce Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”?

    Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia. E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto. A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando. In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione.

    Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna. Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!

    L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore. Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte.

    E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore.

    Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo: - Siete ancora vive, figlie mie?

    La sua saluteandava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini.

    La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine. Cristo glorioso, che soffre in tanti esseri umani ammalati e deformi, accolse il suo piccolo buon samaritano, Fra Benedetto, con le beatifiche parole: “Quello che hai fatto ai più piccoli dei miei fratelli, l’hai fatto a me. Entra nel gaudio del tuo Signore”. Due anni prima, quando aveva rinunciato al suo compito di Generale, nell’udienza di commiato dal Papa Pio X, gli aveva detto: “Santità, sono stato convocato da tutti i tribunali della terra. Mi auguro che, così come sono uscito felicemente da tutti i tribunali di quaggiù, possa ugualmente essere assolto un giorno dal tribunale di Dio e trovi la sua misericordia”. Il Papa gli aveva replicato con amabilità: - La troverà, la troverà

    Sì; adesso sappiamo dalla Chiesa che l’ha trovata, e nel grado più alto. Impegnando la sua infallibilità, la Chiesa ci assicura che “l’uomo” Benedetto Menni ha raggiunto la vetta della carità perfetta: è “santo”. E’ un giudizio formulato da quel tribunale di Dio sulla terra che è la Chiesa gerarchica.

    SAN BENEDETTO MENNI – Certificato di battesimo

    Posted on Giugno 21st, 2009 di Angelo


    San Benedetto
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    _benedetto_menni

    Cresimato il 26 Giugno 1849

    Battezzato l’11 Marzo 1841

    Ricorre quest’anno un duplice anniversario del nostro confratello San Benedetto Menni, poiché il 21 novembre si compiranno dieci anni dalla sua Canonizzazione ed in questo mese di giugno si compiono centocinquanta anni dal germogliare della sua vocazione.

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    Specialmente quando si tratta di Santi, di persone cioè che seppero rispondere con piena generosità al piano del Signore, gli anniversari offrono il destro per rintracciare il filo sottile che la mano di Dio tesse negli avvenimenti quotidiani per far a poco a poco progredire le imprese più memorabili. Vedremo perciò di ripercorrere i noti eventi nazionali del 1859 col preciso intento di scoprire il suddetto filo.

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    G. Fattori, Campo italiano dopo la battaglia di Magenta.

    La II Guerra d’Indipendenza dell’Italia fu astutamente avviata da una mobilitazione di truppe sabaude sul confine lombardo, cui l’Austria reagì invadendo il Piemonte, il che giustificò, in forza dell’alleanza negoziata da Cavour con i francesi, che questi accorressero in aiuto con un contingente di 200.000 soldati, guidati dallo stesso Napoleone III.

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    Fu quella la nostra prima guerra in cui ci fu un uso strategico delle ferrovie1, la cui rete aveva preso a svilupparsi. I francesi poterono rapidamente raggiungere in treno il fronte di battaglia sia da Susa, dov’erano pervenuti dal Moncenisio, sia da Genova, nel cui porto sbarcarono portandosi perfino dei vagoni. Lo scartamento dei binari era identico allora ovunque poiché il materiale rotabile era tutto d’origine inglese.

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    Le truppe austriache, che si erano concentrate a Magenta, vi furono vittoriosamente attaccate da quelle francesi il 4 giugno 1859. Nel sanguinoso scontro, che impegnò centomila soldati, gli austriaci, di poco preponderanti, ebbero 1.368 morti, 4.358 feriti e 4.500 dispersi; i francesi ebbero 634 morti, 3.239 feriti e 735 dispersi; i piemontesi, intervenuti marginalmente, ebbero 4 feriti2.

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    Sul campo di Magenta risultò estenuante evacuare i tantissimi feriti. Già in serata la popolazione delle vicine frazioni, avvalendosi di una cinquantina di carrette, iniziò a trasportarli verso Novara dove, oltre ai due ospedali civili, erano stati allestiti due ospedali militari grandi e quattro piccoli, per un totale di 2.500 posti letto3. Nella serata del 5 giunsero anche le ambulanze militari, che in tre giorni evacuarono oltre 600 feriti francesi ed austriaci, inviandoli a Buffalora e Novara4. Inoltre, visto che Magenta era lungo la ferrovia Milano-Novara, si cominciò ad utilizzare i vagoni che arrivavano dal Piemonte con i rifornimenti per l’esercito, facendoli tornare a Novara carichi di feriti.

    Rievocazione storica della Battaglia di Magenta il 13 e il 14 giugno: quattordici gruppi sfileranno in uniforme storica, tra salve di armi d’epoca

    Nel frattempo Milano la sera del 6 giugno venne abbandonata dalle truppe austriache, che in seguito alla sconfitta di Magenta avevano deciso di ripiegare su Lodi. La mattina del 7 le truppe francesi penetrarono in Milano da Porta Vercellina (che oggi in ricordo si chiama Porta Magenta) e con loro entrò un enorme convoglio di feriti5. La popolazione ne rimase tremendamente impressionata6 e molte famiglie accolsero feriti nelle loro case.

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    La vista di quel sangue rappreso rimase indelebile nella memoria non solo dei milanesi, ma anche in Inghilterra, dove subito, grazie al telegrafo, i giornali dettero così risalto all’evento che s’iniziò a popolarmente chiamare magenta un nuovissimo colorante sintetico di tonalità sanguigna derivato dall’anilina, individuato dal chimico Emanuele Verguin in Francia, dov’era venduto col nome di fucsina7; l’appellativo magenta si diffuse, finendo internazionalmente usato per designare nella scala dei colori una tonalità cremisi scura, risultante da una particolare combinazione di rosso e di violetto8, e nel 1967 fu adottato commercialmente per indicare uno dei quattro inchiostri basici per la stampa industriale9.

    Ospedale Fatebenefratelli – Porta Nuova

    Fbf - EnterAncor più feriti arrivarono a Milano nei giorni seguenti poiché i vagoni, invece di puntare sulla ormai satura Novara, dirottarono sul tronco Magenta-Milano, che era entrato in funzione da ottobre e che in solo 25 km raggiungeva la Stazione di Porta Nuova10. Qui prese perciò a giungere un vero fiume di feriti e tantissimi giovani milanesi accorsero a dare una mano, aiutando a scendere dal treno ed a raggiungere ambulanze e carrozze coloro che non erano in grado di farlo da soli.

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    Tra quei volenterosi c’era anche il diciottenne Ercole Angelo Menni. Era nato a Milano l’11 marzo 1841 e nel 1857, conclusa la quinta classe nel Regio Ginnasio di Porta Nuova, aveva trovato lavoro in Banca, ma se n’era presto licenziato per non piegarsi a pratiche truffaldine che gli venivano richieste e che erano incompatibili con la rettitudine insegnatagli in famiglia. In attesa d’un lavoro migliore, profittò che era libero da impegni per andare quotidianamente non solo a far scendere i feriti dai vagoni, ma ad accompagnarli al vicino Ospedale di Porta Nuova, nel quale noi Fatebenefratelli avevamo messo a disposizione 200 letti per loro, e restandovi poi per l’intero giorno11 come volontario, pronto ad offrire ogni possibile aiuto ai feriti che ne avevano bisogno.

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    Presto cominciarono ad arrivare nell’Ospedale dei Fatebenefratelli anche i feriti della successiva ancor più sanguinosa battaglia di Solferino, combattuta il 24 giugno e nella quale gli austriaci ebbero 2.292 morti, 10.837 feriti e 8.638 dispersi; gli avversari ebbero 2.313 morti, 12.102 feriti (di cui 3.572 italiani) e 2.776 dispersi12.

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    Al cessare l’8 luglio le ostilità per l’armistizio di Villafranca, le Autorità di Milano vollero fare un bilancio numerico dei militari smistati nei ventun luoghi di degenza, in gran parte provvisori, che erano stati organizzati in città. Secondo il prospetto13 compilato l’8 luglio 1859, all’inizio della giornata i ricoverati risultavano 5.774, di cui 3.123 francesi, 895 italiani e 1.926 austriaci; nel corso della giornata ne morirono 27, ne furono dimessi 493 e ne furono ricoverati 302, per cui il numero complessivo dei ricoverati era sceso a mezzanotte a 5.526. Per quanto riguarda l’Ospedale dei Fatebenefratelli, all’inizio della giornata vi figuravano degenti 107 militari, ossia 105 francesi (dei quali 13 erano ufficiali) e 2 austriaci; a mezzanotte erano scesi a 94, essendoci stati tra i francesi 13 trasferimenti, un deceduto ed un nuovo ricovero.

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    Vespri d’Organo diffusi nelle stanze dell’Ospedaledale Fatebenefratelli 1990, dopo il restauro dell’organo costruito da “Natale Morelli” nel 1853.
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    Quando Napoleone III venne a sapere che i ricoverati del nostro Ospedale milanese erano quasi tutti francesi, volle venirvi a confortare i suoi soldati e rimase ammirato per lo zelo con cui erano assistiti dai frati, tanto che si staccò dal petto l’onorificenza della Legion d’Onore e seduta stante ne insignì il Priore, fra Girolamo Conti14.

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    La vecchia Stazione Centrale (1864-1931)

    La Stazione Centrale dal lato città con il grande emiciclo del piazzale antistante, visto dai Bastioni a fine Ottocento, prima della realizzazione degli anelli tranviari. (cartolina Publicards)

    Ancora più memorabile fu la reazione del giovane Menni, anche lui colpito dall’ardore con cui i frati, spinti dal loro peculiare Voto di Ospitalità, sapevano trasformarsi in araldi dell’amore e della premura di Dio per ogni sofferente. Si ripeté in qualche modo per Menni quanto era successo nel 1538 al Fondatore dei Fatebenefratelli, San Giovanni di Dio, che proprio in occasione di una sconvolgente esperienza nell’Ospedale Reale di Granada si sentì sfidato a consacrare la propria vita ai malati, specie i più abbandonati.

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    La stazione di Porta Nuova (1840) – La stazione è stata fino al 1849 il capolinea della linea per Monza ed è ancor oggi esistente. Il fronte dell’edificio, parallelo al rettifilo per Monza e al Naviglio della Martesana (oggi via Melchiorre Gioia) si trova pertanto perpendicolare alla circonvallazione della città, lungo cui viaggia il tram ‘33′. La seconda stazione di Porta Nuova (1849) è anch’essa esistente ed è oggi sede della Guardia di Finanza.

    Dopo averci riflettuto a lungo nella preghiera ed aver consultato un santo eremita, Menni decise di fare altrettanto. Acquistata come corredo una borsetta di ferri chirurgici15, l’11 febbraio 1860 chiese ai Fatebenefratelli di riceverlo nel loro Istituto. Dato che n’avevano già apprezzato lo zelo con i malati, l’accettarono subito in prova come Postulante e chiesero d’avere sia il consenso scritto del papà, che lo firmò il 15 marzo, sia certificati e referenze del suo Parroco, che parimenti in data 15 marzo attestò l’impegno del giovane in Parrocchia e la sodezza della sua vocazione alla vita religiosa. Allo scadere del trimestre di prova la sua richiesta d’ammissione in Noviziato, che aveva firmato il 19 aprile, fu approvata all’unanimità sia dalla Comunità locale, sia dai Consigli Provinciale e Generale, per cui prese l’abito di Novizio domenica 13 maggio 1860, ricevendo in religione il nome di fra Benedetto.

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    Porta Nuova, dove sorgeva l’antico ospedale Fatebenefratelli

    Quel frate era destinato a grandi cose e nella trama predisposta per lui dalla Provvidenza i feriti del 1859 tornarono di nuovo a giocare un ruolo importante, però stavolta in tempi lunghi, come vedremo.

    Henry Dunant

    Se a Magenta l’evacuazione dei feriti fu agevolata dalla ferrovia, a Solferino fu molto più difficile e le tremende sofferenze dei tanti rimasti sanguinanti sul campo, mossero a pietà uno svizzero che casualmente passava nella zona. Si chiamava Henry Dunant e non solo si prodigò con gruppi di contadini a prestare qualche primo soccorso, ma redasse un sofferto libro di memorie, che pubblicò nel 1862 col titolo “Un ricordo di Solferino”. Con quel libro e con un’incessante opera di propaganda riuscì a convincere vari governi europei che andava assolutamente organizzata l’assistenza ai feriti di guerra propri ed altrui, affidandola ad un apposito corpo neutrale di infermieri volontari. Fu così che, con un accordo iniziale di 16 Stati, nacque nel 1863 la Croce Rossa, da allora presente in ogni guerra.

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    In Spagna la Croce Rossa fu introdotta dal medico militare Nicasio de Landa nella sua città nativa di Pamplona il 5 luglio 1864 ed ebbe il battesimo di fuoco nella battaglia di Oroquieta del maggio 1872 durante la guerra civile carlista16.

    Nel 1873 a Marsiglia padre Benedetto Menni ebbe modo d’incontrarsi col dott. Landa, in quel momento Ispettore Generale della Croce Rossa spagnola, e gli si offrì volontario indifferentemente “per soccorrere i feriti del campo repubblicano o carlista, poiché la nostra missione caritativa è superiore a qualsiasi fazione politica o ideologica”17. Landa accettò l’offerta di Menni e da Pamplona gli spedì a Marsiglia il 20 giugno 1873 un salvacondotto per aggregarsi all’esercito carlista sotto il vessillo della Croce Rossa ed usandone le insegne18.

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    Bisogna sapere che Menni fin dal 1867 era stato inviato dal suo Superiore Generale, padre Giovanni Maria Alfieri, a Barcellona per restaurare l’Istituto, estintosi in Spagna per le leggi eversive di trent’anni prima. Grazie ad un certo afflusso di vocazioni native, Menni poté aprire a Barcellona una Comunità di Fatebenefratelli che assistevano gratis i bambini rachitici e tubercolotici in quello che, dal punto di vista della Storia della Medicina, fu il primo Ospedale Pediatrico fondato in Spagna19. Dopo la proclamazione della Repubblica nel 1873, ci furono a Barcellona vari tumulti contro i cattolici e Menni rischiò ripetutamente d’essere linciato ed in ultimo gli intimarono di abbandonare il suolo spagnolo. Egli fu perciò costretto ad imbarcarsi per Marsiglia, ma il suo cuore era in Spagna e fu ben felice di potervi tornare come volontario della Croce Rossa.

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    Menni restò al fronte per tre anni, rimanendo memorabile la sua eroica dedizione sui monti di Lumbier o nel trasferimento dei feriti dall’ospedale da campo di Gomilar a quello di Santa Agueda, sfidando il crepitio del fuoco nemico20. Il dott. Landa gli espresse la sua gratitudine rilasciandogli il 10 settembre 1876 un attestato di benemerenza della Croce Rossa21 per essersi “consacrato a prestar continuamente negli ospedali il soccorso spirituale e corporale ai feriti, senza distinzione di provenienza e con uguale amore e cristiana carità con quelli dell’uno e l’altro campo”.

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    Non solo i belligeranti, ma tutta la popolazione della Navarra apprezzò moltissimo la dedizione di Menni e dei suoi  confratelli e molti chiesero di indossarne l’abito. Grazie a quel fiorire di vocazioni, appena nel 1876 tornò la pace Menni poté moltiplicare le fondazioni, ricostituendo nel 1884 la Provincia Spagnola dei Fatebenefratelli, di cui rimase alla guida fino al 1903, avendo la gioia di dare l’abito a quasi un migliaio di candidati. Tra Spagna, Portogallo e Messico lasciò fondati ben 15 Ospedali per ogni specie di infermi, soprattutto però dementi e fanciulli storpi, i più trascurati allora dall’assistenza pubblica.

    Poiché tali Ospedali erano solo maschili, Menni nel novembre 1880 si sentì inspirato a fondare per l’assistenza alle donne le “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”, che nel 1881 ottennero l’approvazione diocesana e nel 1901 quella Pontificia: egli affidò loro otto Ospedali in Spagna, uno in Portogallo, uno in Francia e due in Italia, a Viterbo e Nettuno. Le Suore oggi sono in 25 nazioni.

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    La Chiesa ha riconosciuto Menni come Santo nel novembre 1999 e per il decennale di tale proclamazione ci proponiamo di ritornare a parlare di lui, ma per intanto c’è sembrato opportuno accennare a come gli eventi della II Guerra d’Indipendenza furono utilizzati dalla Provvidenza per dapprima guidarlo nel nostro Istituto e poi per trasformarlo in luminoso modello dei volontari, dei quali ben meriterebbe22 essere designato Patrono Universale.

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    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.


    Il Gamba in uscita dal depositi di Corso Vercelli

    La storia del Gamba de Legn’ (questa sarebbe la corretta ortografia milanese) inizia il 9 settembre 1878, con l’atto di concessione per la costruzione di una tramvia a vapore tra Milano e Magenta, di circa 23 km di lunghezza, con una diramazione da Sedriano a Càstano Primo. Un anno più tardi venne inaugurato il primo tratto della linea da Milano a Sedriano, cui seguì in breve tempo il completamento del percorso.

    Per l’epoca si trattava di un mezzo di trasporto tecnologicamente molto avanzato, se confrontato con i tram a cavalli milanesi gestiti della SAO, in grado di trasportare una decina di persone, o con lo stesso tram di Monza, che restò ippovia per altri vent’anni, fino al 1900. Il Gamba de Legn’, invece, poteva trasportare molti più passeggeri in diverse carrozze, ad una velocità commerciale di una decina di chilometri all’ora.

    QUI IL CERTIFICATO DI BATTESIMO

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    Benedetto (al secolo Angelo Ercole) Menni è stato un sacerdote italiano dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, fondatore della congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù .

    Menni Benedetto

    MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA Added MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA La Parrocchia nella quale ha ricevuto il battesimo e che lo ha formato. Qui ha origine la marcata spiritualità mariana del Menni san bebedetto menni Il sedicenne ragioniere, da poco assunto in un Istituto Bancario di Milano, si auto-licenzia, lasciando di stucco il Direttore che gli aveva “girato” delle operazioni di Banca poco pulite, non in linea con l’ortodossia della sua etica… I “conti” per Angelo Ercole Menni, dovevano inanzitutto quadrare con la propria coscienza. Sono i sintomi di un carattere allergico al “compromesso”: una nota che emergerà nell’azione del futuro amministratore.

    menni
    SAN BENEDETTO (Ercole) MENNI
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    SAN BENEDETTO MENNI

    - L’uomo e il santo
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    Di   MANUEL IGLESIAS, S. J.

    Chi è Benedetto Menni?

    Nella cittadina di Ciempozuelos, distante trentadue km da Madrid, riposano i resti mortali di un italiano, deceduto nel 1914 nel nord della Francia. Chi era? Un avventuriero in giro per l’Europa? Un esiliato politico? Un commerciante? Una spia internazionale? No, anche se le qualità che aveva e le circostanze in cui visse gli avrebbero consentito di essere tutto questo ed altro ancora!
    Lui stesso si definì in questi termini alla fine della sua vita: “Sono un miserabile, degno soltanto di disprezzo; meriterei che mi buttassero nel mondezzaio!” Ma anche i santi sbagliano! Il sepolcro di questo uomo “degno di disprezzo” riceve oggi grande venerazione, avendolo il Papa Giovanni Paolo II dapprima dichiarato beato nel 1985 e poi nel 1999 deciso di proclamarlo santo durante un’apposita cerimonia nella Basilica Vaticana in occasione della festa di Cristo Re.
    Nonostante egli si ritenesse un “grande peccatore, uno straccione di Cristo”, ora dunque la Chiesa ci invita ufficialmente ad invocarlo come SanBenedetto Menni.
    Più in alto non si può salire. Ma, come iniziò tutto ciò?
    I primi passi
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    Seguire i suoi azzardati percorsi lungo i quattro punti cardinali della Spagna non è difficile; anzi è appassionante come un romanzo. Seguire invece le orme del suo itinerario interiore, del suo cammino verso la santità, è molto più impegnativo. Diremmo, quindi, qualcosa, molto brevemente, giusto per ricordare una verità fondamentale che a noi toglie ogni scusa per non diventare santi: i santi non scendono dal cielo come un meteorite; e meno ancora, sono fatti così fin dall’inizio. Per loro non è stato facile. In qualsiasi bivio avrebbero potuto intraprendere altre strade, diverse da quella di seguire Cristo. Ad esempio, nel nostro caso…
    Forse non riusciamo ad immaginare la febbre politica della penisola italiana nella seconda metà del secolo scorso, segnata dall’astio contro Papa e clero e scossa da nord a sud dal fervore nazionalista e dalla ribellione. Un giovane come Benedetto, fine, intelligente, milanese intraprendente, aveva tutte le porte aperte per far carriera; forse ora sarebbe stato considerato un eroe del Risorgimento; ai giardinetti i nostalgici garibaldini ne avrebbero contemplato la statua, in groppa ad un impetuoso cavallo e indicando alle truppe, spada in mano, il passo della vittoria.
    Continua
    Quel giovanotto milanese però, impiegato in una Banca senza aver nemmeno finito gli studi superiori, ebbe il coraggio di perdere il posto di lavoro (aveva 16 anni, e cominciava a vivere!) piuttosto che essere coinvolto in faccende poco pulite o nelle quali i conti non tornavano con la sua coscienza. Ed ebbe il coraggio di rifiutare la proposta di iscriversi alla Massoneria, dove avrebbe sviluppato a fin di male le sue qualità di leader. E in quanto alla guerra, bisogna dire che la vide, ma soltanto dal versante della carità: ha 18 anni quando apprende le prime e immediate conseguenze dello scontro con l’Austria: dozzine di corpi straziati di combattenti che arrivano dal fronte di Magenta a Milano in treni speciali. Benedetto diventa barelliere anonimo per trasportare i feriti dalla stazione ferroviaria all’ospedale dei Fatebenefratelli.
    Va precisato che gesti come questi non si improvvisano. L’abbiamo chiamato “Benedetto”, il suo nome di “santo”; il suo vero nome però fu Angelo Ercole, e le sue radici affondano nella famiglia dove nacque l’11 marzo 1841. Una famiglia che, grazie alle entrate di un modesto negozio gestito dal padre, aveva il necessario per sfuggire alla miseria pur senza scialare; una famiglia di quindici figli (Angelo Ercole era il quinto); famiglia di cristiani all’antica, nella quale si recitava il Rosario ogni sera, si vibrava per qualsiasi evento religioso, si aiutava i poveri e si frequentava i sacramenti.
    Accanto all’humus familiare, che segna la vita di qualsiasi uomo, l’evento personale della vocazione, della quale conosciamo appena questi tre fatti: gli esercizi spirituali a 17 anni, poco dopo aver lasciato la Banca dove lavorava; i consigli di un eremita di Milano, e la sua preghiera quotidiana davanti ad un quadro della Vergine.
    La conclusione: la decisione di donare la sua vita a Dio nell’esercizio della carità.
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    L’aver conosciuto i Fatebenefratelli durante il servizio volontario di barelliere fu determinante per chiedere l’ingresso nel Noviziato annesso al loro ospedale milanese di Santa Maria d’Araceli. Vi entrò il 1° maggio 1860; il 13 maggio ricevette l’abito ed il nome da frate di: Benedetto, Fra Benedetto Menni, un “uomo nuovo” che oggi la Chiesa glorifica. Dopo un anno di noviziato fece i voti semplici, e tre anni più tardi, la professione solenne.
    Abbiamo già il santo?
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    No. Questo giovane frate ospedaliero può ancora diventare di tutto, compreso un “buon religioso”, ma non santo. Un santo non si improvvisa.
    Tre anni di studio e di pratica infermieristica a Lodi. Fu lì che iniziò anche la sua preparazione all’ordinazione sacerdotale, che ricevette poi a Roma, nell’autunno del 1866, quando si annusava già l’esplosione finale della guerra dello Stato italiano contro il Papa per togliergli Roma.
    Dopo cinque anni, il novizio è già diventato sacerdote. Una formazione professionale di certo affrettata se si tratta di formare un luminare della ricerca teologica o della investigazione filosofica, ma non nel caso di un uomo di azione, come era Fra Benedetto, fatto per medicare ferite concrete di corpi e di anime ugualmente concrete. Dove?
    Il Generale dei Fatebenefratelli, P. Giovanni Maria Alfieri, che trattenne accanto a sé il P. Benedetto durante un anno, si rese subito conto che aveva a portata di mano la persona che gli occorreva per un’impresa quanto mai impegnativa: restaurare in Spagna l’Ordine dei Fatebenefratelli.
    Il giovane frate si spaventa: ha soltanto 26 anni, è troppo integro e retto per un compito che richiederebbe una grande esperienza diplomatica; è coraggioso, ma non temerario. Il Papa Pio IX lo riceve in udienza:
    - “Va in Spagna, figlio mio, e restaura l’Ordine nella sua stessa culla”. Era il 14 gennaio 1867.
    Due giorni dopo, parte per una avventura, umanamente parlando, assurda, sostenuto dall’obbedienza, dalla benedizione del Vicario di Cristo e dalla preghiera alla Vergine.
    In Spagna l’aria che si respirava era totalmente contraria. Da quando era finita la guerra di Indipendenza mai più era tornata la tranquillità nel paese. L’anticlericalismo e il liberalismo di importazione stavano inaridendo la Vita Religiosa. Il governo di Mendizábal, con i due tremendi Regi Decreti del 1835 e 1836, riuscì dapprima a limitare le attività degli Istituti Religiosi, e poi a sopprimerli. Il ramo spagnolo dei Fatebenefratelli, che contava allora tre provincie nella Spagna, una in Portogallo, tre nell’America Latina e una viceprovincia nelle Filippine, oltre ad alcuni ospedali nell’Africa e nell’India, finì per estinguersi.
    Occorreva ripartire da capo, non solo in un clima di aperta ostilità verso tutto ciò che sapeva di religioso, ma per di più in mezzo a guerre e rivoluzioni.
    Dopo una breve sosta in Francia a Lione e Marsiglia, il P. Menni si lanciò alla conquista della penisola iberica come un don Chisciotte in versione divina, “un divino imprudente”. Mentre il paese rabbrividiva per le scosse politico-sociali che avrebbero portato alla caduta della Monarchia nel 1873, il P. Menni, forte solo della benedizione del Papa, entrava in aprile a Barcellona e si presentava al Vescovo diocesano che, evidentemente, lo considerò un ingenuo, se non addirittura una persona pericolosa, e non gli diede credito.
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    Tutte le cose hanno un inizio
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    Quel divino imprudente però impugnò l’argomento delle “opere”. Elemosinando di porta in porta, ottenne quanto fu indispensabile per iniziare un piccolo ospedale per bambini handicappati e scrofolosi. Quell’ospedale, che aveva soltanto una dozzina di letti, fu, niente meno, il primo ospedale pediatrico della Spagna, e fu benedetto personalmente dal Vescovo che lo aveva respinto qualche mese prima, credendolo un sognatore. Siamo nel dicembre del 1867.

    E visto che i bambini sono sempre all’avanguardia nel Regno di Dio, il piccolo ospedale di Barcellona fu il trampolino di lancio per la conquista ospedaliera nella penisola. Figurava come “centro assistenziale civile di carattere filantropico” e, senza dubbio, comportò per il P. Menni difficoltà indicibili; tuttavia, il 31 maggio 1868, il Generale dell’Ordine approvò la fondazione come la prima cellula dell’Ordine restaurato in Spagna.

    Nel 1872 il P. Menni è nominato Commissario Generale dell’Ordine per la Spagna. Quattro mesi più tardi, l’avvento della Repubblica ravviva il fuoco rivoluzionario. Travestito da contadino catalano e accompagnato dal confratello spagnolo Fra Girolamo Tataret, un giorno il P. Benedetto alla guida di una vecchio carretto squinternato, si dirigeva verso la periferia di Barcellona per fuggire dalla cerchia irresistibile delle milizie; il carro però si ribaltò in una curva, vicino a un posto di blocco, e i due “contadini” vennero arrestati. Espulso dalla Spagna il 1° aprile 1873, già all’inizio di giugno vi tornò in visita clandestina, portando con sé le elemosine raccolte in Francia per sussidiare l’ospedaletto di Barcellona.

    Imagen de San Benito Menni como enfermero durante la tercera guerra carlista

    Altre due volte fece quel medesimo viaggio, e la seconda, quasi in modo rocambolesco, entrò da Gibilterra, dopo uno scalo in Africa: da Marsiglia s’era infatti dapprima diretto in Marocco con l’intenzione di fondare un ospedale a Tangeri, dove arrivò realmente, ma a nuoto, gettato dalla nave in mare da un estremista spagnolo. E da Gibilterra al cuore della guerra civile spagnola, in qualità di volontario della Croce Rossa. Il Re Don Carlos l’accettò come infermiere, assieme ad altri cinque confratelli dell’Ordine. Fino alla cessazione delle ostilità (il 6 aprile 1876) il P. Benedetto curò corpi e anime dei due opposti schieramenti, sfidando il fuoco incrociato sui fronti di Portugalete, Abárzuza, Lácar, Lumbier e Pamplona, o nella pace sofferta degli ospedali di guerra organizzati a Santurce, Irache, Comillas, Gomilar, Ochandiano e Santa Agueda.

    Le litografie del tempo, ingenue nel loro drammatismo, non mettono in evidenza quel buon samaritano all’azione in mezzo al fumo delle scariche, tra i berretti rossi dei carlisti o i chepì dei liberali, in mezzo alla sanguinosa lotta corpo a corpo con le baionette lunghe come spade, tra i campi punteggiati di cadaveri umani e di cavalli sventrati. E tuttavia era lì, come infermiere e come sacerdote. E quel battesimo di carità, in sintonia con la più genuina tradizione dei Fatebenefratelli, fu provvidenziale perché il gruppetto di seguaci del P. Menni, giunto poi a Madrid al termine delle ostilità, ottenesse il riconoscimento legale come “Associazione Infermieristica dei Fratelli della Carità”, e il permesso di fondare in seguito ricoveri e ospedali.

    La centrale della carità

    Ciempozuelos fu il vero focolare della restaurazione dell’Ordine in Spagna. Lì si trasferirono i novizi di Barcellona; e lì, tra il susseguirsi di nuovi padiglioni, sorse un manicomio per uomini, che andò affermandosi come una struttura psichiatrica di avanguardia.

    Nel giro di poco tempo, così come a volte la primavera esplode all’improvviso e tutto fiorisce da un giorno all’altro, si moltiplicarono le domande e le possibilità di fondare in tantissime parti. E alcune di queste possibilità diventarono anche realtà. In seguito al moltiplicarsi delle fondazioni, il P. Menni fu nominato Provinciale della nuova Provincia della Spagna (1884), con affidati a lui 70 religiosi professi e 25 novizi; tutto ciò significava che, oltre ai problemi amministrativi, si aggiungevano ora l’impegno per la formazione umana e spirituale dei suoi confratelli, l’animazione del fervore religioso, e il tenere vive e unite le diverse comunità. E anche se si manifestò qualche dissenso, poiché sempre qualcuno la pensa differentemente, nel complesso il suo servizio come Provinciale fu giudicato positivamente, considerando che venne riconfermato per ben 6 volte durante diversi Capitoli, restando in carica per 19 anni consecutivi. Nel 1903, quando cessò il suo incarico da Provinciale, l’Ordine contava in Spagna, Portogallo e Messico complessivamente quindici case fondate da lui, con la seguente tipologia: quattro ospedali ortopedici per bambini rachitici e scrofolosi; sei ospedali psichiatrici per uomini; una colonia agricola per l’ergoterapia dei malati mentali dell’ospedale di Ciempozuelos; un ospedale per epilettici; un gerontocomio; una residenza funzionante come casa di riposo per sacerdoti e come scuola per bambini poveri; e un collegio per orfani poveri.

    I santi fanno pazzie

    Tutto questo era ancora poco. Visto che Dio ama “complicare” la vita ” dei suoi amici, gli addossò un nuovo lavoro, di certo non contemplato minimamente quando a 19 anni aveva bussato alle porte del Noviziato per donare la sua vita a servizio degli infermi: fondare una congregazione religiosa femminile.

    Qualche anno dopo, lui stesso qualificò quel gesto come “pazza decisione”. Ma ora che a distanza di oltre un secolo quella pianticella si è trasformata in albero frondoso, una cosa appare certa: la “pazzia” di quella sua fondazione ci appare della stessa stoffa della divina pazzia di cui ci parla tanto “saggiamente” San Paolo nell’Epistola ai Corinti.

    Ma facciamo qualche passo indietro nel tempo.

    Fin dall’inizio della sua missione di restauratore, il P. Menni si rese conto che il Signore, che l’aveva chiamato a prendersi cura degli emarginati fisici e psichici della Spagna, aveva bisogno di mani femminili e di cuori di madri per attendere le malate mentali e le bambine handicappate che la normativa dell’epoca non consentiva fossero accolte negli ospedali dei Fatebenefratelli. Considerando che la prospettiva di fondare lui stesso una specie di Ramo femminile del proprio Ordine cui affidare tali malate fosse una “pazza decisione”, cercò di temporeggiare; chiedendo ispirazione alla Madonna e nel frattempo, come gli consigliava il suo Superiore Generale, provando a rivolgersi agli Istituti femminili già esistenti, ma dovette constatare che non se ne trovavano di disposti a risolvergli il problema.

    Nel frattempo, al sud, proprio nella città di Granada dove San Giovanni di Dio aveva fondato l’Ordine dei Fatebenefratelli, due donne, Maria Giuseppina Recio e Maria Angustia Gimenez, sentirono la chiamata della grazia a donare la loro vita per un “progetto” ancora non ben definito. Si affidarono ad un direttore spirituale, ma quando questi s’ammalò, la Provvidenza guidò sui loro passi come loro nuovo direttore spirituale proprio P. Menni, che però inizialmente provò riluttanza ad assecondare la loro aspirazione e ad avvalersene per dare infine vita ad un nuovo Istituto Religioso femminile specializzato nell’assistenza psichiatrica.

    María Josefa Recio

    Alla fine, durante l’estate del 1880, da Ciempozuelos arrivò a Granada l’invito del Padre: “Se volete, potete venire…” Le due donne decisero di lasciare la città alla chetichella e, dopo una sorta di fuga notturna da Granada, giunsero a Ciempozuelos, stabilendosi in una casa poverissima e inospitale, tenuta per di più da una proprietaria intrattabile, e sul momento occupando le giornate giusto a lavar montagne di biancheria dell’ospedale, tra i pettegolezzi della gente sull’onore del P. Menni.

    María Angustias Jiménez Vera

    Come inizio, niente male! e rischiò di essere anche la fine! Comunque fu un buon inizio, segnato dalla croce e in una povertà da Betlemme. In una circolare a tutto l’Istituto, il 22 giugno 1903, il P. Menni spiegava il segreto dell’esito: quella “pazza decisione” fu alla fine indovinata perché “scaturiva dal Cuore di Gesù, in virtù del suo divino Spirito”.

    Presto la nascente Congregazione cominciò a ricevere vocazioni: tre, quattro, sette, dieci… Presto poterono sistemarsi in un altra casetta del paese. Presto le giovani ebbero come libro di riferimento il crocifisso e come Superiora la Madonna (”Questa è la vostra Superiora – disse loro il Padre – sotto la sua protezione pongo tutte le mie figlie“), invocata come “Nostra Signora del Sacro Cuore”, titolo mariano col quale cominciarono a chiamarsi, e che diede più tardi luogo all’attuale denominazione di “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”. Presto ebbero i loro primi “fioretti”, come quella indimenticabile scena dell’accoglienza della prima malata: le si fecero attorno con grande affetto e, una dietro l’altra, si avvicinarono a lei per baciarle i piedi, così come avrebbero fatto con il Signore, al quale avevano consacrato la loro vita. Presto ebbero un motto che sintetizzava in sei verbi all’infinito altrettante esigenze ascetiche: “pregare, lavorare, patire, soffrire, amare Dio e tacere“.

    ContinuaE presto ebbero la loro prima martire della carità: una delle due coraggiose pioniere venute da Granada, Maria Giuseppina Recio, messa alla guida dell‘Istituto appena nato, moriva il 30 ottobre 1883 dopo essere stata calpestata e malmenata da una demente; oggi la sua salma e quella della Confondatrice Maria Angustia Gimenez riposano in una cappella laterale della medesima Chiesa di Ciempozuelos nella quale le Suore custodiscono sotto l’altare centrale il venerato corpo di San Benedetto Menni.

    La nuova Congregazione, avendo ottenuto l’approvazione diocesana, ebbe il suo inizio canonico con l’ammissione in noviziato delle prime suore il 31 maggio 1881. L’anno seguente (1882) il P. Menni scriveva le prime Costituzioni; nel cui prologo precisava che l’incipiente istituzione mirava all’assistenza caritativa delle malattie mentali; o, come spiegava poco dopo, “all’esercizio costante della virtù della carità cristiana attraverso il soccorso, la cura e l’assistenza continua delle donne alienate, accettando questo sacrificio come necessità particolare che esiste oggi nell’umanità sofferente”. A distanza di più di un secolo, quell’oggi è valido ancora!

    Undici anni dopo era già una Congregazione di Diritto Pontificio. Quando il P. Menni cessò di essere Provinciale dell’Ordine (1903), le Suore avevano nove case: sei per malate mentali e tre per bambine rachitiche e scrofolose povere, aperte rispettivamente a Ciempozuelos, Málaga, Madrid, Las Corts, Palencia, Parigi, Idanha, (Portogallo), San Baudilio di Llobregat, Santa Agueda; e nuove case sorsero negli anni seguenti: Pamplona (1909), Roma (1905), Viterbo (1909), Nettuno (1910), ecc. fino alle oltre cento case sparse in 24 nazioni nelle quali attualmente lavora “questa famiglia religiosa, nata dal divin Cuore”, secondo la testuale affermazione del loro Fondatore.

    I santi non vanno in pensione

    Riprendiamo il filo della biografia nella data chiave del 1903. Il P. Benedetto Menni finisce il suo lungo servizio come Provinciale. Ha 62 anni. Ha avviato un’opera molto estesa, e ormai potrebbe anche pensare al meritato e sereno riposo, dedicando maggiore attenzione alla sua Congregazione delle Suore Ospedaliere, ma come “uomo” ancora è in grado di lavorare; e come “santo” la Chiesa ha bisogno di lui quale strumento di rinnovamento in quegli anni tormentati.

    Nel 1905 lo incontriamo a Roma, in un Capitolo Generale dell’Ordine. Ritornato in Spagna, la Santa Sede lo richiama a Roma per nominarlo Visitatore Apostolico dei Fatebenefratelli (1909): viaggi, lettere e visite personali alle diverse Province, nella delicata missione di ravvivare lo spirito e l’osservanza religiosa. Finito questo compito, il Papa San Pio X lo nomina Generale dell’Ordine (1911).

    In questa mobilità e attività snervante, che caratterizzano la sua vita, dove finisce “l’uomo” e dove comincia il “santo”? Organizzare, viaggiare, cercare prestiti, dirigere costruzioni, amministrare… lo può fare qualsiasi impresario, e poteva averlo fatto quel giovane milanese, tipicamente intraprendente, chiamato Angelo Ercole Menni, se avesse deciso di lanciarsi sulla strada della rivoluzione o della politica.

    Ma l’uomo di Dio, il “santo”, viveva tutte queste attività con novità interiore, faceva tutto con un cuore diverso, un cuore ogni giorno più immedesimato con i sentimenti di Cristo Gesù, che finivano col trasparire nel suo comportamento, nel quale possiamo schematicamente evidenziare cinque attitudini fondamentali:

  • Fiducia totale e profonda nel Cuore di Gesù “colmo di misericordia e di amore”, un tema, questo, che lo emozionava quando ne parlava. Acceso di devozione al Sacro Cuore, dispose che tutti i primi Venerdì si celebrasse una Messa cantata e si esponesse il Santissimo. Difficilmente egli avrebbe potuto divenire “un altro Cristo” se non avesse bevuto alla fonte di quel Cuore redentore, perennemente misericordioso con gli infermi e le folle abbandonate.

  • Ricorso quasi istintivo alla Vergine Maria; egli, dai tempi del Rosario recitato da ragazzo in famiglia e fino all’ora della sua morte, trovò sempre in Maria la strada per andare a Gesù. Ed identico cammino suggeriva alle sue figlie. “La Vergine - scriveva loro - porta tra le braccia Gesù che ci lascia vedere il suo divino cuore e con le sue braccia aperte ci invita ad andare verso di Lui”. Ed aggiungeva loro: “Lei ci consentirà d’entrare e rimanere nel Cuore di Gesù”.

  • Pietà semplice, immediata, per nulla cerebrale. Sempre in movimento per impegni o viaggi, egli immancabilmente all’uscire o rientrare si soffermava in cappella, convinto che la cosa migliore era porre ogni assunto nelle mani di Dio. La sua giaculatoria più ricorrente era: “Gesù mio, di me diffido, al Cuore tuo m’affido e mi ci rifugio”. Il nome di Gesù era costante sulle sue labbra. Questa pietà lo portava a compiere ogni cosa pensando a Lui: “L’unico cammino da seguire – usava ripetere – è fare la volontà di Dio”. E questo uniformarsi al volere divino non si stancava di raccomandarlo nelle sue lettere: “Chiediamo a Gesù che ci infiammi del suo amore. Chiediamo alla Regina di questo amore, la Vergine Immacolata, che accenda in noi questo fuoco divino… Oh Gesù, non intendiamo offrirti resistenza”.

  • Carità senza limiti e molto concreta, seguendo il consiglio stesso di Gesù: “Se io ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri”. Carità che gli faceva vedere negli infermi l’immagine di Cristo, e che spiega perché qualche volta lo videro imboccarli in ginocchio. Carità che lo faceva intenerire alla vista di un mendicante; carità che lo portò una volta a consegnare ad un uomo che gli raccontava le sue miserie le uniche cinque pesetas che aveva per affrontare un debito di cinquecento, ed a giustificarsene dicendo “questa moneta per noi è niente, ma a lui lo toglierà da grandi difficoltà”; carità che mise a grande rischio la sua vita nel 1885 quando volle recarsi ad assistere i contagiati dal colera. Una carità, sorgente di così alta libertà interiore nel cercare il bene dei malati, che una volta giunse ad offrire la direzione sanitaria dell’ospedale di Ciempozuelos ad un celebre psichiatra, il Dott. Simarro, nonostante fosse ateo e membro della Massoneria spagnola (”non ho bisogno di catechisti, diceva, ho già i religiosi; necessito piuttosto di un grande medico“); il Dott. Simarro, commosso da quel gesto, raccomandò, al suo posto, un suo discepolo ed eccellente cattolico, il Dott. Michele Gayarre.

  • Umiltà eroica. Ciò che meno ci interessano sono gli aneddoti, come quella sua reazione davanti alle Suore di una comunità che, per festeggiare il suo arrivo, avevano eretto un baldacchino con il suo ritratto: O togliete quella roba lì, o non entro”. O quell’altra volta che raccontò alle Suore, pieno di gioia:“Passando dalla Piazza della Rocca alcuni cocchieri mi hanno deriso e mi hanno persino insultato. Mi sta bene e me ne rallegro, ne merito ancora di più!”



  • La cosa più difficile però, quella che gli consentì nel suo cammino verso la santità di bruciare le tappe, fu il fatto che, a partire dalla volta che finì arrestato a Barcellona, fu costretto a presentarsi davanti a tutti i tribunali della terra, come ebbe a dire alcuni anni prima di morire. Due casi soprattutto:
    Il famoso “caso Semillan”, davanti al Tribunale Penale di Madrid. Si prolungò per sette anni (1895-1902) con morbosità scandalosa, fomentata dai giornali anticlericali, nel quale si accusava il P. Menni di ripugnanti violenze verso una povera demente. Furono sette anni durante i quali quel “prete abominevole”, presentato grossolanamente dai giornali, non volle mai un avvocato difensore (l’accettò soltanto su richiesta del Vescovo di Madrid, che ritenne che quella interminabile campagna scandalistica avesse come bersaglio la Chiesa e volle fosse presentata querela, risultandone nel gennaio 1902 la piena condanna dei calunniatori da parte del Tribunale di Madrid) né volle ricorrere alla stampa per replicare ai suoi avversari, né mai giunse a biasimarli; al contrario, arrivò a gesti estremi, come quello di baciare i giornali che lo diffamavano (”questo mi fa bene, diceva, è oro puro per me”), o a gongolare di gioia nel ricevere un giorno una lettera ingiuriosa, dicendo: “questo non accade tutti i giorni”… e immediatamente si mise a cantare, facendo il gesto di suonare il violino…
    Più amara ancora fu la campagna di calunnie, da lui stesso definite innumerevoli, davanti al tribunale vaticano del Sant’Uffizio. Questa fu per lui la sofferenza più penosa, trascinatasi per circa tre anni, fin quando nell’aprile 1896 venne comunicata ufficialmente la sentenza che non si doveva tenere “conto alcuno” delle accuse.
    Fu pure vittima di altre accuse davanti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, davanti al suo Superiore Generale. Fu ogni volta riconosciuto innocente, ma neppure i santi sono d’acciaio e intimamente ne soffrì, specie perché le accuse vennero mosse da alcuni suoi confratelli e, in qualche occasione, dalle sue stesse figlie. Cosa era successo?
    Soltanto questo: che la carità del P. Menni non era debolezza e tanto meno condiscendenza bonacciona con il male. Durante i suoi lunghi anni di governo come Provinciale, Visitatore e Generale, in circostanze delicate per la Chiesa d’Europa, represse con serena fermezza alcuni abusi; nel manicomio di San Baudilio di Llobregat espulse alcuni medici in seguito ad alcuni casi seri di immoralità; e tagliò corto con alcune deviazioni nella disciplina religiosa di alcune comunità. Tutto ciò gli procurò, all’interno dell’Ordine, un piccolo gruppo di avversari, influenti ed intriganti, che usarono contro di lui tutti i mezzi possibili, compresa la calunnia. Accusato e accerchiato, ancora una volta non volle difendersi, ma preferì presentare le dimissioni da Superiore Generale, dopo esserlo stato per poco più di un anno: era il 20 giugno 1912.
    Il cammino Regale della Santa Croce
    Gli rimanevano ancora due anni di vita. Cosa avrebbe fatto nel frattempo? Si sarebbe detto di lui, come si dice di alcuni personaggi biblici: “riposò nella sua buona vecchiaia”? Poteva ritirarsi a riposare in qualcuna delle tante case da lui fondate, lasciarsi curare dalle Suore con affetto filiale, forse scrivere le sue memorie, come fanno i grandi personaggi della storia. Ma lui, il “grande” uomo Benedetto Menni, era già più piccolo che il grande “santo”, scolpito dalla grazia.
    E tuttavia il “santo” non era ancora compiuto del tutto. A Dio restavano ancora due anni per completare in quell’anziano l’immagine del figlio suo Gesù, che morì rifiutato, abbandonato e perdonando.
    In effetti, furono presi contro di lui alcuni provvedimenti che oggi ci sembrano spietati. All’inizio gli consentirono di visitare le case delle Suore, pur con qualche limitazione. Nell’agosto 1912 lo obbligarono ad eleggere dimora stabile in una casa dell’Ordine, che non fosse né a Roma né in Spagna. Lasciò dunque l’alloggio nell’ospedale che le sue Suore avevano a Viterbo e si trasferì in settembre nella Comunità dei suoi Confratelli a Parigi. Nel novembre 1912 gli fu proibito qualsiasi tipo di intervento, diretto o indiretto, nelle questioni della Congregazione delle Suore Ospedaliere; gli fu tolto il fedele aiutante e segretario, Fra Alfonso Galtés; gli fu vietato di vivere nelle città dove le Ospedaliere avevano case: e siccome a Parigi l’avevano, dovette allontanarsi da Parigi!
    L’umiliazione crebbe ancora di più quando dal Vaticano la Congregazione dei Religiosi ordinò una visita di verifica alle diverse comunità della Suore Ospedaliere, che pur concludendosi onorevolmente, si protrasse fino a due mesi prima della morte del Fondatore.
    Vale la pena contemplare il suo volto in una fotografia del tempo. E’ e non è lo stesso di qualche anno prima: ha ancora lo stesso viso squadrato da milanese spiccio e intraprendente; ma al tempo stesso si è invecchiato e sono apparse le rughe, le sue fattezze però hanno acquisito una particolare nobiltà; i suoi occhi scrutatori, ben lontani dall’apparire melanconicamente rassegnati o addirittura scoraggiati, sembrano invece quelli di un vecchio marinaio che scruta il porto tra la nebbia all’orizzonte. E’ un anziano. Mentre “l’uomo esteriore” si va disfacendo, il santo, “l’uomo interiore”, si rinnova ogni giorno” (2 Cor 4,16); la dimora terrena di questo indomito costruttore di case per gli altri, è prossima a disfarsi, ma per lui è già pronta una casa solida, non costruita da mani umane, ma eterna, nei Cieli (2 Cor 5,1). Spogliato di tutto, aspettava serenamente, senza condannare nessuno, di approdare nella Patria celeste, a godervi il Signore.
    Era ancora a Parigi quando soffrì un attacco di paresi; non ricuperato perfettamente, il 19 aprile 1913 si traferì a Dinan, una casa dell’Ordine nel nord della Francia dove le Suore non avevano Comunità. Due di loro, capitate a chiedere elemosina nella zona, chiesero di vederlo: il Padre seppe dir loro, con lacrime agli occhi, soltanto questo:
    - Siete ancora vive, figlie mie?
    La sua saluteandava peggiorando vistosamente, nonostante le affettuose premure dei Confratelli. Un secondo attacco di paresi lo ridusse alla immobilità quasi assoluta. Fu allora che quel grande imprenditore, amministratore, organizzatore, costruttore, fondatore, governante, compì l’opera maggiormente meritevole della sua vita: la sua propria morte, “volontariamente accettata” – come Cristo fece con la sua – per la redenzione di tutti gli uomini. La mattina del 24 aprile 1914, preparato per il grande viaggio con i sacramenti della Chiesa e una benedizione speciale del Papa Pio X, morì “l’uomo” Benedetto Menni per iniziare una vita che non ha fine.

    Il Cielo ha una porta, e questa porta ha delle chiavi che Cristo affidò a Pietro e ai suoi successori: loro conoscono i criteri per poter emettere questo giudizio. Avviato il processo di beatificazione nel 1964, dichiarata l’eroicità delle sue virtù l’11 maggio 1982, riconosciuta come miracolosa, per intercessione del P. Menni, la guarigione della signora Assunta Cacho, il Papa Giovanni Paolo II lo dichiarò beato nel 1985. Un nuovo miracolo, la guarigione immediata e durevole, non attribuibile a farmaci né ad altre cure, di una religiosa Ospedaliera (Suor Maria Nicoletta Vélaz) affetta da un cancro invasivo della vescica, chiude il cammino che la Chiesa ha percorso per dichiarare la santità di questo eroico discepolo di San Giovanni di Dio, anche lui incompreso e combattuto durante la sua vita: Benedetto Menni è santo.

    Se nelle ultime lettere indirizzate alle sue religiose, nelle quali si firmava come “povero di Gesù“, egli si confessava depresso e molto bisognoso di preghiere (”perché non mi schernisca il demonio della tristezza, anzi affinché il Signore, per intercessione della Vergine Immacolata, mi dia una santa gioia e fiducia in Gesù, Giuseppe e Maria“), ora invece siamo noi che invochiamo i suoi favori per “strappare” al Cuore di Gesù e alla Vergine Immacolata la grazia di vivere con coerenza, giorno dopo giorno, la nostra consacrazione battesimale e religiosa.

    VOLUNTARIADO

    La canonizzazione di P. Benedetto Menni sanziona non solamente la sua santità, ma anche l’attualità del messaggio proposto e vissuto da colui che fu il Restauratore dell’Ordine dei Fatebenefratelli nella penisola iberica e nell’America Latina, nonché il Fondatore delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù. Messaggio mirabilmente sintetizzato nella preghiera liturgica figurante nel proprio della Messa di San Benedetto Menni: essere araldi del Vangelo della Misericordia mediante il servizio ai fratelli infermi e bisognosi.

    Chi desiderasse conoscere meglio la vita, gli scritti e la spiritualità di San Benedetto Menni, può rivolgersi ad uno dei seguenti indirizzi:

  • Provincia Romana dei Fatebenefratelli - Via Cassia, 600 - 00189 Roma RM E-mail: “Curia Prov.Romana FBF” <curiafbf.rm@flashnet.it>




  • Provincia Lombardo-Veneta dei Fatebenefratelli - Via Cavour, 2 20063 Cernusco sul Naviglio MI - E-mail:<prcu.lom@oh-fbf.org>Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù - Via Urbisaglia, 3/A - 00183 Roma RM – E-mail: “Provincia Italiana Suore Ospedaliere del Sacro Cuore” <hsc.prov.it@iol.it>



  • Vedi >>   Donne dell’Hospitalitas


    DISCORSO DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II AI PELLEGRINI CONVENUTI PER LA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DI CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI, INOCENCIO DE LA INMACULADA, BENEDETTO MENNI, TOMMASO DA CORI

    22 Novembre 1999 . Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Carissimi Religiosi e Religiose, Fratelli e Sorelle! . 1. Ci ritroviamo oggi per rinnovare il nostro inno di lode e di ringraziamento a Dio, all’indomani della solenne liturgia, durante la quale, ieri, nella Basilica Vaticana, ho avuto la gioia di proclamare 12 nuovi Santi, invitti testimoni di Cristo, Re dell’Universo. Allo stesso tempo, vogliamo ancora una volta soffermarci a riflettere insieme sul loro luminoso esempio di amore incondizionato a Dio e di generosa dedizione al bene spirituale e materiale dei fratelli. . 2. Saludo con gran afecto a los peregrinos de lengua española venidos a Roma. En esta ocasión, de modo particular saludo a los Hermanos de las Escuelas Cristianas, acompañados de sus alumnos y ex-alumnos, a los Padres Pasionistas, así como a los miembros de la gran Familia Hospitalaria. Estos Santos, hijos predilectos de la Iglesia y testigos fieles del Señor Resucitado, nos ofrecen el testimonio de una rica espiritualidad, fraguada en la fidelidad cotidiana y en la entrega incondicional a su vocación al servicio del prójimo. . 3. Los Hermanos mártires de las Escuelas Cristianas canonizados ayer, seguidores del carisma de San Juan Bautista de La Salle, se entregaron plenamente a la educación integral de los niños y jóvenes. Ellos pertenecen a la larga serie de educadores cristianos que han dedicado su vida y sus energías a la enseñanza en la escuela católica, comprometidos en este irrenunciable servicio que la Iglesia presta a la sociedad. Ésta, en nuestros días a veces se presenta individualista y con tentaciones de secularismo. Frente a ello, los Santos Mártires de Turón, procedentes de diversos puntos de la geografía española y uno de ellos de Argentina, son la prueba elocuente de que la fidelidad a Cristo vale más que la propia vida. . Que su ejemplo, junto con el del P. Inocencio de la Inmaculada, mueva a los jóvenes a abrazar el estilo de vida que nos propone el evangelio, vivido con valentía y entusiasmo. Que la labor educativa de estos Santos Mártires sea también modelo para los educadores cristianos a las puertas del nuevo milenio que está ya a las puertas. Respecto a la formación de las jóvenes generaciones, quisiera recordar el deber primordial de los padres como primeros y principales responsables de la educación de los hijos, lo cual supone que han de contar con absoluta libertad para elegir el centro docente para sus hijos. Las autoridades públicas, por su parte, han de procurar que, desde el respeto al pluralismo y la libertad religiosa, se ofrezca a las familias las condiciones necesarias para que, en todas las escuelas, sean públicas o privadas, se imparta una educación conforme a los propios principios morales y religiosos. Y esto es más necesario aún en un país, como España, donde la mayoría de padres pide la educación religiosa para sus hijos. . 4. San Benito Menni, miembro ilustre de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios y Fundador de las Religiosas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, vivió su vocación como apóstol en el campo de la sanidad, sin ahorrarse esfuerzos y sufrimientos, con audacia y una entrega sin límites al cuidado de los enfermos, especialmente de los niños y de los trastornados mentales. La labor que realizan sus Hermanos de religión y las Religiosas del Instituto que fundó tiene plena actualidad en el mundo actual, donde con frecuencia se margina a los débiles y a los que sufren. Que la gran Familia Hospitalaria, en fidelidad al carisma del nuevo Santo, imite el inmenso amor que él sentía hacia los más desfavorecidos, dedicando enteramente la vida a su servicio. . San Benito Menni descubrió su vocación precisamente cuando llevaba a cabo tareas de voluntariado en Milán. Muchos de los peregrinos que habéis venido para su canonización sois voluntarios en diversos centros hospitalarios y en otros centros asistenciales. Ese servicio enriquece vuestra vida y hace crecer la capacidad de donación y acogida solidaria del prójimo, especialmente de los que sufren. Os animo a proseguir en esa labor, iluminados por los ejemplos del Padre Menni, imitándole y siguiéndole en el camino de misericordia que él practicó. . 5. Mi rivolgo a voi, cari Religiosi dell’Ordine Francescano dei Frati Minori, ed a quanti insieme con voi esultano per la canonizzazione di san Tommaso da Cori. “Vengo al Ritiro per farmi santo”: con queste parole il nuovo Santo si presentò al luogo solitario di Bellegra, dove per lunghi anni realizzò progressivamente questo impegnativo programma di vita evangelica. Aveva ben compreso che ogni vera riforma inizia da se stessi e, proprio per questo, la sua umile persona si colloca tra i grandi riformatori dell’Ordine dei Frati Minori. . Dall’intensità del suo intimo rapporto con Dio, soprattutto dalla profonda devozione all’Eucaristia, fioriva la fecondità della sua azione pastorale, così incisiva da meritargli l’appellativo di “apostolo del sublacense”. Vero figlio del Poverello d’Assisi, anche di lui si potrebbe affermare ciò che si diceva di san Francesco, che cioè “non era tanto un uomo che prega, quanto piuttosto egli stesso tutto trasformato in preghiera vivente” (Tommaso da Celano, Vita Seconda, 95: Fonti Francescane, 682). . 6. Carissimi Fratelli e Sorelle! Insieme con tutta la Chiesa, lodiamo il Signore per le grandi opere che ha compiuto attraverso questi nuovi Santi. . Facendo ritorno alle vostre case ed alle vostre occupazioni quotidiane, portate con voi il lieto ricordo di questo pellegrinaggio a Roma, e continuate con coraggio nell’impegno di testimonianza cristiana, perché possiate prepararvi a vivere con intensità e fervore l’Anno Santo ormai vicino. Con questi auspici, vi affido tutti alla celeste protezione della Madonna e dei nuovi Santi, e di cuore vi benedico, insieme con le vostre famiglie e le vostre comunità.


    OMELIA DEL SANTO PADRE GIOVANNI PAOLO II NELLA CERIMONIA DI CANONIZZAZIONE DEI BEATI:

    CIRILO BERTRÁN E OTTO COMPAGNI, INOCENCIO DE LA INMACULADA, BENEDETTO MENNI, TOMMASO DA CORIDomenica, 21 novembre 1999

    1. “Si siederà sul trono della sua gloria” (Mt 25,31). L’odierna solennità liturgica è dominata da Cristo, Re dell’universo, Pantocràtor, quale risplende nell’abside delle antiche basiliche cristiane. Contempliamo questa maestosa immagine nell’odierna ultima domenica dell’anno liturgico. La regalità di Gesù Cristo è, secondo i criteri del mondo, paradossale: è il trionfo dell’amore, che si realizza nel mistero dell’incarnazione, passione, morte e risurrezione del Figlio di Dio. Questa regalità salvifica si rivela pienamente nel sacrificio della Croce, supremo atto di misericordia, in cui si compie al tempo stesso la salvezza del mondo e il suo giudizio. . Ogni cristiano partecipa della regalità di Cristo. Nel Battesimo egli riceve con la grazia l’interiore spinta a fare della sua esistenza un dono gratuito e generoso a Dio ed ai fratelli. Ciò appare con grande eloquenza nella testimonianza dei Santi e delle Sante, che sono modelli di umanità rinnovata dall’amore divino. Tra essi, con gioia, annoveriamo da oggi Cirilo Bertrán con otto suoi Compagni, Inocencio de la Inmaculada, Benedetto Menni e Tommaso da Cori. . 2. “Cristo tiene que reinar” hemos escuchado de san Pablo en la segunda lectura. El reinado de Cristo se va construyendo ya en esta tierra mediante el servicio al prójimo, luchando contra el mal, el sufrimiento y las miserias humanas hasta aniquilar la muerte. La fe en Cristo resucitado hace posible el compromiso y la entrega de tantos hombres y mujeres en la transformación del mundo, para devolverlo al Padre: “Así Dios será todo para todos”. . Este mismo compromiso es el que animó al Hermano Cirilo Bertrán y a sus siete compañeros, Hermanos de las Escuelas Cristianas del Colegio “Nuestra Señora de Covadonga”, que habiendo nacido en tierras españolas y uno de ellos en Argentina, coronaron sus vidas con el martirio en Turón (Asturias) en mil novecientos treinta y cuatro, junto con el Padre Pasionista Inocencio de la Inmaculada. No temiendo derramar su sangre por Cristo, vencieron a la muerte y participan ahora de la gloria en el Reino de Dios. Por eso, hoy tengo la alegría de inscribirlos en el catálogo de los Santos, proponiéndolos a la Iglesia universal como modelos de vida cristiana e intercesores nuestros ante Dios. (in lingua catalana) . Al grup dels màrtirs de Turón si agrega el Germà Jaume Hilari, de la mateixa Congregaciò religiosa, i que fou assassinat a Tarragona tres anys més tard. Mentre perdonava els qui el mataven, exclamà: “Amics, morir per Crist és regnar”. Todos ellos, como cuentan los testigos, se prepararon a la muerte como habían vivido: con la oración perseverante, en espíritu de fraternidad, sin disimular su condición de religiosos, con la firmeza propia de quien se sabe ciudadano del cielo. No son héroes de una guerra humana en la que no participaron, sino que fueron educadores de la juventud. Por su condición de consagrados y maestros afrontaron su trágico destino como auténtico testimonio de fe, dando con su martirio la última lección de su vida. ¡Que su ejemplo y su intercesión lleguen a toda la familia lasaliana y a la Iglesia entera! . . 3. “Venid vosotros, benditos de mi Padre; heredad el Reino preparado para vosotros desde la creación del mundo, … porque estuve enfermo y me visitasteis” (Mt 25,34.36). Estas palabras del Evangelio proclamado hoy le serán sin duda familiares a Benito Menni, sacerdote de la Orden de San Juan de Dios. Su dedicación a los enfermos, vivida según el carisma hospitalario, guió su existencia. Su espiritualidad surge de la propia experiencia del amor que Dios le tiene. Gran devoto del Corazón de Jesús, Rey de cielos y tierra, y de la Virgen María, encuentra en ellos la fuerza para su dedicación caritativa a los demás, sobre todo a los que sufren: ancianos, niños escrofulosos y poliomielíticos y enfermos mentales. Su servicio a la Orden y a la sociedad lo realizó con humildad desde la hospitalidad, con una integridad intachable que lo convierte en modelo para muchos. Promovió diversas iniciativas orientando a algunas jóvenes que formarían el primer núcleo del nuevo instituto religioso, fundando en Ciempozuelos (Madrid) las Hermanas Hospitalarias de Sagrado Corazón de Jesús. Su espíritu de oración le llevó a profundizar en el misterio pascual de Cristo, fuente de comprensión del sufrimiento humano y camino para la resurrección. En este día de Cristo Rey, San Benito Menni ilumina con el ejemplo de su vida a quienes quieren seguir las huellas del Maestro por los caminos de la acogida y la hospitalidad. . 4. “Io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” (Ez 34,11). Tommaso da Cori, sacerdote dell’Ordine dei Frati Minori, è stato immagine vivente del Buon Pastore. Come guida amorevole, ha saputo condurre i fratelli affidati alle sue cure verso i pascoli della fede, animato sempre dall’ideale francescano. . Nel Convento dimostrava il suo spirito di carità, rendendosi disponibile a qualsiasi esigenza, anche la più umile. Visse la regalità dell’amore e del servizio, secondo la logica di Cristo che, come canta la Liturgia odierna, “ha sacrificato se stesso immacolata vittima di pace sull’altare della croce, operando il mistero dell’umana redenzione” (Prefazio di Cristo Re). . Da autentico discepolo del Poverello d’Assisi, san Tommaso da Cori fu obbediente a Cristo, Re dell’universo. Meditò ed incarnò nella sua esistenza l’esigenza evangelica della povertà e del dono di sé a Dio ed al prossimo. Tutta la sua vita appare così segno del Vangelo, testimonianza dell’amore del Padre celeste, rivelato in Cristo e operante nello Spirito Santo, per la salvezza dell’uomo. . 5. Rendiamo grazie a Dio che, lungo i sentieri del tempo, non cessa di suscitare luminosi testimoni del suo Regno di giustizia e di pace. I dodici nuovi Santi, che oggi ho la gioia di proporre alla venerazione del Popolo di Dio, ci indicano il cammino da percorrere per giungere preparati al Grande Giubileo del Duemila. Non è, infatti, difficile riconoscere nella loro esemplarità alcuni elementi che caratterizzano l’evento giubilare. Penso, in particolare, al martirio ed alla carità (cfr Incarnationis Mysterium, 12-13). Più in generale, l’odierna celebrazione richiama il grande mistero della comunione dei santi, fondamento dell’altro elemento qualificante del Giubileo che è l’indulgenza (cfr ivi, 9-10). . I Santi ci mostrano la via del Regno dei cieli, la via del Vangelo accolto radicalmente. Sostengono, al tempo stesso, la nostra serena certezza che ogni realtà creata trova in Cristo il suo compimento e che, grazie a Lui, l’universo sarà consegnato a Dio Padre pienamente rinnovato e riconciliato nell’amore. Ci aiutino San Cirilo Bertrán con gli otto Compagni, San Inocencio de la Inmaculada, San Benedetto Menni e San Tommaso da Copri a percorrere anche noi questo cammino di perfezione spirituale. Ci sostenga e protegga sempre Maria, Regina di tutti i Santi, che proprio oggi contempliamo nella sua presentazione al Tempio. Sul suo esempio, possiamo anche noi collaborare fedelmente al mistero della Redenzione. Amen!


    125 anni di vita della Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù NEL 125° ANNIVERSARIO DELLA FONDAZIONE DELLA CONGREGAZIONE Abbiamo inaugurato il 2006 avendo in prospettiva un evento importante per la Congregazione: il 125° anniversario della fondazione. Il 2006 rappresenta quindi un’occasione eccezionale per tutte noi Sorelle Ospedaliere. Prepariamoci dunque a celebrarlo con fervore e con iniziative a livello congregazionale, provinciale e comunitario. CHE COSA SIGNIFICA CELEBRARE 125 ANNI DI VITA DELLA CONGREGAZIONE Gli anni sono la misura del tempo e rendono possibile la costruzione della storia, nel nostro caso della storia congregazionale intesa non già come una somma di anni con le loro impronte più o meno visibili, ma come una successione di eventi, di esperienze di vita, di realizzazioni ospedaliere. Celebrare 125 anni di storia significa guardare al passato per conoscerlo meglio, vivere il presente perché questo è il tempo di grazia che il Signore ha disposto per noi e progettare il futuro poiché il carisma è una realtà dinamica che dobbiamo sviluppare costantemente. Celebrare 125 anni di vita significa ricordare e ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questa storia meravigliosa; significa intensificare gli sforzi per continuare a costruire, in modo innovativo e con spirito ardente, il futuro della Congregazione e della sua missione ospedaliera. QUANDO LO CELEBREREMO Il periodo dedicato alla celebrazione del 125° anniversario va dal 31 maggio 2006 al 31 maggio 2007. L’apertura avrà luogo a Ciempozuelos dove si recheranno tutte le sorelle capitolari presenti a Roma per la celebrazione del XIX Capitolo Generale. QUALI OBIETTIVI VOGLIAMO RAGGIUNGERE

    1. Esaminare e intensificare la nostra fedeltà alla chiamata del Signore per seguirlo in modo creativo.

    2. Approfondire la spiritualità dei nostri Fondatori affinché Gesù occupi realmente il centro della nostra vita e noi possiamo servirlo attraverso la persona dei malati.

    3. Promuovere la comunione a livello personale e istituzionale.

    4. Incoraggiare azioni solidali tra coloro che oggi sperimentano nuove situazioni di emarginazione e povertà.

    INIZIATIVE CHIAVE A LIVELLO CONGREGAZIONALE Il 125° anniversario della Congregazione è un’ottima occasione per prendere iniziative a livello congregazionale e locale, tra le sorelle e insieme alle persone che lavorano nel progetto ospedaliero, al fine di rendere più vivo e visibile il carisma ospedaliero. Pertanto, il Governo generale ha individuato alcune iniziative che non esauriscono tutte quelle che si possono e si devono avviare nei vari luoghi in cui è presente la Congregazione. Eccone alcune:

    1. Cerimonia di apertura a Ciempozuelos il 31 maggio 2006.

    2. Intensificare le celebrazioni nei giorni che ogni anno sono oggetto di ricordo speciale per la Congregazione, dando loro una sfumatura particolarmente carismatica.

    3. Pubblicazione di un numero speciale della rivista HOSPITALARIAS.

    4. Celebrazione di alcune giornate scientifiche nel campo della salute mentale (informazioni psichiatriche).

    5. Utilizzazione dei mezzi locali di comunicazione.

    6. Ogni Provincia studierà come collaborare ad iniziative a favore degli immigrati, la cui condizione presenta molteplici sfaccettature. In quanto ospedaliere dobbiamo contribuire ad alleviare le conseguenze che produce lo sradicamento sulle persone e sulle famiglie costrette a lasciare il loro paese d’origine.

    REFERENTI PROVINCIALI Per assicurare il coordinamento delle iniziative, ciascuna Provincia designerà un referente la cui missione sarà quella di stimolare e promuovere le iniziative locali e comunicare al Governo generale le azioni più significative realizzate dalla Provincia in occasione di questo evento. A loro volta fungeranno da collegamento tra il Governo generale e la Provincia; le persone referenti presso la casa generale sono Josefa Jáuregui e Begoña Pérez. TITOLO DEL 125° ANNIVERSARIO Il 2006 è anche un’occasione per diffondere i nostri valori, un’occasione per ottenere aiuti a favore dei destinatari della missione, è un’occasione per comunicare tra noi e stabilire o riprendere i contatti. L’identità corporativa deve essere visibile in tutte le celebrazioni, come pure il titolo che proponiamo: ospitalitÀ oggi, come ieri e sempre OLTRE IL 2006 Misureremo il successo di questa commemorazione con il raggiungimento degli obiettivi proposti. Auguro a tutte le sorelle e a coloro che condividono la missione ospedaliera di raccogliere copiosi frutti spirituali e temporali e che il carisma, trasmesso dai nostri fondatori, acquisti nuovo splendore durante il II centenario della Congregazione delle Suore Ospedaliere. Roma, 2 febbraio 2006 Celebrare 125 anni significa anche ricominciare il “cammino ospedaliero” a partire dalla triplice dimensione cristiana della fede come origine, della speranza come cammino e della carità nel servizio ospedaliero. Ci rallegriamo di trovare nell’enciclica di Benedetto XVI gli stessi principi contenuti nello Strumento di lavoro capitolare e che sono insiti nel “modo di realizzare” la missione ospedaliera: attività caritativa organizzata; la competenza professionale. Condividiamo con il Papa la convinzione che l’uomo afflitto, qualsiasi essere umano, ha bisogno di amorevole dedizione personale, ha bisogno di umanità, ha bisogno dell’attenzione del cuore, di una dedizione suggerita dal cuore in modo che l’altro sperimenti la loro ricchezza di umanità; ha bisogno di uno sguardo d’amore. Se la globalizzazione delle necessità degli uomini è una chiamata a condividere situazioni e difficoltà, per noi questa sfida si concretizza in quei gesti che contribuiscono a cancellare lo stigma della malattia mentale e a soccorrere coloro che sono lontani dalla loro casa: gli immigrati. Camminiamo uniti – sorelle, collaboratori, altre persone – ognuno con la specificità della sua identità, ma vivendo tutti interiormente l’ospitalità legata al quotidiano, alla vita di ogni giorno… In tal modo testimoniamo che il Regno di Dio è una mensa aperta a tutti e, attraverso questa esperienza, chiamiamo altri seguaci. Venite e vedrete! Vi abbraccio fraternamente. María Camino Agós Superiora Generale









    Dinan, 31.5.2007 Ilustrísimo y Reverendísimo Sr.Obispo, Excmos. Señores Alcaldes de Dinan y Lehon, Reverendísimo Superior general de la Orden Hospitalaria de San Juan de Dios, Reverendísima Superiora general de las Hermanas Agustinas-Hospitalarias de la Inmaculada Concepción, Hermanas y Hermanos Hospitalarios, miembros de las Asociaciones y amigos todos. Nos hemos reunido en este extraordinario marco de la capilla del hospital San Juan de Dios de Dinán para clausurar el 125 aniversario de fundación de la Congregación de Hermanas Hospitalarias del Sagrado Corazón de Jesús, en un momento en el que se dan dos coincidencias significativas:

    Una, la celebración del VII Encuentro de las Provincias de Europa de la Congregación, para profundizar en la dimensión universal y multicultural de las relaciones fraternas; algo que caracteriza, cada vez más, la composición de nuestras comunidades y que quisiéramos mostrarlo al mundo como testimonio del amor que Dios tiene a toda la humanidad. Este encuentro europeo, que acabamos de celebrar en la Abadía de San Jacut de la Mer, concurre también con la conmemoración del 50 aniversario del Tratado de Roma, que inició una etapa importante para la unión de los pueblos de Europa. . La segunda coincidencia se refiere a los Hermanos de San Juan de Dios que están celebrando en esta casa el Capítulo de la Provincia de Francia, lo cual ha permitido que un grupo representativo de la Orden, con el Superior General a la cabeza, esté presente en este acto de clausura. La masiva afluencia de Hermanas y Hermanos no es mera casualidad; yo lo interpreto como una llamada del Espíritu a vivir con fidelidad el común carisma de la hospitalidad del que tanto nos habla este lugar. . En esta circunstancia tampoco puedo dejar de citar a Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús, Patrona principal de la Congregación; una advocación que nació precisamente en Francia, en Issoudun, hace ahora 150 años, con el P. Jules Chevalier; a Ella san Benito Menni le confiaba los asuntos más difíciles y delicados que afectaban a la Congregación y, siendo contemporáneo del P. Chevalier, mantuvo relación con él. Si la apertura de este año jubilar 2006-2007, en Ciempozuelos (Madrid) se justificaba por ser el lugar en el que la Congregación nació y donde descansan los tres principales protagonistas de su historia, san Benito Menni, María Josefa Recio y María Angustias Jiménez; la clausura en Dinan se explica porque aquí san Benito Menni acabó sus años cargados de santidad. Aunque él se firmaba en muchas de sus cartas con apelativos despectivos como “indigno religioso, que no merece la honra de llevar la Cruz de Jesús”. “Pobre, que no merece ser llamado Siervo de Dios”, etc.,para nosotras, sus hijas, fue una persona extraordinariamente dotada en virtud y capacidades humanas que siempre las puso al servicio de Dios y al bien de la humanidad doliente. La Iglesia le proclamó beato en el año 1985 siendo canonizado el 25 de noviembre de 1999, por el Papa Juan Pablo II.La historia, con sus sorpresas, le confinó a este hospital, en el que vivió un año y donde murió rodeado de los cuidados y del afecto de sus Hermanos de comunidad, pero alejado de sus hijas, las Hermanas Hospitalarias, y desarraigado del que había sido su escenario de vida, España, durante casi cincuenta años.

    La Congregación de Hermanas Hospitalarias es don del Espíritu que impulsó en San Benito Menni, María Josefa Recio y María Angustias Giménez, el carisma de la caridad hospitalaria en favor de un sector muy concreto, la Psiquiatría y de las personas afectadas por discapacidad psíquica o motora. La actualización y verificación de este carisma se produce en la realidad temporal, de ahí su carácter dinámico de acuerdo a las circunstancias de tiempos y lugares, privilegiando un estamento: las personas más necesitadas[1]. Celebrar 125 años de vida significa recordar y agradecer a todos los que han hecho posible la actualización de este carisma: Hermanas Hospitalarias que nos han precedido y de laicos que, con ellas, han contribuido al desarrollo de la misión hospitalaria. Es también un momento para evocar el compromiso de las 1.188 hermanas que hoy formamos la Congregación y el trabajo de los 8.000 laicos que, en colaboración, llevan adelante la misión hospitalaria en 25 naciones en Europa, América, África y Asia, porque la hospitalidad no conoce límites, no sabe decir basta, vuela de una parte a otra por toda la redondez de la tierra[2]; y porque el amor al prójimo es una consecuencia derivada de la propia fe que se actualiza en obras concretas en favor de nuestros hermanos[3], sin distinción de raza, credo, ideología o clase social[4]. Celebrar 125 años nos anima a vivir el presente que Dios ha puesto en nuestras manos, con mayor pasión, si cabe, utilizando todas las posibilidades que tenemos de hacer el bien a nuestros hermanos enfermos con competencia profesional y con ese “algo más” del que tenemos necesidad los seres humanos: humanidad, atención del corazón[5]. Celebrar 125 años de vida es un desafío que nos impulsa hacia el futuro; un futuro que hoy entrevemos con acordes de integración de todos los que formamos la comunidad hospitalaria, laicos y religiosas, para que el ejercicio de la misión hospitalaria perviva con el rigor técnico que requiere y con los valores carismáticos que nos legaron nuestros fundadores. Celebrar, es agradecer a todos ustedes por el cariño y amistad que nos muestran con su presencia en este acto, celebrar es decirles gracias porque ustedes también nos apoyan y sostienen la misión en el día a día, con múltiples formas de colaboración. MUCHAS GRACIAS! Con este acto DECLARO CLAUSURADO EL CIENTO VEINTICINCO ANIVERSARIO DE FUNDACIÓN DE LA CONGREGACIÓN. María Camino Agós Superiora General


    [1] Constituciones, 61 [2] San Benito Menni [3] cf Gal 5, 6 [4] Constituciones de las Hermanas Hospitalarias, 31 [5] Benedicto XVI, Deus caritas est, 31





    CIEMPOZULOS - CASA MADRE


    Nuestra Señora del Sagrado Corazón de Jesús (Patrona della Congregazione)

    La Congregazione delle Sorelle Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, è stato fondato in Ciempozuelos (Madrid-España), nel 1881 dal Padre San Benito Menni, sacerdote dell’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio (Fatebenefratelli) congiuntamente con con María Josefa Recio y María Angustias Giménez, scelte da Dio per occuparsi delle persone che soffrono di turbe mentali abinando due criteri fondamentali:  carità e scienza.  Nasce come risposta a una situazione di grave abbandono in quest’area della salute e dall’esclusione sociale  dei malati mentali dell’epoca.

    Vedi donne dell’ hospitalitas


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    Nuestras Experiencias


    http://www.casareal.es/noticias/news/20070315_Inauguracion_Pabellon_Fundacion_Instituto_San_Jose-ides-idweb.html LA CONSOLIDACIÓN COMO UN GRAN CENTRO PSIQUIÁTRICO

    Dado el número de pacientes que dependiendo de las Diputaciones se encontraban en otros manicomios, desde su misma fundación el Hospital Aita Menni debió hacer un gran esfuerzo para aumentar su capacidad. De este modo, toda la primera época de su historia está marcada por las obras continuas de remodelación y construcción de nuevos pabellones.

    En 1900 se adquirieron los caseríos Elezgarai, Ugalde y Errotaetxe, así como diversos terrenos. De este modo, el hospital podría ampliar sus instalaciones o bien podría beneficiarse de las explotaciones ganaderas y agrícolas de los mencionados caseríos para el abastecimiento de hermanas y pacientes.

    Ese mismo año, se construyó el Pabellón del Sagrado Corazón de Jesús, destinado a atender enfermas pensionistas particulares.

    Pabellón del Sagrado Corazón en 1900

    Pabellón del Sagrado Corazón en la acutalidad

    Entre los años 1904 y 1910 se edificó el Pabellón de San Benito para enfermas pensionadas por las Diputaciones Provinciales. Constaba de dos naves paralelas unidas en uno de sus extremos por una galería y en el otro por un edificio de tres pisos. Disponía de sala de estar, comedores, cocina, enfermería de somáticas, dormitorios y una sección de baños y de limpieza.

    Las obras continuaron prácticamente de manera ininterrumpida a uno y otro lado de la carretera que va de Mondragón a Aramaiona y en 1921 se construyó un túnel por debajo de ella, de manera que el paso desde los pabellones de un lado a los del otro no requiriera cruzar la carretera.

    Acceso al túnel

    En 1923 se edificó el Pabellón de San José actualmente destinado a pacientes de larga estancia.

    Pabellón de San José en 1923

    Pabellón de San José

    Ese mismo año se construyó otro pabellón que constituiría la Clausura de las Hermanas. Con una capacidad para más de 130 personas, disponía de cocina para enfermas pensionistas, cocina para toda la casa, ropería, costureros, despensa, etc. La construcción de los pabellones de San José y Clausura requirieron el embocinamiento del río en una longitud de 60 metros y el derribo de antiguos lavaderos y galerías de enlace, así como del caserío Errotaetxe.

    En 1924 quedó terminada la Clausura y se levantó un nuevo pabellón para enfermas de beneficencia, el de San Juan de Dios.

    En 1927, el Excmo. Sr. Obispo de Vitoria, Dr. D. Leopoldo Eijo y Garay, bendijo, consagró e inauguró la Iglesia de la Casa de Salud, en un acto al que asistieron las autoridades locales y provinciales. El proyecto fue obra del arquitecto Sr. Urcola y la primera piedra la bendijo y puso el Cardenal Arzobispo de Toledo, Dr. Reig.

    La primera época del Hospital Aita Menni estuvo marcada por las obras constantes de ampliación y remodelación de instalaciones. Las sucesivas ampliaciones de capacidad quedan reflejadas en el aumento constante del número de pacientes atendidas.

    Vista general en 1930

    Durante esta primera época se dotó a los diferentes pabellones de agua potable y caliente para usos higiénicos, sanitarios e hidroterápicos y se instaló el alumbrado eléctrico en sustitución de los quinqués de petróleo.

    Los pabellones que se fueron construyendo tenían anejos espaciosos jardines en los que se plantaron árboles para permitir a las enfermas ingresadas “disfrutar de la libertad compatible con su estado”.

    La atención psiquiátrica a finales del siglo XIX El Real Decreto de 1885 refleja la concepción que la sociedad de la época tiene del enfermo mental como una especie de ser extraño y temible, poseído o endemoniado, de cuya presencia hay que proteger al cuerpo social por medio de la reclusión El ingreso manicomial constituye en aquel tiempo la atribución por parte de la sociedad de la condición de loco a un individuo. Por ello, se establecen importantes trabas legales para evitar ingresos improcedentes, aunque una vez producido éste, las expectativas de salida de los manicomios eran casi nulas.

    De acuerdo con la Ley de Beneficencia de 1849, el Estado tenía la obligación de proporcionar atención sanitaria a sus ciudadanos, si bien las Diputaciones fueron asumiendo esta responsabilidad en el campo de la salud mental iniciando la construcción de manicomios, hasta que un decreto de 19 de abril de 1887 estableció que la obligación de atender a los dementes era imputable a la Diputación de cada provincia.

    A pesar de las disposiciones legales vigentes, en los últimos años del siglo XIX no existían recursos asistenciales para los enfermos mentales quienes no recibían atención sanitaria y se encontraban desatendidos por las calles o encerrados en sombríos calabozos en los que transcurrían sus días. Los manicomios de la época eran verdaderos pudrideros de locos en los que el ambiente reinante, lejos de favorecer la buena evolución de los pacientes, contribuía a su descompensación y a su desorganización.

    Ante la ausencia de hospitales psiquiátricos en el País Vasco, los enfermos eran ingresados fundamentalmente en los Manicomios de Valladolid y Zaragoza, lo que implicaba un importante desplazamiento y en muchos casos, una definitiva desconexión de la comunidad originaria.

    LA REFORMA PSIQUIÁTRICA DE 1931

    En 1931 tuvo lugar una reforma legal que liberalizaba el ingreso y salida del enfermo mental en las instituciones psiquiátricas y dictaba normas para la construcción de establecimientos hospitalarios, planificaba clínicas abiertas en hospitales generales y trazaba las primeras líneas de la asistencia psiquiátrica hospitalaria. Además, supuso la toma de conciencia por parte de la Administración Pública de las responsabilidades asistenciales que tenía con toda la población, no sólo con los indigentes. Paulatinamente se fueron extendiendo en la sociedad la Seguridad Social y el Seguro Obligatorio de Enfermedad que se crearon siguiendo el modelo italiano. Sin embargo, la asistencia psiquiátrica permaneció fuera de este circuito sanitario, manteniéndose en el ámbito de actuación de las secciones de Beneficencia de las diferentes Diputaciones. No obstante, éstas pusieron en marcha una forma particular de seguro de enfermedad que hicieron extensible a toda la asistencia ofrecida en sus instituciones sanitarias, entre ellas la asistencia psiquiátrica. Todo ciudadano que lo solicitara podía recibir cobertura económica para consulta u hospitalización, teniendo que abonar una parte en la medida de su capacidad económica, de manera que cuando la familia no poseía recursos, la Diputación asumía el coste total de la hospitalización. Además, como consecuencia de la Guerra Civil el poder adquisitivo de las pensiones sufrió una caída importante, lo cual supuso el paso progresivo de muchas pacientes de la condición de pensionistas a la de beneficencia de las diferentes Diputaciones.

    El Hospital Aita Menni mantenía relaciones institucionales con las Diputaciones de Gipuzkoa, Bizkaia, Araba y Burgos, desde donde provenían los pacientes que se atendían.

    La Diputación de Gipuzkoa mantuvo invariablemente a las enfermas que dependían de ella en el Hospital Aita Menni, pero a partir de 1932, como consecuencia de la apertura de otros recursos asistenciales para situaciones agudas, el hospital se transformó en centro para la recuperación y residencia de enfermas mentales crónicas donde eran ingresadas las enfermas crónicas dependientes de dicha Diputación.

    Por su parte, la Diputación de Bizkaia contaba con el manicomio de Bermeo por lo que la presencia de enfermas procedentes de este territorio histórico no fue muy significativa en los primeros años. De todos modos, la afluencia de enfermas fue creciendo a partir de estas fechas hasta alcanzar una proporción muy elevada en el censo global de pacientes.

    La Diputación de Araba contaba con un hospital psiquiátrico propio por lo que la presencia de enfermas alavesas ha sido siempre mínima. La Diputación de Burgos derivaba sus pacientes desde 1898 y lo continuaría haciendo hasta que en 1977 trasladara a sus últimas enfermas al recién creado manicomio de Oña.

    LA INTRODUCCIÓN DE LOS PSICOFÁRMACOS

    En la segunda mitad de los años 40 se descubrió un potente antihistamínico que mostró propiedades sedantes sobre el sistema nervioso central. Se trataba de la prometazina (Fenergan®). A partir de las expectativas que abrió este descubrimiento para el tratamiento de las enfermedades mentales, se desarrollaron nuevas investigaciones que desembocaron en el descubrimiento de la clorpromazina (Largactil®) en diciembre de 1950. La revolución de la psicofarmacología había comenzado.

    A partir de ese momento, los avances en este terreno se sucedieron a un ritmo vertiginoso: en 1952 se aisló la reserpina a partir de la raíz de la Rauwolfia serpentina; en 1955 se sintetizó el clordiazepóxido, abriendo el camino de los ansiolíticos benzodiazepínicos; en 1956 se descubrió el efecto antidepresivo de la iproniazida, precursor de los inhibidores de la monoaminooxidasa; en 1957 se produjo el descubrimiento del primer antidepresivo tricíclico, la imipramina.

    Aunque el marco legal vigente en esta época seguía siendo el establecido por el Real Decreto de 1931, estos descubrimientos tuvieron una gran importancia en la atención psiquiátrica en general y en el Hospital Aita Menni en particular puesto que, a partir de la introducción progresiva de estos fármacos, muchos enfermos pudieron evolucionar favorablemente, lo que dio lugar a que el censo de pacientes comenzara a disminuir por primera vez en la historia del hospital. Como consecuencia, en estos años los trabajos materiales fueron dirigidos principalmente a tareas de mantenimiento y acomodación de subestructuras a necesidades variables.

    EL NUEVO HOSPITAL AITA MENNI

    Con la llegada de la democracia, la asistencia a los enfermos mentales salió del ámbito del Ministerio de la Gobernación para entrar dentro de la asistencia sanitaria general y por tanto, entre las competencias del Ministerio de Sanidad (reforma del Código Civil de 1983). En la Ley General de Sanidad de 1986 se recogía la planificación de los servicios de asistencia psiquiátrica poniendo especial énfasis en el desarrollo de la asistencia extrahospitalaria a través de servicios comunitarios como consultorios, hospitales de día, centros laborales protegidos para minusvalías psíquicas u hogares asistidos en la comunidad. Por otra parte, se creaban unidades psiquiátricas para la atención de casos agudos en los hospitales generales así como unidades de rehabilitación en régimen de media estancia en los hospitales psiquiátricos y establecimientos residenciales de larga estancia.

    Por otra parte, en la Comunidad Autónoma Vasca se elaboró un Plan de Asistencia Psiquiátrica y Salud Mental a partir del cual se fueron creando los diferentes dispositivos asistenciales haciendo especial hincapié en la red de centros de salud mental y en las unidades psiquiátricas de corta estancia en los hospitales generales. Simultáneamente, en 1983 se creó el Servicio Vasco de Salud – Osakidetza para la gestión de los servicios sanitarios de la comunidad autónoma, aunque hasta 1985 las competencias en salud mental permanecieron bajo la responsabilidad de las Diputaciones Forales. A partir de entonces, el Hospital Aita Menni concertó las estancias de sus pacientes con esta institución dependiente del Departamento de Sanidad del Gobierno Vasco.

    En este contexto, el Hospital Aita Menni se renovó para convertirse en un instrumento moderno de terapia y rehabilitación de las funciones psíquicas y sociales deterioradas por la enfermedad mental, orientando su actividad a las pacientes que requerían estancias prolongadas en el hospital. Para ello, se consideró muy importante proceder a la renovación de las instalaciones con una reorganización global.

    Ante la función concreta que el Hospital Aita Menni debía cumplir en el marco asistencial vigente, se construyó un nuevo espacio hospitalario y residencial cuyas obras comenzaron en 1981.

    Vista general del Hospital Aita Menni en 1981, poco antes de iniciarse las obras de las nuevas instalaciones

    LA DIVERSIFICACIÓN DE SERVICIOS

    La Comunidad Hospitalaria Coincidiendo con la celebración en 1988 del Año del Colaborador en las instituciones de las Hermanas Hospitalarias, se inicia en el Hospital Aita Menni un proceso de integración de los profesionales que en él trabajan dando lugar a la Comunidad Hospitalaria en la que hermanas y colaboradores desarrollan conjuntamente su labor y en cuyo centro se sitúa al paciente y sus familiares. Esta integración es expresión de la voluntad de la Congregación de las Hermanas Hospitalarias y se plantea como una necesidad consecuente a la incorporación de un gran número de nuevos profesionales de cara a acometer los nuevos proyectos asistenciales y se materializa en una participación creciente de los colaboradores en la planificación del futuro y en la toma de las decisiones que afectan a la vida del centro.

    El mayor nivel de complejidad que el hospital alcanza en los últimos años y la incorporación de disciplinas específicas para determinados dispositivos han provocado la estructuración de diferentes equipos asistenciales que, manteniendo la filosofía del trabajo multidisciplinar en cada servicio, van alcanzando cotas de autonomía crecientes, aunque manteniéndose la necesaria coordinación entre todos ellos. Esta progresiva especialización conlleva no sólo la adecuación arquitectónica de los equipamientos sino también un avance en el desarrollo de la tecnología aplicada y en el esfuerzo dedicado a la investigación científica. Pag. Web:www.hospitalariasargentina.org Web: www.hospitalarias.org

    SAN BENEDETTO MENNI – Certificato di battesimo

    Posted on Giugno 21st, 2009 di Angelo


    San Benedetto
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    Menni
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    _benedetto_menni

    Cresimato il 26 Giugno 1849

    Battezzato l’11 Marzo 1841

    Ricorre quest’anno un duplice anniversario del nostro confratello San Benedetto Menni, poiché il 21 novembre si compiranno dieci anni dalla sua Canonizzazione ed in questo mese di giugno si compiono centocinquanta anni dal germogliare della sua vocazione.

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    Specialmente quando si tratta di Santi, di persone cioè che seppero rispondere con piena generosità al piano del Signore, gli anniversari offrono il destro per rintracciare il filo sottile che la mano di Dio tesse negli avvenimenti quotidiani per far a poco a poco progredire le imprese più memorabili. Vedremo perciò di ripercorrere i noti eventi nazionali del 1859 col preciso intento di scoprire il suddetto filo.

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    G. Fattori, Campo italiano dopo la battaglia di Magenta.

    La II Guerra d’Indipendenza dell’Italia fu astutamente avviata da una mobilitazione di truppe sabaude sul confine lombardo, cui l’Austria reagì invadendo il Piemonte, il che giustificò, in forza dell’alleanza negoziata da Cavour con i francesi, che questi accorressero in aiuto con un contingente di 200.000 soldati, guidati dallo stesso Napoleone III.

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    Fu quella la nostra prima guerra in cui ci fu un uso strategico delle ferrovie1, la cui rete aveva preso a svilupparsi. I francesi poterono rapidamente raggiungere in treno il fronte di battaglia sia da Susa, dov’erano pervenuti dal Moncenisio, sia da Genova, nel cui porto sbarcarono portandosi perfino dei vagoni. Lo scartamento dei binari era identico allora ovunque poiché il materiale rotabile era tutto d’origine inglese.

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    Le truppe austriache, che si erano concentrate a Magenta, vi furono vittoriosamente attaccate da quelle francesi il 4 giugno 1859. Nel sanguinoso scontro, che impegnò centomila soldati, gli austriaci, di poco preponderanti, ebbero 1.368 morti, 4.358 feriti e 4.500 dispersi; i francesi ebbero 634 morti, 3.239 feriti e 735 dispersi; i piemontesi, intervenuti marginalmente, ebbero 4 feriti2.

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    Sul campo di Magenta risultò estenuante evacuare i tantissimi feriti. Già in serata la popolazione delle vicine frazioni, avvalendosi di una cinquantina di carrette, iniziò a trasportarli verso Novara dove, oltre ai due ospedali civili, erano stati allestiti due ospedali militari grandi e quattro piccoli, per un totale di 2.500 posti letto3. Nella serata del 5 giunsero anche le ambulanze militari, che in tre giorni evacuarono oltre 600 feriti francesi ed austriaci, inviandoli a Buffalora e Novara4. Inoltre, visto che Magenta era lungo la ferrovia Milano-Novara, si cominciò ad utilizzare i vagoni che arrivavano dal Piemonte con i rifornimenti per l’esercito, facendoli tornare a Novara carichi di feriti.

    Rievocazione storica della Battaglia di Magenta il 13 e il 14 giugno: quattordici gruppi sfileranno in uniforme storica, tra salve di armi d’epoca

    Nel frattempo Milano la sera del 6 giugno venne abbandonata dalle truppe austriache, che in seguito alla sconfitta di Magenta avevano deciso di ripiegare su Lodi. La mattina del 7 le truppe francesi penetrarono in Milano da Porta Vercellina (che oggi in ricordo si chiama Porta Magenta) e con loro entrò un enorme convoglio di feriti5. La popolazione ne rimase tremendamente impressionata6 e molte famiglie accolsero feriti nelle loro case.

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    La vista di quel sangue rappreso rimase indelebile nella memoria non solo dei milanesi, ma anche in Inghilterra, dove subito, grazie al telegrafo, i giornali dettero così risalto all’evento che s’iniziò a popolarmente chiamare magenta un nuovissimo colorante sintetico di tonalità sanguigna derivato dall’anilina, individuato dal chimico Emanuele Verguin in Francia, dov’era venduto col nome di fucsina7; l’appellativo magenta si diffuse, finendo internazionalmente usato per designare nella scala dei colori una tonalità cremisi scura, risultante da una particolare combinazione di rosso e di violetto8, e nel 1967 fu adottato commercialmente per indicare uno dei quattro inchiostri basici per la stampa industriale9.

    Ospedale Fatebenefratelli – Porta Nuova

    Fbf - EnterAncor più feriti arrivarono a Milano nei giorni seguenti poiché i vagoni, invece di puntare sulla ormai satura Novara, dirottarono sul tronco Magenta-Milano, che era entrato in funzione da ottobre e che in solo 25 km raggiungeva la Stazione di Porta Nuova10. Qui prese perciò a giungere un vero fiume di feriti e tantissimi giovani milanesi accorsero a dare una mano, aiutando a scendere dal treno ed a raggiungere ambulanze e carrozze coloro che non erano in grado di farlo da soli.

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    Tra quei volenterosi c’era anche il diciottenne Ercole Angelo Menni. Era nato a Milano l’11 marzo 1841 e nel 1857, conclusa la quinta classe nel Regio Ginnasio di Porta Nuova, aveva trovato lavoro in Banca, ma se n’era presto licenziato per non piegarsi a pratiche truffaldine che gli venivano richieste e che erano incompatibili con la rettitudine insegnatagli in famiglia. In attesa d’un lavoro migliore, profittò che era libero da impegni per andare quotidianamente non solo a far scendere i feriti dai vagoni, ma ad accompagnarli al vicino Ospedale di Porta Nuova, nel quale noi Fatebenefratelli avevamo messo a disposizione 200 letti per loro, e restandovi poi per l’intero giorno11 come volontario, pronto ad offrire ogni possibile aiuto ai feriti che ne avevano bisogno.

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    Presto cominciarono ad arrivare nell’Ospedale dei Fatebenefratelli anche i feriti della successiva ancor più sanguinosa battaglia di Solferino, combattuta il 24 giugno e nella quale gli austriaci ebbero 2.292 morti, 10.837 feriti e 8.638 dispersi; gli avversari ebbero 2.313 morti, 12.102 feriti (di cui 3.572 italiani) e 2.776 dispersi12.

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    Al cessare l’8 luglio le ostilità per l’armistizio di Villafranca, le Autorità di Milano vollero fare un bilancio numerico dei militari smistati nei ventun luoghi di degenza, in gran parte provvisori, che erano stati organizzati in città. Secondo il prospetto13 compilato l’8 luglio 1859, all’inizio della giornata i ricoverati risultavano 5.774, di cui 3.123 francesi, 895 italiani e 1.926 austriaci; nel corso della giornata ne morirono 27, ne furono dimessi 493 e ne furono ricoverati 302, per cui il numero complessivo dei ricoverati era sceso a mezzanotte a 5.526. Per quanto riguarda l’Ospedale dei Fatebenefratelli, all’inizio della giornata vi figuravano degenti 107 militari, ossia 105 francesi (dei quali 13 erano ufficiali) e 2 austriaci; a mezzanotte erano scesi a 94, essendoci stati tra i francesi 13 trasferimenti, un deceduto ed un nuovo ricovero.

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    Vespri d’Organo diffusi nelle stanze dell’Ospedaledale Fatebenefratelli 1990, dopo il restauro dell’organo costruito da “Natale Morelli” nel 1853.
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    Quando Napoleone III venne a sapere che i ricoverati del nostro Ospedale milanese erano quasi tutti francesi, volle venirvi a confortare i suoi soldati e rimase ammirato per lo zelo con cui erano assistiti dai frati, tanto che si staccò dal petto l’onorificenza della Legion d’Onore e seduta stante ne insignì il Priore, fra Girolamo Conti14.

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    La vecchia Stazione Centrale (1864-1931)

    La Stazione Centrale dal lato città con il grande emiciclo del piazzale antistante, visto dai Bastioni a fine Ottocento, prima della realizzazione degli anelli tranviari. (cartolina Publicards)

    Ancora più memorabile fu la reazione del giovane Menni, anche lui colpito dall’ardore con cui i frati, spinti dal loro peculiare Voto di Ospitalità, sapevano trasformarsi in araldi dell’amore e della premura di Dio per ogni sofferente. Si ripeté in qualche modo per Menni quanto era successo nel 1538 al Fondatore dei Fatebenefratelli, San Giovanni di Dio, che proprio in occasione di una sconvolgente esperienza nell’Ospedale Reale di Granada si sentì sfidato a consacrare la propria vita ai malati, specie i più abbandonati.

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    La stazione di Porta Nuova (1840) – La stazione è stata fino al 1849 il capolinea della linea per Monza ed è ancor oggi esistente. Il fronte dell’edificio, parallelo al rettifilo per Monza e al Naviglio della Martesana (oggi via Melchiorre Gioia) si trova pertanto perpendicolare alla circonvallazione della città, lungo cui viaggia il tram ‘33′. La seconda stazione di Porta Nuova (1849) è anch’essa esistente ed è oggi sede della Guardia di Finanza.

    Dopo averci riflettuto a lungo nella preghiera ed aver consultato un santo eremita, Menni decise di fare altrettanto. Acquistata come corredo una borsetta di ferri chirurgici15, l’11 febbraio 1860 chiese ai Fatebenefratelli di riceverlo nel loro Istituto. Dato che n’avevano già apprezzato lo zelo con i malati, l’accettarono subito in prova come Postulante e chiesero d’avere sia il consenso scritto del papà, che lo firmò il 15 marzo, sia certificati e referenze del suo Parroco, che parimenti in data 15 marzo attestò l’impegno del giovane in Parrocchia e la sodezza della sua vocazione alla vita religiosa. Allo scadere del trimestre di prova la sua richiesta d’ammissione in Noviziato, che aveva firmato il 19 aprile, fu approvata all’unanimità sia dalla Comunità locale, sia dai Consigli Provinciale e Generale, per cui prese l’abito di Novizio domenica 13 maggio 1860, ricevendo in religione il nome di fra Benedetto.

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    Porta Nuova, dove sorgeva l’antico ospedale Fatebenefratelli

    Quel frate era destinato a grandi cose e nella trama predisposta per lui dalla Provvidenza i feriti del 1859 tornarono di nuovo a giocare un ruolo importante, però stavolta in tempi lunghi, come vedremo.

    Henry Dunant

    Se a Magenta l’evacuazione dei feriti fu agevolata dalla ferrovia, a Solferino fu molto più difficile e le tremende sofferenze dei tanti rimasti sanguinanti sul campo, mossero a pietà uno svizzero che casualmente passava nella zona. Si chiamava Henry Dunant e non solo si prodigò con gruppi di contadini a prestare qualche primo soccorso, ma redasse un sofferto libro di memorie, che pubblicò nel 1862 col titolo “Un ricordo di Solferino”. Con quel libro e con un’incessante opera di propaganda riuscì a convincere vari governi europei che andava assolutamente organizzata l’assistenza ai feriti di guerra propri ed altrui, affidandola ad un apposito corpo neutrale di infermieri volontari. Fu così che, con un accordo iniziale di 16 Stati, nacque nel 1863 la Croce Rossa, da allora presente in ogni guerra.

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    In Spagna la Croce Rossa fu introdotta dal medico militare Nicasio de Landa nella sua città nativa di Pamplona il 5 luglio 1864 ed ebbe il battesimo di fuoco nella battaglia di Oroquieta del maggio 1872 durante la guerra civile carlista16.

    Nel 1873 a Marsiglia padre Benedetto Menni ebbe modo d’incontrarsi col dott. Landa, in quel momento Ispettore Generale della Croce Rossa spagnola, e gli si offrì volontario indifferentemente “per soccorrere i feriti del campo repubblicano o carlista, poiché la nostra missione caritativa è superiore a qualsiasi fazione politica o ideologica”17. Landa accettò l’offerta di Menni e da Pamplona gli spedì a Marsiglia il 20 giugno 1873 un salvacondotto per aggregarsi all’esercito carlista sotto il vessillo della Croce Rossa ed usandone le insegne18.

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    Bisogna sapere che Menni fin dal 1867 era stato inviato dal suo Superiore Generale, padre Giovanni Maria Alfieri, a Barcellona per restaurare l’Istituto, estintosi in Spagna per le leggi eversive di trent’anni prima. Grazie ad un certo afflusso di vocazioni native, Menni poté aprire a Barcellona una Comunità di Fatebenefratelli che assistevano gratis i bambini rachitici e tubercolotici in quello che, dal punto di vista della Storia della Medicina, fu il primo Ospedale Pediatrico fondato in Spagna19. Dopo la proclamazione della Repubblica nel 1873, ci furono a Barcellona vari tumulti contro i cattolici e Menni rischiò ripetutamente d’essere linciato ed in ultimo gli intimarono di abbandonare il suolo spagnolo. Egli fu perciò costretto ad imbarcarsi per Marsiglia, ma il suo cuore era in Spagna e fu ben felice di potervi tornare come volontario della Croce Rossa.

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    Menni restò al fronte per tre anni, rimanendo memorabile la sua eroica dedizione sui monti di Lumbier o nel trasferimento dei feriti dall’ospedale da campo di Gomilar a quello di Santa Agueda, sfidando il crepitio del fuoco nemico20. Il dott. Landa gli espresse la sua gratitudine rilasciandogli il 10 settembre 1876 un attestato di benemerenza della Croce Rossa21 per essersi “consacrato a prestar continuamente negli ospedali il soccorso spirituale e corporale ai feriti, senza distinzione di provenienza e con uguale amore e cristiana carità con quelli dell’uno e l’altro campo”.

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    Non solo i belligeranti, ma tutta la popolazione della Navarra apprezzò moltissimo la dedizione di Menni e dei suoi  confratelli e molti chiesero di indossarne l’abito. Grazie a quel fiorire di vocazioni, appena nel 1876 tornò la pace Menni poté moltiplicare le fondazioni, ricostituendo nel 1884 la Provincia Spagnola dei Fatebenefratelli, di cui rimase alla guida fino al 1903, avendo la gioia di dare l’abito a quasi un migliaio di candidati. Tra Spagna, Portogallo e Messico lasciò fondati ben 15 Ospedali per ogni specie di infermi, soprattutto però dementi e fanciulli storpi, i più trascurati allora dall’assistenza pubblica.

    Poiché tali Ospedali erano solo maschili, Menni nel novembre 1880 si sentì inspirato a fondare per l’assistenza alle donne le “Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù”, che nel 1881 ottennero l’approvazione diocesana e nel 1901 quella Pontificia: egli affidò loro otto Ospedali in Spagna, uno in Portogallo, uno in Francia e due in Italia, a Viterbo e Nettuno. Le Suore oggi sono in 25 nazioni.

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    La Chiesa ha riconosciuto Menni come Santo nel novembre 1999 e per il decennale di tale proclamazione ci proponiamo di ritornare a parlare di lui, ma per intanto c’è sembrato opportuno accennare a come gli eventi della II Guerra d’Indipendenza furono utilizzati dalla Provvidenza per dapprima guidarlo nel nostro Istituto e poi per trasformarlo in luminoso modello dei volontari, dei quali ben meriterebbe22 essere designato Patrono Universale.

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    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.


    Il Gamba in uscita dal depositi di Corso Vercelli

    La storia del Gamba de Legn’ (questa sarebbe la corretta ortografia milanese) inizia il 9 settembre 1878, con l’atto di concessione per la costruzione di una tramvia a vapore tra Milano e Magenta, di circa 23 km di lunghezza, con una diramazione da Sedriano a Càstano Primo. Un anno più tardi venne inaugurato il primo tratto della linea da Milano a Sedriano, cui seguì in breve tempo il completamento del percorso.

    Per l’epoca si trattava di un mezzo di trasporto tecnologicamente molto avanzato, se confrontato con i tram a cavalli milanesi gestiti della SAO, in grado di trasportare una decina di persone, o con lo stesso tram di Monza, che restò ippovia per altri vent’anni, fino al 1900. Il Gamba de Legn’, invece, poteva trasportare molti più passeggeri in diverse carrozze, ad una velocità commerciale di una decina di chilometri all’ora.

    QUI IL CERTIFICATO DI BATTESIMO

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    Benedetto (al secolo Angelo Ercole) Menni è stato un sacerdote italiano dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, fondatore della congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù .

    Menni Benedetto

    MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA Added MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA La Parrocchia nella quale ha ricevuto il battesimo e che lo ha formato. Qui ha origine la marcata spiritualità mariana del Menni san bebedetto menni Il sedicenne ragioniere, da poco assunto in un Istituto Bancario di Milano, si auto-licenzia, lasciando di stucco il Direttore che gli aveva “girato” delle operazioni di Banca poco pulite, non in linea con l’ortodossia della sua etica… I “conti” per Angelo Ercole Menni, dovevano inanzitutto quadrare con la propria coscienza. Sono i sintomi di un carattere allergico al “compromesso”: una nota che emergerà nell’azione del futuro amministratore.

    menni
    SAN BENEDETTO (Ercole) MENNI
    MILANO : SANTUARIO di Santa Maria alla FONTANA

    BIOGRAFIA DEL BEATO OLALLO VALDES – Giuseppe Magliozzi o.h.

    Posted on Gennaio 14th, 2009 di

    http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/wp-content/uploads/2009/01/olallo-valdes-oh-il-cubano-padre-dei-poveri-proclamato-beato1.jpg

    FRA EULALLO VALDES O.H.

    IL CUBANO proclamato BEATO

    Di Fra Giuseppe MAGLIOZZI o.h.

    UN DIFENSORE DELLA DIGNITA’ UMANA    

    L’urna contenente le reliquie.

    Per vedere il video clicca il link:

    http://it.youtube.com/watch?v=V7eNe4uNE9w

    Agli attuali 71 Beati dei Fatebenefratelli se ne aggiungerà il prossimo 29 novembre uno nuovo, fra Giuseppe Eulalio Valdés, che sarà il nostro primo frate nativo di Cuba ad essere elevato agli onori degli altari.   Nato emarginato, fu chiamato dal Signore a farsi difensore della dignità umana delle persone allora più emarginate: i malati poveri, i minorati mentali, gli schiavi, gli sconfitti. Spese tutta la sua vita per loro, soccorrendoli come fratelli in Cristo e rispettandoli anche dopo morti, come quando sfidò le Autorità Militari per tributare l’estremo omaggio al cadavere vilipeso d’un generale ucciso in battaglia.

    Nacque emarginato, perché figlio illegittimo e per tal motivo abbandonato dai genitori. Nella nostra società, che va perdendo ogni rispetto per la vita nascente, probabilmente sarebbe stato abortito, ma a quel tempo la gente provava ancora orrore per questo atroce crimine e si cercava di evitare l’eccidio. A Cuba un bravo vescovo, mons. Gerónimo Valdés, già nel 1711 aveva istituito nella capitale un Orfanotrofio dove gli illegittimi potevano essere accolti in totale anonimità, salvando dallo scandalo le madri: accanto alla porta c’era la ruota dove deporre nottetempo l’infante, voltarla verso l’interno e, prima di fuggir via, suonare la campanella perché venissero a prenderlo.   Una notte egli fu deposto nella ruota con accanto un bigliettino: “nato il 12 febbraio scorso, non è stato battezzato”.

    Al mattino, era il 15 marzo 1820, il cappellano lo battezzò col doppio nome di Giuseppe Eulalio e lo registrò col cognome Valdés, in ossequio alla lungimirante premura del vescovo Valdés, che dispose di dar il proprio cognome a tutti i trovatelli, andando controcorrente al crudele uso di quei tempi di assegnare loro il cognome Expósito, che li bollava per sempre come “esposti”, cioè abbandonati dai genitori.   Anche il doppio nome aveva lo scopo di nascondere la nascita illegittima. Dato che nella cultura spagnola è richiesto negli adempimenti ufficiali indicare dopo il nome di battesimo sia il cognome del padre sia il cognome della madre, quando una persona indica un solo cognome, risulta evidente che è un illegittimo.

    Se in una conversazione la persona, senza entrare in spiegazioni, fornisce tre nomi, la tendenza di chi ascolta è di ritenere che il primo sia il nome ricevuto al battesimo, il secondo il cognome paterno ed il terzo quello materno. Di questa tendenza profittavano i trovatelli che, quando nel conversare capitava di dover fornire verbalmente le proprie generalità, snocciolavano uno dopo l’altro i due nomi di battesimo ed il loro unico cognome, con la speranza che si creasse l’equivoco e che nessuno facesse domande per fugarlo.

    Venendo al nostro caso specifico, il suo primo nome di battesimo, ossia Giuseppe, era dato a quasi tutti i trovatelli, in omaggio al Patrono dell’Orfanotrofio, che era San Giuseppe.   Il secondo nome di battesimo, che serviva a distinguerlo dagli altri trovatelli, fu scelto, com’era abituale nella cultura ispanica, in onore del Santo del giorno in cui era nato il bambino e che nel caso specifico del 12 febbraio era Sant’Eulalia, una giovinetta martirizzata a Barcellona nel 303 e la cui devozione si diffuse ampiamente in Spagna, dove spesso finì popolarmente invocata come Santa Olalla, sicché nel registro battesimale le generalità complete di questo neonato furono: José Olallo Valdés.

    I cubani, ritenendo che Olallo fosse il cognome paterno, lo chiamarono sempre Padre Olallo e quando nel 1901 gli dedicarono la piazza dell’Ospedale, nella targa scrissero semplicemente “Plaza del Padre Olallo”.     Dopo l’Orfanotrofio il bimbo passò alla Casa di Beneficenza, che era ugualmente nella capitale e che comprendeva un Reparto Psichiatrico, un Ospizio per mendicanti ed una Convitto per l’Educazione dell’Infanzia povera o abbandonata. Se si tien conto che all’epoca solo il 5% dei ragazzi cubani frequentava le Scuole, la formazione basica che vi ricevette lo privilegiava nel trovare un lavoro dignitoso e gli avrebbe poi consentito di tenere anche la contabilità dell’ospedale.

    A fine febbraio 1833 scoppiò all’Avana un’epidemia di colera che nel giro di un anno fece oltre diecimila vittime. Furono istituite varie sezioni di ricovero, di cui una nella Casa di Beneficenza, dove il giovane Olallo, che pareva già un ometto perché ai tropici lo sviluppo corporeo è accelerato, si offerse di dar una mano nell’assistere i colerosi, avendo superato bene l’infezione, che era assai più micidiale per gli adulti. Fu per lui un’esperienza decisiva e sentì nascersi il desiderio di dedicare la propria vita all’assistenza dei malati.

    Bussò alla porta dei Fatebenefratelli, che ben volentieri nel 1834 l’ammisero in Noviziato.   Quel suo atteggiarsi a ometto gli valse all’inizio qualche critica e fra José de la Luz Valdés gli si mostrò contrario, definendolo un “lechuguino”, ossia di troppa apparenza e poca sostanza, ma ebbe presto modo di ricredersi e lo volle con sé quando nel 1835 fu nominato Priore di Camagüey.

    In teoria le Costituzioni dell’Ordine prevedevano che i Voti potessero essere emessi solo dopo compiuti i 18 anni, ma per lunga tradizione ed a motivo del clima tropicale era divenuto usuale concederli già a 15 anni e tale concessione era stata ratificata nel Capitolo Generale del 1827. Fu così che fra Olallo emise i Voti già appena finiti i 15 anni, probabilmente l’8 marzo 1835, ma non siamo sicuri del giorno esatto perché proprio quell’anno in Spagna entrò in vigore la legislazione eversiva che oltre a confiscare i Conventi iberici con meno di dodici frati, annullò ogni legame tra le Comunità dei Fatebenefratelli e la Curia Generalizia di Madrid, dove pertanto non arrivò alcuna notifica di tali Voti.

    Dopo la confisca degli Ospedali, ai frati già Professi erano offerte due possibilità: lasciare il Convento e ricevere a proprio sostentamento una pensione di 5 reali, sancita con Decreto del 9 marzo 1836, oppure restare in Convento e guadagnarsi la vita col lavorare in Ospedale alle dipendenze del Governo. Tale misure saranno applicate a Cuba solo nel 1842, ma come passo previo vi fu inviata una Commissione Regia per compilare liste ufficiali dei frati Professi: quella dei Fatebenefratelli, che avevano a Cuba due Ospedali, uno nella capitale e l’altro a Camagüey, fu redatta il 14 giugno 1839 ed è il più antico documento che elenca fra Olallo come frate, precisando che era già al quinto anno di Vita Conventuale, il che è confermato anche da successivi documenti, ma gli si attribuiscono 22 anni d’età, il che fu certo una benevola bugia per far credere che avesse emesso i Voti a 18 anni ed evitare che un capzioso richiamo alle vecchie Costituzioni dell’Ordine, non essendocene ancora copie stampate con gli aggiornamenti del 1827, desse pretesto per considerare invalidi i Voti e negargli così di restare in Ospedale o di ricevere la pensione.

    Tenendo conto che il quinto anno di Voti doveva essere iniziato prima della data del 14 giugno in cui fu compilata la lista, egli dovette emettere i Voti a L’Avana poco dopo il suo compleanno del 12 febbraio 1835 e fu subito destinato all’Ospedale di Camagüey, dove giunse il 13 aprile 1835. Si trattava di un Ospedale Generale, dotato di 5 reparti per complessivi 88 letti, oltre a tre celle per il ricovero dei carcerati.   Tre mesi dopo il suo arrivo in questa città, che era la seconda per importanza di Cuba e che in quel tempo si chiamava Puerto Principe, scoppiò anche lì il colera, che imperversò per quasi un anno, riempiendo di malati l’Ospedale, con punte talora di oltre trenta decessi giornalieri. Tutti ammirarono e ricordarono con gratitudine l’impegno sorridente ed instancabile del giovane frate.

    I frati, secondo la citata lista del 1839, erano ancora una dozzina all’Avana, ma a Camagüey con fra Olallo erano rimasti solo due frati, il Priore fra José de la Luz Valdés, che aveva ormai già 75 anni, e fra Juan de Dios Gavillán, che n’aveva 28, né c’era da sperare in nuove reclute, poiché il Governo aveva già da tre anni interdetto i Noviziati, ma tutto ciò non smorzò la vocazione religiosa di fra Olallo ed il suo costante impegno a migliorare la propria preparazione ospedaliera, sia apprendendo quanto più poteva dai Confratelli anziani, sia, appena cessò l’emergenza del colera, dedicando il tempo libero a studiare sui libri d’infermieristica e piccola chirurgia stampati dall’Ordine e poi su quelli che in varie occasioni riuscì a farsi venire dalla Spagna, così da mantenersi sempre aggiornato sulle ultime novità.

    Quando nel 1888, in occasione della Fiera Agricola-Industriale di Camagüey, il medico Rafael Tristá passò per l’Ospedale, non solo ammirò Padre Olallo per la preparazione professionale, ma notò con piacere che egli usava già le bende triangolari di Esmarch, diffuse in Europa proprio in quegli anni da un generale medico tedesco per il primo soccorso ai soldati feriti.   Si noti che allora per i tre Ospedali di Camagüey v’era un unico medico, che vi passava sporadicamente, sicché era Padre Olallo a provvedere all’assistenza continua degli oltre ottanta malati del suo ospedale e ad eseguire interventi d’urgenza, per i quali aveva una valigetta di strumenti chirurgici, oggi esposta nel locale Museo Agramonte.

    Codesto generale Ignacio Agramonte fu uno degli eroi della rivoluzione cubana e cadde al fronte l’11 maggio 1873. All’alba seguente gli spagnoli accompagnarono i feriti nell’Ospedale di Camagüey e con disprezzo abbandonarono sul selciato della piazza il cadavere del generale. Padre Olallo accorse immediatamente a rendere omaggio alla salma e col suo fazzoletto ne deterse il volto dal sangue e dal fango, poi la fece trasportare con la barella in Ospedale per rendergli cristiane esequie.

    Quel gesto di rispetto e di coraggio gli valse l’ammirata gratitudine della popolazione, impedita dai soldati di manifestare personalmente la loro pietà per il glorioso concittadino caduto.   Altra indimenticabile prova di coraggiosa difesa della dignità umana dei poveri e degli sconfitti l’aveva data fin dallo scoppio del conflitto nel 1868, quando il Brigadiere Juan Ampudia dispose di dimettere tutti i civili e ricoverare solo i militari; padre Olallo, sempre mite e rispettoso, questa volta corse a protestare energicamente da lui ed ottenne che almeno per i civili più gravi restasse aperta una sala che approntò d’emergenza.

    Inoltre, quando dettero ordine che qualora giungessero feriti non governativi, doveva attendere un ordine scritto per assisterli, egli intrepidamente ribatté “che per lui non era possibile indugiare a salvare vite e che poi facessero pure di lui quel che credessero”.   Quando la desolazione della guerra fece mancare ogni sussidio per l’Ospedale e non v’era con che pagare una lavandaia, padre Olallo non esitò a provvedervi di persona e lo vedevano recarsi sulla sponda del rio a lavare lenzuola e biancheria dei malati.

    La premura di padre Olallo non si fermava però ai soli problemi d’ambito ospedaliero, ma si faceva carico d’ogni bisogno umano, in autentica sintonia col suo Fondatore San Giovanni di Dio, che mai inquadrava le persone dal solo punto di vista sanitario, ma accoglieva come un fratello in Cristo chiunque incrociava, sano o malato, ricco o povero, condividendone ogni ansia. Accenno qualche episodio in cui rifulse in padre Olallo l’immediata solidarietà e ferma difesa della dignità d’ogni essere umano.

    Un giorno una schiava, buttata in strada dal proprietario che non voleva spendere denaro per curarla da una grave ascite, si rivolse a padre Olallo, che con periodiche estrazioni riuscì in qualche mese a rimetterla in sesto. Quando il vecchio proprietario la vide sanata, pretese di riappropriarsene, contro la prassi giuridica che garantiva la libertà agli schiavi scacciati che riuscissero a guarire. Ma come lo seppe padre Olallo, l’affrontò e lo costrinse a recedere dalla sua ingiustizia.

    Non meno eloquente fu il comportamento di padre Olallo con un minorato mentale di nome Vincenzo, ma che tutti chiamavano Mamía. Abbandonato alla nascita, era stato accolto da padre Olallo e, grazie al suo fisico robusto, amava aiutarlo in Ospedale nei lavori pesanti. Un giorno il frate dette tre reali a chi allora amministrava l’Ospedale, pregandolo di comprargli un orologetto per questo giovane, ma gli fu obiettato: “Perché sprecare denaro per uno come Mamía?”. Egli sorridendo insistette: “Vincenzo è una persona già tanto colpita. L’orologio lo desidera e non si può negargli un piacere così innocente e che costa tanto poco”.


    Anno dopo anno, padre Olallo proseguiva serenamente nella sua dedizione ai malati, ma intanto l’Ordine dei Fatebenefratelli andava sparendo da Cuba a motivo delle leggi di soppressione degli Istituti Religiosi. Nel 1841 fu deliberata la confisca dei nostri due Ospedali e l’affidamento ad una Giunta Amministrativa Civile. Ai frati era proibito indossare l’abito del loro Ordine e solo a chi era sacerdote era permesso di mettersi un colletto clericale.

    Le due Comunità erano considerate disciolte ed i membri sollecitati a chiedere al vescovo un permesso di esclaustrazione per essere autorizzati a vivere per conto proprio: se lo ricevevano e se avevano sufficienti anni di Professione alla data della confisca, era loro concesso un sussidio governativo; in caso contrario, potevano tentare di farsi assumere come infermieri e restare a vivere insieme in Ospedale.

    Due dei frati che erano nella capitale, fra Juan Bautista Molina e fra Juan Manuel Torres, non avendo gli anni per il sussidio ed essendogli stata rifiutata l’assunzione lì, l’ottennero invece a Camagüey, dove si ritrovarono assieme al padre Olallo e ad un unico altro frate, fra José de la Luz Valdés, che era il Priore e che godeva di tanta stima che il Governo decise di fare un’eccezione e lasciare a lui la gestione invece d’affidarla alla Giunta Provinciale di Carità.

    Nel marzo 1845 il Priore morì e gli successe fra Juan Bautista Molina, che era in ruolo come Infermiere Maggiore, incarico che da allora passò a padre Olallo, che lo mantenne fino a morte. In una monografia su Camagüey, pubblicata nel 1888 da Juan Torres Lasqueti, viene così descritto il frate in quest’incarico che espletava ormai da oltre quattro decenni: “Di carattere buono, dolce e affabile di natura, dotato di autentica vocazione ospedaliera, vive esclusivamente dedicato alla sua estenuante missione di Infermiere Maggiore, di cui risponde giorno e notte, ed in più trova modo di medicare e distribuire bende e medicine ai poveri che accorrono alla sua cella per aiuto. Modesto, sobrio, senza aspirazioni di alcun genere, vive ritirato dalla società, totalmente consacrato all’esigente impegno che si è scelto volontariamente.

    Nessuno lo vede fuori dell’Ospedale, dove invece lo si trova a tutte le ore, sempre pronto ad impiegare gratuitamente la sua ben nota competenza medico-chirurgica, acquisita in oltre mezzo secolo di fruttuosa pratica quotidiana”.   Nel dicembre 1856 il Priore fu trasferito nella capitale ed il suo titolo fu assegnato dall’Arcidiocesi a padre Olallo, col quale ormai restava di Comunità a Camagüey solo fra Juan Manuel Torres, che però nel 1866 s’ammalò di lebbra e lo dovette assistere in stanza d’isolamento finché spirò nel 1876.

    Al divenire Priore, padre Olallo fu dal Governo riconosciuto gestore dell’Ospedale, ma già nel settembre 1857 egli vi rinunciò per aver più tempo per i suoi malati e la Giunta Provinciale di Carità insediò dal gennaio 1858 un amministratore laico.   Padre Olallo fu l’ultimo a sopravvivere dei Fatebenefratelli di Cuba e finché visse continuò a prodigarsi in Ospedale. Nel luglio 1888 redasse il testamento, lasciando ogni cosa ai poveri, compreso i circa duemila pesos di stipendi arretrati che gli spettavano come Infermiere Maggiore.

    Agli inizi del 1889 la sua salute apparve così deteriorata che gli amici lo pregarono di farsi fotografare seduto al tavolo della sua modesta cella. Giorni dopo, gli chiesero di farsi fotografare con l’abito da frate, che egli conservava religiosamente, ma che era proibito indossare, sicché si rifiutò e solo dopo lunghe resistenze acconsentì, ma di controvoglia, tanto che nel volto non appare la sua abituale espressione di dolcezza.

    Un aneurisma toracico ne stroncò la vita la sera del 7 marzo 1889, vigilia della festa del suo Fondatore San Giovanni di Dio, che gli diede il benvenuto nella vita eterna.   Immenso il cordoglio della cittadinanza, che non solo accorse in massa a venerarne la salma ed a seguirne il funerale, ma espresse concretamente la sua gratitudine erigendogli per sottoscrizione popolare un monumento funebre in marmo italiano con nel fronte un ritratto scolpito in Spagna a Barcellona da Francisco Planas e sui lati tre commoventi didascalie, tra cui una che diceva: Questo monumento toccherebbe il Cielo, se lo formassero i cuori riconoscenti dei poveri che il padre Olallo assistette per 53 anni nell’Ospedale San Giovanni di Dio di Puerto Principe”.

    Tra la folla accorsa ai funerali c’era un ragazzetto di nove anni, Manuel Arteaga y Betancourt, che conservò un forte ricordo dell’affascinante figura di Padre Olallo; diverrà poi cardinale e nel 1942, appena insediato come arcivescovo all’Avana, darà con commozione il benvenuto ai Fatebenefratelli, tornati a far rifiorire in Cuba il carisma ospedaliero da cui era sbocciata la santità di questo confratello, il cui messaggio non andò perduto, ma fu seme di nuove vocazioni, perfino prima del ritorno ufficiale dei Fatebenefratelli, una delle quali fu il Servo di Dio fra Jaime Oscar Valdés, caduto martire in Spagna nel 1936 e del quale si attende la proclamazione a Beato.

    A Camagüey la popolazione non dimenticò mai padre Olallo e nel centenario della morte organizzò solenni celebrazioni, che convinsero i Fatebenefratelli a chiedere l’apertura del Processo di Canonizzazione, che venne autorizzato dalla Congregazione dei Santi il 7 febbraio 1990. Padre Felice Lizaso Berruete fu designato Postulatore della Causa, durante la quale fu raccolta una notevole documentazione, che tra l’altro permise a Francisco de la Torre Rodriguez di pubblicare nel 1994 a Barcellona quella che resta tuttora la più completa biografia di padre Olallo, intitolata “El Padre Olallo. Un Cubano Testigo de la Misericordia”.

    Si procedette inoltre alla rituale ispezione della salma che, ricomposta in un’artistica urna, fu dall’8 marzo 2004 posta alla venerazione dei fedeli in un altare laterale della Chiesa dell’Ospedale.   Il Processo si concluse felicemente il 16 dicembre 2006, quando Benedetto XVI firmò il Decreto che riconosceva l’eroicità delle virtù di questo Servo di Dio. A consentire la Beatificazione fu un secondo Decreto del Papa, promulgato il 15 marzo 2008 e che riconobbe come autentico miracolo l’istantanea guarigione avvenuta il 18 settembre 1999 di un linfoma di cui stava morendo a Camagüey la bambina Daniela Cabrera Ramos, come raccontammo nell’ottobre 2007 nelle pagine di “Vita Ospedaliera”.

    La Beatificazione si svolgerà all’aperto la mattina del 29 novembre a Camagüey, nella Plaza de la Caridad, e sarà presieduta dal card. José Saraiva Martins, Prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei Santi.   Nel calendario liturgico dell’Ordine la celebrazione annuale di questo nostro nuovo Beato ricorrerà il 12 febbraio, essendo parso opportuno scegliere in questo particolare caso il giorno della sua nascita terrena invece di quello della sua nascita al Cielo, onde evitare che il 7 marzo tale celebrazione andasse a sovrapporsi alla conclusione della tradizionale novena in onore del Fondatore dei Fatebenefratelli.

    VANGELO – AUDIOVISIVI -BRESCIA

    Posted on Maggio 4th, 2009 di

    http://www.centroaudiovisivi.it/index.shtml


    Presentazione della Fondazione missionaria, della formazione del clero e dei laici, della cura delle anime, dell’educazione alla concezione cristiana della vita.

    Presentazione della “Fondazione Opera diocesana San Francesco di Sales”


    Il nuovo millennio sembra aprirsi all’insegna di una grande rivoluzione, quella prodotta dalle tecnologie del digitale, dai nuovi media, dagli sviluppi dell’informatica e della telematica.

    È una rivoluzione che riguarda soprattutto il modo di produrre, elaborare, raccogliere, scambiare informazione.
    In questo contesto l’informazione comprende l’azione di comunicare una notizia, il contenuto della comunicazione (che a sua volta potrebbe essere distinto nel suo aspetto materiale e nel suo aspetto significativo), le caratteristiche del mezzo di comunicazione usato…

    Una rivoluzione che porta con sé conseguenze culturali, sociali, politiche, economiche di immenso rilievo.
    Di fronte a questa evidenza, il Consiglio episcopale, già nell’arco dell’anno 2000, ha ritenuto opportuno valutare attentamente quanto già viene realizzato nella nostra Diocesi e, soprattutto, progettare una presenza sempre più significativa nell’ambito del mondo della comunicazione, non solo attraverso strumenti tradizionali (carta stampata) ma anche attraverso i nuovi strumenti ormai molto diffusi, alla portata di tutti e sempre più destinati a fagocitare ampi spazi precedentemente occupati da giornali, radio e televisione.


    Dalla comunicazione unidirezionale si sta passando al “contagio mediale” dove l’interattività, la povertà dei mezzi, l’universalità, nuove forme di democrazia, nuove convergenze… diventano ogni giorno più reali, sia pure nella realtà del virtuale.

    Senza abbandonare nulla di quanto già viene fatto in Diocesi, è ormai necessario dotarsi di nuovi strumenti e di tecniche di lavoro e di elaborazione della comunicazione totalmente nuovi.
    Al Consiglio episcopale è parso quindi opportuno istituire una “Fondazione” con il preciso compito di collegare in sinergia le tante, belle e gloriose realtà operanti in questo campo nella nostra Diocesi.

    La Fondazione San Francesco di Sales nasce come risposta a questo progetto ed è stata istituita da mons. Giulio Sanguineti il 15 febbraio 2001 con uno statuto che all’articolo numero 2, indicando gli scopi della Fondazione, così recita:
    La Fondazione “Opera Diocesana San Francesco di Sales” persegue scopi di religione e di culto. Ha lo scopo di promuovere, organizzare, sostenere l’attività pastorale, con particolare riguardo al coordinamento degli interessi apostolici della diocesi di Brescia nel campo della nuova evangelizzazione, del culto, della catechesi, della cooperazione

    PER AIUTARE CHI SOFFRE Una proposta formativa che si ispira al metodo del CPE, Clinical Pastoral Education Training, che tanti frutti sta dando per la pastorale della sa¬lute sia in Italia sia all’Estero, per formarsi ad accostare i sofferenti con competenze umane e prospettiva pastorale, aiutandoli a scoprire vicino a sé il Signore della vita Teoria e pratica insieme Adottando una metodologia basata sull’integrazione della teoria alla pra¬tica, questo corso si propone di aiutare i partecipanti ad acquisire una mi¬gliore capacità di incontrare le persone in situazione di crisi, a sviluppare metodi pastorali basati su una comunicazione efficace e una relazione di aiuto autentica, a migliorare la capacità d’integrare la propria teologia alla pratica pastorale…

    Seguiti da una persona qualificata L’apprendimento – frutto di una riflessione sulla propria attività pastorale – si realizza attraverso un insieme di attività (esercitazioni pratiche in ospedale, lavori scritti, seminari clinici e didattici, dinamiche di gruppo, verifiche…) che trovano il loro elemento unificatore nella supervisione offerta da una persona qualificata. Si rivolge a volontari, operatori pastorali, seminaristi, sacerdoti e diaconi. Il Corso è aperto ad una massimo di 10 (dieci) partecipanti.

    Brescia, presso Fondazione Poliambulanza Istituto Ospedaliero Via Bissolati, 57 – 25124 Brescia dal 16 luglio al 25 luglio 2009 con tirocinio in alcuni ospedali cittadini. P. Dott. Angelo Brusco M.I. Laureato in filosofia (Università Cattolica di Milano), teologia (Università Laval, Quèbec, Canada) e psicologia (Università Laval). Tra i fondatori delle cure palliative italiane, è Professore Ordinario all’Istituto Internazionale di Teologia Pastorale Sanitaria “Camillianum” di Roma e Direttore del Centro Camilliano di Formazione di Verona. 190 € per l’iscrizione Per chi pernotta: 170 € per contributo spese di soggiorno (9 giorni) Per chi non pernotta: 80 € contributo spese di solo vitto (9 pasti) destinatari Si rivolge a volontari, operatori pastorali, seminaristi, sacerdoti e diaconi.

    Il Corso è aperto ad una massimo di 10 (dieci) partecipanti. Per informazioni ed iscrizioni contattare direttamente l’Ufficio diocesano Pastorale della Salute. Periodo e sede del corso Supervisore Quota di partecipazione Informazioni e iscrizioni Il bisogno di avere qualcuno vicino Accanto ad ognuno che soffre ci dovrebbe essere un uomo che veglia Il rapporto fra chi vuole offrire sostegno e chi soffre si configura in una relazione d’aiuto con caratteristiche ben precise, che nulla hanno a che fare con la superficialità o l’indiscrezione.

    Come incontrare una persona in situazione di sofferenza e di crisi? Come comunicare con lei in modo da non urtarla? Come instaurare una relazione senza essere soffocato dai suoi molti problemi? Come aiutarla a trovare una risorsa di vita nella vicinanza e nell’Amore del Signore? Il servizio alle persone ammalate ed inferme, più che riguardare i singoli atti, è un modo di essere e di porsi; è un servizio all’uomo intero, alla persona che denuncia bisogni fisici, psicologici, morali e spirituali.

    GIOVANNI XXIII ALL’OSPEDALE SAN PIETRO

    Nel cinquantennio

    della visita del Beato Giovanni

    XXIII all’Ospedale San Pietro

    Nel 1870 il Beato Pio IX reagì all’oltraggio della presa di Roma non varcando mai più i confini del minuscolo territorio vaticano lasciatogli dai Savoia. I successivi Papi persistettero in tale atteggiamento polemico e solo dopo 88 anni il Beato Giovanni XXIII, che fu incoronato Papa nel novembre 1958, volle già in dicembre, spinto da un vivissimo zelo pastorale, porre fine alla protesta ed uscì a visitare l’Ospedale Bambin Gesù ed il Carcere di Regina Coeli. Nel suo breve pontificato totalizzò ben 150 uscite, tra cui una nel nostro Ospedale San Pietro il 24 settembre 1959, giusto mezzo secolo fa.

    Fra Bartolomeo Coladonato, uno dei pochi testimoni ancor viventi di quell’improvvisata visita al nostro Ospedale romano, ci racconta che quel pomeriggio era al suo posto di lavoro nella Scuola Infermieri quando d’improvviso sentirono suonare i clacson della scorta pontificia e tutti si precipitarono sul viale per dare il benvenuto al Papa. Costui aveva lasciato alle 16 Castel Gandolfo per rientrare in forma privata in Vaticano, ma poco oltre Ciampino aveva fatto deviare la vettura per il raccordo anulare e raggiunse alle 16,40 il nostro Ospedale per visitarvi mons. Alfonso Carinci, il più anziano dei vescovi intervenuti al Concilio Vaticano II.
    Papa Giovanni XXIII e mons[1]. Alfonso Carinci 1959
    Mons. Carinci era nato nel 1862, ben prima della breccia di Porta Pia, e morì ultracentenario il 6 novembre 1963. Ordinato sacerdote nel dicembre 1885, era stato dal 1910 al 1931 Rettore dell’Almo Collegio Capranica, per poi iniziare nel 1930 a lavorare per la Congregazione dei Riti, della quale fu il Segretario dal 1945 al 1960 e come tale consacrato arcivescovo titolare nel gennaio del 1946. Colpito a fine luglio 1959 da una broncopolmonite recidiva, era venuto a ricoverarsi nel nostro Ospedale, dove si riprese assai bene, tanto che stava accingendosi ad una passeggiatina nel Parco quando il Papa gli fece la sorpresa di una visita.
    Papa Giovanni XXIII nella Cappella dll
    Dopo un affettuoso colloquio con mons. Carinci nella saletta contigua alla Portineria, il Papa sostò in preghiera nella Cappella e poi paternamente benedisse i malati, il personale ed i frati accorsi a rendergli omaggio e che gli fecero ala lungo il viale mentre lasciava l’Ospedale. A perpetuo ricordo della sua visita fu benedetta l’8 marzo 1962 nell’atrio dell’Ospedale una lapide commemorativa, impreziosita dal profilo marmoreo del Papa e dal suo stemma.
    Fra Giuseppe Magliozzi o.h.
    Da Il Melograno – Anno XI, n. 27

    Manila, 2 settembre 2009

    LE PICCOLE SORELLE DEI POVERI (Jeanne Jugan) E I FATEBENEFRATELLI

    Posted on Gennaio 9th, 2009 di Angelo |

    PICCOLE SORELLE DEI POVERI

     

    Jeanne Jugan ed i Fatebenefratelli

    Saint - Servan (Francia)

    Questo fatto appartiene alle armonie provvidenziali” 

    Le relazioni dei Fatebenefratelli con la famiglia ospedaliera delle Piccole Suore dei Poveri, fondata nel 1839 da “una povera serva, ricca soltanto della sua carità” (Andrea Dupin), in Francia a Saint-Servan (Ille-et-Vilaine), cominciarono fin dai suoi primi passi, da quando, cioè, Giovanna Jugan (1792.1879) accolse nella sua povera stamberga una vecchia, cieca e malata, rimasta abbandonata da tutti e nella più squallida miseria.

    Giovanna, che aveva già 47 anni, e le sue prime quattro compagne, erano state messe dal Parroco sotto la guida del vice-Parroco Augusto Maria Le Pailleur.

    Provinciale dei Fatebenefratelli di Francia, in quel tempo, era P. Felice Massot (1789-1862), sacerdote, uomo di grande vita interiore e di carismi straordinari Fin d’allora il buon Padre intuì tutta la ricchezza della nascente opera e il suo prodigioso sviluppo futuro, la incoraggiò e l’aiutò efficacemente.

    Non sapiamo come il Massot sia venuto a conoscenza di Giovanna e della sua opera. E’ certo che, appena conobbe la provvidenziale iniziativa, comprese subito che in essa c’era il dito di Dio, se ne interessò vivamente, l’amò come un’opera particolarmente cara a Dio, ne divenne l’amico fedele, l’illuminato e savio consigliere, e mise a disposizione di Giovanni e delle sue compagne tutta la vasta esperienza che aveva della vita ospedaliera.

     Il Padre Massot aiutò anche materialment Giovanna e la sua opera con le risorse della casa di Dinan, della quale fu Priore negli anni 1840-43; e quando Giovanna, con la valida cooperazione di lui e dei suoi confratelli. Riuscì a fondare in detta città l’asilo dei poveri vecchi, la principale sorgente di sostegno fu, per molto tempo, la stessa casa.

    Allorchché Giovanna aveva solo dodici ricoverati e le future Piccole Suore erano appena quattro, il P. Massot ottenne alla nascente Comunità un singolare e prezioso privilegio, che suol concedersi solo a persone di altissime benemerenze o ad Ordini religiosi in pieno sviluppo ed attività.

     Il 29 agosto 1842, il P. Benedetto Vernò, Generale dei Fatebenefratelli, con suo particolare diploma, affiliava per cento anni la minuscola comunità di Saint-Servan al grande Ordine Ospedaliero, facendola partecipe delle penitenze, delle preghiere e dei meriti che esso acquista nell’esercizio della carità.

    Il diploma, conservato nella casa-madre delle Piccole Suore, è firmato anche dal Provinciale P. Giovanni di Dio de Magallon, restauratore dell’Ordine in Francia, e dal P. Massot. 

    La parte iniziale del documento dice:

     

     

    Fr. Benedetto Vernò

    minimo servo,

    Priore Generale dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio.

    Al dilettissimo in Cristo

    molto rev. Padre Sig. Le Pailleur, sacerdote,

    e alla rev. Madre e Signora Giovanna Jugan,

    superiora delle giovani che servono i vecchi infermi dei due sessi

    nella parrocchia di Saint-Servan,

    come pure a tutte e singole le superiore

    e alle loro consorelle presenti e future:

    le presenti valevoli per cento anni”.

     

    Il Leroy, dopo aver riportato il citato documento esclama: “Spettacolo commovente! L’Ordine ositaliero di S: Giovanni di Dio che accoglie la famiglia ospitaliera [di Giovanna Jugan] al suo ingresso nella vita, come per servirle di appoggio spirituale e di garante per l’avvenire: questo fatto appartiene alle armonie provvidenziali”.

    In seguito Giovanna avrà altre approvazioni e ammirati consensi ecclesiastici e civili come quella, nel 1844, dell’Accademia di Francia della Massoneria con una medaglia d’oro, che essa fece fondere per farne la coppa di un calice per la Messa, ma resta il fatto che la prima solenne ed incoraggiante approvazione l’ebbe dall’Ordine Ospedaliero.

    L’influenza del P. Massot si estese a tutta l’organizzazione delle Piccole Suore, anche dopo l’approvazione di Pio IX, 15 luglio 1854. Egli conduceva Giovanna e le sue compagne a piccole tappe, prescrivendo loro, secondo le esigenze imposte dallo sviluppo dell’epoca, ora una nuova pratica, ora un’altra, ora un nuovo segno complementare e distintivo dell’abito conforme agli usi e allo spirito dei Fatebenefratelli.

    Prima dell’approvazione pontificia della Congregazione e delle Costituzioni, Padre Massot, insieme col Vicario Le Pailleur, nel mese di aprile 1851, si era ritirato a Lilla nella casa dei Fatebenefratelli, ed ivi, per re settimane continue, attese ad una minuziosa e radicale revisione delle Costituzioni, le quali, del resto, dovevano tanto alla sua esperienza religioso-ospedaliera.

    Il lavoro fu condotto sotto lo spirito della Regola di S: Agostino e delle Costituzioni dell’Ordine Ospedaliero di S.Giovanni di Dio.

    E’ per questo che le Piccole Suore, oltre alle Costituzioni proprie, hanno la Regola di Sant’Agostino, con l’obbligo di leggerla in comune una volta la settimana; emettono il voto di Ospitalità, recitano giornalmente in comune il Piccolo Ufficio della Beata Vergine, portano lo scapolare nero, la cintura di cuoio e il crocifisso, sotto l’abito; e per la vestizione e professione religiosa, usano, con lieve adattamento, il Cerimoniale dell’Ordine Ospedaliero.

    Quando si trattò di approvare definitivamente le Costituzioni delle Piccole Suore, la Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari voleva abolire il voto di ospitalità.

     Il 28 novembre 1878 – coincidenza: ricorreva la festa liturgica della traslazione delle reliquie di S: Giovanni di Dio – il Procuratore delle Suore, Sac. Liépvre, presentò a Leone XIII alcune Lettere Postulatorie di Vescovi e Cardinali. Dopo averle lette, il Papa gliele restituì, dicendogli:

    • Portatele da parte mia al Cardinale Ferrieri, ditegli che le ho lette e che rimetto la causa a lui, perché se ne occupi.

    • Vi è un punto sul quale desidero richiamare l’attenzione di Vostra Santità, se permette.

    • Senza dubbio, parlate.

    • E’ uno di quelli, nelle Costituzioni delle Suore, ai quali i superiori dànno molta importanza. E’ l’autorizzazione per le Suore di continuare ad emettere, come nel passato, oltre o voti ordinari, quello dell’Ospitalità; perché è principalmente da questo voto che esse traggono la forza di compiere tanti sacrifici, ed atti di abnegazione, che hanno loro procurato da parte dei Vescovi le testimonianze testè lette da Vostra Santità. La Sacra Congregazione non ha ancora sanzionato questo quarto voto, ma neppure lo ha proibito.

    • V’interessa molto che sia conservato?

    • I superiori lo desiderano moltissimo; dicono che è l’anima della loro opera, e che le procura tante grazie.

    • Va bene – conclude il Papa.

    La pratica fece la sua trafila, le discussioni furono molto vivaci, ma alla fine fu riconosciuto che il voto di ospitalità è nell’essenza stessa dell’opera delle piccole Suore e venne, perciò, ammesso.

    1 Marzo 1879

     

    Le Costituzioni furono approvate dalla S. Sede il 1° Marzo 1879.

    Le Piccole Suore della casa-madre, a quel felice annunzio, risposero al loro Procuratore: “L’essenza della Piccola Famiglia non è alterata; anzi è confermata. Siamo felici, benediciamo il Signore!”

    Il 23 marzo 1942, il Generale P. Efrem Blandeau rinnovò e sottoscrisse l’affiliazione delle Piccole Suore all’Ordine dei Fatebenefratelli, concedendo loro, senza limite di tempo, “la partecipazione alle preghiere, ai meriti e alle buone opere dei nostri religiosi…nell’esercizio della nosra vocazione ospedaliera di Fratelli di S. Giovanni di Dio.”

    A sua volta, nel 1945, la Madre Generale delle Piccole Suore sottoscrisse l’atto di aggregazione dei Fatebenefratelli alla propria Congregazione, con la partecipazione alle preghiere, ai meriti e alle buone opere delle Piccole Suore.

    “Questo documento – scrisse il Generale degli Ospedalieri alla Madre Generale – mi ha dato una profonda gioia e, se occorreva rinsaldare i vincoli che uniscono l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio dalla Congregazione delle Piccole Suore dei Poveri, io credo che il vostro gesto vi ha contribuito grandemente”.

    (P. GABRIELE RUSOTTO O.H. PAG. 432-435 SAN GIOVANNI DI DIO E IL SUO ORDINE OSPEDALIERO – vol. II , Roma 1969)

      

    La fondazione della Congregazione delle Piccole Sorelle dei Poveri è dovuta a Jeanne Jugan, che nel 1839 accolse nella sua modesta casa (Saint-Servan, Francia) la prima anziana povera.Conoscere Jeanne Jugan, vuol dire conoscere le Piccole Sorelle che da allora continuano l’opera della loro Fondatrice: il servizio disinteressato agli Anziani, accolti con tenerezza e accompagnati sino al termine della loro vita.

    Le Piccole Sorelle rendono questo servizio rispondendo alla chiamata di Gesù che le consacra nel suo amore con i voti di castità, di povertà, di obbedienza e di ospitalità verso gli anziani meno abbienti.

    Lo spirito delle beatitudini fonda e alimenta il loro impegno. Spirito che esse cercano di vivere – al seguito di Jeanne Jugan – in umiltà, semplicità e gioia, con fiducia incondizionata nella bontà di Dio, in seno a comunità fraterne internazionali.

    Sin dal 1851, le Piccole Sorelle attraversavano la Manica per una prima fondazione in Inghilterra (Londra). Due anni dopo, erano già in Belgio (Liegi).

    A partire dal 1855, con l’aiuto provvidenziale di Padre Ernesto Lelièvre, sacerdote del Nord della Francia che si dedicò interamente al servizio della Congregazione, essa conoscerà un rapidissimo sviluppo.

     

    Le vocazioni sono molto numerose. Alla morte di Jeanne Jugan, quarant’anni dopo la fondazione di Saint-Servan, le Piccole Sorelle sono 2.400, suddivise in più di 170 comunità stabilite in Francia, Inghilterra, Belgio, Scozia, Spagna, Irlanda, Stati Uniti, Algeria, Italia e Malta.

    L’anno 1882 segna la prima partenza per l’Asia, con una fondazione in India, a Calcutta. Chiamate in Australia, le Piccole Sorelle vi fondano una casa a Melbourne nel 1884. L’anno seguente, approdano in America del Sud e fondano una casa a Valparaiso (Cile).

    In Italia le Piccole Sorelle giungono nel 1869. Oggi sono presenti ad Acireale (CT), Bologna, Firenze, Genova, Marino (RM), Messina, Roma e Torino.

    La casa di formazione è stabilita dal 1856 nella Casa Madre di La Tour Saint-Joseph (Saint-Pern – Francia). A partire dal 1891 si aggiungono altri noviziati per accogliere le numerose giovani dei paesi dove la Congregazione risiede. Il primo sarà quello di Marino, in Italia, fondato nel 1893.

    La Congregazione si è sempre sforzata di camminare con fedeltà allo spirito della sua Fondatrice, cercando soluzioni che corrispondano ai nuovi bisogni degli anziani.

    Per questo le case delle Piccole Sorelle sono per gli anziani, sono diventate sempre più «familiari», rispondendo ai legittimi desideri degli anziani, secondo la mentalità dei diversi paesi.

    La Congregazione continuando questo slancio iniziale è oggi presente in 32 paesi dei 5 continenti.

     

     Traduzione italiana del discorso pronunciato dal Papa in lingua francese

     “Et exaltavit humiles!” Queste parole molto conosciute del Magnificat riempiono il mio spirito e il mio cuore di gioia e di emozione, mentre ho appena proclamato beata l’umilissima fondatrice delle Piccole Sorelle dei Poveri.

    1. Rendo grazia al Signore di aver potuto realizzare ciò che Papa Giovanni XXIII aveva legittimamente sperato e che Paolo VI aveva desiderato ardentemente. Certo, si potrebbe applicare il testo citato poc’anzi agli innumerevoli discepoli di Cristo beatificati o canonizzati dall’autorità suprema della Chiesa. Tuttavia, la lettura attenta della “Positio” sulle virtù di Jeanne Jugan, come le recenti biografie consacrate alla sua persona e alla sua epopea di carità evangelica, mi fanno dire che Dio non poteva glorificare una serva più umile. Non esito, cari pellegrini, ad incoraggiarvi a leggere o a rileggere le opere che parlano così bene dell’eroica umiltà della beata Jeanne, e dunque dell’ammirabile saggezza divina, che dispone con pazienza e discrezione gli avvenimenti destinati a favorire la nascita di una vocazione eccezionale e la fioritura di una nuova opera insieme ecclesiale e sociale.

    2. 5. Detto questo, vorrei meditare con voi e per voi sull’attualità del messaggio spirituale della nuova beata. Jeanne ci invita tutti – e cito le parole della Regola delle Piccole Sorelle – “a partecipare alla beatitudine della povertà spirituale, camminando verso la spoliazione totale che eleva l’anima a Dio”. Essa ci invita a questo ancor di più con la sua vita che mediante le sue parole conservate e segnate dal sigillo dello Spirito Santo, come queste: “È così bello essere poveri, non possedere nulla, attendersi tutto dal Buon Dio”. Cosciente e gioiosa della sua povertà, essa fa conto totalmente sulla Divina Provvidenza, che riconosce operante nella sua vita e in quella degli altri.Questa fiducia assoluta non è pur tuttavia inattiva. Con il coraggio e la fede che caratterizzano le donne della sua terra natale, ella non esita a “mendicare al posto dei poveri che accoglie”. Vuole essere loro sorella, la loro “Piccola sorella”. Vuole identificarsi con tutti questi anziani spesso in cattiva salute, a volte del tutto abbandonati. Non è il Vangelo allo stato puro (cf. Mt 25,34-41)?

    3. Non è la via che il Terzo ordine di San Jean Eudes le aveva insegnato “… non avere che una vita, che un cuore, che un’anima con Gesù” per raggiungere coloro che Gesù ha sempre preferito: i piccoli e i poveri? Grazie ai suoi esercizi quotidiani di pietà – lunga orazione silenziosa, partecipazione al sacrificio eucaristico e comunione al Corpo di Cristo più frequente di quanto fosse nell’uso dell’epoca, la recita meditata del Rosario, che non abbandonava mai, e l’inginocchiarsi fervente davanti alle stazioni della Via crucis – l’anima di Jeanne era veramente immersa nel mistero di Cristo Redentore, specialmente nella sua passione e croce. Il suo nome da religiosa – Suor Maria della Croce – ne è il simbolo reale e commovente. Dal piccolo borgo nativo di Petites Croix (coincidenza o presagio?) fino alla sua morte, avvenuta il 29 agosto 1879, la vita di questa fondatrice è paragonabile ad un lungo e fecondissimo cammino di croce, vissuto nella serenità e nella gioia secondo il Vangelo. Come non ricordare qui che, quattro anni dopo la nascita dell’Opera, Jeanne fu vittima di intromissioni indebite ed esterne al gruppo delle sue prime compagne? Essa si lasciò spogliare della sua carica di Superiora, e un po’ più tardi accetterà di rientrare alla Casa madre per un ritiro che durerà ventisette anni, senza la minima protesta.

    4. Considerando simili avvenimenti, la parola eroismo viene spontanea al cuore. San Jean Eudes, suo maestro spirituale, diceva: “La vera misura della santità, è l’umiltà”. Raccomandando spesso alle Piccole Sorelle: “Siate piccole, molto piccole! Mantenete lo spirito di umiltà, di semplicità! Se pensiamo di essere qualcosa, la Congregazione non glorificherà più il Buon Dio, noi cadremmo”, Jeanne consegnava in verità la sua propria esperienza spirituale. E nel suo lungo ritiro alla Tour-Saint-Joseph, ella esercitò certamente su numerose generazioni di novizie e di Piccole Sorelle una influenza decisiva, imprimendo il suo spirito alla Congregazione attraverso l’irradiamento silenzioso ed eloquente della sua vita. Ai nostri giorni, l’orgoglio, la ricerca dell’efficacia, la tentazione di mezzi potenti hanno libero corso nel mondo e talvolta, purtroppo, anche nella Chiesa. Sono di ostacolo all’instaurazione del Regno di Dio. Ecco perché la fisionomia spirituale di Jeanne Jugan è in grado di attirare i discepoli di Cristo e di riempire il loro cuore di semplicità e di umiltà, di speranza e di gioia evangelica, attinte in Dio e nella dimenticanza di sé. Il suo messaggio spirituale può condurre i battezzati e i cresimati alla riscoperta e alla pratica del realismo della carità che è efficace in modo straordinario in una vita di Piccola Sorella o di laico cristiano quando il Dio d’Amore e di Misericordia vi regna pienamente.

    5. 6. Jeanne Jugan ci ha anche lasciato un messaggio apostolico di grande attualità. Si può dire che essa aveva ricevuto dallo Spirito come un’intuizione profetica dei bisogni e delle aspirazioni profonde delle persone anziane: quel desiderio di essere rispettate, stimate, amate; quella paura della solitudine insieme al bisogno di uno spazio di intimità e di libertà; quel desiderio di sentirsi ancora utili; e molto spesso, una volontà di approfondire le cose della fede e di viverle meglio.Aggiungerei che, senza aver letto e meditato i bei testi della Gaudium et Spes, Jeanne era già in segreta sintonia con quello che essi dicono riguardo all’instaurazione di una grande famiglia umana, in cui tutti gli uomini si trattino come fratelli (cf. Gaudium et Spes, 24) e condividano i beni della creazione secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità (cf. Ivi. 69).

    Se i sistemi di sicurezza sociale Se i sistemi di sicurezza sociale attualmente hanno eliminato la miseria dei tempi di Jeanne Jugan, l’avvilimento delle persone anziane si riscontra ancora in molti paesi in cui operano le sue Figlie.

    E anche nelle regioni in cui esistono, questi sistemi di previdenza non procurano sempre agli anziani quel tipo di casa veramente familiare che corrisponde alle loro attese e ai loro bisogni fisici e spirituali. Lo vediamo: in un mondo in cui il numero delle persone anziane è in continua crescita – il recente Congresso internazionale di Vienna se ne è preoccupato – l’attualità del messaggio apostolico di Jeanne Jugan e delle sue Figlie è fuor di dubbio.

    Fin dai primi anni, la Fondatrice ha voluto che la sua Congregazione, ben lungi dal limitarsi all’ovest della Francia, divenisse una vera rete di case familiari, in cui ogni persona venisse accolta, onorata e anche – secondo le possibilità individuali – aiutata al raggiungimento del pieno sviluppo della propria esistenza.

    L’attualità della missione inaugurata dalla beata è così vera che le domande di ammissione non cessano di affluire. Alla sua morte, duemilaquattrocento Piccole Sorelle erano al servizio di persone povere e anziane, in dieci paesi. Oggi, esse sono quattromilaquattrocento, divise in trenta nazioni sui cinque continenti. La Chiesa tutta intera e la società stessa non possono che ammirare e lodare la meravigliosa crescita del piccolo seme evangelico gettato in terra bretone, or sono circa centocinquanta anni dalla umilissima Cancalese, così povera di beni ma ricca di fede!

    Possa la beatificazione della loro carissima Fondatrice apportare alle Piccole Sorelle dei Poveri un nuovo slancio di fedeltà al carisma spirituale e apostolico della loro Madre! Possa il riverbero di questo avvenimento attraverso tutte le fondazioni rischiarare e rendere decise numerose ragazze ad ingrossare le fila delle Piccole Sorelle!

    Possa la glorificazione della loro compatriota essere per i parrocchiani di Cancale e per tutti i diocesani di Rennes un appello vigoroso alla fede e alla carità evangelica! Possa infine questa beatificazione divenire per le persone anziane del mondo intero una sorgente tonificante di gioia e di speranza, grazie alla testimonianza solennemente riconosciuta di colei che li ha tanto amati in nome di Gesù Cristo e della sua Chiesa!

     

    LA QUESTUSA 

    Jeanne Jugan trascorse molti anni della sua vita questuando. Nel secolo XIX, in Francia, i poveri riuscivano a sopravvivere solo grazie alle elemosine dei ricchi. Oggi, nella maggior parte dei paesi, gli anziani percepiscono una pensione sociale o di vecchiaia, ma che non basta alla loro sussistenza.

     

    Tuttavia, le Piccole Sorelle continuano ancora a questuare. Ovunque esse sono presenti, ripetono il gesto di Jeanne Jugan. È possibile, oggi giustificare tutto questo?

    Nei paesi dove gli anziani sono privi di previdenza sociale, nessuno può contestare la questua. Ma in quelli dove esiste un trattamento pensionistico?

     

    In questi paesi le case delle Piccole Sorelle rimangono aperte con una priorità per gli anziani più poveri, numerosi nelle nostre società contemporanee. Attraverso la questua, anche gli anziani più bisognosi possono conoscere la “gioia di vivere” in un ambiente accogliente.

     Creando una corrente di solidarietà evangelica, la condivisione attraverso la questua colma questa necessità. 

    Jeanne Jugan ha fondato l’avvenire della sua opera su una sfida evangelica: vivere giorno per giorno, non accettare mai di capitalizzare, rifiutare donazioni perpetue, fidarsi di Dio. Per dimostrare così che le nostre legittime previsioni umane non devono mai farci dimenticare che Dio è nostro Padre e si prende cura di noi.

    “Noi stesse cerchiamo le risorse che ci permettono di esercitare questa ospitalità sollecitando la generosità di persone desiderose di rendere possibile la nostra opera. Ciò prende il nome di « questua ». Essa è simboleggiata dalla celebre figura della nostra Fondatrice, camminando con passi spediti, rivestita dal suo lungo mantello e munita del suo grande paniere, in cammino  per raccogliere tutto ciò che le si vorrà ben dare, spesso in natura ma anche in denaro, per far vivere gli abitanti di alcune Case. Era un’epoca di grande povertà. Ma questa scelta di non ricorrere all’aiuto pubblico non è solo come motivata dalla fedeltà alle nostre origini. Stimiamo che andando a viso scoperto sollecitando il necessario per assicurare la vita e qualche volta la sopravvivenza di ogni Casa, facciamo continuamente la scommessa della bontà nel cuore umano. La nostra fondatrice diceva che « Dio ha confidato ciascuno all’amore di tutti ». Chiamiamo ciò, come nel vangelo, « la Provvidenza», e finora, anche se talvolta sembra tardare e si sarebbe tentati di non attenderla più, essa non ci è mai mancata.” (Allocuzione della Madre Generale Celine de la Visitation, 22 giugno 2007).

    Fondatrice delle Piccole Sorelle dei Poveri

    Saint-Servan, 1839

     Una sera d’inverno, Jeanne apre il suo alloggio e il suo cuore ad un’anziana cieca, paralitica, improvvisamente ridotta in solitudine. Jeanne le offre il suo letto…

    Questo gesto la impegna per sempre. Un’altra anziana seguirà, poi una terza. Nel 1843, saranno quaranta mentre tre giovani compagne si uniranno a Jeanne e la sceglieranno come superiora della loro piccola comunità che si avvia a diventare una regolare comunità di vita religiosa.

    Ma ben presto Jeanne sarà destituita da questo incarico dal Vicario parrocchiale che aveva preso l’impegno di seguire gli inizi di questa piccola famiglia, dichiarandosi al suo osto il fondatore dell’opera. All’ingiustizia, Jeanne risponde solo con silenzio e umiltà. La sua fede e il suo amore scoprono in questa disposizione il disegno di Dio per sé e per la sua famiglia religiosa. Si dedica allora completamente alla questua, adottando un metodo di carità e di condivisione, del quale è stata testimone sin dalla sua infanzia a Cancale, quando una vedova di marinaio si trovava nel bisogno. È anche incoraggiata dai Fratelli di San Giovanni di Dio, dell’ospedale di Dinan.

     

    Il tempo delle radici, 1852-1879

     

    Nel corso degli anni, l’ombra si stende sempre più su Jeanne Jugan. Gli inizi della sua opera vengono mascherati. Alla sua morte, avvenuta il 29 agosto 1879, a La Tour Saint-Joseph, poche Piccole Sorelle sanno che è lei la fondatrice. 

    Il suo influsso sulle giovani, con le quali ha condiviso la vita per ventisette anni, sarà tuttavia decisivo. 

    In quel contatto prolungato, il carisma iniziale e lo spirito delle origini è stato trasmesso.

    A poco a poco si fa luce… Dal 1902, la verità comincia a riemergere: Jeanne Jugan, Suor Maria della Croce, morta nell’oblio un quarto di secolo prima, non è la terza Piccola Sorella, come si è lasciato credere, ma la prima, la fondatrice. 

    Riconoscimento

     

    Il 13 luglio 1979, la Chiesa Il 13 luglio 1979, la Chiesa riconosce ufficialmente l’eroicità delle sue virtù.

    Il 3 ottobre 1982, in presenza di seimila pellegrini venuti dal mondo intero, Giovanni Paolo II proclama “BEATA” Jeanne Jugan, «l’umilissima cancalese, tanto povera di beni, ma tanto ricca di fede». (omelia della beatificazione)

     

    La sua tomba, nella cripta della cappella della Casa madre, a La Tour St-Joseph (St-Pern, Francia), attira numerosi pellegrini, come pure la casa natale a Cancale, nella borgata delle Piccole Croci e la casa della fondazione a Saint-Servan.

    30 Agosto 2009

    SANTA JEANNE JUGAN 

    ED I FATEBENEFRATELLI

    Di Fra Giuseppe Magliozzi o.h.

    Questo mese di ottobre resterà memorabile per noi Fatebenefratelli, poiché il 4 a Ratisbona verrà proclamato il nostro primo Beato tedesco, fra Eustachio Kugler; e l’11 a Roma sarà canonizzata Jeanne Jugan, la Fondatrice delle Piccole Sorelle dei Poveri che, come vedremo, fin dal primo momento furono affratellate spiritualmente a noi Fatebenefratelli nella condivisione di un medesimo ideale[1], racchiuso nel peculiare Voto d’Ospitalità, emesso da entrambi.

    Jeanne Jugan[2], o Giovanna come più semplicemente la nomineremo qui, nacque il 25 ottobre 1792 a Cancale, un borgo francese della costa bretone, vicino a Saint-Malo. Perse presto il papà, dato per disperso in mare nell’aprile 1796 mentre prestava servizio in Marina. Assieme ad un fratello e due sorelle crebbe con la mamma, che tirava avanti come lavandaia a giornata ed allevando qualche mucca, che spesso era Giovanna a condurre al pascolo.

    Nel turbine della Rivoluzione la Parrocchia restò soppressa fino al Concordato firmato nel 1802 da Napoleone e Pio VII, ma Giovanna ricevette dalla mamma i rudimenti della fede, della rettitudine e della solidarietà, molto viva tra la gente del borgo. Sui 15 anni Giovanna iniziò a lavorare come sguattera d’una signora di buon cuore, che spesso l’incaricava di portar aiuto a qualche povero. Sui 25 anni lasciò Cancale per Saint-Servan[3], distante 15 km, avendovi trovato lavoro nell’Ospedale Civile e della Marina: aiutò in Farmacia, dove apprese a preparar tisane, e poi come ausiliaria in corsia.

    Sul finire del 1817, quando s’era da poco stabilita a Saint-Servan, i “Padri della Fede di Gesù” (che era la denominazione con cui si presentavano i Gesuiti nel tempo della loro soppressione ufficiale) vi tennero una missione di cinque settimane che ebbe grande influsso sull’animo di Giovanna e la stimolò ad incrementare la vita interiore ed a desiderare di donarsi interamente al Signore, tanto che confidò alla famiglia, perplessa per il suo rifiutare una proposta di matrimonio: “Dio mi vuole per sé. Mi riserva per un’opera che non è conosciuta, per un’opera che non è ancora fondata”.

    Come primo passo, avendo ormai superato, com’era prescritto, i 25 anni, s’iscrisse ad una pia confraternita, intitolata al Cuore della Madre Ammirabile e fondata nel secolo XVII da San Giovanni Eudes per persone non sposate o vedove che emettevano il Voto privato di Castità e conducevano una specie di vita religiosa in casa, impegnandosi nella preghiera, nell’abnegazione della propria volontà, nel fiducioso affidamento ai Cuori di Gesù e di Maria e nell’aiuto ai poveri “con una carità tenera ed attiva, che si estende fino ai limiti del possibile, perché Gesù e la Santa Vergine li hanno amati”.

    Dopo sei anni di stressante impegno in Ospedale, Giovanna ebbe un forte esaurimento fisico. Lasciato il lavoro, fu accolta in casa della signorina Maria Lecoq, di vent’anni più anziana di lei e forse socia anche lei della confraternita, e vi restò come amica e domestica. Appena riacquistate le forze e finché la sua amica non morì nel giugno 1835, Giovanna si prodigò con lei per dodici anni in Parrocchia e nell’aiuto ai poveri.

    Rimasta sola, Giovanna affittò a Saint-Servan insieme con l’amica Francesca Aubert un modesto alloggio di due camere, più un solaio accessibile da una botola[4]: per mantenersi, lei andava fuori a giornata e Francesca, più anziana, filava in casa la lana o la canapa[5]. Nel 1838 accoglie un’orfana, Virginia Trédaniel, e le tre donne, pur d’età così diversa (72, 46 e 17 anni) conducono affiatate un vita di preghiera e dedizione ai poveri.

    La svolta decisiva nella vita di Giovanna fu sul finire del 1839. C’è una certa similarità con San Giovanni di Dio che fino a 46 anni visse una vita anonima, ma sempre più aperta ai bisogni materiali e morali del prossimo finché, colpito dall’abbandono di cui pativano i malati dell’Ospedale Reale, sentì la voce del Signore che l’invitava a creare un Ospedale dove fossero assistiti con più carità. Solo e senza mezzi, ma fidando in Dio e nella questua, iniziò a raccoglierli dapprima in un androne, poi in uno scantinato preso in affitto ed infine in un ex convento che riuscì a comprare. Morì dopo una dozzina d’anni, nel tentativo di salvare un annegato, ma il suo sogno d’un Ospedale diverso era già realtà e fu poi perpetuato dai suoi discepoli.

    Anche Giovanna, dinanzi ad una vecchietta abbandonata, sentì la chiamata del Signore ad offrire il calore d’una casa a quei relitti della società, dapprima cedendo il suo letto, poi fittando un ampio locale ed infine, fidando nella questua, comprò un ex convento e lo trasformò in Asilo e poi ne creò altri ancora, dando vita ad una nuova Famiglia Religiosa dedicata ad assistere con affetto gli anziani. Poi anche lei scomparve di scena dopo una dozzina d’anni, non per morte fisica ma, come vedremo, per una sorte di morte civile.

    Per Giovanna tutto cominciò nel dicembre 1839, quando scoprì che una vecchietta cieca non aveva più chi l’accudisse, poiché una sorella che finora n’aveva avuto cura era morente in ospedale. Senza esitare, Giovanni la cedette il proprio letto e se n’andò a dormire nel solaio. Presto n’accolse una seconda e convinse Virginia a cederle il letto e sistemarsi anche lei nel solaio.

    Quel gesto affettuoso colpì una giovane amica di Virginia, Maria Jamet, che prese a venire spesso a dare una mano ed a condividere i momenti di preghiera. Le due non avevano l’età per farsi terziarie come Giovanna, ma redassero una Regola simile e chiesero il parere del loro confessore, il viceparroco don Augusto Le Pailleur. Questi venne nell’ottobre 1840 a visitar la casa ed insieme con loro e con Giovanna stabilirono di dar vita ad un’associazione di carità, basata su tale Regola.

    A dicembre una giovane operaia ammalata, Maddalena Bourges, va a farsi cura da Giovanna e, dopo esser guarita, è la quarta ad entrare nel gruppo, che in quello scorcio del 1840 riceve la visita di fra Claudio Maria Gandet[6], il frate questuante dei Fatebenefratelli della vicina città di Dinan. Costui rimane commosso dell’impegno di Giovanna e la convince a cercar aiuto con la questua[7], regalandole il primo paniere e dandole l’indirizzo di vari benefattori che egli promette d’informare in anticipo.

    Egli tornò varie volte ad aiutare ed incoraggiare l’appena nascente gruppo e ne parlò con entusiasmo al suo Superiore Provinciale, che era fra Felice Massot, cui successe il 15 dicembre 1840 fra Giovanni di Dio Magallon, il quale subito ne scrisse al Superiore Generale, fra Benedetto Vernò, per chiedergli d’affiliare all’Ordine il Sodalizio. Questi firmò a Roma il 15 gennaio 1841 un diploma d’affiliazione per cento anni, indirizzandolo a don Le Pailleur ed a Giovanna Jugan, Superiora di Saint-Servan, ed a tutte le altre Superiore ed aderenti al Sodalizio, presenti e future.

    Quel diploma fu un grosso atto di fiducia in quel minuscolo gruppo ed il primo riconoscimento religioso che esso riceveva[8]. Ci mise vari mesi per arrivare da Roma nelle mani del Provinciale, che infine poté controfirmarlo il 29 agosto e con lui fra Felice Massot, che ora era Segretario Provinciale.

    Giovanna, forse incoraggiata dal diploma e dall’efficacia della questua, il 29 settembre 1841 si trasferisce con le compagne in un locale più ampio, dove subito accolgono altre quattro anziane, ma dopo un mese la camerata ha già dodici letti ed urge un nuovo trasloco, sicché nel febbraio 1842 comprano l’antico e spazioso convento delle Figlie della Croce.

    Nel frattempo fra Felice Massot[9], di Comunità a Dinan fino ad aprile, le aiuta a delineare meglio la fisionomia dell’associazione con la redazione di un Regolamento, nel quale ritroviamo numerosi punti delle Costituzioni dei Frati; in base ad esso, Giovanna nel maggio 1842 è eletta Superiora ed in agosto le tre giovani emettono il Voto temporaneo di Castità, poi sulla fine dell’anno sia loro sia Giovanna emettono anche quello d’Obbedienza. In analogia ai Frati indossano un crocifisso ed una cintura di cuoio e recepiscono la Regola di Sant’Agostino.

    I Voti erano privati e rinnovati ogni anno l’8 dicembre. In tale data nel 1843 Giovanna è rieletta Superiora, ma il 23 dicembre don Le Pailleur le raduna e annulla l’elezione di Giovanna, affidando l’incarico alla giovane Maria. Gli obbediscono e da quel momento Giovanna si concentra solo sulla questua, grazie alla quale non solo estingue il debito per l’edificio comprato a Saint-Servan, ma ne acquista altri nel 1846 per nuovi Ospizi a Rennes ed a Dinan, dove fra Claudio Maria Gandet, che vi fu Priore dal 1846 al 1850, l’aiuta più volte con mobilio e derrate[10].

    Forse aiutato da fra Felice Massot, nel maggio 1846 don Le Pailleur rielabora il Regolamento, ispirandolo maggiormente alle Costituzioni dei Fatebenefratelli ed attribuendosi la suprema autorità; in fondo, si tratta di un giusto riconoscimento dell’impegno e della generosità con cui ha aiutato fin dall’inizio il formarsi della nuova Famiglia Religiosa, ma il gran rispetto che gli portano le adepte ha purtroppo insinuato nel suo cuore il tarlo della vanagloria, che è un difetto di poco conto ma, lasciato evolvere, spinge perfino alla menzogna e fu ciò che accadde al buon Le Pailleur, che arrivò ad alterare le vicende iniziali dell’Istituto per far credere che questo era nato solo da lui. Era vero che l’iniziale Regola del 1840 gli era stata sottoposta ed adottata solo da Virginia e Maria, poiché Giovanna, avendo già il Voto di Castità come terziaria, si unirà alle due solo quando saranno introdotti gli altri Voti, ma egli ne arzigogolò che andava considerata la terza del gruppo ed arrivò con impudenza ad affermare che era stato lui nel 1839 a convincere le due giovani ad accogliere la prima vecchina.

    Giovanna non reagì a questi travisamenti ed una sola volta si limitò a dirgli sorridente: “Mi avete rubato la mia opera, ma io ve la cedo di buon cuore”. Mai si lamentò di vedersi per sempre estromessa da ogni responsabilità direttiva, anzi fu ben contenta che l’incaricassero solo della questua, nella quale mieteva oltre alle offerte anche vocazioni, poiché molte giovani, affascinate dal suo esempio, decidevano di seguirla nell’apostolato: nell’agosto 1849 tra novizie e postulanti sono in 40!

    Quando nell’aprile 1850 apre un Ospizio a Tours, già il suo Istituto conta più di cento discepole; nel dicembre 1851 sono trecento e assistono 1.500 anziani in 15 Case. Ormai è tempo d’ottenere dalla Chiesa l’approvazione canonica e don Le Pailleur si reca nell’aprile 1851 a Lille da fra Felice Massot[11], elaborando con lui in tre settimane il testo finale delle Costituzioni, che fu accettato dalle Piccole Sorelle dei Poveri[12], come avevano preso a chiamarsi dal 1849, ed approvato dal vescovo di Rennes il 29 maggio 1852.

    Don Le Pailleur conservava la suprema autorità e se ne avvalse per ammettere l’8 dicembre alla Professione Canonica dei 4 Voti le due discepole iniziali Virginia e Maria, ma non Giovanna, che per di più sospende dalla questua e da quel momento relega in un angolo del Convento, consentendogli solo nel 1854 d’emettere anche lei la Professione Canonica dei quattro Voti.

    Al riconoscimento diocesano dell’Istituto si cercò di far seguire quello pontificio, ma a Roma sorsero perplessità ed infine il 9 luglio 1854 il Beato Pio IX approvò le Costituzioni solo ad experimentum, sospendendo per intanto l’articolo del Superiore Generale ed abrogandolo poi nel gennaio 1855, per cui a don Le Pailleur veniva riconosciuto solo il titolo provvisorio di Promotore dell’Istituto, anche se di fatto egli continuò ad esercitarvi l’autorità di sempre ed a fomentare una riverenza alla propria persona in maniera talmente esagerata che nel 1890 sarà rimosso ufficialmente dalla Santa Sede ed obbligato a risiedere a Roma, dove morirà in un convento.

    Terminato nel 1878 il periodo sperimentale delle Costituzioni, le Suore per sollecitare la Santa Sede ad approvarle inviarono a Roma come loro Procuratore don Ernesto Lelièvre, un sacerdote che fin dal 1855 aveva svolto un importante ruolo nel diffondere l’Istituto in molte altre nazioni europee ed anche in Africa e negli Stati Uniti. Egli fu ricevuto in Udienza da Leone XIII mostrandogli lettere postulatorie di vescovi e cardinali, che il Papa esaminò con interesse e gli disse di portarle a suo nome al card. Innocenzo Ferrieri, Prefetto della Congregazione dei Vescovi e Regolari, dalla quale dipendevano gli Istituti Religiosi. Visto che il Papa mostrava benevolenza, don Lelièvre, sapendo che l’orientamento del Dicastero era che i nuovi Istituti risultassero il più possibile uniformi tra di loro, gli fece presente il vivissimo desiderio che le Suore potessero invece distinguersi su due punti, che così gli sintetizzò:

    - Uno è quello che riguarda il mantenimento della povertà quale ora si pratica, ossia che le Case non abbiano né fondi, né introiti fissi, né sussidi fissi, ma dipendano interamente dalle elemosine dei fedeli e dalla questua delle Suore. L’altro è di continuare a emettere, oltre ai tre Voti tradizionali di Povertà, Castità ed Obbedienza, anche quello di Ospitalità, poiché è principalmente da questo Voto che le Suore traggono la forza di compiere tanti sacrifici ed atti di abnegazione, che hanno loro procurato da parte dei vescovi le testimonianze testé lette da Vostra Santità. La Santa Sede non ha ancora sanzionato tale Voto, ma neppure lo ha proibito.

    - V’interessano molto che tali due punti siano conservati?

    - Moltissimo; dicono che sia l’anima della loro opera e che procura loro tante grazie.

    - Va bene.

    Leone XIII, fedele a quella paterna assicurazione, approvò il primo marzo 1879 le Costituzioni, conservandovi integri i due punti suddetti. A quella fatidica data le Suore erano già 2.400 e Giovanna era ancora viva: spirò dolcemente il 28 agosto, ma per non turbare la festa onomastica di don Le Pailleur, ancora in auge, il decesso fu reso noto all’indomani. Per 27 anni era vissuta in nascondimento in una stanzetta del Noviziato, celando la sua identità sotto il nome religioso di suor Maria della Croce[13]. Ma l’umile sua presenza tra le formande fu davvero provvidenziale, permettendole di trasmettere loro lo spirito d’affettuosa dedizione agli anziani. Nel 1902 uno studio storico accurato di don Arsène Leroy smonta le falsature di don Le Pailleur ed addita Giovanna come vera Fondatrice. Nel 1935 parte nella Diocesi di Rennes il Processo Informativo per la Beatificazione di Giovanna, il cui Processo Apostolico inizia a Roma nel 1970 ed ha i suoi primi felici risultati quando Giovanni Paolo II dapprima la riconosce il 19 luglio 1979 come Venerabile[14] e poi nel 1982 la proclama Beata e ne fissa la memoria liturgica al 30 agosto.

    Anche dopo la revisione delle Costituzioni richiesta a tutti gli Istituti Religiosi per sintonizzarle con le direttive date dal Concilio Vaticano II, le Piccole Sorelle dei Poveri hanno potuto mantenere il Voto d’Ospitalità; nel Prologo delle presenti Costituzioni si ricorda che Jeanne Jugan è debitrice del “voto di ospitalità” all’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio e nell’art. 58 si precisa: per praticare lo spirito di questo voto, usiamo le forze e spendiamo la vita nel servizio degli anziani. Senza risparmiare né fatiche né pene, li serviamo giorno e notte, con prontezza, con amore e con lo stesso spirito che avremmo nel servire Gesù Cristo.

    Lungo gli anni sono rimasti sempre cordiali i rapporti delle Suore con i Fatebenefratelli, il cui Generale rinnovò in perpetuo[15] il 25 marzo 1942 l’affiliazione concessa nel 1841 per cent’anni e la Superiora Generale in gratitudine il 16 maggio 1942 aggregò in perpetuo l’Ordine alla sua Congregazione, facendolo così partecipe delle preghiere, dei sacrifici e dei meriti delle Piccole Sorelle dei Poveri.

    Va inoltre ricordato che nella solenne cerimonia del 3 ottobre 1982 in Piazza San Pietro per la Beatificazione della Fondatrice, le Suore vollero che all’Offertorio il nostro Priore di Dinan recasse al Papa un cesto come quello dato a Giovanna in quel lontano 1840.

    Fra Giuseppe Magliozzi o.h. 

    Fra Claude-Marie Gandet

     

     


    [1] Cf. Giuseppe Magliozzi, Ci affratella uno stesso ideale, in «Vita Ospedaliera», XXXVII (1982), 10, p. 151.

    [2] La grafia esatta del cognome era Joucan, ma a Saint-Servan fu per assonanza trasformato in Jugan, che era lì un cognome frequente, e fu tramandato così ai posteri. Cf. Paul Milcent, Jeanne Jugan. Umile per amare, Leumann (Torino), Ed. LDC, 1995, p. 9. nota 1.

    [3] Saint-Servan era vicinissima a Saint-Malo, che poi espandendosi ha finito per inglobarla.

    [4] Quest’appartamento era al piano superiore d’una casa che esiste ancora ed è luogo di pellegrinaggio. Nel 1947, quand’era ancora nunzio in Francia, v’andò anche Giovanni XXIII, commentando “Ho visto come iniziano le opere di Dio”; in ricordo di quella visita la strada fu nel 1972 intitolata a lui (cf. «Serenity» (Baltimore), Fall 1975, 11, p. 17).

    [5] Nelle famiglie bretoni era frequente dedicarsi a filare od a tessere ed almeno fino al 1850 c’erano venditori ambulanti che andavano a vendere in tutta Francia le tele di Bretagna.

    [6] Nato il primo maggio 1806, fra Claude-Marie Gandet entrò nell’Ordine nel 1832 ed emise la Professione Solenne il 5 agosto 1838. Nel 1843 il suo Provinciale, fra Giovanni di Dio Magallon, nel proporlo come Priore per la nuova fondazione in Algeria, lo descrive come “ardente di carità e di zelo per la salute delle anime e, allo stesso tempo, assai attivo, assai coraggioso, assai robusto e di sperimentata prudenza” (cf. Paul Dreyfus, Infirmier par amour. Paul de Magallon (1784-1859). Restaurateur de l’ordre hospitalier de Saint-Jean-de-Dieu, Paris, Centurion, 1993, p. 153). Dal 1846 al 1850 fu Priore di Dinan, proprio quando Jeanne Jugan v’apre un Asilo nella vecchia Torre della porta di Brest. Fu poi Priore di Lione dal 1856 al 1859. Dopo aver trascorso vent’anni a Marsiglia, fu inviato a Roma e vi restò 6 anni come 1° Consigliere Generale; al rientro, tornò per breve tempo a Marsiglia, ma fu poi costretto per gli acciacchi dell’età a ritirarsi a Lione, dove spese gli ultimi suoi due anni di vita prima di dolcemente spirare la mattina del 20 marzo 1884, subito dopo aver ricevuto a letto la Comunione (cf. nell’Archivio della nostra Provincia Francese il profilo biografico dattiloscritto, tracciato in base a ricordi personali dal confratello Pierre-Fourier Picard, nato nel 1851 e morto nel 1916).

    [7] Non fu facile per Giovanna umiliarsi a mendicare ed in vecchiaia confiderà alla formande: “Andavo con il mio paniere a elemosinare per i nostri poveri. Mi costava, ma lo facevo per il buon Dio e per i nostri cari poveri”.

    [8] Come già fece notare fra Corentin, la data del diploma di affiliazione fa concludere che i primi contatti con i Fatebenefratelli rimontano almeno al 1840. Cf. Corentin COUSSON, Jeanne Jugan et le Frères de Saint-Jean-de-Dieu, in «La Grenade», a. 5 (1939), n. 29, pp. 73-75.

    [9] Religioso e sacerdote di esimie virtù, si distinse per solidità di giudizi e per fermezza di carattere. Era nato a Béziers il 4 dicembre 1789. Terminati gli studi teologici entrò nell’Ordine nel 1824 e vi emise la Professione Solenne il 20 ottobre 1824. Dal 1824 al 1825 fu Priore di Lione, nel 1826 fu ordinato sacerdote, fu Maestro dei Novizi dal 1828 al 1834, Priore di Lille dal 1834 al 1837 e dal 1850 al 1853, Provinciale dal 1837 al 1840. Nel 1853 fu nominato Procuratore Generale e risiedé a Roma finché si dimise nel 1860 e tornò in Francia, dove morì a Lione il 18 ottobre 1862.

    [10] Riguardo agli aiuti in mobilio e derrate che i Fatebenefratelli di Dinan offrirono all’Ospizio di tale città, cf. P. Dreyfus, op. cit, p. 135; e P. Milcent, op. cit, p. 91.

    [11] Sul prezioso aiuto fornito alla nascente Congregazione da fra Felice Massot merita citare il canonico Helleu, che nel 1835 in qualità di vicepostulatore fu incaricato di condurre il Processo Informativo Diocesano sulla Jugan, della quale pubblicò nel 1938 una dettagliata biografia (cf. Arsène Helleu, Une grande bretonne, Jeanne Jugan, fondatrice des Petites Soeurs des Pauvres, H. Riou-Reuzé, Rennes, 1938), nella quale si legge: “Questo eminente religioso manifesta immediatamente un vivissimo interesse per la nuova fondazione e la fa volentieri beneficiare della propria grande esperienza della vita religiosa ed ospedaliera. Nessuno più di quest’uomo veramente provvidenziale ha contribuito, durante un bel numero di anni, grazie al suo saper fare, ai suoi consigli pertinenti e giudiziosi, ai suoi molteplici interventi, nell’organizzare, dal duplice punto di vista religioso ed ospedaliero, il piccolo nascente sodalizio e nel provvederlo di un Regolamento saggiamente appropriato alla sua specifica finalità, nessuno ha esercitato su di esso un’influenza più decisiva e benefica. Nessuno ha lavorato meglio di lui ad orientarlo con mano sicura verso il suo splendido destino”.

    [12] Negli anni precedenti ed ancora dopo per lungo tempo la gente usava semplicemente chiamarle le Jeanne Jugan, cosa ovviamente mal vista da don Le Pailleur e che spiega perché egli non solo non la volle mai Superiora, ma in ultimo decise addirittura di nasconderne quanto più possibile l’esistenza.

    [13].Per contrappasso, le sue Suore amano oggi sempre additarla non col nome di religione ma col nome Jeanne Jugan col quale era divenuta famosa in Francia, specie dopo che nel 1845 ricevette dall’Accademia di Francia il premio Montyon, destinato a “ricompensare un francese povero che ha compiuto l’azione più virtuosa”. Tale è l’attaccamento a quel nome, che le sue Suore, che oggi sono 2.710 ed hanno 202 Case sparse nei cinque Continenti ed in 31 nazioni, preferiscono anche fuor di Francia invocarla senza tradurre in lingua locale, come fatto in questo articolo, il nome Jeanne.

    [14] Merita ricordare che nel Decreto il Papa non mancò di sottolineare come la Venerabile andava “realmente considerata una figlia spirituale di San Giovanni di Dio, dal quale apprese come attuare il proprio carisma di misericordia attraverso la questua, lo stile di vita religiosa ed il voto di ospitalità”.

    [15] Cf. Gabriele Russotto, La Beata Jeanne Jugan ed i Fatebenefratelli, in «Vita Ospedaliera», XXXVII (1982), 10, pp. 152-154.

    MISSIONE OSPEDALIERA: BUONA NOTIZIA DELLA GUARIGIONE DI DIO PER L’UOMO D’ OGGI

    teofania 

    MISSIONE OSPEDALIERA:

    BUONA NOTIZIA DELLA GUARIGIONE DI DIO PER L’UOMO DI OGGI

     

    DOCUMENTO DEL XIX CAPITOLO GENERALE

    Roma, Maggio 2006 

    PRESENTAZIONE 

    In attesa della celebrazione del 125° Anniversario di Fondazione della Congregazione, si conclude a Roma il XIX Capitolo generale. Il Documento Finale che da esso deriva, e che oggi presento alla Congregazione, è una lettura della realtà congregazionale dal punto di vista della Missione così come si evince dal titolo stesso: «Missione Ospedaliera: Buona notizia della

    guarigione di Dio per l’uomo di oggi». 

    Il documento, nato dalla riflessione delle comunità e di alcuni gruppi di collaboratori, torna alla comunità ospedaliera affinché ciascuno dei suoi membri, sia individualmente che riuniti in un corpo solo, lo accolga come una guida che indichi i percorsi e tracci nuove mete per un servizio ospedaliero che risponda efficacemente alle necessità del mondo della sofferenza, verso il quale siamo chiamate. 

    Il testo biblico degli Atti 10,34-48, che narra il discorso di Pietro a casa di Cornelio ed il Battesimo dei pagani, è il fulcro di tutto il Documento. La sua struttura ed il suo contenuto permettono di evidenziare le dimensioni teologiche, ecclesiali, carismatiche ed esistenziali del nostro Carisma e dello stile Ospedaliero, oltre ad evidenziare gli obiettivi e le strategie che animeranno l’Azione Ospedaliera durante il prossimo sessennio. 
     

    Nella narrazione esperenziale che il Documento propone, scopriamo l’impegno della Comunità Ospedaliera con la Storia come luogo di Salvezza. Così come Pietro riconosce che: «Questi hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi», allo stesso modo noi crediamo che il dono carismatico, accolto dai Fondatori per il bene dei malati psichiatrici, possa essere condiviso da suore e collaboratori, promuovendo nuove azioni apostoliche «nella grande opera di costruzione del Regno di Dio» ( BENEDETTO XVI, Omelia della Messa dell’inizio ufficiale del suo Pontificato, 24 aprile 2005.) 

    Il Documento Capitolare è composto da quattro parti tra loro collegate, che nell’insieme caratterizzano la Missione come un modo di annunciare e realizzare l’azione di salvezza e guarigione di Gesù a favore degli emarginati e degli infermi, secondo la tradizione centenaria della Congregazione. Ciascuna delle parti ci conduce dalla narrazione teologico-spirituale-carismatica all’impegno con la realtà, espresso sotto forma di obiettivi e strategie che danno corpo alla riflessione. 

    1. Ospitalità, un carisma da testimoniare

    La prima parte del Documento sottolinea, in particolar modo, la dimensione teologico-spirituale della Missione come espressione dell’irruzione del Regno di Dio tra i poveri e gli infermi. Così, come Gesù fu unto Messia e Profeta, Colui che annuncia e realizza il progetto di Salvezza del Padre, allo stesso modo tutte noi, membri della Comunità Ospedaliera siamo inviate a dare continuità alla Sua azione, guarendo e liberando le persone più deboli della terra.

    Attraverso il nostro lavoro quotidiano, fatto di gesti e parole, rendiamo possibile l’arrivo improvviso e dilagante del potere di Dio che trasforma la sofferenza e la tristezza in gioia, speranza e salute integrale. È questa la nostra identità Carismatica; è questa la sfida dello Spirito per il nostro tempo. 

    2. Ospitalità: una Missione da condividere

    La seconda parte sottolinea la dimensione comunitaria della Missione condivisa da tutta la Comunità Ospedaliera che, nella misura in cui nasce da comunità radicate nella Parola di

    Dio e alimentate dall’Eucaristia, darà frutti di vita nuova per le persone sommerse dal dolore. 

    Noi, suore e collaboratori, siamo invitati a lasciarci evangelizzare per essere noi stessi evangelizzatori attraverso la nostra azione. Le diversità di cultura, ideologia, filosofia, credenze, che si vivono all’interno della Comunità Ospedaliera apporteranno alla Congregazione la ricchezza della comunione che permette di lavorare insieme alla costruzione di un mondo più giusto, più solidale e sempre più umano. 

    3. Ospitalità: una chiamata a costruire il Regno

    La terza parte del Documento emerge con vigore dal racconto biblico che illumina tutto il testo. Pietro si rende conto che Dio non fa distinzione di persone, ma al contrario a coloro

    che Egli ama dà  liberamente il Suo Spirito, chiamando tutti ad essere strumento attivo per la costruzione del Suo Regno di Giustizia e Fraternità. La sfida immediata che si coglie da questo racconto è quella della Spiritualità della Collaborazione. Tutti noi, suore e collaboratori, siamo chiamati alla stessa ed unica Missione, ossia quella di Evangelizzare guarendo. 

    La Congregazione, attraverso il Documento Capitolare, propone a tutti coloro che lavorano alle sue Opere di collaborare attivamente e creativamente al servizio ospedaliero, con libertà interiore e in rispetto della propria fede, con la coscienza che «insieme saremo buona notizia che Dio continua a proporre la Sua Salvezza all’uomo contemporaneo». 

    4. Missione condivisa: Obiettivi strategici 2006-2012 

    Oltre agli obiettivi ed opzioni con cui termina ciascuna delle parti del documento, la quarta ed ultima parte, che deriva dalla narrazione precedente, presenta un carattere maggiormente programmatico, traducendo in obiettivi strategici le sfide che la missione ospedaliera ci presenta oggi. 

    Il progetto della Missione Condivisa è stato studiato e formulato da diversi collaboratori, revisionato e assunto, come linea-guida per la missione ospedaliera, dal Capitolo che ora lo dona a tutta la Comunità Ospedaliera affinché si impegni nella sua realizzazione. In questo modo potremo interpretare con armonia, bellezza ed efficacia lo «Spartito Ospedaliero» in ciascun paese del mondo dove è presente la Congregazione. 

    La partecipazione di un gruppo di collaboratori, in questa fase del Capitolo generale, non solo ha arricchito la riflessione, ma ha rappresentato anche un segnale di ampliamento dell’ambito di pertinenza, rafforzando la corresponsabilità nella Missione Carismatica della Congregazione.

    La coincidenza della pubblicazione di questo Documento con la celebrazione del 125° Anniversario della Fondazione della Congregazione non è casuale.  

    Il sogno, che San Benedetto Menni, María Josefa Recio, María Angustias Giménez e la comunità ospedaliera originaria ebbero di creare un Istituto che «fondato su solide e ferme fondamenta fosse la meraviglia dell’universo », (RMA 56), si vede oggi accolto da tutti coloro che sono coinvolti, in un modo o nell’altro, nella realizzazione della missione ospedaliera.  

    1Il traguardo dei 125 anni deve essere un punto di riferimento obbligato per dare impulso ad un rinnovamento che offra, ai destinatari dell’Ospitalità e alla società in generale, una testimonianza di speranza in quel futuro che vogliamo costruire insieme. 

    María Camino Agós

    Superiora Generale 
     
     
     

    MISSIONE OSPEDALIERA:

    Buona notizia della guarigione di Dio

    per l’uomo di oggi 

    Seguire Gesù che:«passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo….» (Atti 10,38) 

    DIO NON FA PREFERENZE DI PERSONE 

    Il testo degli Atti 10,34-48 è il filo conduttore del Documento Capitolare, è il faro che lo illumina. 

    Discorso di Pietro presso Cornelio. 

    Pietro prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto. Questa è la parola che Egli ha inviato ai figli d’Israele, recando la Buona Novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo che è il Signore di tutti. Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò  in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con Lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da Lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi

    lo uccisero appendendolo ad una croce, ma Dio lo ha resuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con Lui dopo la sua resurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che Egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome». 

    Il Battesimo dei primi pagani 

    Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo scese sopra tutti coloro che ascoltavano il discorso. E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si meravigliavano che anche sopra i pagani si effondesse il dono dello Spirito Santo; li sentivano infatti parlare lingue e glorificare Dio. Allora Pietro disse: «Forse che si può impedire che siano battezzati con l’acqua questi che hanno ricevuto lo Spirito Santo al pari di noi?» E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo. Dopo tutto questo lo pregano di fermarsi alcuni giorni. 

    OBIETTIVO GENERALE 

    Gli obiettivi e le opzioni proposte dal XIX Capitolo generale si deducono dalla sua narrazione tematica. Dal dialogo tra la Parola di Dio, la parola dei Fondatori e la vita delle comunità ospedaliere, scaturiscono le proposte del Progetto Capitolare. 

    Gli obiettivi settoriali e le opzioni con i quali termina ciascuna delle prime tre parti, e gli obiettivi strategici 2006-2012, che costituiscono la quarta parte del Documento Capitolare,

    cercano di rispondere, in maniera programmatica, a quello che lo Spirito ci chiede, in questo momento della nostra storia congregazionale, al fine di essere «Buona Notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi». 

    Come risposta al tema del XIX Capitolo generale, formuliamo un Obiettivo Generale, una meta verso la quale ci impegniamo, come comunità ospedaliera, a camminare nel corso del

    prossimo sessennio: 

    «Vivere,

    come Comunità Ospedaliera,

    la Missione Guaritrice di Gesù

    con dinamismo creativo,

    per collaborare alla costruzione del Regno di Dio».

    .

    PRIMA PARTE 

    OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE 

    «Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret» (v. 38) 

    Il Nucleo della prima evangelizzazione 

    1. La prima cosa che Pietro racconta a Cornelio, un adepto del giudaismo, quando lo incontra, è quanto è «accaduto in tutta la Giudea» (v. 37). Secondo quanto si dice nell’Antico Testamento, narrare le vicende vissute dal popolo o da una o più persone permette di intravedere in esse l’intervento di Dio Salvatore di Israele. La narrazione dei prodigi di Jahvè nasce dalla contemplazione attonita della sua azione salvifica e si trasforma in annuncio evangelizzatore attraverso il racconto. 

    Pietro è testimone dell’intervento di Javhè su Gesù. Il nucleo della prima evangelizzazione è la narrazione di quello che accadde a Gesù e con Gesù, dalla quale deriva la riflessione su Egli e su Dio. 

    Gesù: consacrato del Signore e Profeta del Regno. 

    2. «Dopo il battesimo, predicato da Giovanni» (v. 37), ciò che spinge Gesù ad agire e a predicare è il dono dello Spirito Santo. (Il terzo evangelista interpreta il Battesimo di Gesù come il momento della sua consacrazione profetica, (Lc 3,21-22). L’unzione dello Spirito configura Gesù come Profeta sorto per Volontà di Jahvè: «Lo Spirito del Signore è sopra di me. Per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare (…) un lieto messaggio». La citazione di Isaia 61,1-2, in Luca 4,18-19 ci mostra come le prime comunità cristiane videro nella persona di Gesù il profeta Messianico definitivo, inviato agli ultimi di Israele, ossia «ai poveri, ai cuori spezzati, agli schiavi, ai ciechi e agli oppressi». 

    Lo Spirito elegge Gesù come Profeta e Messia, che compie la sua missione annunciando al popolo che alla fine giungerà la sua Salvezza: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annuncia la pace, messaggero di bene che annunzia

    la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo Dio» (Is 52,7). La consacrazione attraverso lo Spirito determina l’identità di Gesù, che si manifesta nell’annuncio del «Vangelo della pace3»

    (Atti 10,36).  

    La missione messianica di Gesù è una missione di salvezza 
     

    3. Nella tradizione dell’Antico Testamento, i Profeti sono presentati come persone che sostengono il loro messaggio attraverso segni molto evidenti ed eloquenti. Anche l’attività pubblica di Gesù, Profeta e Messia del Regno, si manifesta attraverso parole e gesti. Le prime, evidenziano le ragioni del suo agire, mentre i secondi danno concretezza al suo predicare: l’annuncio dell’irruzione del Regno di Dio comunica una buona notizia e allo stesso tempo produce un’azione salvifica. 

    I discepoli che si recavano a Emmaus, definiscono Gesù come «(…) profeta potente in opere e in parole davanti a Dio e a tutto il popolo» (Lc 24,19). Allo stesso modo, il primo evangelista descrive la sua attività come segue: «Gesù andava attorno per tutta la Galilea insegnando nelle loro Sinagoghe e predicando la 20 Missione ospedaliera: Buona notizia Prima Parte. Ospitalità: un Carisma da testimoniare buona novella del Regno e curando ogni sorta di malattie e infermità nel popolo» (Mt 4,23). 

    La consacrazione dello Spirito gli conferisce il potere di vita che dà vita. Gesù, vero benefattore dell’umanità, vive la sua missione messianica come missione di salvezza, agendo come medico e amico degli infermi. La sua azione apre nuovi orizzonti per l’umanità, permettendo a ciascun individuo di svilupparsi completamente.

    Ospitalità: evangelizzazione nella guarigione 

    4. Nella tradizione spirituale ospedaliera troviamo il nucleo della vera Spiritualità del Regno in Gesù: l’evangelizzazione nella guarigione. San Benedetto Menni considerava assai importante la presenza dell’ordine ospedaliero che secondo il Papa Pio V: «era un fiore indispensabile nel giardino della Chiesa», e affermava: «come il Divino Salvatore comandò ai suoi discepoli

    di andare ad annunciare il Santo Vangelo cominciando a curare i malati, così il Santo Padre Pio X vuole che la pratica della Santa Ospitalità sia un argomento irresistibile a favore della religione che ispira lo spirito di carità e abnegazione, con cui si possono vincere anche le maggiori preoccupazioni ad essa contrarie, preparando in tal modo l’animo affinché sia capace di accogliere i beni della vita spirituale incomparabilmente più grandi rispetto alla stessa vita

    religiosa»4. Allo stesso modo, il nostro Fondatore considera molto importante la presenza della nostra Congregazione, ricordando nel Prologo alle prime Costituzioni che la religione: «è sempre stata la prima a dare conforto e ad asciugare le lacrime dell’umanità sofferente, ovunque le abbia incontrate». 

    L’Ospitalità, vista da Benedetto Menni, si adopera per portare la guarigione a tutte le persone e si identifica nel servizio integrale agli infermi: «non si limita solamente a curare i corpi dei malati, ma si dedica alla cura dell’uomo nella sua totalità di corpo e anima, con i suoi bisogni e le sue malattie fisiche e spirituali, adoperandosi per servirli cristianamente, ossia come un esercizio di carità cristiana […] mira alla guarigione delle anime senza trascurare la salute fisica» ( B. MENNI, Circolare n. 42, 8 marzo 1911, in Perfil, p. 143.)

    5. 

    Consacrazione ospedaliera: memoria viva di Gesú 

    5. Il carisma e la missione continuano nel tempo grazie alla chiamata costante di Dio a seguirlo. «Egli ci consacra con un nuovo titolo attraverso il quale noi ci consegniamo a Lui e vivendo in comunità seguiamo Cristo, vergine, povero e obbediente, che passò per la terra […] facendo del bene a tutti e guarendo i malati » (Cost. 4). La vita consacrata ospedaliera è la memoria vivente della vita e dell’azione di Gesù Messia e Profeta del Regno, dinanzi al padre e ai fratelli. La consacrazione religiosa testimonia il primato di Dio nella vita ed esige un’obbedienza fedele al suo progetto di salvezza. 

    L’ «offerta totale di sé delle persone consacrate a Dio e ai fratelli si traduce in segno eloquente della Presenza del Regno di Dio per l’uomo di oggi» (BENEDETTO XVI, Omelia della Giornata mondiale della vita Consacrata, 2 febbraio 2006.) 

      «Lo sguardo fisso sul volto del Signore non attenua nell’apostolo l’impegno per l’uomo; al contrario lo potenzia, dotandolo di una nuova capacità di incidere sulla storia per liberarla da quanto la deturpa» (VC 75). Dalla contemplazione della bellezza divina di Gesù, ha origine la chiamata ad impegnarsi nel ripristino della Sua immagine sui volti delle sue creature. 

    Carisma-missione: espressione della stessa identità 

    6. Nel corso della nostra storia, possiamo dimostrare che il Carisma e la Missione sono il carattere specifico dell’identità ospedaliera. La Missione apostolica della Congregazione realizza la missione di Gesù attraverso i gesti concreti di ospitalità e servizio rivolti al malato, che per noi rappresenta «il tempio in cui Dio dimora»7. Siamo convinte che non può esserci contraddizione tra quanto annunciamo e il modo con cui lo esprimiamo e lo viviamo. Siamo «comunità in missione, con una grande responsabilità: evangelizzare attraverso la testimonianza, essere riferimento carismatico, salvaguardare la fedeltà creativa del carisma». Vogliamo procedere in piena coerenza tra il dire, il fare e l’essere. 

    A partire dal XVIII Capitolo generale: obiettivi… 

    7. Possiamo constatare che dall’innovativa focalizzazione, posta al Carisma fondazionale nel corso del XVIII Capitolo generale, sono emerse forze nuove: desideriamo approfondire la nostra identità a partire da una spiritualità incentrata sulla persona del malato mentale; scopriremo che da questa immagine di Dio avremo aperto nuove prospettive di comunione. «L’immagine di un Dio limitato ci ha permesso di vivere meglio la nostra vita, accettando i nostri propri limiti e quelli dei malati. 

    Ci ha consentito inoltre, di confrontarci con la nostra condizione di donne che hanno bisogno di guarigione». «La storia del malato e della sua malattia ci rende più umane e pazienti; attraverso i malati sperimentiamo di nuovo il mistero pasquale». 

    Abbiamo una maggiore consapevolezza della «profondità e della ricchezza della nostra spiritualità, che ci chiede di essere tradotta in azione nella vita quotidiana. Ha risvegliato in noi energie latenti, mobilitandoci a livello personale e di comunità». Infine, «la consapevolezza che il nostro carisma è radicato così profondamente e che il suo centro è costituito dai più limitati, da coloro che non contano, tra i quali troviamo Gesù il nostro Salvatore, ci ha portato a fare una scelta preferenziale in loro favore». 

    … Orizzonti che si ampliano 

    8. Non solo siamo cresciute nell’identità ospedaliera, riconfermando la nostra preferenza per le persone malate di mente, noi suore e collaboratori, abbiamo anche fatto passi avanti verso l’integrazione e la partecipazione al carisma ospedaliero attraverso il pluralismo delle vocazioni ed una «maggiore valorizzazione dell’universalità», sia che si tratti di cultura, ideologia o credo. «Dio ha fatto del carisma una luce per illuminare il mondo e annunciare la buona novella dell’ospitalità sino ai confini della terra» attraverso modi nuovi di servizio, così da avviarci verso una mentalità più accogliente e più ospedaliera, visto che il Carisma permette diverse forme di incontri e di realizzazione.  

    Siamo chiamate a vivere nella pluralità, le cui conseguenze esistenziali influiscono sulla vita di tutte noi, secondo la propria vocazione e sensibilità personale. Oggi, alcuni collaboratori affermano che «il Valore del Carisma si scopre attraverso l’incontro, vissuto alla massima profondità, con un’altra persona; nell’accoglienza incondizionata; nell’accettazione dell’alterità e nell’accoglienza come testimonianza della misericordia di Dio»; «la nostra realtà assistenziale è uno spartito che può essere perfettamente interpretato in chiave evangelica». 

    Centralità  del malato dal punto di vista del Regno 

    9. Il XVIII Capitolo generale invitava suore e collaboratori ad approfondire la propria identità alla luce di una spiritualità scaturita direttamente dal malato mentale  . Ha cercato di rispondere al nostro desiderio di trasformare in spiritualità un aspetto già sviluppato a livello apostolico: la centralità del malato. 

    Il sessennio vissuto in questa prospettiva, ci ha fatto scoprire che questa centralità proviene dal fatto che lo stesso Regno di Dio pone al centro il malato, come destinatario principale della buona novella della guarigione di Dio attraverso Gesù. Inoltre, è proprio il malato mentale a convocarci 9 Ibid., pp. 37-38), perché è prendendoci cura di lui che ci incamminiamo verso il centro del Regno, dove possiamo incontrare Gesù, Colui che ci ha aperto la strada identificando Se stesso con gli ultimi. Lo sapeva bene il nostro Fondatore che in una sua lettera afferma: «il nostro prossimo per quanto infelice, povero o reietto, rappresenta la viva immagine di Gesù, che è voluto diventare come l’ultimo degli uomini » (B. MENNI, Circolare n. 9, 26 maggio 1888, in Perfil, p. 42; riporta in modo significativo la citazione di Isaia 53,3: «Disprezzato e reietto dagli uomini,uomo dei dolori che ben conosce il patire»). 

    10. La centralità del malato mentale nella Missione ospedaliera corrisponde alla stessa centralità che tutte le persone sofferenti hanno ricoperto nell’ambito della missione profetica e messianica di Gesù.

    Come comunità ospedaliera, nel corso del prossimo sessennio, siamo chiamate a seminare e a far germogliare una spiritualità che nasca dall’irruzione del Regno e dia impulso alla nostra missione come autentica manifestazione storica della missione guaritrice di Gesù.

    a) Il Regno è di Dio – In molte parabole di Gesù, in cui viene narrata la realtà del Regno, il protagonista viene presentato come una figura dotata di un potere straordinario rispetto agli altri personaggi: un re (Mt 18,23), un signore (Lc 12,36), il padrone di casa (Lc 13,25). La narrazione lascia intendere che l’irruzione di questa nuova realtà di salvezza non appartiene agli uomini e non dipende dalla loro volontà: il Regno è di Dio, è un suo dono ed esige un atteggiamento di accoglienza incondizionata, gratitudine ed impegno. Non si può prevedere se germoglierà, nè come sarà il suo sviluppo; non vi si possono porre limiti o confini. La sua realtà avvolge gli uomini e supera le loro possibilità, è rivolta a loro senza lasciarsi pienamente conoscere. Da qui sgorga la confessione del Dio Santo, forte ed immortale. Da qui nasce il ringraziamento al Padre, «(…) Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli », (Mt 11,25-26).

    Le nostre prime sorelle giunsero alla consapevolezza che «Dio nella realizzazione dei suoi progetti non ha bisogno di mezzi umani, né di intelligenze sublimi o saggi intelletti. La Sua eccelsa sapienza si compiace nello scegliere i più umili e disprezzabili per dimostrare che l’opera è tutta Sua» (cf. RMA, p. 53). 

    La nostra sfida è quella di vivere la missione con lo stesso atteggiamento di Maria di Nazaret, che si è impegnata a servire in povertà e gratuitamente il Regno, contemplando l’azione salvifica di Dio«Onnipotente» (Lc 1,49) senza attribuirsene le conquiste e i successi. 

    b) Il Regno fermenta la storia – Nelle sue parabole spesso Gesù paragona l’instaurazione del Regno con quei processi naturali, impercettibili e fragili, ma allo stesso tempo incontenibili come: il seme (Mc 4,26-27), il lievito (Lc 13,21). Il Regno promana da ciò che è più umile nella vicenda umana: le cucine, gli orti, le vigne, le reti dei pescatori, gli aratri dei campagnoli. Non desidera stravolgere la storia, né vuole determinarla ma fermentarla ed ispirarla. 

    La nostra Missione ci colloca in quelli che in genere vengono considerati i margini della società, tanto che ci abituiamo ad apprezzare i progressi più che i risultati, il percorso più che la meta, la navigazione più che l’approdo. Viviamo tra la promessa e il suo compimento, tra il «già fatto» e il «non ancora». Questo spazio intermedio richiede uno sguardo mistico che nell’oscurità della notte si orienti verso la storia «senza altra luce né guida se non quella che arde nel cuore»11. 

    c) Il Regno è annunciato agli emarginati – L’ideale di un re biblico è che ciascun suddito del suo regno assapori la bellezza di una vita piena e gioiosa. Egli dà ascolto alle richieste dei più deboli: «il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati, libera i prigionieri, (…) protegge lo straniero, sostiene l’orfano e la vedova, il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, per ogni generazione» (Sl 146,7.9a.10)12. Il primo annunzio che riguarda l’irruzione del Regno, Gesù lo rivolge ai poveri: «Beati voi poveri, perché vostro è il Regno di Dio» (Lc 6,20). Gesù preferisce rivolgere il suo messaggio ai malati, ai peccatori, agli esattori delle imposte, alle donne, ai bambini, in quanto tutti loro condividono la medesima condizione di emarginazione sociale, economica e religiosa che gli impedisce di accogliere ed interpretare la propria esistenza con gioia e soddisfazione.  

    Nell’emarginazione il dolore diviene straziante e la debolezza opprimente.

    Laddove si manifesta l’impotenza dinnanzi al dolore, è presente Dio, perché Dio è amore.

    La nostra missione ospedaliera continua a presentare, alla Chiesa ed al mondo, il desiderio di Dio di avvicinarsi a quanti sono sommersi dalle tenebre del dolore e paralizzati dall’ emarginazione causata dagli altri uomini. Ci impegniamo a continuare ad offrire, attraverso la nostra vita e le nostre Opere, la proposta salvifica del Regno, come proposta di integrazione a quanti si considerano emarginati. 

    d) Il Regno come incontro di gioia – Una delle immagini più utilizzate da Gesù per illustrare la natura del Regno è quella del banchetto (Lc 14,16), durante il quale la famiglia, il gruppo di amici, la comunità dei credenti, condividono con gioia i frutti della terra e del loro lavoro. A tutti è dato in egual misura da un Dio incredibilmente generoso e amorevole. Il banchetto permette di superare le situazioni di indigenza, di armonizzare le diversità, facilita l’apertura tra le persone. Per questa ragione, Gesù non ha lesinato mai la Sua presenza ai convivi, nemmeno in quelli di persone di dubbia reputazione (Lc 5,29) o di farisei (Lc 7,36). 

    Ogni giorno incontriamo persone affamate di amicizia e assetate di affetto che ci arricchiscono con la loro umanità. La missione ospedaliera testimonia che nell’incontro si attua quell’esperienza guaritrice e liberatoria che anticipa il banchetto finale di tutti gli uomini con Dio. 

    e) Il Regno è motivo di rifuto – L’ immagine del banchetto esprime il carattere accogliente del Regno al cui invito si può rispondere con un rifiuto, (Mt 22,3-5).

    A questa conclusione giunge Luca [Lc 13,25-29]: non è sufficiente mangiare e bere con «il padrone di casa» , perché la sentenza verrà inevitabilmente emessa: «Non so di dove siete» (v. 27). Per di più, coloro che credono di avere il diritto di entrare in casa rimarranno fuori, mentre altri «verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno, e siederanno a mensa nel Regno di Dio» (v. 29).  

    Non si appartiene automaticamente al Regno solo perché si appartiene ad una nazione, ad un popolo o ad una chiesa: il Regno spetta a coloro che accettano il Dio di Gesù, «amico di pubblicani e peccatori» (Lc 7,34), e che rispondono al suo invito gratuito.

    L’irruzione del Regno suscita la reazione delle forze del Male: le guarigioni e gli esorcismi di Gesù indicano che ha avuto ormai inizio la lotta definitiva tra Dio e il Male che deturpa l’umanità: «Se io invece scaccio i dèmoni con il dito di Dio è dunque giunto a voi il Regno di Dio», (Lc 11,20).

    A questa lotta partecipiamo anche noi che abbiamo scelto per i membri prediletti della famiglia del Re, riconoscendo come nostra storia istituzionale ciò che ha scritto il nostro padre Fondatore: «Ho dovuto sostenere grandi lotte, ed il Signore per provare la nostra fede ha permesso che le cose arrivassero al punto tale da sembrare una situazione umanamente senza rimedio per i poveri infermi che sarebbero stati cacciati dalla Casa del Signore, e il peggio era che tale decisione veniva sostenuta al fine di un maggior bene, come un provvedimento sensato; come se fosse volontà di Dio, e dunque più prudente per noi, non preoccuparcene tanto, non imporci tanti sacrifici, né esporci a passare guai, per difendere e proteggere l’infelice nella Casa di Dio» (L 706). 

    f) Il Regno ci chiede di dare la vita – Il carattere profetico dell’essenza e dell’azione di Gesù si riscontra nella sua disponibilità a dedicare tutta la sua vita alla missione che il Padre gli affida.

    Il Regno, come mezzo di salvezza e guarigione di Dio per tutti gli uomini, si trasforma nella Sua unica ragione di vita. Egli non esita ad offrire tutto Se stesso, sino alla croce, donando la Sua vita per il Regno affinché il seme del Regno si impianti nel terreno dell’umanità ed ogni essere umano possa riceverne la vita. Gesù traccia il percorso che i Suoi seguaci dovranno seguire: «Chi vorrà salvare la propria vita la perderà; ma chi perderà la Sua vita a causa mia e del Vangelo la salverà » (Mc 8,35); «In verità vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi a causa mia o a causa del Vangelo, che non riceva già al presente cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e nel futuro la vita eterna» (Mc 10,29-30). 

    La stessa disponibilità si riscontra nella storia delle nostre origini: «È ben vero che questi signori del Comune non mantengono la loro parola, però il nostro Benedettissimo e Adorato Gesù no, non mancherà alla sua parola; perciò pur se dovremo sopportare qualche fatica, Egli ci risolverà tutto. Ditemi figlie mie, se non dovessimo sopportare qualche disagio per fare il bene, che merito avremmo? Sia, dunque, figlie mie, la vostra sete, il vostro desiderio, la vostra aspirazione, imitare il Glorioso Padre e Patriarca San Giovanni di Dio, il quale non mirava ad altro se non a cercare in che modo sacrificarsi per dare sollievo ai poveri per amore di Gesù Cristo. Figlie mie, quale grande gloria avremo in Cielo per ogni povero che avremo accolto, lavato e curato, anche se poi dovessero riprenderselo!» (L 346). 

    Oggi la guarigione di ogni persona che aiutiamo a sperimentare la vicinanza e la tenerezza di Dio, è il nostro modo di dare la vita per il Regno. 
     

    OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE

    OBIETTIVO SETTORIALE 1 

    Dare impulso all’identità Carismatica a partire dalla missione salvifica di Gesù che condividiamo e annunciamo. 

    OPZIONI 

    1 Approfondire ed incarnare la nostra identità nell’ottica

    della Spiritualità del Regno.

    2 Rafforzare la comunione e la collaborazione a livello

    intercomunitario, interprovinciale e congregazionale.

    3 Rafforzare la dimensione carismatica ed evangelizzatrice

    della comunità religiosa.

    4 Partecipare attivamente ai diversi settori ecclesiali

    attraverso l’esperienza dell’ospitalità.

    5 Diffondere il carisma nelle diverse realtà valorizzandone

    la storia e rispettando gli elementi essenziali

    che lo definiscono. 

    SECONDA PARTE 

    OSPITALITÀ: UNA MISSIONE DA CONDIVIDERE 

    «Abbiamo mangiato e bevuto con Lui

    dopo la Sua risurrezione dai morti» (v. 41) 

    Eletti dalla comunione con il Risorto 

    11. L’azione salvifica e guaritrice di Gesù verso i popoli della Galilea e della Giudea ha dei testimoni, scelti13 direttamente da Dio per raccontare ciò che accadde: «nella regione dei giudei e a Gerusalemme» (v. 39). La loro scelta fu fatta in «precedenza» (v. 41), ossia «prima della creazione del mondo» (Ef 1,4) ma fu rivelata attraverso un’ esperienza di vita storica: la condivisione della mensa con il Risorto. La comunione dei discepoli con Gesù, prima e dopo la Sua Resurrezione, accredita la loro testimonianza come degna di fede. Una persona, e non un’idea, ha segnato le loro vite: Gesù, colui che ha sperimentato la sventura causata da un’ingiusta accusa ed ha patito una morte ignominiosa.  

    Il Dio Onnipotente però, ha restituito al Suo Profeta e Messia, quella vita che Egli così generosamente aveva donato per il Regno di Dio. Per questo ora, il Risorto, può apparire ai suoi discepoli e tornare a gioire per la divisione del pane e la condivisione del vino.

    Tutto ciò li converte in convinti e convincenti araldi della Buona Novella del Regno in Gesù crocefisso e risorto.

    La comunità, luogo per l’elezione missionaria… 

    12. La comunità cristiana è quella che custodisce gelosamente e appassionatamente la memoria della mensa condivisa con il Risorto. Fin dalle origini il condividere la mensa è stato il segno che dava fondamento e motivazione alle comunità dei seguaci di Gesù. Come Dio scelse i primi testimoni tra coloro che avevano mangiato e bevuto con il Risorto, comandandogli di andare a predicare14, allo stesso modo è nell’assemblea della comunità cristiana riunita per commemorare il suo Signore morto e risorto, che si manifesta l’elezione missionaria.  

    Di ciò abbiamo una chiara testimonianza negli Atti degli Apostoli 13,1-4: «Nella chiesa fondata ad Antiochia c’erano profeti e dottori: Barnaba, Simeone, detto Níger, Lucio di Cirene, Manahén, compagno di infanzia del tetrarca Erode, e Saulo. Mentre stavano celebrando il culto del Signore e digiunavano, lo Spirito Santo disse: «Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera a cui io li ho chiamati». Dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li inviarono. Essi, inviati dallo Spirito Santo, discesero a Seleucia e da lì salparono verso Cipro». 

    … e della comprensione delle Sacre Scritture 

    13. La testimonianza di quanti hanno condiviso la tavola con il Risorto (v. 42) non si basa soltanto su un’esperienza personale, ma anche su quella che i profeti hanno tramandato su Gesù (v. 43). I profeti hanno preannunciato che sarebbe giunto il Messia, che avrebbe dovuto soffrire e morire, proclamando l’avvento definitivo della salvezza di Dio. Per questo motivo, nel terzo Vangelo Gesù dà inizio alla sua Missione spiegando che il Profeta Isaia parlava di Lui e che, dunque, la sua profezia si era compiuta (Lc 4,17-21). Luca al termine del suo Vangelo narra le due apparizioni del Risorto ai discepoli (24,13-35 e 24,36-49), nelle quali vengono proposte le due modalità attraverso le quali si giunge ad una profonda ed autentica esperienza di Gesù glorificato: condividere la mensa (vv. 30-31 e 41-43) e capire le Scritture (vv. 25-27.32 e 44-47).  

    Le due modalità sono legate indissolubilmente l’una all’altra: bisogna mangiare per riuscire a comprendere (i discepoli in cammino verso Emmaus) e saper comprendere per mangiare (gli Undici e quelli che stavano con loro). È la Parola che offre alla comunità le motivazioni dell’essere e dell’agire di Gesù, spingendola ad agire come Lui, testimoniando la nuova realtà del Regno attraverso il sacrificio della propria vita per l’umanità (martirio). 

    Comunità  radicate nella Parola 

    14. La Parola di Dio è il faro che illumina la nostra vita personale e comunitaria, un riferimento obbligato per il discernimento delle scelte apostoliche. Le nostre prime sorelle hanno sperimentato che la Parola ascoltata, pregata e contemplata è il fondamento e la forza da cui scaturisce la missione guaritrice a favore degli infermi. María Angustias ne dà testimonianza riflettendo sul brano evangelico di Luca [Lc 10,38-42], in cui si narra delle due sorelle di Betania, Marta e Maria, e del loro modo di vivere l’ospitalità, (RMA, p. 109).  

    Angustias lodava Maria per il suo concentrarsi sull’essenziale, Gesù e la sua Parola; e Marta per la sua sollecitudine e servizio attivo. Maria «rapita dall’estasi ai piedi del suo Maestro si lasciava trasportare in cielo», mentre Marta «si affannava nel servirlo». Gesù dice alle due sorelle che «una sola è la cosa di cui c’è bisogno» (Lc 10,42): vivere e agire con lo sguardo fisso su di Lui, ascoltando la Sua Parola. 

    Oggi possiamo affermare che la Parola del Signore «ci aiuta a vedere gli eventi della nostra vita e di quella altrui come un tempo di Dio». La Parola «racconta storie di vita, alimenta la speranza, purifica il nostro sguardo nei confronti del mondo» e «ci dona la luce per discernere i sentieri di Dio e seguire Gesù Cristo». La Parola «è fonte di rinnovamento della comunità nella misura in cui ce ne impossessiamo; essa ci aiuta, ci guida, ci insegna, ci ammonisce, consiglia, ci da energia, speranza, forza e ci trasforma». Siamo convinte che sia necessario continuare a creare spazi di condivisione di fede sulla Parola. Riteniamo necessario anche impartire una formazione biblica per approfondire la lettura della Parola di Dio e comprendere la teologia del carisma e la spiritualità ospedaliera. 

    Eucaristia cultuale ed Eucaristia della carità 

    15. La prima comunità di suore si è formata mangiando e bevendo con il Signore nel suo mistero pasquale. Ha mangiato e bevuto con Cristo crocefisso nelle sue vive immagini, vivo e presente nell’Eucaristia: « ne deduco, perciò, che il segno che deve distinguere colei che milita sotto la bandiera del nostro padre è quello dell’unione quotidiana con il nostro amabile Gesù Sacramentato » (RMA, p. 165). Sia il mistero del culto che quello umano si manifestano nel Signore della vita. Il primo gruppo di ospedaliere ha avuto conferma del proprio carisma, della propria vocazione e missione nel momento in cui ha incontrato il volto della prima malata, Antonia Romira de la Cruz, nella quale si manifestava «Gesù rivestito degli abiti di un folle per amore delle sue creature» (RMA, p. 158). 

    L’esercizio dell’ospitalità prolunga l’eucaristia nella vita quotidiana. Intorno al malato si costruisce la liturgia della carità, secondo l’esempio di P. Menni: «ci precedeva all’ora dei pasti […] andando a ricercare la malata più difficile e inginocchiato le dava da mangiare. Con quale venerazione, con quale spirito di fede e con quanto ardore compiva la sua opera misericordiosa!»15 

    Le suore fecero loro quella liturgia sacra: «veneravano le malate come oggetti sacri e, non so se esagero a dire che, le veneravano in ginocchio come Dio, come faceva il maestro [P. Menni] che ci aveva insegnato che quel che si fa loro per amore di Gesù è come fatto a Gesù stesso. Aggiungo senza timore e senza dubbi, che in ognuna di esse vedevamo la croce della sofferenza sulla quale stavano inchiodate come vittime, rappresentando la commovente scena del Calvario. Ogni malata era per noi una vittima sacra»16 

    La guarigione è un segno pasquale 

    16. La dedizione «goccia a goccia»17 nella vita quotidiana, la ricchezza delle relazioni, la carità ed il servizio di qualità che guarisce e reintegra il malato, rendono manifesto il Dio della vita. 

    È questo il senso dei progressi terapeutici: «offrire la migliore assistenza alle malate mentali e ottenere tutto ciò che è possibile ottenere[…] la cura di molte di loro, il sollievo o quanto meno la consolazione per le altre18». 

    In un altro scritto, Benedetto Menni afferma: «vorrei che ci fossero molte dimissioni dall’istituto, ma tutte dovute alla guarigione»19. Sebbene nel XIX secolo fosse maggiormente seguita la teologia della Croce rispetto a quella della Risurrezione, e la guarigione fosse molto più difficile da raggiungere, rispetto ad oggi, si cercava di raggiungere questo obiettivo con tutti i mezzi e modi disponibili. 

    Donare la propria vita significa per noi rispondere alle emergenze sociali: «spero (…) che il risultato di questa esplorazione sia di poter aprire qualche manicomio, visto che in tutta la nazione(…) non ce n’è uno accettabile; e i poveri dementi sono molto male assistiti; nonostante che io ritorni in Spagna,

    lascio qui, a Dio piacendo, chi andrà preparando le cose» (L 444). 

    Incarnare l’energia del mistero pasquale nella realtà, significa essere portatori, sino ai limiti dell’ esistenza umana e dei confini terreni, della vita di Dio che resuscita e libera. «Benedetto sia il Signore che si degna di farci partecipi del suo prezioso calice di amarezza e che ce lo addolcisce con la grande speranza […] e farà si che tutto questo sia a Sua maggior gloria, a nostro bene, a bene del prossimo, e che da queste fatiche verranno frutti di benedizione della Divina Misericordia che ci sta provvidenzialmente assistendo» (L 508).

    Comunità  eucaristiche 

    17. La celebrazione eucaristica occupa un posto centrale nella nostra vita. Per mezzo di essa ci sentiamo convocate nel nome del Signore, nutrite e rafforzate nella nostra fede, impegnate a vivere la carità verso una «grande unione di cuori» e ad «accogliere nel cuore il Divino Ospite» (RMA, p. 42).

    Celebriamo l’Eucaristia in chiave ospedaliera, «comunicare infatti allo stesso

    pane significa condividere la stessa missione guaritrice di Gesù ». Ci sentiamo «chiamate ad essere memoria e presenza di cristo misericordioso come donne pasquali, gioiose e forti nell’annunzio del Risorto». Come il Signore «si manifesta nei sacramenti cultuali e in quelli storici rappresentati dai malati»20, cerchiamo l’unione tra ciò che celebriamo e ciò che viviamo, «scopriamo cioè Colui che celebriamo attraverso colui che serviamo: il malato». In questo modo, rafforziamo la nostra configurazione ai sentimenti del cuore di Gesù, che ci convoca per essere testimoni della Bontà del Dio pieno d’amore verso i più deboli del suo popolo. 

    L’ incontro con il Signore alimenta la fecondità carismatica della nostra vita e della nostra missione: «l’Eucaristia vissuta come comune-unione racchiude in sè la forza trasformatrice manifestandosi nella comunione e nella missione con attitudine al perdono, comprensione e amore fraterno per i fratelli e i collaboratori, dedizione generosa, vicinanza, ascolto e trattamento disinteressato verso i pazienti». 

    Il martirio della carità 

    18. Una partecipazione autentica all’ Eucaristia comporta l’dentificazione con Gesù, nella sua attitudine al servizio e al sacrificio.

    Il nostro padre fondatore, che associava il culto dell’eucaristia all’impegno più intenso della carità, afferma: « felici saremo se potessimo esalare l’ultimo respiro con l’ esercizio di questa divina e nascosta carità!». Felice «colui che sigilla ogni momento della sua carriera professionale con nuovi e sempre più eroici gesti di carità, senza ricevere alcun compenso in questa vita ma guardando solo a Gesù»21. 

    Siamo chiamate a vivere questa carità contribuendo al riconoscimento

    della «dignità ad una moltitudine di persone lacerate e spezzate dall’incomprensione, dalla sofferenza, e dalla solitudine» nel lavoro quotidiano. Ci sono altri contesti in cui si vivono «scontri razziali e religiosi», «il laicismo e l’agnosticismo delle società sviluppate, dove si mette in discussione il valore della vita e quello della persona», e che ci richiedono oggi una presenza profetica a rischio della propria vita, come scrisse San Benedetto Menni: «Beato colui che martire della carità ha la fortuna di vedere accorciata la vita a conseguenza di un suo eroico sacrificio»22, come ci ha dimostrato la nostra fondatrice che ha sacrificato la sua vita come il chicco di grano che cade in terra e muore. 

    L’espansione della Congregazione e la pluralità delle situazioni ci rendono più consapevoli delle esigenze del nostro carisma che richiede la disponibilità ad offrire la nostra vita anche a rischio di perderla. E vivendo ciò «serenamente e con speranza, come un vantaggio e non come una perdita, assumendo ciò che è piccolo e semplice come seme del Regno». «Frumento di Cristo noi siamo/ cresciuto nel sole di Dio, nell’acqua del fonte impastati, segnati dal crisma divino».23. 

    Comunità, luogo di annuncio e testimonianza 

    19. Il dono della vocazione e del carisma è un dono di Dio che bisogna chiedere, accogliere, curare e far crescere. Oggi, «molti giovani non hanno accesso ad una proposta vocazionale e non arrivano perciò mai ad interrogarsi sulla propria vocazione». Ciò nonostante essi manifestano una sincera ricerca di senso, sebbene confusa e dolorosa, una gran sete di trascendenza, un desiderio di incontrare una sorgente d’ acqua viva, e per questo chiedono aiuto. Per noi questo rappresenta una sfida che ci sprona ad annunciare esplicitamente Gesù ai giovani, fornendo loro un percorso formativo nella fede fino alla scelta di Gesù e proponendo loro diversi modi di vivere il nostro carisma all’interno della Chiesa.  

    A quei giovani che si sentono chiamati alla vita ospedaliera, dobbiamo offrire un orientamento al discernimento vocazionale. Non dobbiamo dimenticare che «il modo più autentico per assecondare l’ azione dello Spirito sarà quello di investire generosamente le migliori energie nell’attività vocazionale, specialmente con una adeguata dedizione alla pastorale giovanile» (VC 64). 

    Consapevoli che la comunità rappresenta il luogo privilegiano per l’annuncio e la testimonianza24, la nostra vita deve essere un modello: «trattare con i giovani e presentare loro la vita ospedaliera ci spingono a vivere nel modo più genuino e autentico la sequela di Cristo» ed a testimoniare «l’allegria, la profondità dell’esperienza di Dio e la totale dedizione a servizio dei fratelli ammalati». 

    Non dobbiamo temere di «aprire con semplicità ai giovani le nostre comunità» e «adeguare le sue regole affinché vi possano trovare una famiglia dove sperimentare la fraternità, una mensa dove condividere gli ideali, una missione dove discernere la propria vocazione. La carità ospedaliera «è una scuola di vita che educa i giovani alla solidarietà e alla disponibilità a donare non qualcosa ma se stessi»25. 

    Sfide della formazione 

    20. Oggi assistiamo ad uno spostamento geografico delle vocazioni, all’interno della Congregazione, provenienti dal sud e dall’est. La diversità culturale che ne consegue è una grande ricchezza che dimostra il dinamismo e il vigore del carisma che non possiamo controllare o reprimere. Questo è segno di speranza e allo stesso tempo una sfida per le «diverse manifestazioni culturali, linguistiche, di costumi e di riti», che esige un serio processo di discernimento vocazionale e di inculturazione sui valori ospedalieri nei diversi contesti. Il nostro fondatore ha dato un grande impulso alla formazione a tutti i livelli: «a questo fine ci si dovrebbe auspicare che in tutte le province […] essa venga promossa […] tenendo conto delle possibilità e dei mezzi a disposizione, promuovendo lo studio e la divulgazione delle questioni relative alla formazione religiosa ed ospedaliera»26. 

    Padre Menni sapeva bene che la formazione deve essere orientata alla missione e che lo studio è per il servizio: «spero di proseguire quanto sarà necessario per essere utile alle anime; e se con questo lavoro riuscirò un giorno a fare un poco di bene, anche se ad un’anima sola, quanto bene impiegato sarà qualunque lavoro!» (L 445). 

    È necessario insistere sul processo formativo, specialmente nelle prime fasi, con una solida formazione umana, spirituale e carismatica, che ci aiuti a vivere il nostro essere donne e a consolidare la nostra scelta per Cristo. La formazione deve essere realizzata in quei luoghi che garantiscono la migliore qualità, l’esperienza dell’universalità del carisma ed il servizio apostolico al malato. Viene valutata positivamente la creazione di strutture formative a livello interprovinciale per acquisire gruppi di formazione di qualità e per formare i giovani all’internazionalità della Congregazione. 

    Evangelizzare a partire dalla comunità ospedaliera… 

    21. La Congregazione, condividendo il dono del carisma nella chiesa, collabora alla sua missione evangelizzatrice: ciò «costituisce in pratica la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda» (EN 14). Lo Spirito Santo, come ha ispirato il carisma, dà anche impulso all’evangelizzazione. L’espansione della Congregazione soprattutto verso l’Africa e paesi asiatici quali il Vietnam, India e Cina, genera nuove sfide per la nostra azione evangelizzatrice. 

    La comunità  ospedaliera, formata al pluralismo, diventa un vero fattore di evangelizzazione esercitando il ministero della guarigione, nello svolgimento dei diversi compiti, dando impulso ai vari livelli, con qualità, profetismo e creatività. Ci sono persone in grado di evangelizzare grazie alle «loro capacità di comprensione e accettazione, alla loro comunione di vita e destino con gli altri, alla loro solidarietà nell’impegno di ciò che è nobile e buono» (EN 21), altri «accolgono con sincerità la Buona Novella, [e] mediante l’accoglienza e la partecipazione nella fede» (EN 13) cercano la costruzione solidale del Regno; altre mettono in pratica tutte le opportunità umane, cristiane, e carismatiche presenti nel contatto con il malato e nel progetto ospedaliero. 

    Le sorelle recano testimonianza dell’ «assoluto di Dio» (EN 69) nell’impegno con il malato. Allo stesso tempo, la comunità ospedaliera evangelizza se stessa attraverso la qualità umana delle relazioni, la stima reciproca, il rispetto per i diversi compiti e funzioni, lo spirito partecipativo e positivo, il rispetto dei diritti individuali e la condivisione dei valori e della cultura ospedaliera. Siamo tutti partecipi dell’impegno evangelizzatore, mediante la testimonianza. 

    La dimensione trascendentale della persona e l’identità cristiana della congregazione richiedono «un annuncio chiaro ed inequivocabile del Signore Gesù» (EN 22), offerto a coloro che lo desiderano, rispettando sempre il loro credo. 

    Bisogna continuare a sviluppare la pastorale della salute per offrire proposte adeguate di evangelizzazione in grado di favorire l’esperienza liberatrice nell’incontro con Gesù. 

    … e dall’opera ospedaliera 

    22. Nelle opere ospedaliere si incarna la missione guaritrice di Gesù. Attualmente, la Congregazione esprime la sua missione attraverso una vasta gamma di strutture sanitarie e sociali, nelle quali si evidenzia una crescita graduale sotto l’ aspetto umano e profetico. L’Istituzione ha sviluppato la sua abilità e specializzazione soprattutto nel mondo della sofferenza psichica, a riprova del dinamismo creativo del carisma. 

    Come Istituzione nella Chiesa, lavoriamo affinché la persona malata ed emarginata si possa sentire membro prediletto. Collaboriamo al suo arricchimento morale facendo in modo che la missione guaritrice di Gesù venga accolta come Buona Novella nella «civiltà umana universale»27. Realizziamo questa esemplarità evangelizzatrice se mettiamo in pratica i criteri di orientamento della nostra missione, (Direttorio, 62.2) se ci impegnamo a portarli avanti e se continueremo ad orientarci verso i più bisognosi nel carisma. Offriamo la nostra testimonianza come espressione di verità, la giustizia come segno di fraternità sia all’interno che all’esterno dell’Istituzione.  

    La nostra gestione economica è volta al maggior bene del malato, il nostro impegno ad approfondire i principi dell’etica cristiana applicati a situazioni spesso lontane dall’ autocoscienza, autonomia e libertà umana. Le nostre opere sono una presenza in rete dello stesso carisma ma poste in realtà diverse, che richiedono traduzioni interculturali concrete. Ciò significa agire con unità e centralità nelle cose essenziali, ma con grande autonomia nello sviluppo di ciascun contesto ed opera. 

    Promuovere una comunità ospedaliera che sia luogo di incontro e di discernimento per la missione 

    OPZIONI

    6 Approfondire la dimensione eucaristica del servizio ospedaliero.

    7 Potenziare le comunità radicate nella Parola di Dio.

    8 Promuovere, nella formazione iniziale, il nostro modello formativo che formi e fortifichi la persona e la sua identità vocazionale e carismatica.

    9 Offrire ai giovani l’annuncio esplicito di Gesù Cristo e la proposta a seguirlo arricchita dal servizio ai malati.

    10 Rivedere le strutture di governo e comunitarie. 

    Sotto il dominio dello Spirito 

    23. La serena scena di Pietro che annuncia la Buona Novella del regno, compiutasi in Gesù di Nazaret, è improvvisamente interrotta dall’irruzione dello Spirito Santo. Pietro non ha ancora terminato il discorso quando lo Spirito avvolge «tutti coloro che ascoltavano la Parola» (v. 44). È un’ azione impetuosa che non si può arrestare, come un boato fragoroso («scese»: v. 44); è una manifestazione «inconsueta», nel senso che non aspetta il suo tempo: lo Spirito si «diffonde sopra i pagani» (v. 45) senza essere stato invocato e senza che questi abbiano espresso la loro conversione. Lo Spirito è un «dono» autentico» (v. 45) e allo stesso tempo il vero regista della scena: a Gesù ha concesso il potere di sconfiggere e assoggettare il demonio, liberando coloro che ne sono schiavi (v. 38); ai pagani permette di abbattere il muro che li separava dai giudei e li integra nella nuova comunità del Risorto vincendo i dubbi di Pietro. Ad egli non resta altro che obbedire (v. 47): lo Spirito dirige ogni cosa, tutto si svolge sotto il suo dominio. 

    Il convertitore convertito 

    24. Nel vedere che il dono dello Spirito Santo era stato diffuso sui pagani, «i fedeli circoncisi che erano venuti con Pietro si meravigliarono» (v. 45). Non si aspettavano una pentecoste per i pagani identica a quella che avevano vissuto a Gerusalemme: «Questi hanno ricevuto lo Spirito Santo come noi»: (v. 47). L’irruzione dello Spirito ammutolisce Pietro e scioglie la lingua ai pagani che iniziano a «glorificare Dio» (v. 46). Il racconto termina con la conversione dei pagani e con il cambiamento di mentalità di Pietro e dei suoi compagni che ancora non credevano che chi non appartiene al popolo eletto possa partecipare pienamente alla salvezza, e al dono dello Spirito Santo.  

    Solo ora Pietro comprende pienamente ciò che stava vivendo mediante le visioni e gli incontri: «(..) Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo» (Atti 10,28).

    La volontà  redentrice di Dio ridisegna i criteri di appartenenza al suo popolo. Pietro riconosce di non poter frapporre ostacoli a Dio perché Egli «non fa distinzione di persone, ma chi lo teme e pratica la giustiza, a qualunque popolo appartenga, è a Lui accetto» (v. 34). Di conseguenza accetta di essere parte di una nuova comunità e si ferma alcuni giorni (v. 48) nella casa di coloro che precedentemente considerava impuri. 

    Un carisma da condividere 

    25. Anche a noi, oggi, capita di vivere qualcosa di simile. Lungo il cammino che stiamo percorrendo insieme, noi suore e collaboratori, scopriamo che il carisma dell’ospitalità è un dono dello Spirito la cui finalità universale è il bene dell’umanità: «è incoraggiante sapere che la ricchezza dell’universalità della famiglia ospedaliera continua a crescere. Al suo interno vi è una grande pluralità la cui causa comune è il malato; è lui che ci unisce.  

    I collaboratori scoprono il dono del carisma quando affermano: «abbiamo ricevuto un grande dono attraverso la contemplazione del malato come destinatario diretto del nostro servizio. Grazie a lui i nostri compiti quotidiani acquistano una dimensione trascendentale». La missione ospedaliera si trasforma gradualmente in un’esperienza carismatica. Oggi, per «missione condivisa intendiamo non soltanto la proposta di uno spazio di lavoro concreto, ma soprattutto uno spazio di comunione, dove ci si può sentire parte di uno stesso carisma». Ognuno di noi, suora o collaboratore, interpreta lo spartito del carisma con un suo personale strumento, cercando di riprodurre una crescente armonia con una sola finalità: eseguire la migliore melodia «Buona Novella di Dio» per l’uomo che soffre. 

    Suore e collaboratori: i punti di un cammino secolare 

    26. Nel Capitolo generale, in cui abbiamo deciso di affrontare il tema della missione ospedaliera come Buona Notizia della guarigione di Dio per l’uomo di oggi, è necessario approfondire un aspetto che fin dal 1980 è diventato sempre più importante: la presenza di persone che lavorano nell’opera ospedaliera e che non appartengono alla comunità religiosa. 

    La collaborazione dei laici è stata una costante nella storia della nostra Congregazione. Padre Menni ne fu il promotore, cercando medici competenti che contribuissero al processo terapeutico con la loro competenza tecnica e scientifica28 e quanti, attraverso la loro professione, potessero collaborare al progetto ospedaliero29. 
     

    Terza parte.  

    Ospitalità: una chiamata a costruire il Regno 

    28 L’affanno di assicurare un’assistenza qualificata ci spiega la sua apertura

    verso il personale medico: «quando mori il dottor Rodrigo, direttore del Sanatorio

    di Ciempozuelos, P. Menni volle a tutti i costi cedere la direzione al miglior

    psichiatra di Spagna. Fece una serie di consultazioni giungendo alla conclusione che il miglior psichiatra era il dottor Luís Simarro docente di Psicologia Sperimentale presso l’università di Madrid. Ma gli dissero che questo signore, essendo un grande medico nella sua specializzazione, era ateo e apparteneva alla Massoneria spagnola del Grande Oriente. Padre Menni rispose che prima di tutto veniva l’amore per i malati e che non aveva bisogno di catechisti perché già disponeva di religiosi» (SACRA CONGREGATIO PRO CAUSIS SANCTORUM, Beatificationis et canonizationis servi Dei Benedicti Menni, Positio Super Virtutibus, vol. II, Roma 1981, p. 894: Testimonianza del Dr. José Álvarez Sierra). 

    29 Cfr. Lettera 591, alla Superiora generale, 24 novembre 1904; VICENTE

    CARCEL, Storia della Congregazione, Città del Vaticano 1988, p. 55.

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    Questa partecipazione si è sviluppata gradualmente e costantemente nel corso della nostra storia, imprimendo un valore crescente alla complementarietà tra l’azione religiosa e quella laica allo scopo di offrire un’assistenza integrale e di qualità in accordo con la cultura ospedaliera e in linea con i progressi scientifici.  

    Questa integrazione ha subito un maggiore impulso non solo a causa della diminuzione del numero delle suore, ma anche per l’esigenza profetica del carisma e per la consapevolezza di una maggiore partecipazione e responsabilità dei laici nella comunione e nella missione della Chiesa.

    Al fine di promuovere una maggiore sensibilità, nel 1987 fu proclamato l’anno dei collaboratori30. Il XVI Capitolo generale (1988) segnò un passo avanti, esortandoci affinché: «Religiosi, collaboratori e volontari dobbiamo integrarci nella missione di servizio al malato, centro della nostra azione, divenendo segno di comunione »31. 

    Per proseguire lungo questo cammino di corresponsabilità ed integrazione, nella realizzazione della missione, fu decisivo il XVII Capitolo generale, che rafforzò l’importanza del crescere nell’identificazione con la cultura e i valori ospitalieri come vengono definiti nel Progetto Ospedaliero Integrale32. Si rafforzò la convinzione che i collaboratori «sono chiamati a essere i continuatori non solo delle attività ma anche dello spirito e del carisma dei nostri Fondatori»33, rispondendo, mediante la loro partecipazione attiva nella Chiesa, alle esigenze della loro propria vocazione. 

    In questo senso, si assunse l’impegno di condividere l’identità carismatica con alcune persone capaci di costituire un’associazione ispirata e animata dallo spirito della Congregazione come laici integrati nella Chiesa.34. Nel 1988 si pubblicò il documento Laici Ospedalieri per dare slancio a questo cammino e aiutare quei laici che desiderassero vivere «condividendo il dono dello spirito in piena responsabilità»35. 

    Il XVIII Capitolo generale (2000) promosse il processo della Missione Condivisa partendo da un maggiore coinvolgimento dei collaboratori nel carisma, nella missione e nella spiritualità, proponendo l’immagine evangelica della vite e dei suoi diversi rami a fondamento di questa partecipazione36. 

    Spiritualità  della collaborazione nell’ottica dell’irruzione del Regno 

    27. La crescente laicizzazione della società e l’universalità della Congregazione ci stimolano a collaborare non solo con i cattolici ma anche con persone appartenenti ad altre religioni, persone di buona volontà anche se prive di una visione di fede37. 

    Il processo di discernimento capitolare si sviluppa lasciandosi guidare dalla narrazione della missione guaritrice di Gesù quale espressione dell’irruzione salvifica del Regno di Dio. Il racconto biblico dell’incontro tra Pietro e Cornelio ci mostra la natura accogliente di questo Regno, di cui solo Dio può determinarne i confini o scegliere i sudditi. 

    Noi crediamo che ogni genere di collaborazione alla guarigione, per amore della persona sofferente, offerta mediante le nostre strutture, sia una manifestazione esplicita o implicita della misteriosa presenza del Regno. È quanto sta scritto nella nostra tradizione spirituale: chi desidera «avere in eredità la vita eterna» (Lc 10,25) deve assumere l’atteggiamento del Samaritano (un mezzo pagano), ovvero l’attitudine alla misericordia compassionevole verso tutte le persone dimenticate ai margini della strada. Ne sono testimoni i laici che hanno partecipato al discernimento capitolare: «in questo processo trasversale di comprensione del volto umano come vera manifestazione di Dio sia da parte dei laici che dei religiosi, si radica l’autentica presenza rivoluzionaria della Buona Novella». 

    Consideriamo collaboratori38 le persone che, lavorando nelle nostre opere, collaborano alla costruzione del Regno sebbene non siano pienamente consapevoli e che così facendo contribuiscono alla realizzazione storica della missione salvifica di Gesù. Ponendosi inoltre al servizio dei poveri e dei malati riceveranno, al termine del tempo «l’eredità del Regno» preparato per loro «fin dalla creazione del mondo» (Mt 25,31-46). La nostra missione e la loro collaborazione troveranno la piena verità solo nella rivelazione escatologica39.  

    Utilizziamo il termine di «laici ospedalieri» per «coloro che credendo assumono la loro vocazione di laici nella Chiesa e nel mondo, e che non solo vogliono vivere il carisma, la spiritualità e la missione ospedaliera, ma desiderano anche giungere a instaurare un rapporto istituzionalizzato di vincolo con la Congregazione»40, sebbene non lavorino nelle sue opere. 

    È importante quindi che la comunità religiosa sia disposta a spogliarsi della pretesa di essere l’unica mediazione storica capace di rendere presente la missione salvifica di Gesù. Guidati dallo Spirito, accettiamo di accogliere e riconoscere con gioia e libertà interiore tutti coloro che, anche senza saperlo, appartengono a quella nuova realtà di Dio che noi chiamiamo Regno, alla cui costruzione essi contribuiscono. Insieme saremo «buona novella» che Dio continua a proporre la sua salvezza all’uomo di oggi. 

    Nel XIX Capitolo generale inizia una nuova tappa del nostro cammino ospedaliero, nel quale vogliamo dare impulso alle seguenti azioni dinamiche: rafforzare l’identità, la qualità integrale, le nuove necessità, le collaborazioni in rete e la comunicazione. 

    I Fratelli Karamazov, definisce l’inferno come «il tormento di non avere assolutamente niente e nessuno da amare».

    40 Laici Ospedalieri, p. 44. con molta chiarezza nella parte precedente lo

    stesso documento afferma: «La collaborazione è con tutti. Però  nel parlare di

    laici in senso stretto non ci riferiamo a tutti i collaboratori. Laico è per definizione una figura ed un termine teologico ed ecclesiale. Non parliamo di

    semplici professionisti ma di laici membri del Popolo di Dio, ai quali, attraverso la fede comune e la comune appartenenza alla Chiesa, noi offriamo una partecipazione speciale al nostro carisma e alla missione ospedaliera». MISION HOSPITALARIA italiano 8/9/98 19:36 Página 57 

    Rafforzare l’identità istituzionale 

    28. Le nostre opere, mediazione storica per realizzare la missione evangelizzatrice verso la cura e l’assistenza integrale al malato, secondo lo spirito dei nostri fondatori, hanno una propria identità e cultura che si esprimono con i valori e lo stile che ci caratterizzano. Il numero crescente di collaboratori che partecipano alla nostra azione apostolica ci porta ad approfondire e condividere la cultura «della nostra Congregazione al fine di offrire un servizio ospedaliero migliore» (Cost. 67), garantendo la sua specifica identità. 

    Condividere la stessa missione ci richiede di: sviluppare spazi di formazione e riflessione che favoriscano l’identificazione di tutti coloro che collaborano con la cultura e la nostra missione; assicurare un processo adeguato di integrazione e orientamento dei collaboratori nelle funzioni di responsabilità, attraverso una chiara definizione del loro profilo, conciliando competenza professionale ed identificazione con la cultura ospedaliera. 

    Si avverte inoltre, la necessità di definire gli «indicatori che ci permettano di valutare l’autenticità ospedaliera dei nostri progetti». 

    Promuovere un progetto ospedaliero di qualità 

    29. La qualità è un obiettivo istituzionale ma anche una necessità, data la natura evangelizzatrice della nostra azione apostolica. L’annuncio della Buona Novella dell’ospitalità è più credibile se è in grado di offrire un’assistenza integrale capace di coniugare scienza ed umanizzazione (Directorio, 62.2). Fin dalle origini, il nostro servizio ospedaliero è stato orientato in questa prospettiva, cercando di applicare i mezzi tecnici, terapeutici e umani che ci permettano di assicurare la migliore assistenza al malato. 

    Negli ultimi anni, abbiamo migliorato l’assistenza e la qualità di vita del malato, adattando le nostre strutture, diversificando e specializzando i servizi, insistendo sulla riabilitazione e reintegrazione dei malati, sempre secondo il nostro principio di centralità del malato. 

    La crescita della qualità integrale comporta, da parte nostra, una maggiore specializzazione a favore dei destinatari. A partire dal riconoscimento della dignità del malato, il nostro impegno è quello di stabilire un equilibrio stabile tra gli obiettivi e i mezzi a nostra disposizione, portando avanti la ristrutturazione e la riorganizzazione delle Opere, potenziando la qualità e l’innovazione. 

    Tutto ciò ci stimola a ricercare un sempre maggiore inserimento a livello sociale, che ci consenta di avvicinarci maggiormente alle situazioni di disagio ed emarginazione, anche attraverso strutture più comunitarie. Per poter offrire il meglio al malato, è necessario «l’equilibrio tra l’eccelenza nella gestione, il servizio di qualità, la funzionalità e l’autofinanziamento delle Opere». 

    La sfida più grande che ci attende è quella di unificare i criteri organizzativi, amministrativi e di gestione, ottimizzando le risorse finanziarie, strutturali e umane. La responsabilità di garantire l’identità ed il futuro delle nostre Opere, ogni giorno sempre più complesse ed impegnative, ci spinge ad individuare norme idonee a stabilire nuove modalità di gestione, partecipazionee delega. 

    Avvicinarsi alle nuove situazioni di sofferenza, emarginazione e povertà 

    30. Il nostro Carisma ci chiede di essere presenza profetica attraverso il servizio e la dedizione verso chi si trova in condizioni di emarginazione e povertà. Il Regno, alla cui costruzione collaboriamo con la nostra missione, diffonde il suo messaggio di libertà e la sua forza liberatrice, proprio nei luoghi dove la vita umana è maggiormente minacciata. Oggi, le nuove povertà mettono alla prova la nostra capacità creativa: «è tempo per una nuova ‘idea della carità’, che sia promotrice non solo di aiuti materiali, ma soprattutto di vicinanza e solidarietà a coloro che soffrono, affinché il gesto di aiutare non sia sentito come un «umiliante elemosina» ma, al contrario sia un gesto di condivisione fraterna»41. I malati ci aiutano a scoprire i nuovi orizzonti della nostra missione e ci sfidano a individuare quelle risposte che diano un segnale della presenza del Regno, assumendo «atteggiamenti profetici in campo sanitario e sociale» (Direttorio, 62.2). 

    Rispondere alle «nuove forme di emarginazione esige, da parte nostra, anche la volontà di collaborare con altre istituzioni per affrontare i problemi con un’ottica multidisciplinare». È necessario consolidare la cooperazione con i paesi in via di sviluppo, dotati di minori risorse, nei quali la nostra Congregazione è presente, aprendo sempre di più i nostri progetti alla partecipazione solidale dei collaboratori. 

    Organizzare sistemi per la collaborazione in rete… 

    31. La chiamata a costruire il Regno, a partire dalla nostra identità e missione, ci sprona verso una globalizzazione dell’ospitalità. La profonda comunione nel carisma ci spinge a ricercare un metodo di funzionamento più coordinato, ed esige un’organizzazione in rete che coinvolga tutti i livelli, in modo che le strategie di intervento adottate confluiscano in una complementarietà di risorse ed in un’azione concordata a livello istituzionale. 

    Oggi, questa dimensione è divenuta imprescindibile per lo sviluppo presente e la vitalità futura delle nostre opere. Si rende necessario avviare e consolidare sistemi di collaborazione e scambio tra i centri, le province e la Congregazione. Condividere le conoscenze, l’esperienze ed i progetti può rivelarsi un mezzo di arricchimento della missione, di rafforzamento dell’identità e di ottimizzazione delle risorse esistenti. Riconosciamo come fondamentale il potenziamento di una connessione più attiva con le strutture ecclesiali, sociali e accademiche. 

    Attivare la comunicazione globale 

    32. In un mondo in cui la comunicazione e l’informazione divengono sempre più indispensabili, diventa necessario formulare un progetto di ospitalità con coordinate più universali, utilizzando nuove forme di evangelizzazione. Come Cristo «che andava per città e paesi annunziando la Buona Novella del Regno di Dio» (Lc 8,1), anche noi dobbiamo annunciare la Buona Novella mediante una presenza congregazionale che utilizzi mezzi di informazione e comunicazione qualificati. «Se vogliamo continuare ad essere presenti in una società come la nostra, complessa, mediatica e digitale, con i suoi portali internet, dobbiamo essere anche corporativamente presenti nei mezzi di comunicazione per poter diffondere di più e meglio la nostra missione e il nostro carisma». 

    Le nuove tecnologie ci permettono di diffondere la nostra azione apostolica a livello congregazionale, ecclesiale e sociale. Abbiamo bisogno di sviluppare percorsi più agili che ci permettano di capitalizzare e condividere l’esperienza pluriennale in materia di ospitalità, assumendo, a livello ecclesiale, la nostra presenza in ambito sanitario, rivelando il volto di Dio che guarisce e libera le persone. 

    A livello sociale, non solo è fondamentale potenziare l’informazione istituzionale ma è anche necessario promuovere la salute, favorendo la cultura della vita e risvegliando la coscienza sociale nei confronti della malattia psichica. Attraverso questi mezzi, possiamo aiutare i malati e le loro famiglie affinché trovino le risorse più adeguate alle loro esigenze. 

    Potenziare il processo di integrazione istituzionale e scoprire nuove prospettive per la realizzazione della missione 

    OPZIONI 

    11 Studiare e creare nuove modalità di gestione, organizzazione e governo delle Opere Ospedaliere.

    12 Strutturare, a livello generale, il processo di cooperazione nei progetti di solidarietà della Congregazione.

    13 Promuovere la dimensione evangelizzatrice delle istituzioni ospedaliere. 
     

    1. Formulare il tratto distintivo dell’identità dell’Istituzione 

    È necessario esplicitare l’identità del progetto ospedaliero nella realtà dell’Opera Ospedaliera, delineandone i tratti specifici da cui deve emergere chiaramente «chi siamo, cosa facciamo, perché lo facciamo e come lo facciamo».

    Questa procedura di aggiornamento e concretizzazione del codice identificativo e dei suoi principi, deve essere punto di riferimento comune per le politiche di direzione, organizzazione e gestione in tutti i luoghi dove la Congregazione è presente.

    2. Promuovere la cultura ed i valori dell’istituzione nella vita quotidiana dei centri

    Proseguendo lungo la linea tracciata nel sessennio precedente, in relazione all’identificazione, formulazione e diffusione dei valori ospedalieri (Missione condivisa, XVIII Capitolo generale), si intende, ora, proporne la realizzazione pratica potenziando lo sviluppo dell’Ospitalità e dei suoi valori in tutta la comunità ospedaliera.

    3. Promuovere il senso di appartenenza alla comunità ospedaliera

    È necessario che tutti gli appartenenti alla comunità ospedaliera si sentano parte dello stesso progetto. La realizzazione di incontri, la formazione comune e l’informazione a tutti i livelli, locali, provinciali, generali, rafforzano l’identificazione e l’ unità. 

    4. Aggiornare e sviluppare il modello organizzativo e gestionale

    L’evoluzione dell’istituzione e il suo adeguamento alle esigenze odierne, richiede di aggiornare la definizione dei principi organizzativi, le responsabilità, la presa di decisioni ed il profilo dirigenziale. Sarà quindi indispensabile formulare un modello coerente con l’identità ospedaliera, il rispetto della legalità e dell’etica, l’equilibrio crea eccellenza ed equità, autonomia e coordinamento delle istanze organizzative e la cooperazione della comunità ospedaliera.

    5. Promuovere una gestione efficiente attraverso strumenti e metodi di pianificazione

    Questo obiettivo richiede lo sviluppo e l’adozione di sistemi informativi (non solo informatici), adatti alla gestione delle diverse aree: assistenza, risorse umane, economica-finanziaria, ecc. Tutto ciò può essere realizzato attraverso l’uso di una metodologia moderna di pianificazione e controllo, e con la definizione di indicatori adeguati alla valutazione.

    6. Potenziare le sinergie tra le province e i centri

    La comunicazione e il lavoro di squadra mettono a frutto gli sforzi, potenziando i legami ed aumentando le probabilità di successo. A partire quindi, dalle iniziative portate avanti nel sessennio precedente, si propone di promuovere le sinergie (comprese quelle economiche) mediante la collaborazione provinciale ed interprovinciale.

    7. Dare alla qualità una focalizzazione trasversale che coinvolga le politiche e i sistemi gestionali

    Lo sviluppo della componente ospedaliera della qualità, richiede una prospettiva propria, integrale e differenziata (valori e cultura ospedaliera), che implichi una focalizzazione trasversale e che estenda i suoi principi all’elaborazione ed attuazione delle politiche relative (assistenziale, risorse umane, organizzazione, sistemi, infrastrutture, etc.). 

    B) ASSISTENZA OSPEDALIERA 

    8. Consolidare il modello assistenziale ospedaliero

    L’assistenza integrale della persona si caratterizza per il suo essere accogliente, rispettosa, personalizzata, interdisciplinare e di qualità, sostenuta dai progressi scientifici e tecnici, e per la particolare attenzione all’etica (sia sotto l’aspetto clinico che organizzativo). Essa promuove il lavoro di gruppo, il reinserimento sociale e la continuità delle cure. 

    9. Sviluppare la pastorale integrata nell’attività assistenziale

    La prospettiva ospedaliera dell’assistenza comporta la graduale integrazione dell’azione pastorale nel servizio agli ammalati. Pertanto, è necessario continuare ad accentuarne il suo carattere evangelizzatore e la sua dimensione umanizzante, aprendosi alle diverse situazioni personali dei pazienti e dei loro costumi, a seconda del paese, cultura e credo a cui appartengono.

    Data la complessità del lavoro da svolgere, è necessario ampliare la formazione delle persone responsabili.  

    10. Rispondere in modo integrale e reale alle emergenze e alle necessità locali

    Oltre allo sviluppo dell’assistenza e delle terapie, l’ospitalità, sin dalle sue origini, si è distinta per la sua capacità di individuare le nuove necessità e dare loro una risposta, grazie anche al suo carattere promotore, innovatore e creativo. Data la sua presenza attiva nella società moderna, il modello ospedaliero deve confrontarsi anche con altre realtà simili, come le amministrazioni pubbliche, al fine di coniugare risposte congiunte ed integrate alle esigenze ed emergenze assistenziali del luogo. 

    11. Promuovere ed integrare l’insegnamento e la ricerca quale parte del modello assistenziale 

    Nel modello assistenziale, l’insegnamento e la ricerca occupano un posto di rilievo, sebbene la loro realizzazione in pratica si attui seguendo diversi livelli di sviluppo. La promozione istituzionale di entrambi i settori, esige un maggiore coinvolgimento nella partecipazione ai progetti, l’assegnazione di risorse e la creazione di strutture proprie in grado di assicurare un adeguato

    progresso dei professionisti e dell’Istituzione stessa. 

    C) RISORSE UMANE 

    12. Sviluppare politiche e progetti relativi alle Risorse Umane  

    Le politiche relative alle risorse umane devono configurarsi come uno strumento strategico basilare per il progresso dell’opera ospedaliera. Bisogna promuovere attivamente l’identificazione con l’Istituzione e l’impegno reciproco.

    13. Sviluppare la comunicazione interna e gli ambiti di corresponsabilità 

    I processi attivi di cambiamento e trasformazione dell’Istituzione richiedono la creazione di nuovi canali di comunicazione e una redistribuzione dei compiti e delle responsabilità interne, tali da consentire una maggiore partecipazione dei collaboratori nel progetto istituzionale. 

    L’opera ospedaliera, ogni giorno più complessa, esige un rafforzamento della sua struttura direttiva attraverso l’istituzione di quadri intermedi impegnati nella missione ospedaliera, in grado di gestire, giorno per giorno, le risorse umane e promuovere uno stile di direzione in grado di motivare i collaboratori. 

    14. Istituire un sistema di inserimento, motivazione e valutazione 

    È importante disporre di una politica che garantisca l’inserimento e l’integrazione di persone qualificate, attraverso piani di accoglienza, orientamento e valutazione delle prestazioni. È importante, allo stesso tempo, applicare sistemi di motivazioni che servano da stimolo ed infondano fiducia ai membri della comunità ospedaliera. 

    15. Realizzare la formazione continua a tutti i livelli dell’Istituzione 

    È fondamentale promuovere la gestione della conoscenza attraverso programmi di formazione continua, favorendo lo scambio, la crescita professionale e il senso di appartenenza dei collaboratori all’Istituzione. 

    D) GESTIONE ECONOMICO-FINANZIARIA 

    16. Promuovere una politica economico-finanziaria e patrimoniale che garantisca la continuità e lo sviluppo dell’opera ospedaliera. 

    Tenuto conto della complessità degli scenari economici, si rende necessario elaborare alcuni criteri «di base» adattabili alle diverse realtà provinciali, protocollare le politiche, i beni e i criteri comuni che le sostengono. 

    È opportuno chiarire gli obiettivi, il grado di esigibilità e i principi delle politiche gestionali patrimoniali, soprattutto per quanto riguarda le risorse umane e gli investimenti. 

    17. Promuovere la professionalizzazione nell’ambito della gestione di Risorse Umane Conviene continuare ad investire nella professionalizzazione della gestione economico-finanziaria, promuovendo una gestione condivisa delle risorse sia a livello provinciale che interprovinciale, individuando i servizi che possono essere gestiti congiuntamente. 

    E) COMUNICAZIONE ESTERNA 

    18. Inserire la comunicazione quale elemento chiave della cultura ospedaliera 

    È opportuno promuovere, articolare e consolidare iniziative in favore della comunicazione esterna, quale componente fondamentale della cultura ospedaliera.

    Pertanto, si ritiene fondamentale una visione integrale della comunicazione, (soprattutto in relazione ai collaboratori, ad altri enti di nostro interesse, alla società, ecc), quale strumento al servizio dell’Opera, a partire dai principi che integrano il Progetto Ospedaliero. 

    19. Progettare e realizzare programmi corporativi di comunicazione 

    È necessario elaborare in modo strategico il messaggio pubblico dell’opera ospedaliera, con i suoi obiettivi di congregazione e le caratteristiche carismatiche specifiche da diffondere a livello locale. È opportuno analizzare l’immagine che vogliamo comunicare e quella che invece viene effettivamente percepita.

    Il progetto di comunicazione esterna deve ispirare ed integrare gli ambiti Generali, Provinciali e Locali.

    VALUTAZIONE

    Tutta l’attività deve essere valutata. L’esame periodico del grado di sviluppo degli obiettivi, permette di prendere delle decisioni correttive e di rivedere i progressi compiuti, al fine di ridefinire le opzioni per il futuro. Per facilitare il raggiungimento di questi «obiettivi strategici» stabiliti per il prossimo sessennio 2006-2012, è necessario: 

    1. Realizzare una valutazione iniziale in ogni centro ed in ogni provincia

    2. Individuare degli indicatori che consentano una valutazione efficace. 

    Il Governo generale elabora gli indicatori corrispondenti. In ogni Provincia, una commissione o gruppo di lavoro creato appositamente, stabilisce il modo e la metodologia di valutazione da applicare nei propri centri e in tutta la provincia. 

    È molto importante conoscere il punto di partenza, in relazione a ciascun obiettivo da raggiungere, al fine di programmare azioni adeguate che ne facilitino il raggiungimento. 

    Al termine del sessennio, una valutazione più esauriente potrà fornire un resoconto del cammino percorso e rilanciare la programmazione della «Missione Condivisa» verso una nuova meta.

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    CONCLUSIONE

    Dio disse: «Sia la luce», e la luce fu.

    Dio vide che la luce era cosa buona.

    Dio disse: «Ci siano luci nel firmamento

    per illuminare la terra» E così avvenne.

    Dio fece le due luci grandi e le stelle;

    e Dio le pose nel firmamento del cielo per

    illuminare la terra.

    (Cfr. Gn 1,3-4.15-17)

    Le stelle, che godevano di luce propria, si riunirono a migliaia,

    formando la Via Lattea, che attraversa il firmamento in

    una ricerca infinita della sua origine e del suo destino. Per volere

    del Creatore, le stelle si convertirono in centro intorno al

    quale gravitano altre creature che da esse ricevono luce, calore

    e guida: Dio vide che era cosa buona! (Gn 1,18)

    Anche nel cielo dell’ospitalità brillano le stelle: i malati e tutti i destinatari della nostra missione. Essi sono il centro che unifica e riunisce la comunità Ospedaliera. Dio misericordioso e guaritore li ha segnati con i raggi del suo volto – «di poco inferiore ad un dio lo fece» – dotandoli di particolare luce, «incoronandoli di gloria e splendore» (Sal 8,6). 

    La comunità  ospedaliera ha ricevuto la missione di riaccendere le stelle, mediante un’ azione riabilitatrice che illumina anche noi, ci arricchisce ed evangelizza. La sua lucentezza originale si plasma sui nostri volti e sulle nostre vite. «Da dove abbiamo meritato la grazia con la quale il Signore si degna di impiegarci al suo servizio e a sollievo delle sue vive immagini?» (L 406). 

    Ogni volta che assistiamo un malato rendiamo testimonianza, alla Chiesa e alla società, che Dio è vivo e attivo tra i figli più deboli e bisognosi del suo popolo. Attraverso la nostra missione  ospedaliera siamo Buona Novella della guarigione di Dio per l’uomo di oggi in qualunque luogo della terra.

    Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, (Gn 2,2-3). 

    Nel vedere la sua opera compiuta, Dio si rallegrò e si riposò perché l’ affidava in buone mani. A te, a me, a tutta la comunità ospedaliera, appartiene il lavoro del settimo giorno della nostra storia congregazionale. «Coraggio figlie mie, coraggio, il Cielo è nostro: combattete con coraggio sino alla fine» (L 447). 
     
     
     

    ABBREVIAZIONI

    • L Lettere di P. Benedetto Menni alle Suore Ospedaliere

    del Sacro Cuore di Gesù da lui fondate (1883-1913),Viterbo 1993.

    • Cost. Suore Ospedaliere del Sacro Cuore di Gesù, Costituzioni,

    Roma 2000.

    • EN Paolo VI, Esortazine Apostolica, Evangelii Nuntiandi,

    8 dicembre 1975.

    • Perfil Lizaso Berruete F. O. H. (coord.), Perfil juandediano

    del Beato Benito Menni (463 cartas), Granada 1985.

    • RMA Giménez Vera M. Angustias, Relazione sulle origini

    della Congregazione delle Suore Ospedaliere del Sacro

    Cuore di Gesù, Viterbo 1977.

    • VC Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale,

    Vita Consecrata, 25 marzo 1996. 

    INDICE

    Presentazione ……………………………………………………………. 5

    PRIMA PARTE

    OSPITALITÀ: UN CARISMA DA TESTIMONIARE

    1. Il nucleo della prima evangelizzazione ………………… 19

    2. Gesù  unto di Dio e profeta del Regno …………………. 19

    3. La missione messianica di Gesù è una missione

    guaritrice ……………………………………………………………. 20

    4. Ospitalità: evangelizzazione nella guarigione ………. 21

    5. Consacrazione ospedaliera: memoria viva di Gesù . 22

    6. Carisma e Missione: espressione della stessa

    identità  ……………………………………………………………….. 23

    7. A partire dal XVIII Capitolo generale:

    obiettivi… …………………………………………………………… 23

    8. … e orizzonti che si ampliano ……………………………… 24

    9. Centralità  del malato nella prospettiva del Regno .. 25

    10. Verso una spiritualità ospedaliera a partire

    dall’irruzione del Regno ……………………………………… 26

    a) Il Regno è di Dio …………………………………………….. 26

    b) Il Regno fermenta la storia ……………………………….. 27

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    c) Il Regno si annuncia agli emarginati …………………. 27

    d) Il Regno come incontro di gioia ……………………….. 28

    e) Il Regno è motivo di rifiuto ………………………………. 29

    f) Il Regno esige di donare la vita …………………………. 30

    SECONDA PARTE

    OSPITALITÀ: UNA MISSIONE DA CONDIVIDERE

    11. Eletti dalla comunione con il Risorto ………………….. 35

    12. La comunità luogo di elezione missionaria… ………. 35

    13. … e di comprensione delle Scritture ……………………. 36

    14. Comunità  radicate nella Parola …………………………… 37

    15. Eucaristia cultuale ed Eucaristia della carità ……….. 38

    16. La guarigione è un segno pasquale ……………………… 39

    17. Comunità eucaristiche ………………………………………… 40

    18. Il Martirio della carità ………………………………………… 41

    19. Comunità, luogo di annuncio e testimonianza ……… 42

    20. Sfide della formazione ………………………………………… 44

    21. Evangelizzare a partire dalla comunità

    ospedaliera… ……………………………………………………… 45

    22. … e dalle opere Ospedaliere ……………………………….. 46

    TERZA PARTE

    OSPITALITÀ: UNA CHIAMATA

    PER COSTRUIRE IL REGNO

    23. Sotto il dominio dello Spirito ………………………………. 51

    24. Il convertitore convertito …………………………………….. 51

    25. Un carisma da condividere ………………………………….. 52

    26. Suore e collaboratori: punti di un cammino

    centenario …………………………………………………………… 53

    82 Missione ospedaliera: Buona notizia

    Indice

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    27. Spiritualità  della collaborazione nell’ottica

    dell’ irruzione del Regno …………………………………….. 55

    28. Rafforzare l’identità istituzionale ………………………… 58

    29. Promuovere un progetto ospedaliero di qualità …… 59

    30. Avvicinarsi alle nuove situazioni di sofferenza,

    emarginazione e povertà ……………………………………… 59

    31. Organizzare sistemi di collaborazione in rete ………. 60

    32. Attivare la comunicazione globale ………………………. 61

    QUARTA PARTE

    MISSIONE CONDIVISA:

    OBIETTIVI STRATEGICI 2006-2012

    II. Identità  e cultura ospedaliera ……………………………… 67

    II. Opera ospedaliera ………………………………………………. 68

    a) Organizzazione e gestione ……………………………… 68

    b) Assistenza ospedaliera …………………………………… 69

    c) Risorse umane ……………………………………………….. 71

    d) Gestione economico-finanziaria …………………….. 72

    e) Comunicazione esterna ………………………………….. 73

    Valutazione ……………………………………………………………….. 75

    Conclusione ………………………………………………………………. 77

    Abbreviazioni ……………………………………………………………. 79

    Missione ospedaliera: Buona notizia 83

    Indice

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