kOINONìA

Posted on Febbraio 10th, 2009 di Angelo

La Koinonìa

Tutti coloro che hanno un po’ di familiarità col mondo reigioso hanno sicuramente sentito ripetere più volte questo termine che viene tradotto con “comunione”, anche se la parola italiana non riesce a rendere bene quel senso dell’”essere comuni” che è insito nella parola greca.

Per dare un’idea del suo significato possiamo citare ad esempio la preghiera dopo la comunione che ci è stata conservata da un apocrifo, gli Atti di Tommaso, un libro gnostico del XIII secolo. S tratta di una specie di antifona che dice: “Elthen kaì koinòneson emin”, “Vieni e fa’ comunità, fa’ comunione con noi”.

Partecipre all’eucaristia significa sedere tutti alla stessa mensa a cui è seduto anche il Cristo, e questo, per la comunità di Gerusalemme, significa essere tutti uguali nella maniera più autentica.

Da tale realtà scaturisce un impegno che gli Atti documentano con molta precisione. Nella prima comunità cristiana la comunione con Cristo e la comunione tra i ratelli appaiono inscindibilmente unite. Leggiamo alcune battute soltanto, che sono sufficienti a rendere l’idea”Tutti…(Atti 4, 32-35)

Abbiamo qui la rappresentazione di quello che è stato detto il “comunismo” della Chiesa delle origini, una specie di comunismo utopico che ha un valore relativo come modello (sappiamo infatti che non è stato adottato neppure agli inizi da tutte le Chiese, ma che nasconde nel suo interno un valore assoluto. Al di là dei modelli politici e sociali che potrà fare propri, la comunità cristiana dovrà sempre mantenersi fedele al grande principio dell’identità, dell’uguaglianza, della fraternità. E’ quanto sottolinea continuamente Luca, sviluppando con insistenza il tema del distacco, della lotta alla proprietà, al “mio”, al possesso che divide e innalza barriere tra gli uomini. In tutta l’opera di Luca risuona il canto dell’amore e l’invito continuo a riflettere sul rischio di abbandonare Dio cedendo alle lusinghe di mammona, lasciandosi attrarre dall’idolatria del denaro.

Su questa linea si colloca l’evocazione del libro del Deuteronomio (che pure è un testo molto utopico), a cui Luca allude chiaramente nel brano degli Atti che abbiamo appena letto. “Non vi sarà alcun bisogno in mezzo a voi”, dichiara Deuteronomio 15,4, introducendo la descrizione di un popolo in cui tutti vivono nella gioia a causa della pratica generosa della condivisione fraterna.

Anche se i modelli dovranno essere necessariamente mutevoli, tenendo conto dei contesti sociali, tenendo conto dei contesti sociali diversi in cui sono inserite le comunità, bisogna che i cristiani non perdano questa carica utopica e non si riducano a gretti amministratori, a biechi gestori di strutture. In un mondo che mira sempre di più al minimo, è necessario riportare la tensione verso il massimo. Pur non assolutizzando il modello “comunistico” che ci viene presentato dagli Atti degli apostoli, non dobbiamo dimenticare che in esso si esprime un’esigenza di fondo nascosta come un seme, come una scintilla vitale, all’interno del messaggio cristiano: l’esigenza di fraternità.

A proposito del termine “comunismo” che alcuni studiosi hanno adottato per motivi pratici, è interessante ricordare un’osservazione molto intelligente fatta da Engels, uno dei più grndi padri del marxismo. I primi comunisti francesi, probabilmente a causa della loro formazione cristiana, avevano creduto di riconoscere nella comunità descritta dagli Atti degli apostoli il grnde modello della nostra forma di convivenza politica e sociale che si presenta sotto il nome di “comunismo”. Nel Progresso della riforma sociale (1843) Enghels riprende l’argomento, facendo notare che al di là delle innegabili coincidenze esiste una diversità radicale che costituisce quello che oggi noi chiamiamo lo “specifico” cristiano. Le ragioni fondamentali di quel comunismo, dice Engels, sono profondamente diverse dalle nostre, perché sono ragioni religiose. Alla base della fraternità cristiana si collocano la paternità di Dio e la morte del Cristo per tutti (due motivazioni che dvrebbero rendere ancora più incandescente la nostra fraternità, cosa che invece spesso non avviene).

A quelle due ragioni fondamentali Luca aggiunge anche la comunione eucaristica. Ricordiamo ciò che scrive Paolo ai cristiani di Corinto: se nella comunità ci sono divisioni eccessive, , se ci sono grandi ricchi e poveri all’ultimo livello, voi non dovete celebrare l’eucaristia, perché non siete ancora una comunità degna di cibarsi del corpo del Cristo (cf.1Corinzi 11, 17-34). Abbiamo qui un atto di accusa severo nei confron ti delle Chiese di tutti i tempi, che devono trovare in queste parole una spinta a convertirsi a un’autentica fraternità.

Sempre nel contesto della teologia della fraternità si colloca l’ultima scena che dobbiamo commentare, una scena famosa, a cui abbiamo già accennato nel capitolo precedente: l’episodio di Anania e Saffira, ossia il peccato di egoismo.

Luca, rifacendosi ai modelli di sterminio dell’antico Israele, che, come è noto, tutta la preda di ogni guerra doveva essere consacrata a Dio attraverso la distruzione totale, e pertanto andava bruciata in olocausto.

Allo stesso modo, dice Luca, i beni che noi abbiamo non sono nostri, ma di Dio, e Dio li distribuisce a tutti. Per questo dobbiamo combattere il desiderio di accumulare che continuamente riaffiora in noi. Non si tratta di un obbligo, come sottolinea Pietro, ma di un invito insito nel messaggio cristiano a una generosità sempre più grande. In tale prospettiva, dietro ai contorni del racconto di una morte vediamo delinearsi chiaramente il racconto di una scomunica, applicata con la lapidazione.

Con l’invito a leggere il passo biblico (Atti 5,5-11) per poter cogliere il senso del fatto. Ciò che Luca fa risuonare in questo racconto terribile è ancora una volta il canto della povertà e del distacco e l’invito pressante a sottrarsi alla tentazione dell’egoismo, il peccato originale dell’uomo, il grave peccato contro lo Spirito, che conduce alla morte.

Sabato ricorrono i 60 anni dalla morte di Georges Bernanos: morì, infatti, a Parigi il 5 luglio 1948. Era nato a nel 1888. Esordì con il romanzo Sotto il sole di Satana e Nuova storia di Mouchette. La fama gli venne con il Diario di un parroco di campagna, da cui fu tratto un noto film di Robert Bresson. Dialoghi delle carmelitane, fu pubblicato postumo nel 1949. A ricordarmi l’anniversario il più bell’inserto culturale dei quotidiani italiani, quello di Avvenire, “Agorà” curato da Roberto Righetto, che domenica 12 giugno ha pubblicato un bellissimo testo da cui sono tratte le righe seguono che voglio condividere con voi.

Mentre l’umanità guarda volare le mosche, non vede restringersi il cerchio dell’orizzonte, discende nella miseria, è aspirata dalla miseria. Il potere della miseria non si giudica dal numero dei miserabili, cioè dal numero d’uomini che mancano assolutamente del necessario. E’ possibile che la società la finisca con la povertà, forse soltanto eliminando a ogni generazione i nati poveri, gli inadatti, gli inadattabili, con una regolamentazione delle nascite e una stretta selezione. Io non credo per niente che riducendo il numero dei poveri si riduca al tempo stesso quello dei miserabili. Io penso al contrario che il misericordioso sacerdozio della povertà fu praticamente stabilito in questo mondo per riscattarlo dalla miseria, dalla feroce e contagiosa disperazione dei miserabili. Se noi potessimo disporre di qualche mezzo per scoprire la speranza come il rabdomante scopre l’acqua sotterranea, è avvicinando dei poveri che noi vedremo torcersi tra le nostre dita la bacchetta di nocciolo.
La povertà non è un uomo che manca, per stato, del necessario, è un uomo che vive poveramente, secondo l’immemoriale tradizione della povertà, che vive giorno per giorno, del lavoro delle sue mani, che mangia nella mano di Dio, secondo la vecchia tradizione popolare. Egli vive non solo dell’opera delle sue mani, ma anche della fraternità degli altri poveri, delle mille piccole risorse della povertà, del previsto e dell’imprevisto. I poveri hanno il segreto della speranza…

Viviamo giorni in cui è importante capire bene la differenza sottolineata da Bernanos tra miserabili e poveri…

Tag:Georges Bernanos, povertà

Omelia nella Veglia Pasquale

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«La luce del Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito». Pronunciando questa parola di benedizione e di augurio, ho acceso il cero pasquale nella liturgia iniziale della luce. Nel buio e nel silenzio della notte ha brillato per prima una sola fiamma, poi molte fiammelle e infine i fari di luce. L’invito alla gioia si è levato nel canto. «Esulti il coro degli angeli, esulti l’assemblea celeste, un inno di gloria saluti il trionfo del Signore risorto. Gioisca la terra inondata da così grande splendore; la luce del Re eterno ha vinto le tenebre del mondo. Gioisca la madre Chiesa, splendente della gloria del suo Signore e questo tempio tutto risuoni per le acclamazioni del popolo in festa».

Alla liturgia iniziale della luce ha fatto seguito la liturgia della parola. Sette letture dell’Antico Testamento hanno richiamato alla nostra attenzione lo sviluppo della storia della salvezza dalla creazione, al sacrificio di Abramo, al passaggio del Mar Rosso, alle promesse fatte da Dio attraverso i profeti. Quindi due letture del Nuovo Testamento con l’annuncio della risurrezione di Cristo, fondamento della nostra risurrezione e salvezza, due letture accompagnate dall’esplosione gioiosa del Gloria e dell’Alleluja pasquale.

Due angeli in vesti sfolgoranti, accanto al sepolcro di Gesù, aperto e vuoto, diedero alle donne quella lieta notizia, che ora è stata ripetuta per noi: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato […] Bisognava che il Figlio dell’uomo fosse consegnato in mano ai peccatori, che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno». “Bisognava” (che fosse crocifisso e risuscitasse il terzo giorno), secondo il disegno di Dio, già adombrato nelle Scritture dell’Antico Testamento. L’apostolo Paolo dirà nella prima lettera ai Corinzi: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture» (1Cor 15,3-4). In questo modo Dio ci ha procurato il Salvatore, santo, innocente, perfetto nell’amore, capace di capire e perdonare, vittorioso sull’errore, sul peccato, sulla morte, su ogni potere di Satana. La sua risurrezione è l’inizio della nostra risurrezione. Se ci uniamo a lui con la fede, noi diventiamo capaci di amare Dio e gli uomini di vero amore e di vedere nella morte, che ogni giorno si avvicina, la porta della vita eterna. «Festa di guarigione / dal gelo e dalla morte», definisce la Pasqua il nostro grande poeta Mario Luzi. Guarigione dal gelo della solitudine e dell’egoismo, dall’angoscia mortale della disperazione e del nulla. Già adesso la liturgia battesimale e la liturgia eucaristica, che stiamo per celebrare, ci fanno partecipare alla vita nuova del Risorto mediante la comunicazione dello Spirito Santo.

Il cristiano non può che essere gioioso. A Gerusalemme i primi credenti lodavano Dio, si amavano come fratelli, erano traboccanti di gaudio, anche in mezzo alle persecuzioni, «lieti di essere oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41). Alla fine del IV secolo Sant’Agostino ci informa che la notte di Pasqua i cristiani non dormivano perché celebravano solennemente la Veglia con il battesimo dei neofiti; ma dormivano poco anche i pagani, inquieti al pensiero che il giorno dopo avrebbero incontrato i nuovi battezzati raggianti di felicità, quasi trasfigurati.

Come mai allora nella cultura moderna si sentono spesso voci che accusano il cristianesimo di amareggiare e intossicare la vita? «Cruciato martire,» – dice a Cristo Giosuè Carducci – «tu cruci gli animi / e di tristezza l’aer contamini». Ancora più duro è il poeta e drammaturgo norvegese Enrico Ibsen nei confronti di Gesù, additato come «Il Galileo che schiaccia la gioia umana, i cui templi escludono il sole», «Il nemico della gioia dalle mani esangui». Come mai queste accuse? Come mai oggi affiora qua e là perfino una certa nostalgia dell’antico politeismo pagano?

C’è da pensare che non siamo abbastanza cristiani, pur portando questo nome. «Il contrario di un popolo cristiano» – ammonisce lo scrittore cattolico francese George Bernanos – «è un popolo triste, un popolo di vecchi». Egli non fa altro che echeggiare l’antica tradizione della Chiesa, dove troviamo scritto che «la tristezza è la più malvagia di tutte le passioni, dannosissima ai servi di Dio, perché rovina l’uomo e scaccia da lui lo Spirito Santo» (Erma , Il Pastore). La tristezza, intesa come sfiducia, pigrizia spirituale, noia, indifferenza e vuoto interiore, a volte veniva identificata con il demonio del mezzogiorno, annidato nel tempo della vita che dovrebbe essere più consapevole e più creativo (cf. Evagrio Pontico). Viceversa la gioia, secondo San Tommaso d’Aquino, «è la forza che muove la vita, l’anima del dinamismo: dilata lo spirito, moltiplica le energie, sostiene l’entusiasmo, fa operare con diligenza e attenzione». Dobbiamo allora ritrovare le motivazioni della gioia cristiana. «Rallegratevi nel Signore, sempre;» – insisteva San Paolo – «ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4-5). Il Signore è risorto! Il Signore è vicino! Ecco il motivo della nostra gioia.

Di una persona raggiante di felicità si suol dire: «E’ contento come una pasqua». E giustamente, perché la Pasqua è il massimo, è la festa più grande e ci mette dentro la voglia di cantare, ci fa sentire liberi, leggeri, in armonia con tutte le cose. Ma non dobbiamo dimenticare che ogni domenica è pasqua, la pasqua settimanale. Ogni domenica siamo chiamati all’incontro con il Signore risorto nella Santa Messa. Poveri noi se consideriamo questo appuntamento come un obbligo in più! Poveri noi, se andiamo in chiesa per forza e senza desiderio, e poi ne usciamo annoiati e spenti! La partecipazione dovrebbe essere così consapevole e intensa, da essere sperimentata ogni volta come un evento di grazia. Dovremmo uscire di chiesa col fuoco nel cuore e la gioia nel volto, pronti a dare testimonianza a tutti con la vita e con la parola. Il mondo di oggi, diceva Paolo VI, può ricevere il Vangelo solo da evangelizzatori, che non siano tristi e scoraggiati, ma che abbiano per primi ricevuto la gioia da Cristo e siano pieni di fervore (cf. EN 75).

Molti di noi sicuramente conoscono le simpatiche storie di Don Camillo e Peppone. Ben pochi però sanno che l’autore, Giovanni Guareschi, era un cristiano di grande fede. Deportato in Germania durante la seconda guerra mondiale e imprigionato per oltre due anni nei campi di concentramento, cercava in mille modi di tenere su il morale dei compagni di prigionia: racconti, poesie, scherzi, preghiere, una creatività inesauribile per prestare quello che egli chiamava “il servizio della speranza”. Tra l’altro, aveva composto una litania, che faceva ripetere ai compagni, con questo ritornello, spiritoso e nello stesso tempo denso di significato: «Non muoio neanche se mi ammazzano»! Possiamo vederci una traduzione originale e spassosa, ma in fondo estremamente seria, del grido di San Paolo: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21). Per il fatto che Cristo è risuscitato, la nostra vita si rinnova; la morte stessa non fa più paura. La morte non è più morte, anche se dovesse capitare di essere ammazzati.Chiediamo al Signore, per intercessione di Maria, sua e nostra Madre, di suscitare in noi la fede appassionata di San Paolo o quella tenace di certi cristiani semplici, ma sinceri, come Giovanni Guareschi. Il mondo ha più bisogno che mai della nostra fede e della nostra gioia; ha bisogno di persone che sappiano offrire in modo credibile “il servizio della speranza”.

 

 OMELIE RAVASI Ultima messa “milanese” celebrata da monsignor Gianfranco Ravasi “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

 

Il saluto di mons. Gianfranco Ravasi alla città di Milano, alla “sua” città di Milano, per una felice combinazione di eventi, apparentemente indipendenti fra loro ma nei quali chi crede non fatica a riconoscere la “logica di Dio” di cui parla Bernanos, ha trovato una degna e appropriata cornice nel festival “MiToSettembreMusica”: che per tre settimane ha offerto a Milano appuntamenti musicali di ogni genere. Forse il momento più alto di essi è stato, appunto, la Messa per coro e strumenti a fiato di Igor Stravinsky, eseguita dal Coro Filarmonico e dell’Ensemble strumentale della Filarmonica della Scala il 23 settembre in Sant’Ambrogio durante la funzione liturgica domenicale celebrata dall’ex prefetto della Biblioteca Ambrosiana proprio alla vigilia dell’investitura ufficiale alla direzione del Pontificio Collegio della Cultura, fortemente voluta da Benedetto XVI; incarico lasciato dal cardinale Poupard per raggiunti limiti di età. Così la messa in Sant’Ambrogio è diventata proprio l’occasione per lo scambio di saluti fra questo importante uomo di fede e di cultura e la città da lui tanto amata. Amore ricambiato dalla folla che ha gremito la basilica fin nei confessionali e nei più remoti angoli delle cappelle; oltre che all’esterno, nel portico di Ansperto.

Folla di credenti e non credenti, categorie care entrambe al nuovo vescovo ed alle quali, come sempre, si è rivolto durante l’omelia. Folla di persone che, con la propria semplice presenza, si sono unite al saluto iniziale di mons. Marcandalli il quale, a nome del Capitolo della basilica e citando sant’Agostino, ha fatto riferimento alla grande musica unita alla celebrazione liturgica come di opportunità per tutti, credenti e non credenti, di sfiorare la “bellezza tanto antica e sempre nuova” di Dio. Persone che, suscitando anche un impercettibile moto di bonaria contrarietà nel sacerdote sul quale, per un momento, ha prevalso l’uomo di cultura, al Coro si sono addirittura sovrapposte nella recita di non pochi versi del Credo. Quasi a manifestare, anche con questa “intemperanza”, il desiderio di non essere semplici spettatori di un evento, per quanto significativo, ma di essere vera Chiesa. Persone sicuramente coinvolte emotivamente ma, vorremmo dire meglio, coinvolte spiritualmente, per l’opportunità, certo non usuale, di poter cantare l’Alleluja durante la messa assieme al Coro della Scala! Ma l’emozione si è fatta sentire anche per il grande ed esperto comunicatore. L’ha ammesso lui stesso nel corso della sua ultima predica da “milanese”: nella quale ha unito ad un commosso saluto un monito “sociale” e di critica all’idolatria della ricchezza. “LA SCOSSA” era presente e ritiene di fare un gradito servizio ai propri lettori offrendo loro l’opportunità di poterla leggere nell’ampia sintesi che di seguito ne proponiamo (non rivista dal celebrante).

 

Sant’Ambrogio 23 settembre 2007

Sintesi della predica di monsignor Gianfranco Ravasi

“IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”

“Ho più volte celebrato il rito sacro della liturgia in questa basilica, ma oggi mi percorre un particolare fremito di cui renderò ragione alla fine di questa omelia. Molti fra i presenti non possono comprendere parole che per chi è credente salgono all’infinito di Dio. Ma per tutti è possibile accogliere il messaggio di elevarsi oltre la quotidianità. Il testo biblico suscita due riflessioni, due fili che si dipanano dai testi letti. Il primo attraversa tutte e tre le letture che hanno un comune carattere “sociale” (

prima lettura dal libro del profeta Amos: Am 8, 4-7; seconda lettura dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo: 1 Tm 2, 1-8; Vangelo dal Vangelo secondo Luca: Lc 16, 1-13 // le letture sono riportate in coda alla predica – NdR).

L’intreccio delle relazioni fra società e politica è un groviglio oscuro e quotidiano, a volte è un arruffìo di fili che esplode in scandali. E’ il mistero umano della polis. Città non solo di mura ma di persone con reazioni sensitive capaci di creare realtà mirabili come di precipitare nel baratro dell’odio. Amos era un profeta contadino chiamato a predicare in città. Alla sua epoca i poveri erano pedine calpestate di una scacchiera sulla quale altri decidevano le mosse.

Nella lettura dell’apostolo Paolo c’è, invece, la dimensione positiva dell’attestazione di fedeltà all’Impero Romano. Il Cristianesimo non vuole far esplodere le strutture politiche e sociali, se queste hanno una funzione utile per la società, ed invoca, anzi, sul capo dei politici, la mano di Dio che li illumini.

Gesù, infine, parla oggi attraverso una parabola tanto sorprendente quanto poco conosciuta.

E’ lo stesso Gesù del “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” espressione mediante la quale traccia una netta linea di demarcazione tra due sfere; comunque non completamente indipendenti ed estranee fra loro: l’uomo è fatto di spirito e di carne, di vita interiore e sociale. Gesù incide nell’esistenza umana, Gesù parte dalla terra sulla quale l’uomo poggia i piedi, non dall’aria sopra le persone. Parla di campi, fiori, problemi sociali… Di figli: alcuni osservanti, altri incomprensibili. Parla di Erode definendolo “volpe astuta”. Quello che ci propone in questa domenica è un parallelo con i politici oggi ancora valido: un amministratore corrotto che falsifica i bilanci di una società. Gesù parte dal dato di fatto negativo trasmettendo un primo messaggio: vedete l’astuzia dei figli delle tenebre? Arrivano subito a trovare il nucleo fondamentale delle cose; invece voi, figli della luce, siete distratti, acquiescenti, pigri…Porta a modello un cattivo esempio non per il suo contenuto, per l’azione, ma per l’atteggiamento che vi è sotteso. Invita a vegliare. E’ un invito anche per il nostro tempo, la cui malattia peggiore è la tiepidezza. Nel nostro tempo non ci sono più male o più ingiustizia di quanti ce ne siano stati in passato.

Quando sono nato io il mondo era in mano a due criminali: Hitler e Stalin. L’Europa era striata dal sangue… morte e distruzione erano in agguato ovunque. Oggi la situazione è più grave, ma non per il male e la cattiveria. Oggi il male è la superficialità, la banalità, la stupidità… un linguaggio che è come una chiacchiera. “Lo stupido dice quel che sa, il sapiente sa quel che dice” recita un detto rabbinico. “Sapere” deriva dal latino sàpere, che vuol dire aver sapore e gusto intenso, e perciò richiede riflessione e meditazione. Il “forte” silenzio che percepisco ora, mi dice che questa affermazione vale anche per i non credenti che sono presenti qui in chiesa: non si può vivere di banalità, l’uomo vero non è quello mostrato dalla TV. Pascal diceva che l’uomo supera infinitamente l’uomo, che, anche se non crede, ha in sé l’amore, la via per elevarsi.

La seconda riflessione, più breve, parte dall’ammonimento di Gesù: “non potete servire Dio e Mammona”. Mammona è una parola aramaica entrata nelle lingue successive. Ha la stessa radice di amen, il verbo della fede, della fiducia in Dio, nel trascendente. Siamo ininterrottamente sospesi fra due adorazioni: da una parte l’amen verso Dio e la sua legge morale e dall’altra l’idolatria delle cose. Lo scrittore Leonardo Sciascia ha detto, su mammona, che il mondo degli uomini è diviso in due settori individuabili da una stessa frase che può essere letta con accenti diversi. “La ricchezza è morta” e “la ricchezza è bella anche se è morta”, è lo splendore del vitello d’oro luccicante e brillante. Dobbiamo decidere dove stiamo se con l’amen morale o con l’idolatria verso le cose. Se abbiamo qualcosa in mano non possiamo adoperarla per accarezzare o sollevare chi può avere bisogno di noi. Se abbiamo le mani occupate per tenerci stretta la ricchezza non abbiamo spazio per altro. Anche per i credenti e per la Chiesa c’è il rischio di adorare la ricchezza morta.

Infine vengo ora ai saluti, ed è per me un’emozione forte. Da domani torno a Roma, città della mia giovinezza e dei miei studi di teologia. Il mio orizzonte non sarà il Vaticano ma i dicasteri per il mondo e le chiese nel mondo: non la Chiesa ma le Chiese. So che mi aspetta un programma molto intenso di viaggi e di incontri. Sono grato a monsignor Marcandalli per il suo saluto a nome del capitolo di Sant’Ambrogio, sono grato anche a chi è fuori della Chiesa, nel portico di Ansperto… e alla Scala, mio grande amore, che ringrazio perché mi permette di salutare con l’armonia e lo splendore della musica di Stravinski. Stravinski era un credente, cristiano ortodosso, e ha composto questa messa per la liturgia. Non è quindi una musica da ascoltare ma una musica nella quale entrare; per prepararsi a comporla aveva letto Agostino e Bossuet, un vescovo e predicatore del ‘600. Questa Messa è risuonata a Milano per la prima volta nell’ottobre del 1948, alla Scala, diretta da Ernest Ansermet. Per me è il rinnovarsi della centralità di una grande dolcezza. Per questo dico grazie a Dio per la musica, grazie per tutti coloro che fanno musica, come in questi giorni del festival MiTo, e, prima di tutti, dico grazie alla Scala. Nel VI secolo Cassiodoro primo vescovo cattolico della Calabria ammoniva: “Se continuiamo a commettere ingiustizie Dio ci lascerà senza musica: avremo solo rumore, fracasso o silenzio.” Assurdo deriva da sordo, senza la musica siamo nell’assurdità. Oggi, invece, la Messa di Stravinsky unisce l’armonia della voce umana e l’armonia strumentale.

Qui saluto i milanesi e i lombardi con le parole di Bernardino Telesio filosofo del ‘500 che, nominato vescovo dal Papa Pio IV, non voleva accettare l’incarico. Con le sue parole voglio ricordare la mia città in cui ho visto i tramonti e le albe, nella quale ho vissuto ed ho camminato…“La mia città può far benissimo a meno di me, sono io che non posso fare a meno di voi; essa che mi scorre nelle vene e che mi pulsa dentro, nel battito del mio cuore”.

Mons. Gianfranco Ravasi

LE LETTURE DELLA MESSA:

PRIMA LETTURA

Am 8, 4-7

Dal libro del profeta Amos.

Ascoltate questo, voi che calpestate il povero e sterminate gli umili del paese, voi che dite: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano? E il sabato, perché si possa smerciare il frumento, diminuendo le misure e aumentando il siclo e usando bilance false, per comprare con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali? Venderemo anche lo scarto del grano». Il Signore lo giura per il vanto di Giacobbe: certo non dimenticherò mai le loro opere.

SECONDA LETTURA

1 Tm 2, 1-8

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo.

Carissimo, ti raccomando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti. Questa testimonianza egli l’ha data nei tempi stabiliti, e di essa io sono stato fatto banditore e apostolo dico la verità, non mentisco , maestro dei pagani nella fede e nella verità. Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese.

VANGELO

Lc 16, 1-13

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli:

«C’era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L’amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l’amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall’amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d’olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand’essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l’uno e amerà l’altro oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire a Dio e a mammona».

 

 

http://lapaginadisanpaolo.unblog.fr/tag/arcivescovi-e-vescovi/mons-gianfranco-ravasi/
Gianfranco Ravasi – l’ultima messa “milanese”: “IL MIO COMMOSSO SALUTO ALLA CITTA’ DI MILANO”
( Mons. Gianfranco Ravasi )
Metto questo articolo – un po’ in ritardo rispetto all’evento – il saluto di Mons. Ravasi alla città di Milano, il riferimento a Paolo e molto breve, tuttavia posto molto volentieri questo “saluto” perché, sono certa, che tutti amiamo Mons. Gianfranco Ravasi e vale, veramente, la pena di leggere le sue, ultime – perlomeno nel ministero che stava svolgendo – commosse parole, alla città di Milano, dal sito:
http://www.parrocchiamilanino.it/scossa_on_line/in_vetrina/mito2007_ravasi.pdf
Basilica di Sant’Ambrogio in Milano
23 settembre 2007
 

“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10) – Benedetto XVI

Messaggio per la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù

Scritto da Enzo Salsano – 12 marzo 2009
Pubblichiamo di seguito il testo del messaggio che il Santo Padre Benedetto XVI invia ai giovani e alle giovani del mondo, in occasione della XXIV Giornata della Gioventù Mondiale, che sarà celebrata il 5 aprile 2009, Domenica delle Palme.
 
 

“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10)
 
Cari amici,
la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù. Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero. La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo. Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr Col 2,7). In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17).
La giovinezza, tempo della speranza
A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani. Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità. La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea. Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi. La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative. Quando si è giovani si nutrono ideali, sognie progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita. E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale. Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza?
Alla ricerca della “grande speranza”
L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca. Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo. Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n. 31). Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione. Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore. Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17,5-6). La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze. Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche. Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile.
Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità. Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione. L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore.
A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15,13). Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza
Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco. All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr At 9,1). Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”. E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr At 9,3-5). Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo. Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo. Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal
2,20). Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma. Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo
Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio. Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4,10). Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo. E’ Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna. Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza.
Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani. Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo. Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia. Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi. La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130,8,17). La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr Enc. Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr Mt 18,20). Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede.
Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti. Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna.
Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione. I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo. L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza
Agire secondo la speranza cristiana
Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei. Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli. La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate. Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza. Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale. Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi. Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del
successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere. Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3,15). Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza
Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4,18). Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza. Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno. Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto. Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani. Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria … Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria… Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore. Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2,17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza. Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009
BENEDICTUS PP. XVI

PRIMA DEL CARISMA IL LATTE – Angelo Nocent

Prima del carisma il latte

“Io speriamo che me la cavo”

I tempi sono quello che sono. La pericolosa tentazione che ci assedia e che potrebbe farci soccombere, è la stessa che aveva colpito Israele nel deserto sinaitico: quella dello scoraggiamento, dell’inerzia, della nostalgia. 

Il rischio è ancor più elevato se la tentazione prende quegli Ordini Religiosi plurisecolari le cui istituzioni, quali possono essere gli ospedali, non si prestano a quei facili, tempestivi e incalzanti mutamenti che spesso la politica socio-sanitaria impone con disinvoltura, indifferente alle difficoltà economiche che possono provocare certe decisioni, talvolta necessarie, spesso rispondenti alle sollecitazioni del mercato, giacché la sanità va facendosi sempre più boccone appetitoso. 

Per chi si trova in simili frangenti, non indicherei tanto una Finanziaria quanto una ricetta  sicura ed efficace: la Parola di Dio. Può far sorridere. Ma il suggerimento mi viene dalla Chiesa delle origini, ossia da quella raffinata omelia che è la Lettera agli Ebrei, dove si avverte la grande fede di Paolo che gli ha permesso di spostare montagne di difficoltà incontrate sulla sua strada di missionario. Perché “ la Parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore” (Eb 4,12). 

Per chi si abbandona alla lettura degli eventi con spirito di discernimento, quel “viva, efficace, tagliente” altro non è che lo Spirito. Quindi, la forza, la punta di diamante. E, per chi vive ed opera “sotto il segno dello Spirito”, sa di avere dalla sua parte il Pastore che dà sicurezza. 

Il titolo è volutamente provocatorio. Preso in prestito dal best seller di Marcello D’Orta, rimanda alla conclusione di un tema in classe di un bambino napoletano delle elementari. Può suonare come una  spiritosaggine. In realtà rispecchia molto bene un comune sentire in ambito sanità. Dal paziente alla lunga catena degli operatori sanitari, ogni tanto ognuno è tentato di pronunciare nel segreto della sua anima l’ ”io speriamo che me la cavo”: un misto di preghiera e di timore. 

Fino a pochi anni fa l’Ospitalità, il carisma dei Fatebenefratelli, non era oggetto di approfondita riflessione teologica. Lo “spiritum hospitalitatis” era come un bene di famiglia che si tramandava di generazione in generazione e posto sotto la custodia del capostipite, l’intercessore San Giovanni di Dio: “impetra nobis spiritum hospitalitatis”. Poi il termine è entrato nell’ ordinario linguaggio ecclesiale come “accoglienza”, dal significato più riduttivo. Ad un certo punto s’è capito che l’argomento andava approfondito, supportato teologicamente. E, finalmente ha visto la luce il compendio  della “Spiritualità dell’Ordine – cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio”, emanato dal Priore Generale P. Pasqual Piles. 

L’elegante pubblicazione, alla quale bisognerebbe fare costante riferimento, corre il rischio dell’oblio. E ciò va impedito. I laici impegnati, se esistono, devono battere un colpo e appropriarsene. Perché bisogna evitare che si abusi del termine “ospitalità”, sempre sulle labbra, ma farcito da indigeste parole retoriche. 

Nell’introduzione, Fra Pasqual è molto realista: “ci attendono nuove e preziose possibilità, ma anche nuove e terribili minacce. Ci troviamo di fronte ad un tempo che non dominiamo, e nel quale dobbiamo trovare nuovi cammini. In ogni caso, le ripercussioni di questo cambio d’epoca riguardano tutto in noi: spirito e corpo, individuo e società, dimensione profana e trascendenza. Le relazioni umane non sono più le stesse di prima. Scopriamo nuovi aspetti nel rapporto tra sesso maschile e sesso femminile che hanno impresso un nuovo stile alle relazioni tra uomo e donna (tanto nella famiglia, quanto nella società). 

Tale constatazione viene molti anni dopo un’altra, ben più autorevole: Paolo VI il 29 giugno del 1972, festa dei santi Pietro e Paolo principi degli apostoli e protettori di Roma, pronunciò nell’omelia parole drammatiche alle quali solo pochi hanno dato peso: “Il fumo di Satana è entrato nel tempio di Dio […]. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. 

Bene per tutti sarebbe il prendere atto che la sospirata “nuova ospitalità”, data sempre per imminente, stenta a decollare perché non è un nuovo modello di aereo destinato a solcare i cieli del pianeta salute ma un atteggiamento della mente e del cuore, toccati e trasformati da un Evento. Non un’idea astratta, ma una Persona viva, incontrata, affascinante, reale. Se si perde di vista la fonte da cui sgorga, la matrice che la genera, hai voglia…! Perché il suo terreno di coltura è uno solo: la koinonìa. Una volta assimilato il significato di del termine è come trovare la chiave di volta per aprire le porte di questa costruzione fatta di pietre vive. Le opzioni saranno conseguenti, consensuali e gioiose. O koinonìa o la fine di una storia. 

Se le mie parole non persuadono,valgano le considerazioni folgoranti del Card. Biffi: “Il cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il cristianesimo non è neanche una religione. E’ un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona.

 Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono, perché ciascuna ha qualcosa di buono. Probabilmente è anche vero. Ma il cristianesimo con questo non c’entra. Perché il cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona. 

Io ho puntato su di lui la mia vita, l’unica vita che ho; e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l’identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di lui.” (Intervento a Granarolo). 

Ma dire Vangelo equivale a Spirito Santo. Dunque, l’incontro non è con un libro ma con una Persona. La fase due è che questa “bella notizia” che mi scoppia nel cuore, ho bisogno di parteciparla ad altri. E, man mano scatta la koinonìa. 

Ma cosa significa questa parola greca? La traduzione obbligata è “comunione” ma solo perché la lingua italiana non ha un corrispettivo e si fatica a coglierne il senso reale, profondo.

Dal verbo greco koinonèo, aver parte, partecipare, koinonìa indica la comunione, l’intimo legame e la relazione fraterna degli uomini tra di loro: si tratta di una relazione umana giuridico-sociologica di solidarietà, di corresponsabilità, di partecipazione che esprime una azione comune o il comune possesso di una cosa. Nel greco classico è riferita anche alla relazione tra la divinità e gli uomini.

In campo cristiano è usata per indicare il modo di vivere, gli atteggiamenti, le situazioni reciproche dei cristiani tra di loro e nella loro comune dipendenza in rapporto a Cristo. In questo contesto significa comunione di cuori e di beni, partecipazione ai bisogni dei fratelli, comunanza di vedute; ma soprattutto comunione con Cristo, partecipazione al suo Corpo e al suo Sangue, al suo Spirito, alle sue sofferenze, al perdono dei peccati, alla speranza di resurrezione. L’ansia apostolica è proprio qui che si origina

Si può stare “insieme per servire”, senza un costante impegno per tenere accesa la riflessione, darsi degli scopi, verificarne la rotta?

Una comunione e solidarietà necessitano di un progetto che abbia due finalità complementari: la produzione (il servizio, l’hospitalitas) ed il mantenimento (la coesione del gruppo, la relazione, la koinonia). Con quali mezzi?

Prima del carisma, il latte:

  • una maturazione umana e cristiana adeguata alle esigenze socio-culturali dei nostri giorni;

  • una coscienza e riflessione critica dentro gli eventi e le situazioni della nostra storia;

  • una ispirazione evangelica di ricerca, di dialogo e di testimonianza nell’impegno personale ed ecclesiale nel proprio ambiente di vita e di lavoro;

  • una esperienza comunitaria di fede, condotta sul piano della comunicazione più che su basi territoriali. 

Gianfranco Ravasi può aiutarci a scoprirne il senso biblico e a radicarlo nella nostra mente perché diventi creativo. 

non è ancora accaduto e le nubi che oscurano il cielo del pianeta salute, fanno presagi, se non tempi infausti e funesti, almeno difficili. No, non intendo indossare i panni del profeta di sventura. Preferirei essere un portatore di quelle certezze che posseggono gli uomini di fede,  capaci di resistere a tutte le intemperie. Ho vissuto la primavera della Chiesa Conciliare e continuo a credere nelle speranze che l’ha animata, più forte delle delusioni che non sono mancate in questi anni.

 

Nel ’69, ossia proprio quarant’anni fa, nel clima post conciliare, ho letto, con grande interesse, oserei dire ruminato  “Questa comunità che si chiama Chiesa” di Max Delespesse, edito dalla Jaca Book. L’ho ripreso in mano in questi giorni, ormai sfasciato, ingiallito, pieno di sottolineature e tenuto insieme da un elastico. Non so se quella volta mi ha fatto bene o male. Certamente mi ha influenzato e, riprenderlo in mano in questi giorni, equivale a rievocare un insieme di  ricordi cari e nostalgici. Da allora tante cose sono cambiate ma altre sono rimaste ancora sospese. 

Le conclusioni cui giungeva l’autore mi sembravano semplici, evidenti  e di facile realizzazione. Sull’avvenire della vita religiosa sembrava che l’autore non avesse dubbi: “E’ come il cuore della Chiesa”, diceva. Ergo, verrebbe da dire: se si ferma il cuore, muore la Chiesa.

Ma, nella sua riflessione non mancavano le constatazioni amare e mi piacerebbe  che il tempo le avesse dissipate: “Oggi tutto va velocemente ed è ora d’impegnarsi. E impegnarsi, per i religiosi, non vuol dire redigere nuove Costituzioni, ma ricercare nel concreto, il modo di divenire membro a pari titolo di una comunità ordinaria del popolo di Dio. Troppo spesso, durante le mie peregrinazioni,  ho constatato che  i religiosi e le religiose che lavoravano all’elaborazione dei nuovi statuti non sapevano quello che cercavano veramente. Non avevano un’idea precisa della meta da raggiungere, non avevano uno scopo. A volte non sapevano neppure ciò che rappresentavano  ancora nella Chiesa attuale. Questo mi sembra grave. Ora lo scopo è

  • la costruzione della comunità cristiana

  • e la sua animazione per mezzo della presenza attiva di fratelli e sorelle consacrati, votati esclusivamente ad essa”.

 Vorrei far notare che siamo nel 1969. Ma è stato cosi? Non si può generalizzare. Epperò bisogna ammettere che tante delle aspettative sono andate deluse. O attendono di andare in porto. Allora la parola d’ordine era “in comunione con i laici”. Un significato che va ben oltre l’attuale mortificante “collaboratori”, formula che permette di eludere certe domande imbarazzanti come ad esempio quella dei soldi, della condivisione dei beni. Infatti, le conseguenze derivanti della “comunione” sono riportate in Atti 4, 43. Se la Chiesa è teologicamente e  storicamente una comunità, questa fusione la si capisce solo a partire dall’Eucaristia. Diversamente, tutto traballa perché si costruisce sulla sabbia del buon senso umano. 

Di questa comunità-Chiesa si diceva: “ Dobbiamo dunque riunirci

  • per ascoltare la Parola di Dio

  • e per celebrare l’Eucaristia: è qui che troviamo il principio della nostra unità.

Ma dobbiamo anche riunirci

  • per vivere insieme nella fede in Cristo resuscitato e presente tra noi;

  • nella speranza del suo ritorno e della riunificazione definitiva;

  • nell’amore che ci unisce a Dio e gli uni agli altri;

  • nella povertà che ci fa condividere i beni di questo mondo, grazie alla coscienza che abbiamo di partecipare tutti allo stesso bene definitivo: il Regno dei Cieli.

  • Solamente allora risponderemo alla nostra vocazione di Chiesa e diventeremo una luce per il mondo”.

 Oggi, scorrendo l’indice, mi accorgo che i temi sono ancora di attualità; moltissimi i dilemmi ancora insoluti. Per esempio: Clero o Laicato? La risposta era: “No: comunità”. E ancora: Religiose e Religiosi nella Comunità-Chiesa come? La risposta: “Comunità complementari verso delle comunità integrate”. 

Nell’editoriale di queste cronache alla prova, dove venivano riportate esperienze, la comunità chiamata ad interrogarsi, si formulava degli obiettivi del tipo: 

“Il discorso che vorremmo fare quest’anno inizia proprio dalla necessità da parte nostra di porre chiaramente ed esplicitamente un’istanza che noi sentiamo improrogabile: la Chiesa e il mondo hanno bisogno che senza indugio i cristiani si impegnino in un tentativo comunitario veramente ecclesiale”. 

La comunità cercava di definirsi, di intendersi sul senso di certi termini come “gruppo fraterno”, “gruppo organico”, “gruppo stabile”, “gruppo di persone… di responsabilità, di condivisione, di unità, di comunità perfetta, comunità totale, comunità-Chiesa, comunità primitiva, comunità familiari, confraternite…comunità di fede e di speranza… 

Il sogno si è avverato? 

Ognuno, in base alla sua esperienza, può dare la risposta. Personalmente, allora mi sono imbarcato su una zattera senza remi, in balia delle onde e del vento, per approdare  su tante isole deserte dell’arcipelago Chiesa per poi ritrovarmi spiazzatoi al punto in cui sono. 

La caratteristica di allora era quella di sempre: c’era chi scuoteva la testa e chi si buttava a capo fitto alla ricerca e realizzazione del nuovo, come api in cerca di polline sui fiori. Convivevano il pessimismo di alcuni, l’ottimismo di tanti, l’indifferenza di pochi.

Ma c’era nell’aria una grande speranza, contagiosa, corroborante. Oggi, per tante motivazioni, dilaga un certo pessimismo. Ma in certi ambienti viene contrabbandato come rassegnazione alla “volontà di Dio”. Magari si trattasse di fede. Ma la sensazione di diffusa impotenza è generatrice di una flebile rassegnata speranza che non è teologale, ma nell’ottica di quel famoso “io speriamo che me la cavo”. 

Sull’avvenire della vita religiosa il Delespesse non nutriva dubbi: sempre presagio di infausti permangono all’orizzonte .

Il futuro dell’Ordine Ospedaliero, stante i documenti degli ultimi Capitoli Generali e dalle Circolari dei Priori Generali alle Province dei cinque continenti, è posto fiduciosamente nelle mani dei laici “collaboratori”. Cosa buona, anzi, lodevole.

Ma troppo bella per essere vera “sic et simpliciter”. Le buone intenzioni da sole non bastano. Né lo possono garantire gli inviati ai convegni internazionali dove, solitamente, sulle questioni di principio è facile raggiungere il consenso e l’unanimità. Ma, tra dire è il fare, l’ostacolo non è il mare ma le persone, ossia coloro che non hanno vissuto ma subito, giorno dopo giorno, il cambiamento epocale e generazionale. Non c’è qualcuno che può scegliere per tutti, distribuendo patenti carismatiche. San Giovanni di Dio insegna: la sua è una lenta, progressiva e travagliata conversione del terreno sassoso in umus fertile. La Grazia opera sulla natura e la parabola del seminatore non lascia dubbi. Matteo  nel cap. 13, 1-23 è molto realista: 

 ”Un contadino andò a seminare, 4e mentre seminava alcuni semi andarono a cadere sulla strada: vennero allora gli uccelli e li mangiarono. 5Altri semi invece andarono a finire su un terreno dove c’erano molte pietre e poca terra: questi germogliarono subito perché la terra non era profonda, 6ma il sole, quando si levò, bruciò le pianticelle che seccarono perché non avevano radici robuste. 7Altri semi caddero in mezzo alle spine e le spine, crescendo, soffocarono i germogli. 8Ma alcuni semi caddero in un terreno buono e diedero un frutto abbondante: cento o sessanta o trenta volte di più. 9Chi ha orecchi, cerchi di capire!”. 

La conclusione mette in guardia: non c’è nulla di scontato. Si prendano ad esempio le sottolineature più o meno marcate di questi anni: ospitalità, insieme per servire, umanizzazione, umanizzare per umanizzarsi, l’uomo,  l’ospedale moderno…La più importante, sembrerebbe la meno rimarcata: “Lasciatevi guidare dallo Spirito” (Circolare 24 Ott. 1996 Priore Generale Piles). Che non è un invito  all’autogestione ma ad impostare la vita personale e istituzionale nella dinamica delle Scritture, della Lectio Divina. Quanta chiarezza potrebbe venire da un’attenta e costante riflessione di religiosi e laici sulla Chiesa degli Atti che pone ideali di grande respiro ma evidenzia anche le fragilità dei suoi membri, le stesse che riscontriamo nel nostro vivere associato. 

Checché se ne dica, quando il carisma viene istituzionalizzato, inaridisce.  viene a mancare, l’ambiente naturale, nel quale trovavano il loro spazio e si manifestavano, nella Chiesa primitiva, i carismi: quelle assemblee aperte, intrise di forte senso della presenza operante dello Spirito”. 

“Al compiersi del giorno della Pentecoste…” (At 2,1). 

Raniero Cantalamessa che da tempo ha le idee molto chiare e che non perde occasione per svolgere il servizio della Parola che si manifesta attraverso un suo particolare carisma, così ha parlato ai fratelli anglicani che lo avevano invitato a Londra, riferendosi all’espressione “Al compiersi del giorno della Pentecoste…” (At 2,1), così si è espresso: 

“La Chiave di lettura è la prima parola: non si tratta di una fine “cronologica”, ma dell’avverarsi della promessa fatta più volte da Gesù (Lc 24,49; At 1,5-8) e dai profeti. È l’evento ultimo, segno sicuro di salvezza. Si viene a dire che il disegno salvifico di Dio non si compie solo nella morte-esaltazione di Cristo, ma che esso ha la sua piena e ultima attuazione nel dono dello Spirito. Facendo un parallelismo con l’A.T., Luca sottolinea alcuni elementi per descrivere la nascita del popolo escatologico. 

  • Il Cenacolo è visto come il nuovo Sinai, dove, tramite il dono dello Spirito, viene realizzata la nuova alleanza promessa.

  • La nuova legge si identifica con il dono dello Spirito.

  • L’esaltazione di Gesù “salito al cielo” è un parallelo con la salita al Sinai di Mosè per avere la legge e negoziare l’alleanza con Dio.

  • Lo Spirito scende su “tutti”;

  • la ricomposizione del gruppo, rappresenta il nuovo popolo di Dio (At 2,1-13).

C’è una intenzionalità negli Atti di allargare il gruppo, offrendo numeri sempre più grandi: i dodici, i centoventi, le lingue parlate… 

Gli “Atti degli Apostoli” è il libro che descrive l’azione dello Spirito Santo nei primi 30 anni della vita della Chiesa. È presentato come l’anima della Chiesa, che manifesta questa presenza nei vari personaggi (Pietro, Paolo, Stefano, Barnaba…). Mostra anche che lo Spirito Santo qualche volta agisce con noi, e qualche volta contro di noi. 

Con la presenza dello Spirito Santo dovremmo avere dei risultati sorprendenti; invece il lato umano della Chiesa a volte ostacola il lavoro dello Spirito. Basti pensare che abbiamo avuto 39 antipapi e 4 Papi contemporanei, per far finire anche l’organizzazione più perfetta.

“Di che cosa vive la Chiesa? Dello Spirito Santo” (Paolo VI), quindi niente paura.” 

L’Ordine Religioso ieri 

I rapidissimi cenni agli Atti degli Apostoli, servono a comprendere le fasi di una storia, vista da vicino,  che è sacra e al contempo umana: i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio  raggiungono il riconoscimento pontificio in modo graduale:

 

  1. Nel 1572 sono riconosciuti ed approvati da San Pio V che li sottopone alla Regola di Sant’Agostino;

  2. nel 1586 vengono riconosciuti dal Papa Sisto V come vero e proprio Ordine Religioso.

  3. Nel 1592, Clemente VIII riduce l’Istituto allo stato iniziale di semplice congregazione, mettendo nuovamente i confratelli sotto la giurisdizione dei vescovi e permettendo loro di emettere solo il voto d’Ospitalità.

  4. Alcuni anni dopo quest’atto di retrocessione, Paolo V, nel 1611 in Spagna e nel 1617 in Italia, riporta nuovamente l’Istituto al grado d’Ordine.

  5. Per via di questa duplice e autonoma reintegrazione si costituiscono due congregazioni distinte che, pur coscienti di formare una sola famiglia, si sviluppano parallelamente per due secoli e mezzo.

  6. A causa soprattutto degli sconvolgimenti politici e delle leggi antireligiose del XIX secolo, la congregazione spagnola subì un duro colpo e praticamente scomparve con la morte del suo ultimo Superiore Generale, P. Giuseppe Bueno, nell’anno 1850.

  7. La restaurazione dell’Ordine in Spagna, realizzata specialmente da San Benedetto Menni, portò alla riunificazione dell’Istituto. Da quel momento l’Ordine, cosciente dell’eredità ricevuta nella Chiesa e con lo sguardo fisso al Cristo misericordioso del Vangelo, continua nel mondo la sua opera apostolica con i sofferenti. 

Alla luce dei fatti, è lecito affermare che, – gli Atti insegnano – come son successe tante cose negli ultimi cinque secoli di storia dell’Ordine, anche nel 2000 può succedere di tutto. 

Agostino il dimenticato padre della Regola 

Smontato il congegno, messo fuori fase l’incastro, messo fuori asse, spostato, tutto cade. Tutto ciò che sta al centro è questo. Il coinvolgimento del temporale nell’eterno e dell’eterno nel temporale.

Tolto il coinvolgimento non c’è’ più niente. Non c’è più un mondo da salvare. Non ci sono più anime da salvare. Non c’è più alcun cristianesimo… Non c’è più né tentazione, né salvezza, né prova, né passaggio, né tempo, né niente. Non c’è più né redenzione, né incarnazione, e neanche la creazione…

Ci sono solo cocci senza nome, materiali senza forma, calcinacci e rovine…

Non vi è più il cristianesimo; non vi è più questa storia meravigliosa, unica, straordinaria, inverosimile, eterna temporale eterna, divina umana divina, quel punto d’intersezione, quell’incontro meraviglioso, unico, del temporale nell’eterno, e reciprocamente dell’eterno nel temporale, del divino nell’umano e mutualmente dell’umano nel divino… Ecco il cristianesimo. Il resto, diciamo che tutto il resto è ottimo per la storia delle religioni… Tutto il resto rimane un’eccellente materia di insegnamento. 

Qui il Peguy ne ha per tutti, laici, presbiteri e consacrati:

“Ecco quello che dimenticano troppo, quello che perdono di vista di solito i nostri chierici, e coloro che vivono nella regola, e anche coloro che vivono nel secolo…

Non fanno altro che abolire, annullare, sopprimere, cancellare dalla faccia della terra, obliterare, distruggere (delea(n)tur), sopprimere (dalla creazione dunque, e anche dall’eternità) non soltanto forse quello che ne è, ciò che ne costituisce il succo e la linfa e il midollo, ma quello che comunque ne e’ una condizione essenziale e sine qua non…

Tolgono la chiave dalla porta; e la porta senza serratura e senza chiave resta solo una parete.

Tolgono il prezzo, ciò che costituisce la posta, della scommessa, il saldo, del gioco, tutto ciò che costituisce il premio e il valore e la posta stessa e l’oggetto della salvezza.

Tolgono, censurano il mistero stesso della creazione, e ci arrivano solo togliendo i pezzi grossi, i misteri essenziali.

Tolgono la creazione, l’incarnazione, la redenzione; il merito, la salvezza, il premio della salvezza; il giudizio e qualcos’altro; e naturalmente e soprattutto la grazia; più di ogni mistero il mistero e l’operare della grazia.

C’erano delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; tra il tempo romano e il tempo che è divenuto il tempo moderno; più che delle somiglianze, più che delle analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio. Si può dire che nel mondo romano era tutto pronto, che tutto era pronto a partire, tutto era come allestito, realmente allestito… affinché il mondo moderno partisse allora, invece di oggi; si trattava dello stesso disordine dello stesso tipo di disintelligenza. Era tutto preparato. Ma venne Gesù. Doveva fare tre anni. Fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. Arrivava il mondo moderno, era pronto. E lui tagliò (corto). Oh, in modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Mettendoci in mezzo il mondo cristiano. Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo”. 

Proprio TEMPI del 15 gennaio 2009 , riporta un testo inedito del filosofo cattolico Romano Amerio che Don Divo Barsotti definì un vero cristiano. Egli fu colui che ha teorizzato  meglio la disanima della crisi del cattolicesimo novecentesco in una semplice constatazione: “Separare l’amore, la carità dalla verità, non è cattolico. (…)

Difatti l’amore procede dalla conoscenza. Quando si dice  che l’amore non procede dalla conoscenza si fa dell’amore un valore senza precedenti, invece c’è un valore che precede l’amore ed è la conoscenza. Quindi questo avvaloramento indiscreto dell’amore implica una distorsione del dogma trinitario” L’amore è preceduto dal Verbo, è preceduto dalla  cognizione, e  non si può fare dell’ amore un assoluto, il teorizzatore.

OPZIONI ’70 – Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (CO)

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UNO SPEZZONE DI STORIA CONTEMPORANEA DEI FATEBENEFRATELLI

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San Giovanni di Dio 

 (Vittorio Trainini – Mompiano, 6.3.1888 – 19.8.1969)

OPZIONI ’70 

Centro Studi Fatebenefratelli – Erba (Como)

Gennaio 1970  -  Anno I  -  N. 1

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SOMMARIO

  1. Editoriale (dionigi  nocent)

  2. Ai nostri fratelli (équipe)

  3. “Regula aurea” (carlo  medaglia)

  4. Comunità e individuo (fausto  zecchini)

  5. La formazione della personalità nella vita religiosa (a cura di Tiziano Quadri)

  6. l dialogo (saverio manera)

  7. Per una sana educazione affettiva (pierdamiani  zamborlin)

  8. Una certa coscienza di Povertà

  9. Dall’Osservatore Romano (Maria Soledad Torres Agosta sugli altari)

  10. Preghiera di uno che non sa più pregare.

  

EDITORIALE

Non ci è dato di sapere  che cosa ci riserveranno gli anni ’70. Saranno certamente di grandi impegni e decisioni. Forse anche di successi.

  • La scienza è impegnata nella lotta contro il cancro;

  • i politici  nel ristabilimento di una pace e sicurezza mondiale e nell’impostazione di una economia di sviluppo del terzo mondo;

  • la Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticano II.

  • Anche la nostra Fraternità dovrà fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storia e tradurre vitalmente i “segni dei tempi”. Con il Capitolo Generale speciale, ma non soltanto.

“OPZIONI  ‘ 70″ perche?

Dire opzione è dire scelta, preferenza deliberata. Questa scelta si presenta come una ricerca e una interpretazione; è legata a una certa lettura – sempre discutibile – di un mondo in evoluzione e della vita religiosa in trasformazione.

A ciascuna epoca appaiono linee di sensibilità profonda che generano comportamenti e modi di essere: questi tratti fondamentali indicano alla nostra fede qual è il conntrassegno dello Spirito  sul nostro tempo, il suo cammino e il suo campo d’azione più favorevole.

“OPZIONI  ‘ 70″, che non ha niente di esclusivo, vorrebbe tentare di rispondere a questi “segni”.

Più volte ci ha tormentato il pensiero della sua accoglienza nelle comunità. Sarà inteso come strumento di contestazione giovanile?

Ebbene: vuol essere semplicemente un periodico di opinioni e confronti,scritto nella libertà e nella carità e aperto a tutti i Fratelli, in comunione e responsabilità.  Palestra di idee, vuol essere costruttore e apertamente impegnato nella riscoperta del Vangelo, particolarmente di Cristo medico, offerto alla giovane generazione ed anche a quanti giovani non sono forse ormai più, ma conservano freschezza di spirito e tensioni giovanili. Più che di noi, vogliamo parlare di ciò che non siamo e non vogliamo essere . Più che definire (assurda impresa), intendiamo precisare.

“OPZIONI  ‘ 70″, si colloca al centro di tutti gli slanci che vengono dalla periferia. Vuol  essere

  • punto di convergenza della chiamata  del Signore in tutti i fratelli,

  • vincolo di fratellanza,

  • perno della ricerca comunitaria di perfezione evangelica,

  • momento di verifica della fedeltà allo Spirito.

Tra uomini, ogni comunione vera esige il rispetto più assoluto della intrinseca dignità dell’altro. Per noi questa dignità non è altro che la qualità di “figlio adottivo del Padre”  con la liberta dello Spirito che essa conferisce. E lo Spirito è inventivo, creatore, soffio di un perpetuo rinnovamento.

Chi scrive e chi legge faranno bene a tenere un atteggiamento di povertà e schiettezza:

  • Povertà dello scrittore che si mette in ascolto dello Spirito e, considerandosi servo della fraternità, riversa in essa il suo carisma.

  • Povertà del lettore che accoglie ogni cosa, senza sospetti, senza nemmeno disprezzo, come una parola che il Padre gli rivolge nello Spirito, attraverso i suoi fratelli e per essi.

  • E schiettezza: piedi a terra e fronte alta , con gl’occhi spalancati sulle cose e sul Cielo.

Giudicare, discutere, consultare, accettare o rifiutare o modificare devono essere il frutto della fraternità vissuta, non un gesto macchiato da autarchia o autocrazia. Una fraternità non è infatti una semplice agglomerazione di persone, ma esige una osmosi delle intelligenze e dei cuori.

Noi crediamo all’obbedienza. Essa ci appare ancora una virtù. A patto che i singoli e le comunità siano interessati in un modo attivo e personale nella lettura e nell’interpretazione di questa chiamata di Dio per l’ oggi. Allora diventa più grande  la dignità dell’atto di obbedienza perché è adesione cosciente e amante a un volere divino che si sa incarnato in qualcosa di concreto, percettibile attraverso il segno degli eventi, e di cui si coglie più chiaramente la relazione col mistero della salvezza.

C’è un domani per i Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio?

Crediamo di sì. A patto che le nostre mani non taglino i ponti delle grandi strade del domani. Dice don Primo Mazzolari che “un uomo d’onore non lascia agli altri la pesante eredità dei suoi “adesso” traditi “.

Iniziamo con speranza perché la causa ci sembra buona. Proseguiremo con gioia se sapremo di aver servito, almeno un poco, agli ideali che abbiamo dichiarato.

Dionigi  Nocent o.h.

  

 

OPZIONI ’70

Il clima che si respirava era quello del  ’68.  Ma anche del post Concilio Vaticano II.

Mentre i voli spaziali occupavano la mente degli scienziati e delle cronache, il Papa faceva quotidianamente i conti con “l’aggiornamento” della Chiesa che sembrava avere dei costi elevatissimi.

Le sue parole sono sintomatiche delle tensioni presenti nella Chiesa di allora ma illuminanti anche per il nostro tempo, con vecchie e nuove contraddizioni.

 

 

AI NOSTRI FRATELLI

Le nostre comunità, oggi, come del resto sempre, si trovano di fronte a problemi molto gravi. Però, ad analizzarli, si vede che alla fine essi si riducono a un solo problema di fondo che sta alla base ditutti. E’ l’eterno problema di risolvere il rapporto fra l’individualità che ciascuno di noi sente fortemente, e la socialità, della quale pure non può fare  a meno, perché è anch’essa essenziale all’uomo.

Nella circolare del 9 Gennaio 1969 il nostro Provinciale P. Pierluigi Marchesi giustamente affermava che “non si realizza un’autentica vita comunitaria, unicamente perché si prega assieme, ci si nutrisce assieme, si dorme nello stesso ambiente, si fa ricreazione insieme.”

Purtroppo notiamo che spesso nelle nostre comunità manca proprio qualche cosa che ci leghi fra noi, che permetta di stabilire fra noi un rapporto in cui ciascuno non si senta più solo, per cui la vita comunitaria non sia solo formalmente comunitaria, ma sia veramente e concretamente la manifestazione di persone che mettono in comune le gioie e i dolori, che lavorano uniti, vivono insieme, studiano insieme, e quindi realizzano insieme una umanità completa, non una semplice mescolanza di indivisui che si trovano per caso o per forza a dover operare e vivere nello stesso gruppo. E proprio perché si prescinde da quella che è la chiave di questo problema fondamentale, cioè l’amore, i nostri problemi individuali e sociali che si radicano tutti su di esso, finiscono per diventare insolubili; anzi finiscono per moltiplicarsi ed approfondirsi.

Realmente ci sono delle difficoltà che forse per la natura stessa dell’uomo, non saranno mai risolte, ma resta indubbio che la forma con cui la Comunità si presenta, ha delle gravi deficienze. Ancor oggi, nonostante qualche tentativo,  le nostre comunità si presentano con una staticità, con un nichilismo inflitto all’individuo con forme di soggezione (anche se non sempre aperta e cosciente), di depauperamento del singolo che sono frequentemente il grave peso e la grave deficienza della vita religiosa. E’ una reale difficoltà di troppi giovani ad accettare la nostra vita proprio per queste ragioni. Sono ancora troppi coloro che nelle nostre comunità sono incapaci di accettare nuove fecondità.

La forma attuale di vita delle nostre fraternità rispecchia ancora uno stile tipicamente monastico, accolto però nelle sue forma esteriori e meno vitali e perciò impoverito, e applicato a degli uomini che vivono la loro giornata in un altro contesto completamente differente, qual è appunto il mondo ospedaliero in fase di continua evoluzione. Crediamo che ogni esemplificazione sia superfrua.

Preghiera, silenzio, contemplazione, lavoro, sono essenziali ad ogni uomo che sceglie il Vangelo. Il modo di vivere questi momenti deve essere però dinamico, deve nascere all’interno della Fraternità, come espressione di uomini adulti in Cristo, non come ripetizione di atti sempre uguali tsabiliti da un orario una volta per sempre e che, a lungo andare, conduce a un mortificante infantilismo. Si pesi, ad esempio, alle mille meditazioni stupide che si fanno in un anno! Eppure, l’importante è che duri mezz’ora e si svolga in quel momento preciso della giornata che può essere anche il meno indicato, almeno per alcuni.

Superiori e no, siamo tutti troppo poco convinti che colui che entra nella nostra Fraternità lo fa per realizzare una vita battesimale veramente adulta. Il Padre Tillard sostiene che questo è certo il fine dell’entrata in religione, come anche la ragion d’essere del superiore: “Non si fa infatti professione formalmente con lo scopo di vivere costantemente sottomesso a dei capi, ma al contrario, per condurre a piena maturità e a libertà perfetta l’essere-cristiano che il battesimo ha deposto in noi”.

Perché l’adulto è colui che, giunto al termine della sua crescita, della sua educazione, è d’ora innanzi capace di esercitare la sua responsabilità personale di cretura libera. E ciò senza aver di continuo di essere spinto da un altro. La vera spinta gli viene dall’interno“.

Fra Pierluigi Marchesi, Provinciale

Nella circolare già citata, il P. Provinciale diceva ancora che “la vera sicurezza che si vive una vita comunitaria la si ha quando ognuno tende alla propria santificazione nella ricerca tormentata di un bene comune sempre più vasto e sicuro“. Ma noi pensiamo che l’attuale vita comunitaria, così come si presenta, non permette, o per lo meno rende difficile la realizzazione di questo bene comune. Senza toccare le strutture e i metodi esistenti, senza sperimentare forme nuove di convivenza, nuove nel senso della novità e semplicità evangelica, è come pretendere che un bambino si sviluppi in un vestito stretto.

Siamo soliti dire che alla base delle nostre crisi di oggi c’è una grave crisi di amore. Ed è vero. Ma ci convinciamo sempre di più che è un discorso fatto a metà. E’ come se dicessimo al popolo affamato dell’India che la sua è una crisi di fede e di sfiducia nella Provvidenza del Padre che sta nei cieli, il quale nutre persino gli uccelli dell’aria, e fermassimo qui il discorso, senza tentare delle radicali riforme sociali.

Sentiamo fortemente il bisogno di fare un’esperienza  CRISTIANA che sia autentica nei suoi contenuti e in accordo con il nostro tempo, esperienza sempre più ecclesiale, per la responsabile appartenenza al Popolo di Dio, esperienza sempre più escatologica perché chiamati per elezione divina a questa testimonianza nella comunità universale, nella ricerca di sbocchi concreti nel servizio alla Chiesa locale cui ciascuno di noi appartiene.

Noi avvertiamo che i quadri istituzionali non favoriscono i nostri desideri di una esperienza effettivamente comunitaria della comunione ecclesiale. Siamo tuttavia sinceramente disponibili a collaborazioni che non siano strumentalizzate ad un superficiale aggiornamento delle strutture e delle attività della Comunità-Chiesa-locale. Vorremmo quindi approfondire tra noi l’esperienza ecclesiale, senza preclusioni o pregiudizi verso le strutture istituzionalizzate, ma in atteggiamento di critica disponibilità.

Ci auguriamo che anche altri sentano il bisogno di mettersi in questa direzione e si stabilisca tra le varie comunità uno scambio di esperienze e di idee, nell’intento di portare un po’ di speranza e di luce a noi stessi e a tutti quelli che oggi sono nel turbamento.

Ci siamo limitati a dire onestamente e francamente quello che pensiamo. E ammettiamo che i nostri puunti di vista sono, sotto diverse angolature, soggetti a revisione. In fondo, queste riflesssioni non vogliono essere, per tutti, che un invito al coraggio.

F.to: Carlo Medaglia – Dionigi Nocent – Fausto Zecchini – Filippo Borse – Pierangelo Paitoni – Pierdamiani Zamborlin -Pietro Donadelli – Tiziano Quadri -  F.Saverio Manera -

REGOLA AUREA

Carlo Medaglia o.h..

Una  delle regole fondamentali per una serena e pacifica convivenza è la libertà di opinione che scatturisce ineluttabilmente dalla ragione stessa d’essere dell’uomo. In una comunità umana non è affatto possibile che regni un dogmatismo, per cui l’opinione vanzata da alcuni privilegiati diventi per tutti regola di vita.

Lungo i secoli di storia si è ben dimostrato che i governi assolutisti ed oligarchici hanno sempre più o meno violato la libertà di coscienza dell’individuo e lo hanno persino a volte portato a ribellioni e in genere a malcontenti. La presa di coscienza che oggi ciascun uomo ha di sè dovrebbe portare a riflettere assai su questo campo e invitare a instaurare un governo più democratico e fondato sulla responsabilità dell’individuo.

Qualcuno potrebbe  forse obiettare che l’individuo deve meritarsi questa responsabilità: questa, secondo me, è una visione pessimistica dell’uomo per cui si cerca di vedere in esso solo il lato negativo, lo sbaglio che per debolezza o dappocaggine potrebbe commettere. Ma se basassimo i nostri rapporti con gli altri su una reciproca fiducia, se tutti ci impegnassimo a lavorare assieme, a mettere insieme le forze e collqaborare reciprocamente per il bene comune, certamente ci sentiremmo tutti più responsabili, più impegnati e tesi verso la conquista di un ideale; invece sembra che le diversità di opinione, anziché portare ad una saggia sintesi, ad un equilibrio armonico, di tutti gli aspetti della realtà, porta piuttosto ad una sciocca reazione di frontr al fratello, ci trinceriamo nel nostro castello e chiudiamo orecchi e cuore di fronte agli altri.

Sembrerebbe che solo noi abbiamo ragione, mentre la ragione non è mai di nessuno, per cui tutto quello che si fa dovrebbe cadere sulla responsabilità di tutti i i membri costituenti una comunità. Per convincerci che è necessario aprire la nostra mente a tutte le tendenze di pensiero, è necessario comprendere appieno che la vita è difficile, non si risolve con delle formule di matematica o con studi statistici, bensì considerando uomo per uomo nella sua più profonda entità di essere ragionevole e percuiò capace di vedere una parte del vero.

Da qui nascerà poi il desiderio di sentire tutte le opinioni avanzate dai singoli, di farne tesoro, per dirigere meglio una comunità. E’ ormai da tutti assodato che visioni unilaterali e stereotipe della vita portano fatalmente a chiudersi in una visione esclusiva che resti poi per tutta la vita, determinando atteggiamenti dogmatici conformisti e intolleranti.

Chi ascolta sistematicamente una sola campana, spesso finisce col credere che quella è la verità sacrosanta e respinge a priori ogni altra interpretazione della vita, già di per se stessa assai complessa e difficile da spiegare.

Un ottimo antidoto a sì incivili costumi è la discussione, il dialogo che è la “regola aurea” della convivenza umana, il “mèghiston agaton” del vecchio Socrate, il bene più grande della vita, che dà a ciascuno la possibilità di vedere se le proprie idee sono vere o false, di correggerle e di migliorarle; il metodo che persuade che il vero e il bene non stanno sempre dalla stessa parte, e non sono il monopolio di nessuno ma il risultato della continua ricerca di tutti gli uomini.

Non con divido affatto la preoccupazione dei dogmatici che il sentire più campane possa portare allo scetticismo e al disorientamento; sono invece convinto che la strada che porta al meglio e al vero è il libero cimento delle idee.

La riflesione, la valutazione attenta delle idee degli uni e degli altri sollecitano a giudicare liberamente e a convincersi che gli oppositori sono più utili di quelli che ci danno sempre ragione. Sono qyueste tutte frasi scritte d’un getto, con uno stile povero e disorganico, ma penso che per chi sappia e voglia comprendere, siano sufficienti per un serio esame e per una presa di posizione onesta, sincera ed autentica di fronte alla realtà.

OPZIONI ’70

 

IL PERIODICO DELLE NOSTRE FRTERNITA’

DOVE IL LETTORE PUO’  INTERVENIRE

COME CO-AUTOREO

 

 

COMUNITA’ E INDIVIDUO

Fausto Zecchini o.h.

Comunità e individuo possono sembrare due termini antitetici e che si escludono a vicenda; ma in realtà ad un esame più approfondito o meno superficiale, risulterà chiaro come i due termini siano complementari.

Tanto per cominciare nessuno potrà negare che una comunità è formata o si forma soltanto dall’unione di più individui. Per cui esaminare il problema della comunità, vuol dire prendere in considerazione anche il problema dell’individuo, mettere in discussione un certo modo di concepire la vita comunitaria vuol dire ricercare un nuovo senso dell’individuo.

Se un membro di una comunità qualsiasi è stato sfruttato o frustrato dai pregiudizi di gruppo, è certo che questo individuo non sarà mai disponibile per quella comunità, ed è giusto che costui rivendichi i suoi diritti inalienabili.

Ogni comunità sociale, e potremo illustrare questa tesi con esempi concreti, tanto più si può chiamare tale, quanto più ha acquisito il valore dell’individuo. Noi vediamo che dove ci si batte per un concetto troppo astratto di comunità e si concepisce l’individuo soltanto come una funzione cieca di questa situazione, anche il bene comune sia ben lontano dall’essere realizzato.

E se questo è valido per qualsiasi comunità sociale, qualunque sia lo scopo che essa si prefigge, tanto che perfino nel campo del lavoro si reclama sempre più la personalizzazione dell’attività umana, perché non dovrebbe valere anche per le comunità religiose?

Certo sarebbe fare confusione il non ammettere che la vita religiosa ha una sua finalità propria, distinta da quella di altre comunità sociali, ma bisogna tener presente che il valore della personalità è imprescindibile dalla natura umana, in qualsiasi stato essa si trovi. Anzi, il rispetto della personalità degli altri dovrebbe essere maggiormente avvertito dagli uomini di religione, i quali professano fra l’altro anche l’amore al prossimo.

Invece c’è proprio da meravigliarsi come talvolta il rispetto della personalità sia proprio deficitario da parte di coloro che abusano nel parlare di carità. Se si vogliono comunità più vitali, più funzionanti, più disponibili, occorre formare delle personalità mature su tutti gli aspetti: intellettuale, morale, psicologico; occorre sviluppare le potenzialità latenti degli individui secondo le più sane norme psicologiche.

Fino a che si impartisce una istruzione morale e religiosa puramente formalistica, intesa solo come ripetizione stereotipa di gesti e di atti sempre uguali, mentre d’altra parte si nota spesso, proprio da parte di coloro che si credono più osservanti, freddezza e insensibilità verso coloro che stanno loro accanto, non dicendo mai loro una parola che esca dal puro atteggiamento di convenienza, e un atteggiamento di perenne scandalo per tutto ciò che dicono e fanno agli altri, – in breve, fino a che si favorirà un tipo di religiosità che ha più a che fare con un caso di patologia che con un’espressione sincera di virtù – sarà impossibile ottenere una vera fraternità.

Tante volte si ha l’impressione che da questa religiosità sia esclusa l’unica cosa necessaria: l’amore. Un uomo religioso deve essere anche profondamente umano, altrimenti fa nascere il dubbio che ci si trovi di fronte a un’infatuazione di natura nevrotica.

“La formazione del cristiano e tanto più del religioso, non deve essere qualcosa di separato o aggiunto alla formazione dell’uomo. Chi forma il cristiano forma anche l’uomo, non si può formare il cristiano non formando l’uomo. Né si pensi che l’azione umana e l’opera divina della grazia possano costituire delle forze indipendenti, i cui effetti si manifestino in due fasi successive; si tratta invece di due elementi completamente integrati di cui luno non sopprime l’efficienza dell’altro. Il soprannaturale non è già annientamento delle energie individuali, non è frigidità psicologica, ma consiste nel potenziamento di tutte le risorse della personalità” (Zavalloni: Educazione e personalità).

E come è possibile un’autentica vita comunitaria fondata sull’amore quando si impartisce un formalismo morale, in cui si insegnano soltanto i nomi delle virtù e non si permette ai membri di fare quelle esperienze che sono necessarie per una formazione morale autentica ed esistenziale, mettendoli in contatto con la realtà, affinché si rendano conto del bene da operare e del male da combattere.

Un altro problema di fondamentale importanza, il quale si può dire venga quasi completamente trascurato, è il problema psicologico. Riguardo a questo problema si spendono e spandono molte parole sulla carta, ma nella realtà si continua a impiegare metodi contro cui continuamente psicologi e psichiatri ci mettono continuamente in guardia.

Spesso quando si parla di questi problemi si rimane allibiti nel constatare il senso di stupore sconcertante che si suscita, come se si stesse parlando di stregonerie. Purtroppo, da parte di molti si guarda ancora oggi a questi problemi con forti pregiudizi e non si vuole assolutamente comprendere la loro fondamentale importanza. Ecco allora che l’unico sforzo che si compie è di mantenere un ordine esteriore, senza mai tener in considerazione le condizioni concrete delle persone, cioè delle loro sofferenze, del loro equilibrio fisico e morale, dei loro bisogni materiali e spirituali.

“Si è pronti a prendere in considerazione lo stato di salute fisica di un individuo, ma più raramente siamo disposti a tenere conto dei suoi squilibri psichici. Comprendiamo il dolore fisico degli altri, ma non sappiamo altrettanto comprendere le loro pene morali. Questa mancanza di comprensione delle sofferenze altrui mette in rilievo la necessità di una maggiore formazione psicologica.” (Zavalloni).

Da questa assoluta incomprensione del problema psicologico nasce come conseguenza l’incapacità di giudicare alcune situazioni che si verificano nell’ambito delle comunità religiose. Si vogliono personalità disponibili, responsabili, e si dimentica l’assoluta irresponsabilità dei metodi educativi impiegati nella formazione dei singoli. Si minimizzano gli effetti che scaturiscono da un’educazione rigorista e puritana, quando le persone competenti in questo campo ci accertano che le conseguenze sono gravi, e che il superarle richiede da parte degli individui una buona dose di eroismo.

E per tener buoni fgli individui si ricorre continuamente alle frasi fatte e ai soliti slogan, invero molto ipocriti: “Acqua passata non macina più” o “quello che è successo è successo”, come che il passato non sia, se questo è stato negativo, un pesante handicap sulle spalle dell’individuo. Si pretende che un individuo logorato da questo iter psicologico così frustrante, si rimetta ipso facto a nuovo, per mettersi al servizio della comunità con una personalità straripante. Si implora un apporto dell’individuo, ma non ci si rende conto che troppo spesso lo si rende schiavo di pesanti pregiudizi prima che questo possa fare qualcosa.

Ecco allora la grave confusione nel distinguere il piano morale da quello psicologico. Si interpretano invero, assai farisaicamente, molte defezioni, ricollegandole a fantasticherie moralistiche, mentre appare chiaro anche una considerazione psicologica dilettantistica che il più delle volte si tratta di disadattamento psicologico e di usura morale, mentre dall’altra parte basta un po’ d’invadenza, un po’ di servilismo, molto movimento e fracasso, anche se accompagnati da insensibilità morale e spirituale, per fare apparire qualcuno uno stinco di santo.

Invero questa è una concezione assai materialistica della vita anche se giustificata dall’alibi della religione, è una concezione assai proammatista di valutare il comportamento degli individui, riconoscendoli degni di stima soltanto in base a una gretta valutazione di rendimento produttivo.

Invero, bisognerebbe fare entrare nella vita religiosa un soffio di vera spiritualità, di amore autentico aperto ai bisogni di ognuno che ci sta vicino; basterebbe accettare l’altro per quello che esso è e non per quello che noi vogliamo che esso sia, essendo noi stessi dei modelli poco da imitare, se vogliamo ottenere collaborazione e anche qualche risultato pratico.

Ispirarsi a un concetto pessimistico della persona umana, ritenerlo solo capace di male, vuol dire rassegnarsi a far diventare le comunità religiose delle caserme. Tutti gli sforzi sono inutili senza un autentico amore.

Per necessità di chiudere il discorso, che si sta ormai dilungando oltre i limiti concessi, tralascio di parlare dell’importanza della formazione intellettuale, che di per sé è già implicita nel problema educativo.

Con quanto ho scritto non ho preteso do aver esaurito la problematica riguardante la vita comunitaria; comprendo che molti altri fattori vanno presi in considerazione; e nemmeno di aver parlato con molta competenza e precisione; ho avuto solamente la piccola pretesa di dire, con sincerità e spontaneità, ciò che ritenevo importante dire.

 

PER UNA SANA EDUCAZIONE AFFETTIVA

Di Pierdamiani Zamborin o.h.

Esiste oggi in seno alla nostra società una buona educazione affettiva?

“Da educatori nevrotici – afferma Wintley – provengono quasi di regola uomini nevrotici”. Da questa affermazione ci si rende conto quanto sia indispensabile la preparazione dell’educatore specie nel campo affettivo. Da una errata educazione possono derivare conseguenze tali da rovinare la futura esistenza di un individuo. Gli psicologi più esperti enumerano alcune gravi conseguenze scaturite da una educazione sbagliata: e così ad esempio, che da una educazione narcisistica, cioè eccessivamente amorosa, si può avere una deviazione molto grave, l’omosessualità; mentre da un’educazione autoritaria o comunque punitiva, il giovane può tendere all’onanismo, cioè alla masturbazione perpetua come unica forma di attività sessuale.

Si giunge in questo modo ad una vera e propria perversione sessuale, che può sfiorare la psicosi, infatti da questa incontinenza abituale, ne deriva una tale distorsione della vita affettiva, che può creare un distacco dalla realtà, tipico delle psicosi.

Frank Wintley ci indica quali possono essere gli errori fondamentali che gli educatori possono evitare: “Non rendere difficile ai giovani l’emancipazione affettiva, non sfruttare la dipendenza materiale come tema di rimproveri o mezzo per l’influenza o di costrizione, non rendere impossibile il frequente contatto con l’altro sesso, non far valere proprie preferenze nella scelta dell’impiego”.

A quest’ultimo punto è bene tenere presenti due dati di fatto psicologicamente giustificati:

  • primo, che il valore di una professione non sta sui vantaggi materiali o sull’altrui considerazione;

  • secondo, che per un duraturo successo professionale hanno importanza decisiva, non l’esperienza dei più anziani o amici, e le contingenze del momento, ma la dedizione piuttosto, e lo zelo con cui un’attività viene svolta.

Indispensabile è pure, per una adeguata formazione del giovane, l’uso delle scuole miste, dell’università e delle associazioni culturali e sportive giovanili.. Attraverso tali istituzioni i giovani dei due sessi si incontrano in un’ atmosfera che riduce a secondaria la valutazione dal punto di vista strettamente fisico e sessuale, esaltando invece i rapporti basati su quanto di comune ai due sessi è solamente umani, cioè la capacità, i meriti personali e le qualità del carattere.

Il giovane sente la necessità di costruirsi liberamente e rifiuta ogni coercizione educativa; tuttavia non ha la capacità critica e la forza necessaria per riuscire da solo, pertanto l’appoggio cercato deve essere offerto nel pieno rispetto dell’altrui persona, in modo che il giovane possa assumere la coscienza  dell’umano, e acquisire una libertà che si fronteggia dalla responsabilità, scegliersi e quindi costruirsi.

Per ogni tipo di educazione esiste sempre un margine di impreparazione, ma soprattutto nel campo affettivo si avverte fortemente la necessità di educatori sempre più preparati per poter diminuire tante deviazioni oggi esistenti e costruire l’uomo integro affettivamente che possa esprimersi nel mondo che lo circonda, senza complessi.

 

DA AFAGNAN – Hospital Sanint Jean de Dieu

Afagnan – Ospedale Saint Jean de Dieu

STUDENTATO

FATEBENEFRATELLI

OSPEDALE S. FAMIGLIA

22036 ERBA (Como  – ITALIA

Afagnan, 15/01/70

Carissimi tutti,

mi scuserete se non scrivo tanto, d’altra parte a farlo con i vostri lunghi scritti…

Scherzi a parte, io sto molto bene, benissimo. Sono più che mai contento. Il lavoro è un po’ enorme ma bellissimo.

Vi mando la foto di questo “bocia” affinché non vi dimentichiate nè di lui nè di me.

Un ricordo per tutti nel Signore io ce l’ho sempre.

Con Fraterno affetto tutti saluto e abbraccio in Xto.

Fiorenzo Priuli o.h.

deserto

TUTTI COINVOLTI

Di Angelo Bertoglio o.h.

Ho qui sul tavolo (come non dubito di ogni altro confratello) i primi tre numeri di OPZIONI ’70.

Non ho ancora avuto il tempo di leggerli tutti. Ma lo debbo fare senz’altro in questi giorni, lo prometto, lo ritengo anzi un dovere.

Sfogliandoli, quello che ho potuto raccogliere subito, è che il lettore di questa nuova arma letteraria può diventare co-autore. Mi sono affrettato cosìma scrivere subito qualcosa.

La mia anima avrebbe tante cose da dire solo leggendo l’editoriale del primo numero che porta la firma di D. Nocent, amico carissimo. Ho promesso che leggerò interamente i numeri finora usciti per poter dire con cognizione di causa le mie impresioni, suggerimenti e critiche.

Per il momento, solo due parole, così, di primo acchito, come me le suggerisce l’articolo suaccennato e che mi piace trascrivere: “La Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticno II. Anche le nostre Fraternità dovranno fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storiae tradurre vitalmentei “segn dei tempi”. Senza dubbio!

Credo che dobbiamo cominciare con l’intenderci subito sulla parola “Fraternità”, la “nostra Fraternità”.

Domandiamci:

  • l’abiamo noi questa entità morale, questa base di partenza, questo primo gradino di una lunghisima scala da percorrere?

  • Siamo disponibili noi nel nostro ambiente religioso (limitiamolo pure ai 150 membri della cosidetta “Provincia” Religiosa – che non dovrebbe voler dire “gente di provincia”) ?

  • Abbiamo questa tensione, questo desiderio di potenziare ogni legame fraterno magari attraverso ad “una profonda revisione di vita” ?

  • In una parola: siamo uniti? “Ogni regno diviso in se stesso cadrà in rovina” (Matteo 12,25)

Beh! Capisco, non è posibile rendere omogeneo un gruppo di centocinquantapersone sul piano psicologico, dove solo la disparità di età gioca un ruolo determinante; però… C’è un punto sostanziale e unificatore ed è la Fraternità. Oggi dobbiamo trovarci tutti coinvolti nella sua realizzazione attraverso una buona (retta, sana, santa) volontà. Essa è la disposizione alla benedizione del Signore sul nostro impegnativo lavoro. “Il Signore bendice i buoni e i retti di cuore”, dice il Salmista, e ancora: “Fativco invano quelli che costruiscono senza di Lui”.

Questa buona volontà si traduce per noi in sincerità, chiarezza, manifestazione generosa e aperta della propria personalità. Fuori dunque dalla trincea nella quale è comodo nascondersi e avvilente rifugiarsi per sparare (colpendo e uccidendo) senza essere visti, mantenendo l’anonimato.

Oggi la guerra di trincea è sorpassata. Tutti dunque sono chiamati a cobattere in campo coperto, disponendosi coraggiosamente (se necesario anche eroicamente) a tutti gli attacchi, che si esige di ricevere però a viso aperto o fronte a fronte.

E’ bello scambiarsi lealmente le proprie opinioni, contrastanti fin che si vuole, poterle dire alla luce del sole, metterle in comune per un vero dialogo, spesso solo reclamizzato fino all’usura. Assemblee, conferenze, dibattiti, convegni, giornate di studio, tavole rotonde, stampa, sono questi i metodi moderni per affrontare seriamente i problemi. Non è certo con quel vecchio e insulso metodo di critica da salotto (per noi leggi “refettorio”) che in medioevale linguaggio ascetico si chiama mormorazione, sussurro.

Attraverso la strada del dialogo si risponde all’angoscioso appello della Chiesa post-conciliare. E con il dialogo, più che la “democrazia” si realizza la “comunione”.

Guardate però, cari confratelli, che a qesta fraterna lotta costruttiva non basta più portare il solo bagaglio intellettuale dell’atico trattato di perfezione evangelica di felice memoria: il RODRIGUEZ; non regge più una critica che si basi sulla cultura fatta di soli libri d lettura spirituale, anche se fatta in Coro, davanti al SS. Sacramento. Lo stesso Gesù ci chiede oggi qualcoa di più impegnativo o forse anche di maggior sacrificio, ci chiede di rinunciare persino a un comodo pietismo sterile. Altrimenti, non riteniamoci capaci e nemmeno autorizzati a criticare, intaccando e danneggiando la buona volontà di coloro che sono seriamente impegnati e ritardando la traduzione vitale dei “segni dei tempi”.

Ecco come noi dobbiamo incominciare a concepire la nostra Fraternità. Ed è urgente.

Non si arriva subito ad un accodo sul piano ideologico, si creeranno senz’altro delle correnti, dei contrasti di gruppo, ci cozzeremo perfino, però…sarà tutto su un piano di amicizia e di carità, con un unico ideale: l’avvento del Regno di Dio.

Noi che siamo il Nuovo Popolo di Dio dobbiamo dare al mondo contemporaneo l’esempio di questa disponibilità.

Da OPZIONI ’70 – Aprile – N.4

OPZIONI ’70

 

Ciò che i fedeli attendono da noi è una povertà che si traduce in una libertà totale di fronte alle potenze terrene: potenza economica, politica, ecc

Bisogna che la Chiesa sia libera, bisogna che sia povera, povera in spirito, ditaccata dai beni terreni: quei beni della terra che sono il desiderio di potenza, il desiderio di dirigere tutto” (P. E. Léger)

 

 

CANONIZZAZIONE DI

MARIA SOLEDAD TORRES ACOSTA

Maria Soledad Torres

OMELIA DEL SANTO PADRE PAOLO VI

Domenica, 25 gennaio 1970

File:Paolo VI.jpg

Venerati Fratelli e diletti Figli!

In quest’ora di tribolazione per la Chiesa e di amarezza per Noi, ecco un momento di grande consolazione: Maria Soledad Torres Acosta è riconosciuta e proclamata Santa, è iscritta nell’albo dei Santi, è presentata a tutta la Chiesa terrestre come appartenente alla Chiesa celeste, ella è dichiarata degna del culto di venerazione, perché per sempre e totalmente unita a Cristo risorto e partecipe della sua gloria.

Questo vuol dire l’atto straordinario e solenne, che ora abbiamo compiuto; abbiamo canonizzato questa beata figlia della Chiesa, e Noi sentiamo la luce, il fascino, il mistero della santità irradiare sopra di noi, sopra questa assemblea esultante, sopra la terra, che fu patria della nuova Santa, la Spagna, sopra la famiglia religiosa da lei fondata, le Serve di Maria Ministre degli Infermi, sopra la Chiesa intera, sopra il mondo. Benediciamo il Signore.

Ascoltiamo la voce che discende dalle profondità dei cieli, e facciamole eco con la nostra: «Alleluia! Perché il Signore Iddio nostro onnipotente vuole regnare. Rallegriamoci ed esultiamo, e diamo a lui gloria; poiché sono giunte le nozze dell’Agnello, e la sua sposa s’è abbigliata, e le fu dato d’indossare bisso splendente e candido. Il bisso (questa nitida e finissima veste), infatti, sono le opere giuste dei Santi» (Apoc. 19, 6-8). È questa la voce della Apocalisse, dell’ultima rivelazione, che svela il senso estremo delle cose, e la sorte della nostra salvezza finale. È una voce misteriosa, ma chiara, la quale ci dice finalmente il segreto, il valore della santità.

La santità si manifesta finalmente come pienezza di vita, come felicità sconfinata, come immersione nella luce di Cristo e di Dio, come bellezza incomparabile ed ideale, come esaltazione della personalità, come trasfigurazione immortale della nostra esistenza mortale, come sorgente di ammirazione e di letizia, come conforto solidale con il nostro faticoso pellegrinaggio nel tempo, come nostra pregustazione inebriante della «comunione dei santi», cioè della Chiesa vivente, che, sia nel tempo sia nell’eternità, è del Signore (Cfr. Rom. 14, 8-9).

Un fenomeno di questa visione ci sorprende specialmente in questo momento; ed è il duplice aspetto della santità: l’aspetto che essa acquista in paradiso, e l’aspetto, ch’essa presenta nella scena del mondo attuale. Sono due aspetti d’una medesima realtà morale, delle opere della santità, come ci indica il testo della Sacra Scrittura, ora da Noi citato. Le opere compiute in questa vita conservano il loro valore nell’altra: Opera enim illorum sequuntur illos, dice ancora l’Apocalisse di coloro che sono morti nel Signore (Apoc. 14, 13); ma esse, le opere, rivestono ben diversamente chi le compie quaggiù, che non lassù; lassù di splendore e di gaudio; quaggiù invece: come appariscono? come sono? È il perenne Vangelo delle beatitudini, che lo dice nel suo drammatico linguaggio: quaggiù la santità è povertà, è umiltà, è sofferenza, è sacrificio; cioè imitazione di Cristo, Verbo di Dio fatto uomo, nella sua Kénosis, nella sua duplice umiliazione dell’Incarnazione e della Redenzione.

Maria Soledad

VITA SEMPLICE E SILENZIOSA

Questo confronto fra i due aspetti della santità produce in noi un vivissimo interesse, quello di conoscere prima, d’imitare poi la vita temporale di chi, proprio per merito di essa, gode ora della vita eterna. Nasce di qui l’agiografia, cioè lo studio delle biografie dei Santi, studio che faremmo bene tutti a riprendere con maggiore passione, e con le discipline moderne della critica storica, dell’analisi psicologica, mistica e ascetica, dell’arte narrativa, della valutazione ecclesiale. Ne abbiamo ancor oggi tanto bisogno, e ne possiamo trarre istruzione e conforto.

Viene spontanea la domanda:

  • com’è la vita di Maria Soledad?

  • Com’è la sua storia?

  • Com’è diventata Santa?

Impossibile, senza dubbio, per Noi dare risposta a questa domanda e fare qui il panegirico di Maria Soledad. Troverete nei libri, che narrano la sua vita, come soddisfare questa legittima e lodevole curiosità. Si tratta del resto d’una vita semplice e silenziosa, che due grandi parole possono riassumere: umiltà e carità. Una vita tutta tesa nell’intensità della vita interiore, nella fatica della fondazione d’una nuova famiglia religiosa, nella imitazione di Cristo, nella devozione alla Madonna, nel servizio degli Infermi, nella fedeltà alla Chiesa.

Ma se la biografia di Maria Soledad non ci offre le singolarità spesso avventurose e prodigiose, né la ricchezza di parole e di scritti, che distinguono altre figure di Sante, il suo mite e puro profilo presenta alcune caratteristiche, a cui ci sembra doveroso qui accennare.

Maria Soledad è una Fondatrice, la Fondatrice d’una Famiglia religiosa, molto numerosa e molto diffusa. Ottima e provvida Famiglia. Così che Maria Soledad si inserisce in quella schiera di Sante ed intrepide Donne, che nel secolo scorso fecero scaturire nella Chiesa fiumi di santità e di operosità; interminabili processioni di vergini consacrate all’unico e sommo amore di Cristo, e tutte rivolte al servizio intelligente, indefesso, disinteressato del prossimo. Voi le conoscete, le trovate dappertutto; superfluo che Noi ora ve ne descriviamo la magnifica espansione.

La vitalità della Chiesa, la sua fecondità, la sua audacia, la sua bellezza, la sua poesia, la sua santità sono splendidamente documentate in questa irrompente fioritura di Famiglie religiose, femminili specialmente, che hanno intessuto la storia, si può dire, della vita cattolica in questi ultimi tempi.

Fra queste Famiglie elette ed operose si inserisce quella delle Serve di Maria di Santa Maria Soledad. Si inserisce a tal punto che potremmo considerare in essa il tipo di questa immensa e multiforme espressione di vita religiosa, che, nonostante le specifiche peculiarità di ogni singolo Istituto, sembra ricalcata sopra un modello comune, una formula sostanzialmente eguale per tutte le nuove fondazioni dell’ottocento, così che oggi, nel fervore e nella eccitazione del rinnovamento della vita religiosa e nella ricerca, alle volte troppo critica e alquanto fantasiosa, di nuove formule di consacrazione alla sequela di Cristo, sorge la questione se il paradigma, di cui stiamo ammirando un insigne esemplare, sia esatto in se stesso e ancora valido per il nostro tempo.

Davanti alla figura di S. Maria Soledad ed alla legione delle sue figlie Noi siamo felicemente in dovere di rispondere affermativamente. Senza escludere che l’interpretazione della vocazione alla perfetta e totale sequela del Maestro Gesù ammetta, con quelle storiche e classiche, che hanno preceduto lo schema di vita religiosa come quello che abbiamo davanti, altre nuove espressioni degne di fiorire nel giardino della Chiesa e di misurarsi con i bisogni e nelle forme del nostro tempo, Noi confermiamo il Nostro suffragio al paradigma di vita religiosa realizzato principalmente nel secolo scorso e in quello presente.

I caratteri peculiari, che lo descrivono specificamente, giustificano e glorificano questo tipo di ricerca della perfezione cristiana; e cioè: il distacco pratico ed ascetico dalla comune vita secolare, alla quale oggi invece molti danno la preferenza; la vita comune organizzata nella osservanza dei consigli evangelici della povertà, della castità e dell’obbedienza; il primato gelosamente conservato alla vita interiore, alla preghiera, al culto divino, all’amor di Dio, in una parola, la dedizione senza limiti e senza calcoli egoistici a qualche opera di carità; e finalmente l’adesione profonda ed organica alla santa Chiesa.

Questi caratteri basilari, che costituiscono uno stato di vita qualificato dallo sforzo verso la perfezione cristiana, sono autenticamente conformi alle esigenze del Vangelo, e sono tuttora validi a definire e ad avvalorare la vita religiosa per il nostro tempo. La Congregazione delle Serve degli Infermi, nel nome e nell’esempio della sua Santa Fondatrice, merita questo Nostro riconoscimento.

UN CAMPO NUOVO PER LA CARITÀ

Maria Soledad - reliquiaE ne merita un altro, quello che specificamente la definisce come Istituto religioso dedicato all’assistenza degli Infermi. Questa è la scelta che esprime, impegna ed illustra la carità di Maria Soledad e della sua progenie spirituale.
Si potrà dire: non è scelta nuova, non è scopo originale.

La cura della sofferenza fisica, e con quella fisica la cura quasi da sé risultante della indigenza spirituale, ha interessato la carità di molte altre istituzioni religiose immensamente benemerite nell’esercizio amoroso e generoso delle «opere di misericordia». È vero; e perciò classificheremo le Ministre degli Infermi nell’eroico esercito delle Religiose consacrate alla carità corporale e spirituale; ma non dobbiamo trascurare un rilievo specifico proprio del genio cristiano di Maria Soledad, quello della forma caratteristica della sua carità, e cioè dell’assistenza prestata agli Infermi nel loro domestico domicilio; forma questa che nessuno, a Noi pare, aveva ideato in maniera sistematica prima di lei; e che nessuno prima di lei aveva creduto possibile affidare a delle Religiose appartenenti a Istituti canonicamente organizzati.

La formula esisteva, fin dal messaggio evangelico, e quale! semplice, scultorea, degna delle labbra del divino Maestro: Infirmus, et visitastis me; Io, dice Cristo, misticamente personificato nella umanità sofferente, Io ero ammalato, e voi mi avete visitato (Matth. 25. 36).

Ecco la scoperta d’un campo nuovo per l’esercizio della carità, ecco il programma di anime totalmente consacrate alla visita del prossimo sofferente. Non è in questo caso il prossimo sofferente che va in cerca di chi lo assista e lo curi, non è lui che si lascia trasportare nei luoghi e nelle istituzioni, dove l’infelice è accolto e circondato dalle premure sanitarie saggiamente e scientificamente predisposte; è invece l’angelo della carità, la Serva volontaria che va in cerca di lui, nella sua dimora, nel focolare dei suoi affetti e delle sue abitudini, dove la malattia non lo ha privato dell’ultimo bene superstite, la sua individualità, la sua libertà.

Non è questa una semplice finezza della carità; è un metodo che indica una penetrazione acuta sia della natura propria della carità, ch’è quella di cercare il bene altrui, e sia della natura del cuore umano, geloso, anche quando riceve, della propria sensibilità, della propria personalità.

Qui è un lampo di sapienza sociale, che precede le forme tecniche e scientifiche dell’assistenza sanitaria moderna, e che, per essere gratuitamente effusa a chiunque abbia per chiederla il titolo del bisogno e del dolore, ci dimostra, ancora una volta, l’incomparabile originalità della carità evangelica.

Maria Soledad diventa precorritrice e maestra della più consumata sollecitudine assistenziale e sanitaria del nostro umanesimo sociale. Tutti le dobbiamo essere riconoscenti; tutti dobbiamo benedire il servizio provvidenziale, ch’ella, seguita poi da non poche similari iniziative, ha inaugurato.

PREGHIERA DI UNO

CHE NON SA PIU’ PREGARE

 

 

Signore, non so più pregare.

Ho perduto questa scienza, per la quale non c’è più maestro, non c’è pù scuola.

 

Conoscessi una chiesa in cui la Domenica

Si insegni a pregare, in cui si preghi,

dove ci si senta come sollevati da un movimento di preghiera!

 

E’ molto raro, Signore.

Io prego così poco, così raramente, così male.

Ne sono dolente e tuttavia mi sembra impossibile poter cambiare.

Come potrò?

 

Sono anzitutto un uomo tanto occupato,

ho la vita talmente piena di attività,

di distrazioni, perfino di opere buone,

sono troppo preso, non ho più il tempo di far niente.

 

Risultato: sono completamente in balia della mia debolezza,

della mia viltà, del mio capriccio:

poiché ho sempre da fare la scelta fra mille cose,

trovo sempre dei pretesti , degli ottimi pretesti,

dei pretesti pii e caritatevoli

per non fare quello che non ho voglia d fare,

ciò che ho paura di fare: fermarmi, raccogliermi, pregare.

 

Preferisco occuparmi di tutto piuttosto che occuparmi di Te.

Quel trovarmi davanti a Te mi spaventa,

perché temo di annoiarmi,

di conoscere quello di cui non ho voglia di sapere,

di dover sacrificare qualcosa a cui non ho nessuna voglia di rinunciare.

 

 

Ma soprattutto non ho tempo per Te.

Con Te, Signore, che sei onnipotente,

bramerei spicciarmi un po’ di più,

capirmi in un batter d’occhio,

finirla in un minuto secondo.

E invece mi fai scappare la pazienza

Per la lentezza con cui Ti riveli, agisci, ti spieghi.

 

Ma ora mi metto veramente a tua disposizione, Signore,

perché Tu possa fare in me almeno per un momento

ciò che vuoi fare da sempre e che io non ti lascio mai il tempo di fare.

 

Ecco. Sto innestandomi sulla tua corrente,

la sento circolare in me e una profondità vertiginosa

e mi ritrovo totalmente diverso da quel che ero al principio.

 

“Signore, nelle Tue mani affido il mio spirito”.

“Non la mia volontà ma la tua”.

 

UDIENZA GENERALE DI PAOLO VI

Mercoledì, 15 luglio 1970

P. Gabriele Russotto o.h. Postulatore Generale e storico dell’Ordine, ricevuto da Paolo VI

 

Abbiamo parlato tante volte, in queste Udienze generali, del Concilio, sempre in termini elementari per adeguarci alla natura di questi incontri brevi e familiari, e ci accorgiamo che molto, per non dire tutto, resterebbe da dire. Avremo sempre modo, a Dio piacendo, di ritornare a questa grande scuola per trarne insegnamenti antichi e nuovi, e specialmente per avere lumi direttivi all’opera di «aggiornamento» (secondo la celebre parola del nostro venerato predecessore Papa Giovanni XXIII, nel suo discorso di apertura del Concilio ecumenico), cioè all’opera di adattamento della vita e della esposizione della dottrina della Chiesa, sempre salva l’integrità della sua essenza e della sua fede, alle esigenze della sua missione apostolica, secondo le vicende della storia e le condizioni dell’umanità, a cui tale missione si rivolge.

Ma siamo tutti desiderosi di spostare lo sguardo dal Concilio al Post-Concilio, cioè ai risultati che da esso sono stati generati, alle conseguenze che ne sono derivate, all’accoglienza che la Chiesa ed il mondo hanno fatto agli avvenimenti e agli insegnamenti conciliari. Il Concilio, come episodio storico, è già di ieri; il nostro temperamento moderno ci porta a guardare al presente, anzi all’avvenire. Il Post-Concilio assume ora grande interesse. Quali effetti ha prodotto il Concilio? quali altri può e deve produrre? Tutti siamo convinti che cinque anni dalla conclusione del Concilio non bastano per dare su di esso e sulla sua importanza, sulla sua efficacia un giudizio esatto e definitivo; e siamo tuttavia tutti parimenti convinti che il Concilio non si può dire concluso allo scadere della sua durata, come succede di tanti avvenimenti che il tempo, passando, seppellisce e consente che solo gli studiosi delle cose morte ne conservino viva la memoria. È il Concilio un avvenimento che dura, non solo nella memoria, ma nella vita della Chiesa, e che è destinato a durare, dentro e fuori di lei, per lungo tempo ancora.  

TENSIONI, NOVITÀ, TRASFORMAZIONI

 Questo primo aspetto del Post-Concilio meriterebbe lunga considerazione, non foss’altro per determinare se l’eredità del Concilio è semplicemente una permanenza, o se è anche un processo in via di sviluppo; per stabilire cioè quali insegnamenti esso ci ha lasciati da ritenere stabili e fissi, come in genere succedeva dopo gli antichi Concili conclusi con delle definizioni dogmatiche, ancora oggi e per sempre valide nel patrimonio della fede; e quali altri esso ci ha annunciati da svolgere e da sperimentare in una successiva fecondità, come è da supporre che principalmente lo siano quelli del Vaticano secondo, qualificato piuttosto come Concilio pastorale, cioè rivolto all’azione. Esame questo importante e difficile, che non senza l’assistenza del magistero ecclesiastico può essere via via compiuto.

Un secondo aspetto, che impegna oggi l’attenzione di tutti, è lo stato presente della Chiesa, posto a confronto con quello anteriore al Concilio; e siccome lo stato presente della Chiesa si può dire caratterizzato da tante agitazioni, tensioni, novità, trasformazioni, discussioni, eccetera, subito i pareri si dividono: chi rimpiange la supposta tranquillità di ieri, e chi gode finalmente dei mutamenti in corso; chi parla di disintegrazione della Chiesa e chi sogna il sorgere d’una nuova Chiesa; chi trova che le novità siano troppe e troppo rapide, e quasi sovversive della tradizione e dell’identità della Chiesa autentica; e chi invece accusa lento e pigro e forse reazionario lo svolgimento delle riforme già compiute o iniziate; chi vorrebbe ricostituire la Chiesa secondo la sua figura primitiva, contestando la legittimità del suo logico sviluppo storico; e chi vorrebbe invece sospingere questo sviluppo nelle forme profane della vita corrente fino a dissacrare e a secolarizzare la Chiesa, disgregandone le strutture a vantaggio d’una semplice, gratuita e inconsistente vitalità carismatica; e così via. L’ora presente è ora di tempesta e di transizione. Il Concilio non ci ha dato, per adesso, in molti settori, la tranquillità desiderata; ma piuttosto ha suscitato turbamenti e problemi, certamente non vani all’incremento del regno di Dio nella Chiesa e nelle singole anime; ma è bene ricordare: questo è un momento di prova. Chi è forte nella fede e nella carità può godere di questo cimento (Cfr. S. TH. IIª-IIæ, 123, 8).  

È NECESSARIO VIGILARE  

Non diciamo di più. Le riviste e le librerie sono inondate di pubblicazioni circa la fase feconda e critica della Chiesa nella stagione storica Post-conciliare. Occorre vigilare. Lo Spirito di scienza, di consiglio, di intelletto e di sapienza è oggi da invocare con particolare fervore. Fermenti nuovi si agitano d’intorno a noi; sono buoni, o nocivi? Tentazioni nuove e doveri nuovi balzano davanti a noi. Ripetiamo le esortazioni di San Paolo: «Sempre siate lieti. E pregate senza smettere mai. In ogni cosa rendete grazie (a Dio); perché questa è la volontà di Dio, a voi manifestata in Gesù Cristo. Non spegnete lo spirito. Le profezie non le trascurate. Tutto esaminate; ritenete ciò ch’è buono. Da ogni specie di male astenetevi» (1 Thess. 5,16-22).

Aggiungeremo semplicemente la raccomandazione ad una triplice fedeltà.

Fedeltà al Concilio: procuriamo di conoscere meglio, di studiare, di esplorare, di penetrare i suoi magnifici e ricchissimi insegnamenti. Forse la loro stessa abbondanza, la loro densità, la loro autorità ha scoraggiato molti dalla lettura e dalla meditazione di così alta e impegnativa dottrina. Molti, che parlano del Concilio, non ne conoscono i meravigliosi e poderosi documenti. Alcuni, a cui preme più la contestazione e il cambiamento precipitoso e sovversivo, osano insinuare che il Concilio è ormai superato; serve, essi osano pensare, solo per demolire, non per costruire. Invece chi vuol vedere nel Concilio l’opera dello Spirito Santo e degli organi responsabili della Chiesa (ricordiamo la qualificazione teologica del primo Concilio, quello di Gerusalemme: Visum est Spiritui Sancta et nobis, è parso allo Spirito Santo e a noi . . . . ) (Act. 15, 28) prenderà in mano con assiduità e riverenza il «tomo» del recente Concilio, e procurerà di farne alimento e legge per la propria anima e per la propria comunità.

Seconda fedeltà. Fedeltà alla Chiesa. Capirla bisogna, amarla, servirla, promuoverla. Sia perché segno e perché strumento di salvezza. Sia perché oggetto dell’amore immolato di Cristo: Egli dilexit Ecclesiam et se ipsum tradidit pro ea, amò la Chiesa e diede se stesso per lei (Eph. 5, 25). E sia perché noi siamo la Chiesa, quel corpo mistico di Cristo, nel quale siamo vitalmente inseriti, e nel quale avremo noi stessi la nostra eterna fortuna. Questa fedeltà alla Chiesa, voi lo sapete, è oggi da molti tradita, discussa, interpretata a modo proprio, minimizzata; cioè né compresa nel suo profondo e autentico significato, né professata con l’ossequio e la generosità che, non per nostra mortificazione, ma per nostro esperimento e nostro onore, essa si merita.

E finalmente: fedeltà a Cristo. Tutto è qui. Non vi ripeteremo soltanto le parole di Simone Pietro, del quale siamo miseri, ma veri successori, e sulla tomba del quale ora qui ci troviamo: «Signore, a chi andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna» (Io. 6, 69).
Fedeltà a Cristo. Questo deve essere il Post-Concilio, Fratelli e Figli carissimi. Con la Nostra Apostolica Benedizione.

 

LABORATORIO DELLA FEDE A CIELO APERTO

“Mettetevi in disparte, e riposatevi un po’… ”

LE ORIGINI DI UN

LABORATORIO DELLA FEDE

 

Cenni sulla vita di Melania la giovane (di p.Tomáš Špidlík)

 

Melania l’anziana

Di sante chiamate Melania ne esistono in realtà due, l’anziana (seniore) e la giovane (juniore). La prima, morta verso il 409-410, era la nonna della nostra, che è nata invece circa trent’anni dopo, nel 383. L’anziana è molto conosciuta nella storia ecclesiastica perché legata a Rufino, il teologo seguace di Origene aspramente combattuto da San Girolamo, il quale se la prese anche con Melania, arrivando a dire che il suo nome, che in greco vuol dire nera”, significava “tenebra dell’eresia”. I santi molto spesso si combattevano anche violentemente. Le due sante, nonna e nipote, provenivano dalla famiglia aristocratica dei Valerii, una nobile e antichissima stirpe romana che sul Monte Celio possedeva una bellissima villa che faceva invidia a tutti i patrizi romani, proprio dove oggi c’è S. Stefano Rotondo. Nel IV secolo Valerio Massimo era prefetto di Roma, una carica prestigiosa, visto che l’imperatore risiedeva spesso altrove. Sua moglie era appunto Antonia “Melania l’anziana”. Quando il marito morì, lei affidò il figlio ai tutori, perché così si doveva, e partì per l’Egitto per iniziare la vita monastica. Fu una grande sorpresa per la società romana.

La famiglia

La famiglia non era però particolarmente devota: nel 300-400 dopo Cristo l’impero non era ancora tutto cristiano, e nelle famiglie patrizie convivevano pagani e cristiani insieme; lo zio di Melania la giovane era pagano, mentre la madre della piccola, Albina, era molto credente. La piccola Melania cominciò ad essere educata per diventare una dama della grande società, come conveniva al suo rango: bagni, vestiti, servitù … Doveva essere un po’ noioso! La giovane incominciava a sentire qualcosa di diverso: proprio a quel punto arrivò dall’oriente Rufino, il collaboratore della nonna, e la famiglia, per ricevere notizie di questa, dovette riceverlo. Rufino raccontò dei monaci e delle monache, e la bambina ne fu incredibilmente impressionata: scopriva allora che esisteva un modo di vivere diverso da quello dell’aristocrazia romana.

Il matrimonio

I parenti naturalmente non ci pensavano, e le combinarono subito, a quattordici anni, un matrimonio d’interesse con il ricco Piniano. Certo i due erano troppo piccoli, la famiglia li sorvegliava e controllava in tutto; ma un giorno la giovane sposa si rivolse al marito con queste parole: “Se tu, mio signore, vuoi praticare la castità e vuoi coabitare secondo la legge della continenza, ti riconosco come mio signore e padrone della mia vita; ma se questo ti sembra troppo pesante, se non puoi sopportare l’ardore della giovinezza, ecco tutti i miei beni, li metto ai tuoi piedi, puoi usarli a tuo piacere: dammi solo la libertà del mio corpo, affinché io possa presentare la mia anima senza macchia a Cristo nel giorno del giudizio.” Discorso strano da parte di una giovane! E Piniano, giovane sposo, che cosa doveva rispondere a una simile proposta? Si capisce che non doveva essere entusiasta: ma era davvero un uomo molto degno e io lo canonizzerei ancora prima di Melania; la sua risposta fu dunque: “Noi abbiamo tanti beni, un’eredità che deve passare a qualcuno: quando avremo due bambini, vivremo insieme la continenza.” Proposta ragionevole! Nacque dunque una bambina, ma Melania (furbetta…) la offrì subito, la consacrò cioè con il voto di verginità, come si usava a volte a quel tempo con i bambini. La povera bambina purtroppo morì . Subito dopo però arrivò un maschietto. Venne al mondo proprio il giorno della festa di San Lorenzo, che a Roma si celebrava con grande pompa; Melania, in prossimità del parto, voleva partecipare alla festa, e, nonostante i divieti dei familiari, di nascosto andò a partecipare alle preghiere: l’indomani il bambino nacque e subito morì.

Voto di povertà

Proprio quando Melania e Piniano dovevano decidere cosa fare della loro vita, apparve a Roma l’anziana nonna Melania, ormai famosa. Spronata dal suo esempio, la giovane decise di dedicare la propria vita a Dio: Piniano acconsentì di essere suo fratello spirituale, e lei fece da madre spirituale a suo marito. Insieme stabilirono di fare voto di povertà e di regalare tutti i loro beni ai poveri. Immaginarsi cosa si diceva a Roma: credo che la parola “pazza” sia stata pronunciata più di una volta. La cosa non era però priva di problemi: nelle ville vivevano molti schiavi, la loro vendita avrebbe fruttato molto denaro, ma gli sposi volevano dar loro la libertà. Questo significava però la fame dei disoccupati: gli stessi schiavi si rivoltarono contro la vendita della villa, un po’ come quando oggi si chiude una fabbrica. I parenti per parte loro cominciarono a strillare: “Non ha alcun diritto di fare tutte queste sciocchezze! Che se ne vada in Africa, ma che non tocchi i beni!” Bisognava ricorrere per forza alla più alta autorità, la Corte. Grande potere aveva in quegli anni a Roma Serena, moglie di Stilicone: costui, un semplice ufficiale barbaro, nei tempi di guerra era assurto a grande potenza perchè era riuscito a salvare Roma dai Goti. La moglie pretendeva che Melania venisse in udienza da lei. Ma Melania non voleva in nessun modo. Aveva già buttato via i vestiti più belli e cominciava a vestirsi come una monaca, con il capo coperto; ma S. Paolo proibisce di scoprire la testa alle donne e nella pubblica udienza a corte bisognava appunto scoprire la testa. Per questa ragione Melania rifiutò di recarsi a corte. Alla fine tuttavia, pur di ottenere il diritto di vendere tutti i beni, si decise: Serena li ricevette con molta dignità, rifiutò i preziosi doni che gli sposi le portavano perché, disse, erano doni per i poveri di Dio, e proibì alla servitù di accettare. Una volta ottenuto, con l’intercessione di Serena, il permesso dal Senato e dall’imperatore, i due cominciarono a vendere: il patrimonio dei due giovani comprendeva una villa sulla via Appia, con 400 schiavi e 73 case per i coloni; un’altra enorme villa in Sicilia, con un bosco con animali selvaggi e una piscina sul mare; per non parlare delle miniere d’oro e argento a Tagaste, in Africa settentrionale, e di altri possessi in Numidia, Mauritania, Campania, Puglie, Cispadania, Traspadania. Molti degli schiavi, ancora pagani (“pagano” deriva infatti da “pagus”, villaggio di campagna, dove il cristianesimo ancora non era arrivato), si convertirono e seguirono i padroni, molte donne entrarono nei monasteri fondati da Melania, continuando a fare ciò che facevano prima, e in più pregando.

A Nola con Paolino

I due sposi però, oltre a vendere, regalavano, attirando folle di gente: per sfuggire a questo assedio, decisero a un certo punto di recarsi a Nola, dov’era vescovo San Paolino: questi aveva rinnovato la basilica di S. Felice, riempiendola di opere d’arte, per insegnare la Bibbia agli illetterati che non sapevano leggere. Era poeta, e scrisse poesie anche sui nostri due santi, ai quali si era aggiunta nel frattempo anche la mamma di Melania, Albina. Tornati a Roma, Melania pensò di cominciare la sua vita monastica nella sua splendida villa siciliana: ma respinse presto il pensiero come una tentazione del diavolo, e decise di vendere anche quella. Bisognava ormai solo partire dall’Italia

Il crollo dell’impero

Il momento storico era però gravissimo, e l’impero assisteva a grandi mutamenti: quello stesso Stilicone che aveva liberato Roma da Alarico fu ucciso dai suoi soldati, e Serena strangolata come traditrice. Il 24 Agosto 410 Alarico incendiò Roma e la saccheggiò in modo terribile. San Girolamo, che prima minacciava ai Romani punizioni di Dio se non si fossero convertiti, davanti al Sacco di Roma non riuscì più a scrivere né a parlare; Alarico tuttavia era cristiano e ordinò ai soldati di restituire tutto quello che avevano rubato alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo. Tutto il resto fu però trafugato. Alarico, dopo aver occupato Roma, prosegui verso sud, ed era ormai di fronte alla Sicilia, dove si trovavano Melania, Piniano e Albina. Mentre i tre si apprestavano a fuggire per evitare il saccheggio dei Goti, Alarico improvvisamente mori: Melania e i suoi poterono così prendere una nave e rifugiarsi in Africa. Dove però, mentre l’impero crollava ormai da ogni parte, li aspettavano pericoli ancora più grandi: le ricche donne romane venivano spogliate dei loro beni e vendute come schiave. Melania si salvò solo perché nessuno la riconobbe sotto i suoi poveri vestiti da monaca.

Incontro con S.Agostino

Si fermarono dunque a Tagaste e cominciarono a studiare la sacra scrittura; poco distante, ad Ippona, era vescovo Sant’Agostino, loro amico. I cittadini di Ippona cominciarono a protestare, a chiedere al loro vescovo che invitasse i suoi ricchi amici e si facesse dare un po’ delle loro ricchezze: una volta che Melania e Piniano furono in città, il popolo cominciò a chiedere a gran voce di ordinare sacerdote Piniano, per costringerlo a rimanere là e a dare alla città il suo denaro. Piniano acconsentì a restare, ma quando ebbe regalato tutto ciò che aveva, nessuno si occupò più di lui

Morte di Melania

Ripartirono dunque per l’Oriente, fermandosi prima ad Alessandria d’Egitto, che era un po’ come New York di oggi, e giungendo infine in Terra Santa. Lì Melania cominciò a fare vita di reclusione, vivendo in estrema povertà. Ma i soldi non erano ancora finiti: costruì allora due monasteri, uno per le donne e uno per gli uomini. Si raccontano molti miracoli compiuti da Melania negli ultimi anni di vita, segni non solo di santità, ma anche della forza della sua preghiera: convertì a Costantinopoli un suo zio pagano che non si era lasciato confessare neppure dal patriarca, e che, dopo le parole di Melania, si lasciò battezzare e prese tre volte la Comunione. Dopo l’ultimo viaggio a Betlemme, Melania morì nel 439

L’esempio di Melania

La vita antica della santa vuole anzitutto dimostrare che la donna è capace della stessa ascesi dell’uomo. Mentre i filosofi antichi negavano che la donna fosse in grado di filosofare come l’uomo, i Padri ammettevano che la santità, immagine di Dio, era possibile a tutti, uomini e donne. E’ un insegnamento molto valido anche oggi: la confessione era certo riservata ai preti; ma direzione spirituale la facevano monaci e monache. Si parla oggi del sacerdozio delle donne, ma si dimentica che una donna con senso materno può essere molto bene una madre spirituale, come la stessa Melania.

Anche il tempo difficile in cui questa è vissuta è molto simile al nostro: l’arrivo dei barbari, la difficoltà di capire e integrarsi con culture nuove e diverse, che non sapevano nulla del cristianesimo. Le invasioni barbariche furono precedute dalle terribili persecuzioni contro i cristiani, ed anche oggi, come dice il Papa, i martiri per la fede sono più numerosi che in qualsiasi tempo; dunque anche oggi possiamo sperare che dalle avversità si esca fortificati e santificati.

(sintesi, non rivista dall’autore, della conferenza di p.Špidlík, per la presentazione del volume da lui scritto, Melania la Benefattrice, edito dalla Jaka Book).

 

http://www.santamelania.it/

 

 

DIO E LA FELICITA’ DELL’UOMO – Alberto Maggi

DIO  E LA FELICITA’  DELL’UOMO

  

  Alberto Maggi  
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Rovigo 23-25 novembre 2007 (trascrizione da audioregistrazione non rivista dall’autore)

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Siamo nati per soffrire?

 

Del resto non insegna la religione che il mondo è una valle di lacrime? 

La valle di lacrime è la piscina personale delle persone pie che ci sguazzano. Loro ci stanno benissimo in questa valle di lacrime dove ognuno ha la sua croce e dobbiamo accettare, sempre con un sospiro la volontà del Signore!

L’idea di Dio e della sua volontà stranamente, raramente o quasi mai viene associata all’idea di felicità. Se pensate a Dio è più facile associarlo alla sofferenza che alla felicità; se pensate a Dio è più facile associarlo al dolore che alla gioia.

Come mai tutto questo? È quello che cercheremo di vedere in questi giorni. 

Questo nasce, la responsabile è la religione, detto in maniera grossolana, riduttiva, perché ci viene presentato un Dio che proibisce quello che piace e che dà piacere alla vita e obbliga a tutto quello che è penoso, forse per questo rischiamo di non essere pienamente felici. Ebbene vedremo che l’uomo è chiamato ad essere pienamente felice qui, in questa esistenza terrena, non nell’al di là. La sofferenza qui per essere felici di là è un inganno della religione che avvelena la vita delle persone qui e gli promettono una ipotetica felicità nell’al di là. 

 

E Gesù è venuto a smascherarlo questo inganno, che l’uomo sia felice, e la massima aspirazione dell’uomo è la felicità, ed è possibile esserlo qui in questa esistenza terrena perché la volontà di Dio coincide con la massima aspirazione degli uomini. E la massima aspirazione degli uomini è la felicità, e la volontà di Dio, così come emerge dai vangeli è: che l’uomo sia felice, un Dio che fa di tutto e concorre affinché l’uomo sia felice. Gesù espressione visibile di questo Dio, e Dio lui stesso, ha talmente a cuore la felicità dell’uomo che per Gesù il piacere, questa parola che le persone religiose pronunciano sempre con senso quasi di peccato, il piacere e la felicità degli uomini vengono prima di ogni precetto o comandamento religioso.

Quindi Gesù è venuto per farci capire che è possibile essere felici qui in questa esistenza terrena e non nell’al di là. Nell’al di là saremo tutti felici, ma l’importante è essere felici qui in questa esistenza terrena.

Tutto il Signore fa perché l’uomo sia felice. 

Ma se questo è vero perché allora questa felicità non fa parte del nostro patrimonio, non ha fatto parte del nostro insegnamento?

 

Perché se è vero che la volontà di Dio che l’uomo sia felice, Dio mette paura?  

Il nocciolo della questione è tutta qui. Non puoi essere felice se pensi ad un Dio che mette paura, un Dio che sembra quasi geloso della tua felicità, un Dio che è meglio non farsi accorgere che le cose vanno bene. Nel linguaggio popolare le persone dicono, quando capita qualcosa, è normale che nella vita capitino momenti, situazioni negative di dolore, malattia, fa parte del dinamismo stesso della vita, e quando capita queste persone dicono: sentivo che stava per accadere perché andava tutto troppo bene. Quando il Padre eterno si accorge che stiamo raggiungendo una soglia di felicità che lui giudica intollerabile ecco che ci manda la croce, la disgrazia, ma sia fatta la volontà del Signore!

 

Ma perché Dio mette paura?

Mentre un re, un uomo politico ha ai suoi ordini un esercito o una polizia per farsi rispettare ed ottenere l’obbedienza, gli uomini della religione non hanno altro che il potere di Dio. Ecco perché nelle religioni il Dio premia e castiga: premia quanti si sottomettono alle esigenze delle autorità religiose e castiga quanti gli sono disobbedienti. Sono le autorità religiose e la religione che presenta un Dio minaccioso per ottenere sottomissioni a leggi bislacche che non stanno né in cielo né in terra.

Voi sapete che la religione impone delle leggi alle persone, delle leggi che nessuna persona che ha un centimetro di intelligenza potrebbe mai applicare; allora siccome queste leggi sono irrazionali, sono contro il bene e contro l’intelligenza degli uomini, vengono imposte sotto la minaccia della paura. Per cui l’uomo è obbligato ad osservare queste regole perché altrimenti poi c’è il castigo, e che castigo!! Un castigo divino!!

 

La cattiveria di Dio non è raggiungibile da nessun essere umano, la perfidia con la quale Dio è capace di castigare le persone non ha pari sulla terra. Credo che sulla terra non è finora apparsa finora una persona crudele e spietata come il Dio della religione. Andate a rileggervi il libro del deuteronomio, l’ultimo dei primi cinque libri della bibbia, dove è Dio che parla ed elenca tutte le maledizioni che capitano a chi trasgredisce la sua legge. Vedete, la legge è incomprensibile, è contro la ragione, allora le persone religiose, la religione, l’autorità, i sacerdoti per far si che la gente osservi questa legge la mettono, la spacciano come volontà divina: e la gente ha paura a trasgredirla.

 

Se trasgredisco questa legge cosa mi capita? Le maledizioni sono 52, ne leggiamo solo alcune, è una pagina tragicomica, c’è da piangere perché la gente ci credeva perché era parola di Dio, è la bibbia e la bibbia non può sbagliare. E la gente ci credeva. Ma attenti, non è che tra qualche anno o tra qualche secolo la gente riderà di noi, delle nostre paure? C’è una legge da imporre alle persone e se uno trasgredisce la legge:….se non obbedisci alla voce del Signore tuo Dio, se non metti in pratica tutti i suoi comandamenti e tutte le sue leggi che oggi ti do, avverrà che tutte queste maledizioni verranno su di te e si compiranno per te.

Non è che se trasgredisco un comandamento mi capita una delle 52 maledizioni, ma tutte quante! La peste, il deperimento, la febbre, l’arsura l’infiammazione, l’arsura, il carbonchio, al posto della pioggia sabbia e polvere, il Signore ti colpirà con l’ulcera d’Egitto, con la tigna e, fantasia del Padre eterno, con le emorroidi da cui non potrai guarire (Deut. 28,15- ss).

Voi capite che la gente aveva paura a trasgredire queste leggi, e pensate cosa va a pensare il Padre eterno! Se trasgredisci una legge, un precetto, ti manda tante disgrazie e le emorroidi da cui non potrai guarire. Il Signore ti colpirà di follia, di cecità, di confusione mentale ti colpirà sulle ginocchia, sulle cosce con un’ulcera maligna, piaghe.. e poi l’autore di questa pagina delirante, (sarà parola di Dio, ma delirante!) è preoccupato e dice: non è che ho dimenticato qualcosa?

Anche le numerose malattie, le numerose piaghe non menzionate nel libro della legge, il Signore le farà venire su di te. Quindi se per caso ho dimenticato qualcosa, attento che lo farò venire su di te. E poi l’immagine tremenda di Dio, può essere l’uomo felice quando il Dio presentato è “così il Signore prenderà piacere a farvi perire e distruggervi”, un sadico, ci prende gusto e piacere a distruggere, e sarete strappati dal paese.

Il finale è tragicomico, il massimo: ritornerete schiavi in Egitto. Vi venderanno, ma mancherà chi vi compra! Peggio non può essere con tutte queste disgrazie!

Suscita il riso, ma chiediamoci se anche certe cose che noi pensiamo oggi, tra qualche anno o tra qualche secolo faranno ridere quelli che leggeranno!! Chissà!!!

 

Gesù è venuto a smascherare tutto questo per rendere felice l’uomo. Anzitutto Gesù ha denunciato che è la religione che ha inventato il peccato per inculcare il senso di colpa nelle persone e poterle così dominare: questo il crimine compiuto dalla religione! Ha fatto in maniera che l’uomo si senta sempre peccatore, perché per quanto l’uomo cerchi di essere a posto con Dio, le esigenze di questo Dio sono tante ed innumerevoli che accade sempre qualcosa che non va e ti senti in colpa.

Allora come può essere felice l’uomo se si sente in colpa nei confronti di questo Dio?

 

 Come può essere l’uomo sereno se sente di essere sempre in peccato nei confronti di Dio?

 

Quindi un meccanismo diabolicamente perfetto: la religione è una struttura di leggi che fa si che l’uomo si senta sempre in colpa, sempre in peccato e per quanti sforzi faccia non riesca mai a sentirsi in piena comunione con il Signore.

Oggi possiamo sorridere, nei catechismi di una volta c’era il concetto che per fare la comunione bisognava essere in grazia, ma essere in grazia era un’impresa impossibile perché anche se ti sforzavi, ti confessavi all’ultimo momento, e nonostante tutti questi sforzi, se per caso ti sfiorava l’idea: ecco finalmente sono in grazia, peccavi di orgoglio,. Non eri più in grazia e dovevi ricominciare tutta la trafila.

 

Ecco la religione è riuscita a creare questo meccanismo diabolico: far si che gli uomini si sentano sempre in colpa perché è la religione che inventa il peccato per dominare le persone, ed è solo la istituzione religiosa che può togliere il peccato, che è una maniera per dominare le persone.

 

Gesù smaschererà che quella che viene chiamata legge di Dio è un vuoto contenitore che racchiude soltanto le pretese e le esigenze della casta sacerdotale al potere. Mai la legge di Dio viene invocata quando è a favore concreto del bene delle persone, ma sempre quando è a beneficio della istituzione religiosa, a difesa dei propri privilegi o delle proprie traballanti teorie. Ebbene per Gesù la legge di Dio semplicemente non esiste perché Dio è amore e l’amore non si può esprimere attraverso le leggi, ma attraverso opere che comunicano vita.

 

Ci sarà la legge di Mosè dalla quale Gesù prenderà le distanze; mentre l’istituzione religiosa si muove animata e protetta dalla legge di Dio, Gesù si muoverà sempre all’insegna dell’amore del Padre. Per la religione ciò che conta è l’onore di Dio, e per questo si disonora l’uomo. Per Gesù il bene dell’uomo è il valore più importante. Quando al bene dell’uomo si sovrappone una verità o un valore assoluto, attenzione perché prima o poi questo valore si ritorcerà contro l’uomo. Per Gesù non c’è nulla di più importante del bene dell’uomo.

 

E Gesù con la sua grinta cambia completamente questo rapporto degli uomini con Dio, Gesù nel vangelo di Matteo viene chiamato il Dio con noi, Giovanni nel suo prologo dice che Dio nessuno non lo ha mai conosciuto, ed il Figlio ce lo ha rivelato. In Gesù, Dio diventa uomo: è una verità che la chiesa da sempre ha sostenuto e sulla quale si basa la sua teologia che dobbiamo portare alle estreme conseguenze. Se in Gesù, Dio diventa uomo, significa che è diventato pienamente uomo, e infatti Gesù è pienamente uomo, cioè pienamente umano. Gesù non tenterà di difendere l’onore della religione di Dio, ma pienamente umano sarà sensibile ai bisogni ed alle sofferenze degli uomini. Gesù è il Dio umano, profondamente umano attento e vicino là dove ci sono le sofferenze e situazioni di difficoltà. Ma cosa è successo con Gesù?

 

Secondo la cosmologia, l’immaginario dell’epoca, Dio veniva considerato nell’alto dei cieli e gli uomini sulla terra, lontanissimi. Per avvicinarsi a Dio gli uomini dovevano separarsi dagli altri esseri umani attraverso uno stile particolare, attraverso delle preghiere, attraverso sacrifici, offerte, cioè l’uomo dalla terra doveva innalzarsi verso la divinità, cioè l’uomo doveva spiritualizzarsi.

 

Ebbene con Gesù, Dio considerato nell’alto dei cieli è sceso sulla terra per stare a fianco a noi. Allora succede quel meccanismo perverso che la religione in realtà è atea e produce solo degli atei perché nella religione l’uomo vuole spiritualizzarsi per incontrare il Signore che sta in alto, e il Signore che era in alto è sceso per stare vicino agli uomini. Gli uni salgono, l’altro scende e non si incontrano mai. Più le persone religiose si spiritualizzano, più salgono alla ricerca di questo Dio e meno incontrano Dio che si è fatto uomo e sta a fianco degli uomini. Ecco perché spesso le persone religiose sono così disumane, così fredde e così insensibili nei confronti dei bisogni dell’umanità.

 

Con Gesù, Dio ha preso un volto umano, e proprio Gesù, lui che lo può fare perché è Dio, smentirà il grande imbroglio della religione che è presentare come volontà di Dio quelle che erano le intenzioni degli uomini. Noi abbiamo paura a trasgredire una regola, perché se ci dicono che è volontà di Dio chi si permette di trasgredire? E se invece l’avesse inventata quel tale o quell’altro, una persona come noi? Si è vero avrà dei titoli, vestirà in maniera diversa, ma è sempre una persona come noi!

Allora è stata la casta sacerdotale religiosa al potere che per inculcare le sue traballanti verità e farle osservare alla gente le ha presentate come volontà di Dio, volontà di Dio già rifiutata dai profeti. Geremia al cap. 8 denuncia e dice:

la legge, la legge, voi scribi vi riempite la bocca della legge di Dio, quale legge? Quella menzognera della vostra penna bugiarda!

Cioè siete stati voi che avete falsificato la legge di Dio per i vostri interessi.

Una di queste falsificazioni è proprio il concetto di peccato.

Se noi prendiamo i libri della legge troviamo tutta una serie di elenchi di prescrizioni che rendono l’uomo in peccato. Già i profeti avevano smascherato questo; c’è nel profeta Osea 4,8, Dio stesso che inveisce contro i sacerdoti e dice qualcosa di tremendo: i sacerdoti si nutrono del peccato del mio popolo, il loro cuore è avido della loro iniquità. È una denuncia tremenda.

Attenti ai sacerdoti, tuonano contro i peccati e i peccatori, ma in cuor loro si augurano non solo che la gente continui a peccare, ma che pecchi sempre di più perché più voi peccate, più noi ingrassiamo.

 

A quell’epoca il perdono delle colpe non veniva concesso con la modica ricetta di 3 pater ave e gloria, ma ci volevano 3 capre, 3 galline, un piccione…quindi il clero si manteneva con le offerte che la gente doveva portare al tempio per ottenere il perdono dei peccati. Ecco perché avevano falsificato la legge, avevano reso la legge impossibile da osservare per assicurare un flusso continuo di entrate nel tempio. Se malauguratamente la gente cominciasse a peccare di meno, e non è possibile perché la gente si mantiene su uno standard abbastanza apprezzabile!, ma se disgraziatamente trovassero un’altra maniera per farsi perdonare le colpe, per il tempio è la fine, è la bancarotta.

 

Allora era la casta sacerdotale al potere che rendeva la legge impossibile da osservare in modo da mantenere il flusso delle entrate nel tempio non solo costante, ma crescente. Quindi questa espressione di Osea: si nutrono dei peccati del mio popolo, cioè peccate che noi mangiamo ma non solo, e sono avidi, desiderosi della loro malvagità. Il sacerdote tuona contro i peccatori, ma dentro di se spera che pecchino e sempre di più: voi peccate e noi ingrassiamo.

 

Allora vediamo ciò che impedisce la felicità, queste tradizioni degli uomini contrabbandate come volontà di Dio, e leggiamo dal vangelo di Marco cap.7,1-23:
” Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme.”
Ogni qualvolta che Gesù libera le persone, si prende cura dei bisogni delle persone, scattano subito i farisei, e sappiamo che il termine farisei significa separati, si separano dalla gente per raggiungere Dio con un sistema di vita complicatissimo.

Osservavano ben 613 precetti nella vita normale che li rendeva distanti dalla gente.

Pensavano di incontrare Dio separandosi dalla gente, in realtà si separavano da Dio.

E c’è un allarme perché nonostante tutta la loro campagna contro Gesù, Gesù ha un seguito incredibile di gente.

Allora convocano anche i teologi che sono scesi da Gerusalemme. La prima volta che erano scesi avevano detto che Gesù era un indemoniato, che ciò che faceva lo compiva per opera di belzebub.

Ebbene ci sono i farisei, convocano quella che potremo chiamare la santa sede dell’epoca, e ci chiediamo che cosa avrà combinato questa volta Gesù di tanto grave da dover scomodare da Gerusalemme gli scribi?

Quando si dice scribi non si intende coloro che scrivono, ma il magistero infallibile dell’epoca, erano teologi ordinati la cui parola aveva lo stesso valore della parola di Dio, quindi gente importante, non scribi di quarta serie, ma da Gerusalemme.

Le grandi questioni religiose sono sempre ridicole, solo che se ne accorge soltanto chi sta al di fuori della religione; chi sta al di dentro non se ne accorge. E sentite quale è il problema gravissimo da scomodare gli scribi da Gerusalemme: “avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani immonde, cioè non lavate”.

 

Avete capito?

Si sono scomodati da Gerusalemme perché hanno visto che i discepoli di Gesù prendono il pane senza lavarsi le mani; non è una questione igienica, ma un rituale ben preciso che veniva severamente punito se non veniva effettuato. I discepoli di Gesù non osservano questo rituale perché Gesù, uomo pienamente libero li ha contagiati della libertà.

Ebbene ogni qual volta che c’è la libertà scatta l’allarme della istituzione religiosa che è la nemica della libertà: le persone devono sempre essere sottomesse, dominate, non possono comportarsi secondo il proprio criterio, ma sempre secondo quello della autorità. E Marco spiega: “i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi.”

 

Gli ebrei credevano che quando Dio sul monte Sinai consegnò a Mosè la legge (i primi 5 libri della bibbia) insieme a questa gli consegnò anche la spiegazione a voce di come mettere in pratica queste leggi. Quindi sul monte Sinai sono state consegnate leggi: una quella scritta che noi chiamiamo la bibbia, e l’altra a voce, orale che poi dopo Gesù verrà messa per iscritto e si chiamerà Talmud (che significa insegnamento).

Sono 2 leggi con lo stesso valore, e questa viene chiamata la tradizione degli antichi. E dice Marco che gli ebrei non mangiano se non si sono lavati le mani fino al gomito. Non è una questione igienica, anche se ti sei lavato le mani per questione igienica, questo è necessario. C’è un rituale ben preciso quale qualità di acqua bisogna adoperare, non deve essere acqua usata per altri scopi, e la quantità precisa deve essere versata da un braccio sull’altro, non ci devono essere anelli o oggetti vari, bisogna pronunciare quella benedizione: benedetto colui che ci ha santificato con i suoi precetti e ci ha comandato l’abluzione delle mani.

 

Ecco tutto questo veniva fatto risalire alla volontà di Dio, alla tradizione degli antichi. E continua Marco: “E tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame. “

 

Qualche residuo è rimasto anche nella tradizione cristiana; ricordate le famose pulizie di Pasqua? Perché si facevano le pulizie di pasqua? Era una tradizione ebraica, perché per la Pasqua non ci doveva essere neanche un millimetro di qualcosa lievitato nella casa e bisognava lavare tutto quanto perché se si ha l’impressione che c’è qualcosa di impuro, la pasqua non possa essere celebrata. Tutto questo era il mondo ebraico.

 

“I farisei e gi scribi quindi lo interrogarono: per quale ragione i tuoi discepoli non seguono la tradizione degli antichi, ma mangiano questo pane con mani immonde?

 

La religione è nemica della vita, la religione insudicia la vita, è la religione che distingue tra puro e impuro, tra sacro e profano, e non solo nelle cose, ma anche tra le persone. E’ la religione che discrimina le persone tra meritevoli e no. Dio no, Dio il suo amore lo vuole fare arrivare a tutti quanti e non c’è una sola persona che per la sua condotta, il suo comportamento possa sentirsi esclusa da lui. Quando Pietro dopo il drammatico incontro con il centurione pagano, capirà che Dio non fa discriminazioni dirà: perché Dio mi ha insegnato che nessun uomo può essere considerato impuro. E la religione che divide tra puro e impuro, per cui questa questione dei cibi che vedremo non è secondaria, in realtà è profonda perché Gesù eliminando la distinzione tra puro e impuro vuol affermare che non c’è una sola persona al mondo, qualunque sia il suo comportamento, la sua condotta che possa ritenersi esclusa dall’amore di Dio. È la religione che insudicia la vita e fa ritenere certe cose pure o impure.

 

E la risposta di Gesù al fior fiore dell’aristocrazia religiosa gli scribi venuti da Gerusalemme,e i farisei: Bene ha profetato Isaia di voi (e uno si immagina chissà che complimento Gesù dirà a queste persone, ma quanto siete bravi a stare così attenti alle trasgressioni!, adesso gli tiro io le orecchie ai miei discepoli!) ipocriti, (il termine ipocrita non ha la connotazione morale che poi assumerà, ma a quell’epoca indicava il teatrante, commediante, l’attore questo è il termine ipocrita greco- poi con i vangeli assumerà il significato di persona doppia).

 

Teatranti, dice Gesù, come sta scritto: questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Siete dei teatranti, a vedervi sembrate persone di tanta preghiera, persone di tanta devozione, ma il vostro cuore (nel mondo ebraico il cuore è la mente) è lontano da me e invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono (non tradizioni degli antichi) precetti di uomini.

 

È tutta qui la soluzione, vi stanno ingannando, vi è stata presentata come volontà di Dio quelli che sono precetti di uomini, invenzioni degli uomini, solo che non possono presentare come una loro invenzione, perché se è una invenzione tua te la tieni! Vi presentano come volontà di Dio quello che in realtà sono dei precetti umani.

 

E quale è il criterio per stabilire se qualcosa viene da Dio o no?
Con Gesù è chiaro: tutto quello che contribuisce alla felicità degli uomini viene da Dio; se quello che viene presentato come volontà di Dio non contribuisce alla tua felicità o te la diminuisce, o te la soffoca, se quello che viene presentato come volontà di Dio rende triste la tua esistenza, tralascialo senza scrupolo perché non viene da Dio, se non concorre alla tua felicità, se non rende gioiosa e allegra la tua esistenza, non viene da Dio perché l’azione di Dio è far felici gli uomini.

 

Sono le persone religiose che ti avvelenano l’esistenza presentando degli obblighi impossibili, assurdi da osservare, soltanto per mantenerti dominato e vedere fino dove si può estendere il loro prestigio e il loro dominio. loro ci provano, proibiscono sempre di più, impongono sempre di più per vedere fino dove possono arrivare.

 

E continua Gesù: “tralasciando il comandamento di Dio voi vi attaccate alle tradizioni degli uomini.”

 

Notate i farisei avevano parlato di tradizioni degli antichi, Gesù dice: no, tradizione degli uomini; non riconosce nessuna parvenza di divinità, di volontà divina. E dice Gesù:  tralasciando il comandamento di Dio, perché il crimine dell’istituzione religiosa non è soltanto che impone delle cose che loro hanno inventato per dominare, ma per fare questo trascurano il comandamento di Dio che è l’amore per gli uomini: il comandamento più importante.

 

Per l’istituzione religiosa ogni qualvolta si deve trovare a scegliere tra il bene dell’uomo, l’amore dell’uomo e il bene della propria istituzione di Dio, non ha esitazione: sceglie sempre il proprio bene. Per il bene dell’istituzione religiosa, per la legge di Dio si fanno soffrire le persone.

 

Per Gesù tutto il contrario: ogni volta si trova a scegliere,  sceglie sempre il bene dell’uomo: ” E aggiungeva: siete veramente abili nell’eludere il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione.”  Quello che voi insegnate non ha autorità divina, ma la vostra tradizione; e Gesù tra i tanti esempi ne fa uno: ” Mosè infatti disse: onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.” 

 

Questo comandamento non ha il significato che gli diamo noi occidentali di rispettare i genitori, è ovvio. Non è il rispetto, ma l’onore al padre e alla madre indica il mantenimento economico. A quell’epoca non c’erano le pensioni per cui i genitori anziani erano a carico del figlio maschio primogenito  per cui onorare i genitori significava mantenerli in maniera decorosa.

 

Disonorare i genitori, farli stare nella povertà; quindi la legge di Mosè ha detto onora il padre e la madre. “Voi invece dicendo: se uno dichiara al padre o alla madre: è Korban (è una parola aramaica e significa offerta sacra), offerta sacra quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre, annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte. “

 

È tremenda la denuncia che fa Gesù. Perché il potere, il desiderio di dominare la vita, di stuprare la coscienza delle persone per imporgli soltanto quello che a noi interessa va di pari passo con l’interesse economico.
Gesù è stato un grande illuso, ha detto che non si può servire Dio e il denaro, ma dove campa!!  Si vede proprio che stava nei cieli prima!

 

Le persone religiose da sempre ci sono riuscite ad adorare Dio ed adorare il denaro. Non è vero che non si può servire Dio e il denaro, si possono fare insieme, tanto è vero che quando Gesù dirà ai farisei: non potete servire Dio e il denaro, quelli scoppiano dal ridere. Loro sono persone molto pie, ma anche molto interessate; da sempre gli uomini di religione sono riusciti a coniugare il servizio a Dio e l’amore al denaro, e hanno usato Dio per fare il denaro!

 

E guardate che anche noi ne facciamo di cose del genere, ormai ci si abitua, non si pensa più si è come narcotizzati, pensate soltanto quella bestemmia che è il Banco di Santo Spirito! Lo Spirito Santo, l’amore gratuito di Dio fatto diventare una banca! A noi sembra normale, banco Antoniano, banca san Paolo, associare la banca con l’amore di Dio, ma lo dico solo per far emergere il dolore.. immaginate un bordello intitolato all’ Immacolata Concezione: “Bordello dell’Immacolata !”

 

Eppure che ci sia il Banco di Santo Spirito o altro, questo non ci preoccupa. Quindi da sempre le persone religiose hanno saputo usare Dio per fare denaro. E cosa hanno fatto qui: i sacerdoti sempre avidi di denaro, per guadagnare ancor di più hanno fatto leva su quel sentimento di egoismo, di avidità che ogni persona porta dentro e dicevano a questi figli maschi primogeniti che avevano l’obbligo, volenti o no, di mantenere i propri genitori: Guarda se tu dici ai tuoi genitori: ” quello che io dovrei adoperare per il vostro mantenimento è offerto a Dio”, tu non sei più tenuto a mantenerli.

Non è che devi offrire tutto, basta una piccola percentuale! Era tremendo. Quindi bastava che uno dicesse ai genitori: “io vi manterrei, però tra l’amore al prossimo e l’amore a Dio, che cosa è più importante? L’amore di Dio, allora mi dispiace tanto, babbo e mamma, ma quello che dovrei impiegare per mantenervi, io lo offro al Signore.”

 

Quindi i sacerdoti avevano inventato questo sistema diabolico del Korban che indicava che bastava dare una percentuale al tempio di quello che uno calcolava che avrebbe dovuto servire per il mantenimento dei genitori e non era più tenuto a mantenere in vita i genitori. Per onorare Dio si disonoravano i propri genitori, le persone più vicine, le persone più care che ci potevano essere. E dice Gesù: “annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi, e di cose simili ne fate molte.”

 

Ma Gesù non si limita soltanto ad accusare scribi e farisei, ma adesso fa una azione clamorosa, talmente grossa, talmente sconvolgente che dopo dovrà scappare immediatamente perché altrimenti lo ammazzano.  Del resto tante volte abbiamo detto che leggendo i vangeli, non meraviglia che Gesù sia stato ammazzato, ma uno si chiede come ha fatto a campare così tanto! È campato tanto perché scappava continuamente.

 

“Poi chiamata la folla diceva loro: ascoltatemi tutti e intendete bene”: quindi Gesù richiama l’attenzione e sta dando una massima di una verità di una importanza che cambia completamente il rapporto degli uomini con Dio e il rapporto degli uomini tra di loro:”Non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall’uomo a contaminarlo.

 

Se voi andate a leggere il libro del levitico al cap. 11 troverete tutta una serie di animali e di cibi che sono considerati impuri. Perché? È così! Ma posso capire perché un animale è impuro? È così e basta! La legge non si comprende e non va compresa: va obbedita!

 

La differenza tra Gesù e la religione: nella religione si impongono le cose per obbligo e le persone devono obbedire;  Gesù le propone come un’offerta.

Perché la religione le deve imporre con un obbligo? Perché sa che non appartengono al cuore degli uomini, sa che sono incomprensibili, Gesù invece sa che il suo messaggio non è che la formulazione al desiderio di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro, per cui Gesù non impone, Gesù offre, Gesù propone. Allora ,dice Gesù, non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui possa contaminarlo.

 

Gesù la sta sparando grossa. Nel libro del levitico al cap. 11 c’è tutta una serie di animali che dice non solo se li mangi, ma se li tocchi sei impuro. E impuro significa che da quel momento con Dio non hai più nulla a che fare, devi purificarti, portargli delle offerte per essere di nuovo puro. Se leggete la lista di questi cibi o alimenti, veramente è incomprensibile, ad esempio è scritto che il maiale è un animale impuro, quindi se mangi una fetta di prosciutto, Dio si offende e da quel momento tra te e Dio, non c’è più nulla a che fare. Se chiedi perché, per motivi igienici ?,…per motivi…? No, no, il maiale è impuro! Come lo stesso il coniglio.

 

Poi, guardando la lista degli alimenti che si possono mangiare si trovano le cavallette, i grilli, e c’è pure la ricetta per come cucinarli! A me le cavallette fanno un po’ schifo, può darsi che in una altra area culturale siano una prelibatezza, ma perché devo mangiare la cavalletta e non una fetta di prosciutto? Non si capisce, viene imposto…

 

Ebbene Gesù dice che non c’è nulla al di fuori dell’uomo che entrando in lui possa renderlo impuro, è quello che dal di dentro ti esce, questo si ti pregiudica il rapporto con Dio.

“Quando entrò in casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola”.

 

Ma attenzione Gesù non ha detto una parabola. La parabola è un racconto con il quale si cerca di far capire qualcosa; qui Gesù non ha detto nessuna parabola, perché i discepoli dicono spiegaci quella parabola? Ricordate le due leggi ?, la legge scritta e la legge orale? I discepoli di Gesù, contagiati dalla libertà di Gesù avevano abbandonato la legge orale, ma la legge scritta era indiscutibile; qui invece Gesù sta mettendo in discussione la legge scritta, la parola di Dio, e loro pensano che è una parabola.

 

“E disse loro: siete anche voi così privi di intelletto? Anche voi siete ottusi? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo? “

 

Non è quello che ti entra che determina il rapporto con Dio, quello che mangi o che non mangi, ma soprattutto qui Gesù non fa solo un discorso alimentare, estende il concetto: il peccato non è una trasgressione esterna all’uomo. Il peccato non è più determinato in base all’osservanza o alla trasgressione della legge  e,  dice Gesù, non può contaminarlo “perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va a finire nella fogna.” Quindi tutto quello che entra non determina il tuo comportamento perché va a finire nel cesso, annota l’evangelista: ” Dichiarava così mondi tutti gli alimenti.”

 

Qui bisogna mettersi d’accordo, o ha ragione Gesù: dichiarava puri tutti gli alimenti ed allora è sbagliato il libro del levitico, almeno il capitolo 11 è sbagliato, è una falsità; perché il capitolo 11 del levitico prescrive gli alimenti che sono impuri. Gesù invece, dice l’evangelista, dichiarava puri tutti gli alimenti. Vedete Gesù non solo dimostra che i farisei e gli scribi insegnano invenzioni degli uomini, ma nella stessa parola di Dio ci sono delle falsità che non corrispondono alla volontà di Dio, che non corrispondono al volere di Dio, ma sono quelle che dicevamo prima con Geremia: la penna menzognera degli scribi ha trasformato in menzogna la legge per i propri interessi.

 

Abbiamo detto, è la religione che ha inventato il peccato per inculcare il senso di colpa nelle persone in maniera di tenerle dominate perché questo peccato solo l’istituzione religiosa te lo può togliere. E il peccato è in rapporto con la legge. C’è tutta una serie di comandamenti, di precetti: se li trasgredisci sai che sei in peccato.

 

Quindi il peccato è qualcosa di esterno, è in relazione a qualcosa di esterno all’uomo e Gesù non minimizza il senso del peccato, ma gli dà la sua giusta importanza.

 

Adesso Gesù ci fa l’elenco di 12 atteggiamenti, 6 plurali e 6 singolari: questi sono il peccato che rendono impuro l’uomo:

“Quindi soggiunse: ciò che esce dall’uomo, questo contamina l’uomo.” Quindi per Gesù, il peccato non è in rapporto a una legge, la trasgressione di una regola o di un precetto, ma il peccato – e qui stupisce -  sono 12 azioni e nessuna che riguarda Dio. Il peccato non riguarda il comportamento nei confronti di Dio, il peccato non riguarda la sfera religiosa, ma la sfera umana: sono 12 azioni e nessuna di queste riguarda la religione, il culto, la liturgia, o Dio. Quindi Dio è escluso dalla sfera del peccato: il peccato è una azione malvagia con la quale volontariamente nuoci a qualcun altro. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive”. E Gesù le elenca.

Normalmente quando si legge questo brano si crea sempre molta aspettativa nelle persone per vedere se tra queste 12 azioni c’è qualcosa che ci riguarda, e quando si sente la prima si sente un sospiro di sollievo, perché si pensa, questa almeno me la sono scampata!! E la prima è:

 

 [1] :P rostituzioni: non è prostituzione, ma prostituzioni al plurale, e non è soltanto la prostituta che vende il suo corpo per denaro, ma prostituzioni, cioè tutte quelle volte che per denaro, per ambizione, per la carriera abbiamo prostituito noi stessi schiacciando, offendendo, umiliando altre persone. Ed hai voglia se ce ne sono!
[2] Furti,
[3] omicidi,
[4] adulteri,
[5] cupidigie (l’accumulare, tenere per se),
[6] malvagità,
[7] inganno,
[8] impudicizia,
[9] invidia
[10] calunnia,
[11] superbia,

 

e poi c’è l’ultima che è un po’ una sorpresa. Sono 32 anni che sono prete, ho sentito nel sacramento della riconciliazione i peccati più incredibili, ma ancora devo trovare una persona che si confessa di aver commesso questo peccato. Datemi questa soddisfazione almeno una volta! Eppure nell’elenco delle 12 azioni che Gesù considera che rendono impuro l’uomo c’è

 

[12] Stupidità o stoltezza.

 

O gli stupidi non si confessano o questo della stupidità non ci è stato insegnato come un qualcosa che rende impuro. E stupidità non riguarda il quoziente di intelligenza della persona, la stupidità nel Vangelo è lo stupido, stolto, è colui che accumula per se senza pensare agli altri. E Gesù dice: hai distrutto completamente la tua esistenza.

 

E conclude Gesù: “tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo.”

 

Quindi Gesù ci libera da questo rapporto con Dio ossessionante, angoscioso, di stare attento perché non sai se ho commesso il peccato, se non lo ho commesso, se ho fatto bene, se ho osservato, che rende infelice l’uomo.
Il Dio di Gesù non mette paura alle persone, il Dio di Gesù non si relaziona con lui attraverso una legge che deve osservare, ma attraverso un amore che deve accogliere.

 

Con Gesù il rapporto con Dio non è più basato sulla legge, ma sull’accoglienza del suo amore.

 

Perché non è più basato sulla legge? Perché se si basa sulla legge entra in vigore la categoria del merito: nella religione l’amore di Dio va meritato attraverso l’osservanza dei suoi precetti. Se questo è vero, ci sono persone che possono osservare certe regole, certi precetti e meritano l’amore di Dio, altri che non vogliono, altri che non possono. Allora è la religione che discrimina le persone.

 

Con Gesù l’amore di Dio non va più meritato perché il Padre di Gesù non guarda i meriti delle persone perché non tutti possono vantare dei meriti; allora Dio non guarda i meriti delle persone, ma i loro bisogni. Meriti non tutti li possono avere, bisogni ce l’hanno tutti quanti. Allora il rapporto che Gesù ci invita in questa nuova relazione che è la base della felicità, non è più quella della angosciosa osservanza di regole, di precetti, sempre sotto la cappa di questo peccato.

 

Il credente con Gesù non è più colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo, l’amore di Dio, con Gesù, deve essere semplicemente accolto, fatto proprio e portato agli altri.

 

Ecco questa è la base della felicità; perché Gesù ci toglie, ci libera dalla paura di Dio, di un Dio che punisce, un Dio che castiga, un Dio i cui castighi sono terribili perché appunto provengono da un Dio. Quando Gesù ci libera da tutto questo incomincia la base della felicità. Se in qualche maniera il Dio in cui noi crediamo, il Dio che pensiamo, se in qualche maniera anche minima ci mette paura, sbarazziamoci di questa immagine di Dio perché non è il vero Dio. Insisto perché purtroppo ce l’abbiamo nel sangue questa paura di Dio.

 

Sapete anni fa a Roma, alla pontificia università gregoriana, frequentata da preti, religiosi, laici impegnati, passava il questionario che riguardava il giudizio universale e diceva: “ipotesi: potendo scegliere il giorno del giudizio, da chi preferiresti essere giudicato? E c’era tutta una serie di personaggi. Al primo posto in assoluto venne fuori la Madonna, poi papa Giovanni, soltanto al quarto posto san Giuseppe, poi tutta una serie di santi e di persone.

 

Qualcuno si è ricordato del Padre Eterno, ma proprio in fondo! Ma sapete che questa è una bestemmia, questo è il crimine della religione che ci ha messo paura di Dio, paura al punto da credere che una creatura potesse essere più buona del creatore: questa è una bestemmia. Che la Madonna sia buona, il papa Giovanni e siano buoni tutti…Ma che una creatura sia più buona del Creatore, questa è una bestemmia.

 

Allora noi dobbiamo recuperare questo aspetto del Padre di Gesù: un Padre che non mette paura. Se l’immagine del Dio in cui noi crediamo ci mette anche un minimo di paura, non abbiate alcun timore a sbarazzarvene perché non è il Padre di Gesù, ma il Dio della religione, il Dio dei filosofi.
 

Seconda conferenza

  

Una vita per sempre

  
Se volessimo sintetizzare in una sola espressione, in una sola formula tutto il contenuto del messaggio delle azioni di Gesù così come ci viene formulata nei vangeli potremo dire questo: l’incontro con Gesù rende ognuno di noi ancora più felice di essere nato.

L’unica cosa che il Signore ci chiede è: fa che ogni persona che incontri, dopo averti incontrato sia ancora più felice di essere nato. Qui, in questa formula c’è la sintesi di tutto il messaggio di Gesù, quel messaggio che Gesù ha proclamato nel monte chiamato delle Beatitudini. Per questo discorso che è una autentica perla e non ha nulla a che vedere con quell’oppio dei popoli o con certe espressioni spiritualizzanti che nulla hanno a che fare con il testo di Matteo.

 

In passato sapete che il vangelo è stato scritto in greco, ma già un secolo dopo il greco cominciò a tramontare come lingua importante e subentrarono altre lingue. Nel nostro occidente subentrò il latino per cui il Vangelo venne tradotto e le traduzioni non rendono mai la pienezza e la ricchezza del significato. Allora vedremo brevemente la prima delle beatitudini perché è la più importante e perché c’è la sicurezza della pienezza della felicità. La felicità nella cultura di Gesù, nel mondo di Gesù, dipendeva da quello che uno aveva. Quindi più l’uomo ha, più l’uomo possiede e più è felice. Ma questo in teoria perché in realtà si vedeva che le persone non erano appagate dal possesso di beni perché più ne possedevano e più desideravano possedere.

 

E si arrivava al punto. Lo vedremo oggi pomeriggio nell’episodio del ricco che incontra di Gesù, che le persone anziché possedere i beni, ne erano possedute. Si credevano di essere dei signori e in realtà erano dei servi. Allora in questo panorama, Gesù proclama qualcosa di folle per la cultura dell’epoca, una espressione che è conservata negli atti degli apostoli: dice Gesù “c’è più gioia, felicità (il termine beatitudine) nel dare che nel ricevere”. Ecco il succo del messaggio di Gesù.

 

Siamo tutti quanti chiamati, perché è la volontà di Dio, a essere pienamente felici qui in questa esistenza terrena ed è possibile essere felici pienamente completamente, addirittura in maniera traboccante. Lo vedremo nel vangelo di Giovanni domani mattina. Perché vedete la felicità non si può imporre con un decreto, non si può trasmettere attraverso un catechismo, la felicità si può trasmettere soltanto attraverso il contagio. Soltanto una persona felice ti può trasmettere la felicità.

 

Ebbene, il messaggio di Gesù è che si può essere pienamente felici qui, in questa esistenza.

Come? C’è più felicità nel dare che nel ricevere. Cosa significa ? Per molti di noi la felicità consiste in ciò che gli altri devono fare per noi e rimaniamo sempre delusi perché gli altri non possono entrare nella nostra testa. Non sanno che noi oggi ci aspettiamo che quella persona oggi ci telefoni, che l’altra ci venga a visitare, che l’altra ci faccia un regalo. Se la nostra felicità dipende da quello che riceviamo dagli altri, da quello che gli altri fanno per noi, rimaniamo sempre delusi e c’è il rischio di trascorrere la vita con amarezza dopo amarezza.

 

Perché? Perché gli altri non sanno, non possono entrare nella mia testa, non sanno quello che io desidero. Allora Gesù dice: no, la felicità non consiste in quello che gli altri fanno per te e rimani sempre deluso.  La felicità piena completa e traboccante consiste in ciò tu fai per gli altri.

 

Allora ecco che la felicità può essere raggiunta qui e può essere piena. Nella misura in cui tu ti doni agli altri, lì c’è la felicità. E Gesù esprime questo in uno dei testi che è una perla del vangelo sia per la costruzione grammaticale, sia per la ricchezza teologica. Vediamo soltanto almeno la prima dal vangelo di Matteo cap.5. Si apre con queste parole: “Vedendo dunque le folle Gesù salì su il monte.” Il termine monte, è preceduto dall’articolo determinativo. L’articolo determinativo significa che è un monte conosciuto, ma non ci dice qual è questo monte. Perché Gesù, l’evangelista, ci dice che salì su un monte? Perché poi non ci dice il nome e quindi non possiamo localizzare questo monte?

 

L’evangelista ci dice che salì su ”il monte”. Il monte significa che è un monte conosciuto. Questo monte conosciuto, nella tradizione biblica, il monte dove Dio si rivelava, era il monte Sinai. Il monte Sinai è il luogo dove Dio si manifestò e dove attraverso Mosè donò al popolo la legge, i suoi dieci comandamenti. Allora l’evangelista omette il termine Sinai ma per far comprendere che questo è il monte della sfera di Dio, il monte dove abita Dio e dove verrà proclamata la nuova alleanza con il popolo non più basata sui dieci posizioni, i comandamenti, ma su qualcosa di diverso.

 

“E, messosi a sedere…” Gesù si siede. Lo dico perché per chi vuole leggere il vangelo è importante conoscere certi stili degli evangelisti – per noi che Gesù abbia proclamato questo discorso in piedi come normalmente viene raffigurato o seduto cambia poco. Perché l’evangelista ci dice che Gesù sul monte si siede? Letteralmente: Gesù si installa. Il monte nell’antichità, essendo il luogo della terra più elevato, più vicino al cielo era considerato la dimora degli dei.

 

Conoscete nella storia il monte Olimpo, il monte dove gli dei si manifestavano. Il monte indica la condizione divina. Ebbene Gesù che è pienamente Dio, si installa nel monte e “Gli si avvicinarono i suoi discepoli.”

 

Con Gesù incomincia qualcosa di diverso. Nella religione gli uomini dovevano avvicinarsi a Dio, ma potevano arrivare soltanto fino a un certo punto perché c’era tutta una categoria di persone e i meriti per poter avvicinarsi al Signore. Nel tempio di Gerusalemme c’era uno spazio dove tutti, anche i pagani potevano entrare. Poi c’era una balaustra e ogni 15 metri c’era una targa in marmo scritta in tre lingue. Nella lingua ebraica la lingua del popolo, nella lingua greca la lingua commerciale dell’epoca e nella lingua latina dei dominatori, c’era questo avviso: chiunque (pagano) scavalca la transenna è responsabile della sua morte.

Quindi i pagani potevano arrivare fino a un certo punto, poi le donne fino a un altro punto ancora, poi i sacerdoti e poi soltanto il sommo sacerdote poteva entrare una volta all’anno in quella stanza dove si riteneva che c’era la presenza di Dio.

 

Quindi tra Dio e il popolo c’era un abisso.

Con Gesù no. Gesù si siede sul monte in lui c’è la pienezza della divinità e i suoi discepoli si avvicinano.

Ebbene Gesù di fronte a questo proclama una autentica perla, un testo veramente prezioso: le Beatitudini. L’evangelista cura talmente questo testo da calcolare non solo il numero delle beatitudini, ma il numero delle parole con le quali le beatitudini sono composte.

 

La mia frustrazione! Con questo servizio di divulgazione della buona notizia – sono 32 anni che svolgo questa attività – ancora devo trovare un solo posto dove le persone conoscano le beatitudini. E’ tragico questo! Se chiedo alle persone: quanti sono i comandamenti, tutti sanno che sono 10. Se chiedo quali sono, sanno elencarmeli. Fanno un po’ di confusione, il 6°, il 7°, poi sembra che le donne abbiano un comandamento meno degli uomini… non desiderare le mogli degli altri, ma i dieci comandamenti vengono fuori. Ma quando chiedi: quante sono le beatitudini? Sai elencarmele?!

 

La prima che è la più antipatica la conoscono tutti: beati i poveri… poi viene fuori una specie di beati i tonti, comunque è qualcosa che non ci riguarda…. Ebbene l’evangelista sceglie il numero delle beatitudini che sono 8.

Perché proprio 8 ? Gesù è risuscitato il primo giorno dopo il sabato. Il sabato è il settimo giorno. Il primo giorno dopo il sabato è l’ottavo giorno. Da sempre nel cristianesimo primitivo il numero 8 indicò la vita capace di superare la morte. Nella storia dell’arte (in Italia abbiamo molti esempi) troverete che i battisteri cioè il luogo dove la persona che doveva ricevere il battesimo si immergeva, avevano forma ottagonale. Non era un capriccio dell’architetto, era una indicazione teologica ben precisa. I battisteri, luogo dove la gente si battezzava avevano una forma ottagonale perché il numero 8 indica la risurrezione, una vita capace di superare la morte.

 

Ma non solo, l’evangelista ha calcolato (e lo si vede proprio dall’esame del testo), pensate, il numero di parole con il quale comporre le beatitudini che sono 72. Perché 72 ? L’evangelista prende le distanze dall’alleanza di Mosè e propone qualcosa di migliore, qualcosa di nuovo. L’alleanza di Mosè terminava dicendo: se osservi queste leggi avrai lunga vita su questa terra.

Con Gesù l’osservanza delle beatitudini non produce una lunga vita su questa terra, ma una vita per sempre. Quindi il numero 8 è una vita per sempre.

I comandamenti erano riservati a un popolo, un popolo che si riteneva eletto: il popolo di Israele.

Le beatitudini sono per tutta l’umanità. Allora per esprimere questo l’evangelista adopera la cifra 72, perché nel libro della genesi, nel cap. 10° i popoli conosciuti pagani erano 72. Conoscete nel vangelo di Luca quando Gesù invia 72 discepoli. Quindi 72 significa l’umanità.

 

Il messaggio di Gesù ha come effetto di far nascere nell’individuo una vita di una qualità tale che si chiama eterna non per la durata ma per la indistruttibilità. E questo messaggio non viene riservato a un popolo, a una nazione, a una religione, ma è per tutta l’umanità. E qui c’è la sorpresa : c’è la prima beatitudine che non è stata messa a caso, ma è la chiave, la condizione perché esistano tutte le altre. Se non è compresa può generare quello che dicevamo prima, un certo spiritualismo.

Gesù dice: “Beati i poveri di spirito perché di questi è il regno dei cieli.” Allora la spiegazione che veniva data fino a una cinquantina di anni fa, ma non all’inizio, – i padri della chiesa che conoscevano il greco davano tutt’altra interpretazione – ma poi dal quarto secolo, quando il vangelo venne tradotto in latino normalmente la spiegazione che veniva data era:  Gesù ha detto:  quelli che sono poveri sono beati.

 

Perché? Perché vanno in paradiso. Ma non si capiva perchè i poveri andassero in paradiso quando in paradiso ci andavano anche gli altri. Come mai? In realtà Gesù non sta dicendo né questo, né l’altra cosa.

Anzitutto dai Vangeli emerge che mai Gesù ha beatificato la povertà.
I poveri sono disgraziati, che è compito della comunità cristiana toglierli dalla condizione di povertà.

La povertà è negativa, la povertà non rientra nel piano del Signore.
La volontà di Dio espressa attraverso Mosè è che nessuno nel mio popolo sia bisognoso.

E Gesù è venuto a realizzare questa volontà.

Allora Gesù proclama beati (abbiamo detto che il termine beato indicava una felicità che superava la qualità di felicità terrena perché era simile alla felicità degli dei), Gesù dice: felici completamente, pienamente i poveri.
E qui c’è un problema di traduzione.

 

 

(Piccola parentesi perché molti non conoscono chi sono e cosa facciamo. Sto nelle Marche a Montefano e abbiamo un centro di studi biblici dove ci dedichiamo alla traduzione del nuovo testamento. Una traduzione che richiede molto tempo e un impegno minuzioso. Siccome ci sono qui molti giovani e anche per gli altri, per chi volesse vedere il nostro lavoro e scaricare i tanti testi che ci sono, il sito è  www.studibiblici.it  .  Gesù dice : beati i poveri e poi c’è un termine in greco che è “di spirito” che può prestarsi a 3 significati.

 

 

Il primo che Gesù proclami felici i poveri di spirito cioè quelli che sono carenti in spirito, gli stupidi. Non è possibile! Gli stupidi, i tonti è compito della comunità cristiana accoglierli, accudirli etc. ma Gesù non ci invita ad essere stupidi. Quindi la povertà nel senso di carenza di spirito non può essere.

La seconda ipotesi è quella che guarda caso ha avuto più fortuna: quelli che sono poveri nello spirito, cioè persone che pur essendo materialmente ricchi, ne sono distaccati. Ed era quello che veniva insegnato. Al ricco non veniva chiesto di rinunciare ai suoi beni: l’importante è che tu ne sei spiritualmente distaccato.

 

Non si è mai capito cosa significasse. Dice: io sono ricco, però sono distaccato dai miei beni. Cosa significa? Li hai mollati? No, no, li tengo, ma sono povero nello spirito, sono spiritualmente povero. Ebbene dal Vangelo e lo vedremo oggi pomeriggio, questa interpretazione è smentita perché quando Gesù incontra un ricco e questo lo rifiuta perché Gesù gli ha detto di dare tutto ai poveri. Gesù non gli ha detto: basta che sei distaccato spiritualmente, tienti tutto, l’importante è che tu sei povero spiritualmente. Allora la prima ipotesi, l’abbiamo visto, poveri di spirito non può essere, poveri nello spirito (cioè io sono ricco, ma sono spiritualmente distaccato) neanche.

 

Rimane la terza: poveri per lo spirito. Gesù non sta proclamando beati quelli che lo società ha reso poveri, ma quelli che liberamente, volontariamente, per una forza, per un impulso che viene dal proprio intimo, dal proprio interiore scelgono di entrare nella condizione della povertà. Ma perché uno vuole entrare nella condizione della povertà? Per amore degli altri. Gesù in pratica, traducendolo con un linguaggio oggi a noi più vicino e comprensibile dice: quelli che liberamente e volontariamente decidono di abbassare il proprio livello di vita per permettere a quelli che l’hanno troppo basso di innalzarlo un po’, felici, beati, non ci rimettono, perché?

Adesso vedremo la seconda parte. Quindi Gesù ci sta invitando a condividere quello che siamo e quello che abbiamo con chi non ha e chi non è. Non l’elemosina.
L’elemosina produce un benefattore e un beneficato, ma sempre due condizioni diverse. La condivisione fa nascere dei fratelli. Quindi Gesù dice: quelli che volontariamente e liberamente per amore vogliono condividere quello che hanno e quelli che sono con chi non ha e non è, questi Gesù dice felici di una felicità immediata (non rimandata a chissà quando) perché? Perché di essi è il regno dei cieli.

E ci risiamo con questo regno dei cieli. Vedete quando si legge il vangelo bisogna collocarlo nella cultura e nella mentalità dell’epoca e soprattutto nella linea dell’evangelista. Matteo è l’unico tra gli evangelisti che adopera l’espressione regno dei cieli laddove altri evangelisti usano la formula: regno di Dio.

Benedetto Matteo, perché adoperi regno dei cieli che per noi significa nel linguaggio popolare l’al di là, il paradiso e non scrivi: regno di Dio? Perché Matteo scrive per degli ebrei e sapete che gli ebrei non nominano e nemmeno scrivono il nome di Dio. Allora Matteo, per non irritare la sensibilità dei suoi lettori, tutte le volte che gli è stato possibile ha adoperato l’espressione: cieli. La stessa espressione che adoperiamo noi nella lingua italiana. Quante volte ci capita di dire: grazie al cielo. Non è che ringraziamo l’atmosfera. Il cielo significa: Dio. Regno dei cieli, nel vangelo di Matteo, non indica mai l’aldilà, tema al quale Gesù non è interessato.

 

 Gesù non è venuto ad indicare un percorso migliore per raggiungere l’aldilà, ma una via per vivere pienamente questa esistenza terrena.
Regno dei cieli non indica l’aldilà ma il regno di Dio, cioè avere Dio per re. Compito dei re era quello di prendersi cura dei più deboli e dei poveri della società.

 

Allora quello che emerge da questa prima beatitudine è questo. Gesù dice: quelli che liberamente, volontariamente per amore, decidono di dare quello che sono e che hanno con chi non ha, felici!

 

Perché? Perché di loro si prende cura Dio stesso. E’ un cambio straordinario, meraviglioso. Io non devo più preoccuparmi della mia vita, non devo più preoccuparmi della mia felicità. Gesù adopera il verbo essere al presente. Gesù non dice di essi il regno dei cieli sarà, un domani. E’ immediato: oggi!
Se io oggi decido di orientare la mia vita per il bene degli altri e mi impegno perchè questo diventi realtà, immediatamente come mi sono deciso scatta l’azione di Dio nella mia vita e la mia vita cambia.

 

Mi accorgo che veramente Dio è Padre perché è un Padre che si prende cura anche agli aspetti minimi e insignificanti dell’esistenza.

Io non devo più pensare alle mie necessità. Io penso alle necessità degli altri. Più penso alle necessità degli altri, più permetto al Padre di entrare nella mia vita e di pensare alle mie necessità.

 

Ecco perché allora nei vangeli dare non significa rimetterci, ma è guadagnare perché chi dona agli altri, chi si comunica agli altri, comunica vita agli altri, e irrobustisce anche la sua.

Nei vangeli ci sono due tipologie di persone agli antipodi.
Gesù è figlio di Dio perché quello che ha e quello che è lo dona agli altri. Chi comunica vita agli altri rafforza la propria vita. Ecco perché Gesù continua a vivere per sempre.

 

Al contrario Giuda, Giuda è ladro, è figlio del diavolo secondo la terminologia biblica. Che cosa fa? E’ ladro, quello che è degli altri lo sottrae per sé. Chi sottrae vita agli altri comunica morte agli altri e chi trasmette morte agli altri la trasmette a sé stesso. Ecco perché Giuda sprofonda nel buio della morte, nell’abisso della morte, perché è una persona che non si è realizzata.

 

La persona si realizza soltanto nella capacità di dare e di donarsi agli altri e questa dinamica di dono è l’unica che ci permette la pienezza dell’ingresso, quando sarà il momento nella vita definitiva. Nel libro dell’apocalisse si dice: beati coloro che muoiono nel Signore perché le loro opere li seguono. Noi terminata questa esistenza terrena lasciamo tutto qua, tutto quello che abbiamo avuto: i titoli, tutto quello che possiamo avere, si lascia tutto.

 

 Un’unica cosa ci accompagna nell’ingresso di questa vita: il bene che abbiamo fatto agli altri. “le loro opere li seguono…” Quindi dare agli altri non solo è una garanzia di una serenità in questa esistenza perché permettiamo al Padre di prendersi cura di noi ma è garanzia anche che quando entreremo nella vita definitiva quello sarà il bagaglio che arricchirà la nostra esistenza e con il quale continueremo a vivere per sempre.

 

Quindi Gesù ci propone quasi una gara di generosità. E vi invito a provare perché è vero. Quando, adesso, oggi, domani la prima occasione che vi capita di dare, date il doppio, il triplo di quello che pensate di dare. Ve lo assicuro, vi sarà restituito più di quello che avete dato! Sono talmente sicuro di quello che vi dico che mi impegno a rimborsarvi se non vi viene restituito. Quindi tutte le volte che avete occasione di dare, date il doppio, il triplo di quello che calcolate e subito ci sarà la risposta di Dio molto più grande di quello che avremo dato. Questo permette la crescita della persona e permette la felicità.

 

In altri vangeli, una immagine adoperata da Gesù e che quelli della mia età capiscono meglio è questa: a misura con cui misurate verrete misurati e vi sarà dato qualcosa in aggiunta. Quelli della mia generazione ricordano che fino agli anni 50 nei negozi non esistevano i prodotti confezionati, ma tutto era sciolto perché le condizioni economiche non permettevano di comprare più di tanto. Allora si chiedeva un quarto d’olio, mezzo chilo di farina e c’erano le misure. Erano specie di boccali che si riempivano. Questo è un chilo di farina, il boccalino: questo è un quarto di olio. Queste erano le misure. Allora Gesù dice: la misura che misurate vi viene data. Allora se io dono 100 non lo perdo. La misura che misurate sarete misurati. Quindi, quello che io dono mi viene restituito. Se ho dato 100 mi viene restituito 100, ma il Signore non si lascia vincere in generosità. La misura che misurate sarete misurati e vi verrà dato qualcosa in aggiunta, cioè non vi viene dato soltanto 100, ma mettiamo più 30 = 130. Se io quello che ho ricevuto non lo trattengo per me, ma ne faccio il trampolino per un nuovo dono, non mi viene restituito soltanto 130, ma 200… e così si realizza la persona. Più la persona si dona, più si realizza e soprattutto diventa matura, libera e indipendente.

 

Vedete, lo stato dell’infanzia è caratterizzato dal: è mio, tutto mio, tutto mio. Il bambino non è generoso. Il bambino tutto quello che ha è tutto suo, lo tiene per sé. I ricchi sono quelli che rimangono in una condizione infantile, sono persone che non sono cresciute, rimangono bambini perché tutto quello che hanno è tutto mio. La maturità di una persona si vede quando è capace di donare e di condividere. Allora se c’è questa prima beatitudine, Gesù dice: la felicità è piena. A chi si occupa degli altri Dio risponde prendendosi cura della sua felicità in una misura che sarà mille volte più grande di quella che si può desiderare, aspettare o semplicemente immaginare.

 

Poi continuano le beatitudini elencando situazioni negative dell’umanità che l’impegno di una comunità che vive queste beatitudini aiuterà a eliminare e poi c’è la trasformazione nell’individuo che vive queste beatitudini. Quella del misericordioso che aiuta sempre e sarà sempre aiutato, della persona trasparente che si accorgerà della presenza di Dio nella sua esistenza. Quindi per Gesù è possibile essere pienamente felici qui in questa esistenza, non domani, ma oggi stesso.

 

Domanda: ieri sera hai parlato dei peccati. Volevo sapere il peccato imperdonabile contro lo Spirito santo cos’è?

Risposta: Potremmo rispondere con una battuta: consoliamoci perché c’è un peccato che non potremmo mai commettere che è il peccato contro lo Spirito Santo. E’ il peccato della gerarchia religiosa, dell’autorità religiosa. Almeno questo peccato non appartiene al nostro orizzonte. Gesù perdona tutte le colpe e dice: c’è un unico peccato che non sarà mai perdonato. Come è possibile che Gesù si contraddica?

 

Gesù perdona tutte le colpe degli uomini e dice c’è un peccato che non verrà mai perdonato, non perché Dio non perdoni ma perché queste persone mai chiederanno perdono.

 

Quando leggiamo il vangelo bisogna sempre fare questa operazione: inserire la frase come questa qui, nel contesto in cui è scritta. Altrimenti rischiamo di dare interpretazioni quanto più errate ci possono essere.

 

Qual è il contesto? Gesù sta liberando le persone, ma liberando le persone le toglie dal dominio del potere religioso, dell’autorità. Allora scatta l’allarme. Da Gerusalemme, la santa sede dell’epoca, scende una commissione di teologi, il magistero infallibile dell’epoca. Vanno ed emettono la sentenza. Ma è gente di studio, è gente intelligente. Non possono dire alla gente: ma non è vero che vi guarisce. Ma come prima era zoppo, ora salta! Quello era cieco e ora ci vede…. Non possono dire questo ed allora cosa fanno? E’ la perfidia inarrivabile delle persone religiose (come può essere malvagia una persona religiosa è qualcosa di incredibile!) cercano di calunniare Gesù. Qual è questa calunnia? Sì è vero che vi guarisce, è vero che vi liberà, ma attenti perchè lo fa con il potere di balzebul.

 

Il termine baal in aramaico significa Signore, significa re. C’era nell’attuale Libano una divinità che aveva il potere di curare le malattie. Era il Signore delle mosche e si chiamava Baalzebul. Era un tipo particolare di mosche. Avete presente in campagna quelle mosche fluorescenti che stanno sulle cacche, sugli escrementi? Si credeva, appunto perché stavano sugli escrementi che portassero malattie come in effetti è vero. Allora andavano in questo santuario a pregare questo baal-zebùl perché li liberasse dalle malattie.

Ebbene, i farisei, per evitare questa processione (anche un re secondo la bibbia è andato lì a chiedere la grazia) avevano deformato questo nome non più baalzebul, ma zebub con la b finale che è immondizia. Il signore delle mosche liberava dalle malattie, baal-zebub, quello dell’immondizia era quello che le provocava. Allora quello che gli scribi stanno dicendo è: attenti, è vero che vi libera, ma sapete come lo fa?  Per infettarvi ancora di più perché in lui c’è lo spirito di baalzebub, la divinità che produce le malattie. Quindi è meglio per voi rimanere ciechi e storpi piuttosto che farvi sanare da uno che poi vi imprigiona in una impurità dalla quale non riuscirete più a liberarvi.

 

Allora Gesù reagisce e reagisce con violenza. Dice: sentite, ogni peccato contro di me sarà perdonato. Tutto quello che la gente dice è frutto di non conoscenza, è frutto di ignoranza, ma il peccato contro lo Spirito Santo non sarà mai perdonato. Cos’è questo peccato contro lo Spirito Santo? Loro sono gente di studio, non è che è gente ignorante o analfabeta, sono grandi teologi. Hanno capito e riconosciuto che in Gesù c’è l’azione divina, ma non lo possono ammettere, perché se ammettono che in Gesù c’è l’azione divina perdono il proprio prestigio e il proprio potere.

 

Allora il peccato contro lo Spirito santo è dire che ciò che è bene è male e ciò che è male è bene, pur di mantenere il proprio privilegio, il proprio prestigio. Loro, le autorità religiose, potrebbero cambiare. Perché non cambiano una legge che non sta più in piedi da nessuna parte? Non possono farlo. Ma per questa legge c’è quest’uomo che soffre… lascia che l’uomo soffra ma la legge non si può toccare. Perché se incominciamo a ritoccare questo, a ritoccare l’altro, tutto questo castello cade. Quindi per il prestigio e il potere della casta religiosa al potere si permette che l’uomo soffra. Questo per Gesù è imperdonabile. Dire che ciò che fa bene all’uomo è male, per Gesù è imperdonabile.

 

Ma perché? Perché mai chiederanno perdono. Infatti questi scribi quando Gesù aveva perdonato i peccati di una persona, avevano detto che Gesù bestemmiava, quindi Gesù è reo di morte. Quindi il peccato contro lo Spirito santo è il peccato, il crimine che commettono le autorità religiose che per salvaguardare il proprio prestigio e il proprio potere dicono che ciò che è bene è male e ciò che è male è bene.

 

Domanda: avrei piacere che tornasse sulla parabola dei talenti. Alla fine c’è un premio e una condanna. Avrei piacere che mi spiegasse bene, che completasse un attimo perché non mi è chiaro. Capisco che comportandosi in una certa maniera si cresce e nell’altra si cala, però alla fine si parla di premio e di condanna. Alla fine della parabola c’è il giudizio delle nazioni, in cui Gesù non è più tanto tenero, è un richiamo al Dio terribile che dicevi prima dobbiamo evitare?

 

Risposta: sempre attenti quando nel vangelo prendiamo dei brani alla traduzione. Sapete, una delle immagini che hanno messo tanto paura alle persone, una delle immagini terribili che ha dato spunto fra l’altro agli artisti di manifestare la loro arte è quella del giudizio universale. Il giorno del giudizio compariremo di fronte a Dio e ognuno riceverà secondo i propri meriti il premio o secondo le proprie colpe il castigo. Un giudizio tremendo. Basta immaginare queste immagini che abbiamo dei pochi beati e tantissimo rogo dei dannati. Attenzione: nei vangeli non esiste nessun giudizio universale, nessun giudizio!

 

Coloro che hanno accolto Gesù, per il fatto di aver accolto Gesù sono già nella vita definitiva e non vanno incontro a nessun giudizio. Quindi per i credenti, diciamo per i cristiani o per coloro che hanno accolto Gesù, non c’è nessun giudizio. Per Israele nel vangelo di Matteo Gesù dice che saranno giudicati dai 12 apostoli che giudicheranno le 12 tribù e vedere perché o no hanno accolto o rifiutato il messia. Quindi per Israele il giudizio non viene da Dio, ma viene dagli apostoli.

 

Ma c’era la domanda: gran parte dell’umanità non ha conosciuto Dio e non ha sentito parlare. Qual è la sorte dei popoli pagani ? Infatti l’evangelista che sta attento all’uso dei termini non parla del giudizio di tutti quanti, ma usa il termine greco …etne, da cui deriva la parola etnico che era l’espressione con cui venivano indicati i popoli pagani. Quindi non era un giudizio universale ma per i popoli pagani, cioè gente che non ha mai conosciuto Dio. Allora dice il Signore dice: mi presenterò e non chiederò: avete creduto in Dio, avete pregato, siete stati al tempio?

 

Ma gli chiederò le cose più elementari che non c’è bisogno che venga una religione per farcele capire: rispondere ai bisogni dell’altro. Avevo fame e mi hai dato da mangiare! ma c’è bisogno che sia scritto nella bibbia e nel vangelo di dare da mangiare all’affamato? Ogni persona sa che l’affamato ha bisogno di mangiare. E cosi via…Gesù elenca situazioni di difficoltà alle quali le persone sono andate incontro non sapendo a chi in realtà lo facevano.

 

 E Gesù dice: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi insignificanti lo avete fatto a me e dice: venite benedetti dal Padre mio. Quindi tutti coloro che non hanno conosciuto Dio, che non ne hanno sentito parlare o l’hanno rifiutato perché gli era stato presentato in maniera talmente negativa che non potevano non rifiutarlo, il giudizio è da come si sono comportati non nei confronti di Dio, ma verso gli altri, cioè se sono stati umani e Gesù dice: venite benedetti dal Padre mio.

 

Poi Gesù si rivolge a quelli che non hanno dato da mangiare, non hanno vestito, non hanno ospitato lo straniero, con parole tremende: maledetti, via!
Ma attenzione: mentre Gesù parla venite benedetti dal Padre mio, quando Gesù parla di maledetti non dice maledetti dal Padre mio. Dio è amore nel Padre c’è solo benedizione, non maledizione.

 

Perché Gesù adopera questa espressione: maledetti?. La prima volta che appare nella bibbia è rivolta a Caino, a colui che ha ucciso suo fratello. Sii maledetto!. Coloro che non danno da mangiare all’affamato è come se lo uccidessero, sono assassini, e sono maledetti. Coloro che non hanno saputo rispondere ai bisogni dell’altro nell’accogliere lo straniero, nel dargli ospitalità sono assassini. E non sono maledetti da Dio, ma si sono maledetti, cioè dentro di sé non hanno vita. Sono completamente svuotati di energia vitale.

 

Quindi non è una immagine di giudizio di Dio, ma è il risultato di una vita. Quando Gesù dice: il regno di Dio è simile a un pescatore che tira su la rete e prende i pesci buoni e butta via i pesci, non è cattivi, ma marci. Li butta via (non per un giudizio morale), ma perché non hanno vita, sono marci.

 

Quindi la proposta di Gesù è solamente positiva. Chi vive per gli altri, chi mi accoglie, ha una pienezza di vita che poi continua anche dopo la soglia della morte. Per chi rifiuta poi sistematicamente di amare gli altri, c’è la morte definitiva. Allora venendo alla prima domanda: il termine vita nella lingua greca si esprime con due termini che è importante conoscere per comprendere questo messaggio di Gesù.

  • Uno è bios, lo conosciamo tutti (biologia etc) indica la vita naturale, animale. Bios significa una vita che ha un inizio, un suo massimo sviluppo e poi termina nel disfacimento. E’ la vita diciamo della ciccia, la vita corporea. Quindi in ognuno di noi c’è una vita animale, una vita che ha un inizio, ha il suo massimo sviluppo e poi comincia il declino fino al disfacimento totale.

  • Ma in noi c’è un altro tipo di vita che gli evangelisti esprimono con il termine zoe.  Zoe è una vita divina che ha sì un inizio come la bios. Ma cosa succede? Ha un momento di crescita e quando la vita biologica volenti o nolenti, piacenti o no, quando si arriva a una certo punto della età poi si comincia inevitabile il declino fino al disfacimento. Possiamo far di tutto: creme, lifting, girarla, quello che volete tanto siamo destinati al disfacimento totale del corpo.

Ma proprio quando comincia a declinare la vita biologica, la vita della zoe continua a crescere sempre più senza fine. S. Paolo, in una delle sue lettere ha una espressione bellissima dice: anche se il nostro corpo esteriore, la parte biologica, si va disfacendo, quello interiore ringiovanisce di giorno in giorno.

 

C’è un paradosso: apparentemente sembriamo sempre più vecchi, dentro siamo sempre più giovani, fino al punto (e quelli che arrivano, sono alla mia età lo capiscono) che non ci si riconosce nel nostro aspetto esteriore. E la prova che dico a tutti è quella della fotografia. Quando vi fanno vedere una foto e dite: sono venuto male, qui non mi ha preso bene… non è che siamo venuti male, siamo male. Perché noi non ci rendiamo conto che quello che esprimiamo all’esterno non è quello che abbiamo all’interno.

 

Quindi all’interno ci ringiovaniamo di giorno in giorno, e all’esterno purtroppo c’è il declino del fisico, del corpo. Ma io credo che nessuno di noi vorrebbe tornare ad avere l’interiorità di quando era alla pienezza della forma fisica. Certo uno a vent’anni è il massimo dell’elasticità del corpo. Ma io credo, adesso io ho 62 anni, io non vorrei tornare alla maturità (se ce l’avevo!) dei vent’anni. Quindi era bello il corpo, ma dentro c’era qualcosa ancora che doveva essere consistente. Quindi c’è una vita biologica e una vita divina. Poi arriva il momento in cui la vita biologica termina: è quella che si chiama la prima morte. Nel nuovo testamento, in apocalisse si parla: beati quelli che non vengono colpiti dalla morte seconda.

 

Qual è la morte seconda? Ci sono due morti, una alla quale tutti quanti andiamo incontro ed è la morte delle cellule. Oggi stesso ci muoiono milioni di cellule. Noi non ce ne accorgiamo. Arriverà il momento in cui tutte le cellule che compongono il nostro individuo termineranno, ma noi non ne faremo l’esperienza. C’è il rischio, un monito, che quando arriva la morte di bios, la morte biologica trovi un corpo svuotato di vita.

 

Come può essere un corpo svuotato di vita? E’ uno che non ha mai dato da mangiare a chi ha fame, uno che non ha dato da bere agli assetati, uno che non ha coperto i nudi, uno che non ha ospitato lo straniero non ha vita. Allora il rischio è che quando arriva questa prima morte non ci sia zoe per niente. Non c’è, allora è la morte definitiva è la seconda morte. Non un castigo di Dio, ma la constatazione di un fallimento dell’esistenza. E quello che l’evangelista indica con l’espressione: verrà gettato nel buio dove c’è pianto e stridore di denti, espressione che indica il fallimento di una vita. Eri un progetto di crescita e non sei cresciuto. Sei rimasto nulla e sei tornato nel nulla.

Domanda: Mi sembra di capire che l’inferno come dannazione eterna non esiste…..nel percorso prima della morte, c’è il dolore, la sofferenza come si concilia il dolore, la sofferenza biologica, fisica con la felicità?
Il Cristo vuole la felicità e anche lui è andato a morire e a patire… e poi è risorto. Come si concilia la felicità con il dolore chiamato innocente, cioè uno che nasce malformato, già sofferente e che quindi non ha neanche forse la percezione, la capacità di percepire la relazione ?

 

Risposta: IL fascino della religione è che nella religione tutto è chiaro, tutto ha una risposta.

 

Perché esiste il male del mondo? Semplice, da sempre l’umanità se l’è chiesto, colpa dei peccati degli uomini. Nel libro del deuteronomio si dice che Dio punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza, quarta generazione. E’ facile, a me perché è capitata questa disgrazia? Perché hai peccato. No, ti assicuro che non ho mai peccato… allora è stato tuo padre, no mio padre è stato un sant’uomo, allora è stato tuo nonno…. Nonno anche era una brava persona… è stato tuo bisnonno. Allora dillo che in qualche maniera… quindi la sofferenza veniva spiegata in questa maniera: è Dio che castiga i peccati delle persone.

 

E se nella generazione non trova persone che possono scontare questi peccati li fa scontare dagli innocenti. Quindi i bambini che soffrono, soffrono le colpe dell’umanità. Nella religione quindi tutto è chiaro. Ma non reggeva, infatti veniva contestato da altri libri della bibbia.

 

C’è il profeta Ezechiele che dice: non è vero, ognuno è responsabile del suo comportamento, quindi se a me capita qualcosa è perché io sono il colpevole, non mio padre o non mia madre.

Ma anche questo non reggeva perché c’era gente brava, buona e pia alla quale capitavano tutte le disgrazie di questo mondo e fior fiore di mascalzoni che andavano bene.

 

Allora il grandissimo talento artistico, l’autore del libro di Giobbe mette in scena questa rappresentazione dove capitano all’uomo più bravo e pio di questo mondo tutte le disgrazie di questo mondo. Sapete cosa è successo: gli sono bruciati tutti i campi, morti tutti gli animali, uccisi tutti i figli, gli crolla perfino la casa: massimo delle disgrazie gli sopravvive la moglie. Quindi gli sono capitate tutte le disgrazie di questo mondo. Questa non è una punta di maschilismo da parte mia. E’ Giobbe perché fra le disgrazie che gli sono capitate la sopravvivenza della moglie lo tortura fino in fondo.
Allora dimostra: non è vero, c’è un uomo pio al quale capitano tutte le disgrazie di questo mondo.

Allora dai vangeli quale può essere la risposta? Il racconto della creazione nel genesi, non è la descrizione di un paradiso: l’uomo e la donna, gli uomini e il creato perfetto, ideale irrimediabilmente perduto, ma la profezia di un paradiso da costruire. Vedete per gli ebrei: Dio aveva creato il mondo in sei giorni e il settimo si era riposato. Gesù non è d’accordo. Quando Gesù non osserva il sabato, comandamento che Dio stesso osservava, gli dicono: ma perché non osservi il sabato?

Perché mio Padre lavora e allora anch’io lavoro. La creazione non è terminata. Siamo in una fase di evoluzione nella quale il Signore ci associa alla sua azione creatrice. Allora quella descrizione del genesi della perfetta serenità è un paradiso da costruire.

S. Paolo nelle sue lettere ai Romani dice: svegliatevi gente, non vedete che la creazione stessa attende con impazienza che voi vi realizziate quali figli di Dio?
Quindi i mali, tutte le sofferenze che ci sono nell’umanità fanno parte di questo processo di evoluzione, di crescita nell’uomo che è nostro compito collaborare perché diminuiscano fino alla scomparsa perché il male non è voluto da Dio.

Rispondo in maniera sintetica alla domanda della signora: l’inferno?
 
L’inferno l’hanno creato i cristiani, ma l’hanno creato con una immagine di Dio così blasfema così che molte persone hanno rifiutato l’immagine di questo Dio. Il Concilio Vaticano ci ammonisce: attenti, perché se molti sono atei, la responsabilità è del Dio che voi cristiani gli avete presentato.

 
Ma come si può presentare da una parte un Dio buonissimo, misericordissimo, un Dio buono e misericordioso che per un solo peccato mortale è capace di condannarti non per un miliardo di anni, ma per sempre alle pene? Voi capite una persona che ragiona con la propria testa rifiuta tutto questo.
 
La parola inferno nei vangeli non esiste. Nei vangeli, (bisogna rifarsi sempre alla mentalità dell’epoca) come era considerata la terra al tempo di Gesù? La terra era considerata una specie di rettangolo, sopra la terra c’erano i cieli, erano 7, qui c’erano le stelle, il sole.. al settimo cielo ci stava Dio.
 
Sotto la terra c’era una enorme voragine, una grande caverna, dove tutti buoni e cattivi finivano con la morte. Quindi questo era il regno dei morti. Tutti buoni e cattivi finivano con la morte in questa enorme caverna dove vivevano come larve, come ombre. Questa caverna nella lingua ebraica si chiama Sheol. E’ una radice ebraica che significa: colui che ingoia tutto perché la morte ingoia tutto quanto.

Circa un secolo prima di Gesù il popolo ebraico si era sparso lungo tutto il bacino del Mediterraneo. Non conoscevano più la lingua ebraica, allora la bibbia dall’ebraico venne tradotta nella lingua greca. I traduttori, i teologi che hanno tradotto la bibbia dall’ebraico alla lingua greca, quando si sono trovati di fronte al termine Sheol non hanno fatto che tradurlo con il nome della divinità che presiedeva il regno dei morti.

 

Voi sapete che nel mondo greco c’era Zeus che stava in cielo, Poseidone che stava nel mare e sotto terra c’era il temibile Ade. Quindi Ade è il nome greco del regno dei morti. Ed è quello che viene usato nei vangeli. Quando Gesù dice che finiscono nell’ade significa che finiscono nel regno dei morti, non ha nulla a che vedere con l’inferno.

 

L’equivoco è nato quando il vangelo dal greco venne tradotto in latino. Nel mondo romano si dividevano gli dei tra i superi (quelli che abitavano le regioni celesti) e gli inferi (quelli che abitavano sotto terra) per cui l’equivalente di ade, nel mondo latino era inferi.

 

Inferi cosa significa? Ciò che è inferiore, che è sotto. E’ il nome delle divinità del regno dei morti. Quando nel credo si recita: Gesù morì, fu seppellito e discese negli inferi, non è andato all’inferno. Gli inferi è il regno dei morti.  Gesù, quella vita che era capace di superare la morte, è andato a comunicarla a quelli che erano nel regno dei morti. Gli inferi non vanno assolutamente confusi con l’inferno come purtroppo spesso si fa.
 
Nei vangeli Gesù parla spesso di Geenna. A Gerusalemme a sud del tempio c’è un enorme burrone ancora oggi che veniva chiamato ge che significa valle, e hinnom, il nome della famiglia a cui apparteneva. Gehinnom, da cui deriva la nostra Geenna. In questa valle c’erano dei forni crematori per offrire i bambini al dio Moloch. Nella geenna si facevano sacrifici umani al dio Moloch. Era normale, prima di iniziare una impresa, un lavoro, un viaggio all’estero, si prendeva un bambino maschio (le femmine non erano gradite a Moloch) e lo si buttava in questo forno crematorio. A quell’epoca con la mortalità infantile che c’era, i bambini non avevano tutto il valore che hanno oggi. Nonostante che i profeti tuonassero contro questa pratica non si riusciva a debellarla.

Finché ebbero una idea geniale. Trasformiamo questo burrone nell’immondezzaio di Gerusalemme. Per cui a Gerusalemme attraverso la porta chiamata del letame, tutti i rifiuti della città popolosa (per quell’epoca 50.000 abitanti che durante le feste arrivavano a 120.000-150.000), tutti i rifiuti venivano buttati in questo burrone e così il culto al dio Moloch venne smesso. Di questi rifiuti cosa si doveva fare? Non si possono accumulare, si bruciavano.

 

Allora la geenna era l’inceneritore di Gerusalemme. Gesù ammonisce le persone e dice: se non cambiate vita, cioè se non la smettete di vivere per voi stessi e non orientate la vostra vita per gli altri, attenti che quando morite, finite lì, che non è un luogo di castigo, è un immondezzaio. C’è una vita svuotata, una vita che non ha energia. Quindi è un monito che Gesù dà a orientare la propria vita. Se non orienti la tua vita al bene degli altri, attento che quando muori, la fine è nella mondezza come muore un sorcio.

 

Terza conferenza

 

 

La massima aspirazione degli uomini, la felicità, corrisponde anche alla volontà di Dio. La volontà di Dio è che l’uomo sia felice qui in questa esistenza terrena. Abbiamo visto che Gesù ci indica come si può acquistare una pienezza di felicità qui in questa esistenza, non come la società dell’epoca la presentava e anche oggi la presenta: la felicità consiste in quello che hai e che gli altri fanno per te. Ma Gesù ci garantisce che la felicità piena consiste in quello che fai e ciò che doni agli altri. Quindi è possibile avere una pienezza di felicità qui, in questa esistenza terrena.

 
Eppure l’esperienza ci insegna che sembrano essere poche le persone veramente felici in questa vita.

 
Come mai? Tra i motivi che impediscono la felicità, quello più grave, quello che ha sconfitto anche Gesù è l’accumulo dei beni: la ricchezza. Ed è quanto esprime Matteo 19,16-26: “Ed ecco uno gli si avvicinò… ” Quando leggiamo il vangelo per coglierne tutta la ricchezza dobbiamo sempre fare uno sforzo di fingere di non sapere poi come va a finire, perché purtroppo sapendo più o meno questi episodi non gli prestiamo molta attenzione.

 

Tempo fa consigliavo una persona e gli dicevo: hai mai letto il vangelo? No, tanto so come va a finire. Sa chi è il morto e chi è l’assassino e quindi….c’è il rischio che quando si legge il vangelo non prestiamo la dovuta attenzione. Questi testi che sono scritti, inizialmente erano narrati e nella narrazione l’evangelista metteva tutta la sostanza, tutto un clima particolare per attirare l’attenzione.
 
Allora dice: uno gli si avvicinò. Non ci dice chi è, se è giovane, se è anziano, se è povero, ricco. Uno, semplicemente si avvicinò e disse: Maestro… Ecco, il fatto che si rivolga a Gesù come maestro indica due cose: 

  • che non lo conosce (quanti non conoscono Gesù si rivolgono a lui chiamandolo maestro)

  • un nemico perché sono i nemici che si rivolgono a Gesù chiamandolo maestro.

 

Quindi questa persona o non lo conosce o è un nemico.

“…cosa devo fare di buono per avere la vita eterna ? ” Ecco cosa è che lo preoccupa, ecco cosa lo spinge a rivolgersi a Gesù. Vuole sapere cosa deve fare – attenzione al verbo deve fare, per avere la vita eterna. Abbiamo visto stamattina che nella teologia ebraica c’era il concetto del merito. L’amore di Dio, la grazia di Dio, in questo caso la vita eterna vanno meritate come conseguenza di una condotta tenuta in questa esistenza terrena. Quindi lui si preoccupa vuole sapere “cosa devo fare di buono per avere la vita eterna”. Questa è la preoccupazione di questo individuo.

 

Gesù gli risponde in maniera secca, in maniera abbastanza fredda: “Egli a lui: perché mi interroghi sul buono? Quindi Gesù rifiuta questo approccio da parte di questo individuo e dice: Uno è il buono. Abbiamo qui uno che si è presentato a Gesù e Gesù lo rimanda all’uno, il buono, cioè a Dio. “Dovresti già sapere cosa fare per avere la vita eterna. Ma se vuoi entrare nella vita…”

 

Notate : l’individuo ha chiesto a Gesù cosa fare per avere la vita eterna, Gesù nella sua risposta non parla di fare, ma non parla neanche di vita eterna, parla semplicemente di vita. Per Gesù non c’è una vita e poi c’è una vita eterna.

 

Nella concezione ebraica l’uomo nasceva, terminava la sua esistenza e poi nella credenza ebraica ci sarebbe stata per i giusti la resurrezione alla vita eterna. Quindi la vita eterna iniziava dopo la morte come un premio per la buona condotta tenuta nella vita presente. Ebbene per Gesù no, non c’è una vita e poi una vita eterna, c’è la vita. Quindi l’individuo chiede a Gesù: “cosa devo fare per entrare nella vita eterna?”

 

Gesù invece gli dice: se vuoi entrare nella vita, cioè non stare a chiederti adesso cosa devi fare per entrare poi nella vita eterna. Ma chiediti piuttosto, domandati se la tua, quella che tu stai realizzando è vita e si può chiamare tale.

Comunque se vuoi entrare nella vita osserva i comandamenti.

Gesù prende le distanze dall’individuo: “perché lo chiedi a me?”  C’è gia chi ti ha detto cosa devi fare per entrare nella vita: i comandamenti e i comandamenti sono quelli di Mosè, quindi non devi richiederlo a me tutto questo.

Ma egli chiede: quali?

Può sembrare strano che questo individuo chieda quali sono i comandamenti perché nel mondo ebraico si stabiliva una gerarchia fra i comandamenti. Sapete che nel mondo ebraico i comandamenti simbolicamente erano rappresentati in due tavole di non uguale valore.

 

Nella prima tavola c’erano gli obblighi nei confronti di Dio che erano esclusivi del popolo ebraico. Non ce li aveva nessun altro popolo confinante. C’erano i primi 3 comandamenti che erano obblighi nei confronti di Dio e tra questi il comandamento più importante era quello che riguardava il sabato. Tra gli ebrei, che amavano queste casistiche, si chiedevano: qual è il comandamento più importante?

La risposta era: il comandamento più importante è quello che anche Dio osserva.

 Quale comandamento può osservare Dio? Dio osserva il riposo del sabato, per cui l’osservanza del riposo del sabato equivaleva all’osservanza di tutta la legge.

La trasgressione del riposo del sabato equivaleva alla trasgressione di tutta la legge e per questo era prevista la pena di morte. Quindi chi trasgrediva volontariamente, pubblicamente il riposo del sabato, veniva messo a morte perché non trasgrediva un comandamento, ma trasgrediva “il comandamento”. Quindi nella prima tavola i 3 obblighi che riguardano Dio.

 

Nell’altra invece i 7 doveri che sono comuni a tutte le culture almeno di quell’area che riguardano doveri nei confronti delle persone. Ma, questo gli chiede “quali”.

E qui Gesù sta compiendo qualcosa di inaudito, qualcosa di scandaloso, di sconcertante per la mentalità dell’epoca. Gesù nella risposta all’individuo cosa deve fare per avere la vita eterna, o meglio cosa deve fare come ha detto Gesù, per avere la vita:  Gesù elimina la prima tavola. Sapete, siamo nel mondo ebraico dove c’è una venerazione assoluta, un rispetto riverente nei confronti della prima tavola. Per Gesù, per realizzare la propria vita qui e continuarla poi nella dimensione della morte è irrilevante l’atteggiamento che hai avuto nei confronti della divinità.

 

Capite perché Gesù è stato ammazzato? Non meraviglia che sia stato assassinato, ci si chiede come abbia fatto a campare così tanto. L’abbiamo visto: perché si nascondeva completamente.

 

Per Gesù quello che importa nell’esistenza non è il rapporto che hai avuto con Dio, ma la relazione che hai avuto con le altre persone. Lo abbiamo visto ieri sera quando Gesù chiarifica la nozione di peccato.

Cos’è il peccato? Il peccato nel mondo ebraico era in base a un codice, la legge divina. L’osservanza di questa legge mi faceva sentire a posto con Dio, la trasgressione in peccato.

 

Per Gesù no. Il peccato non è qualcosa di esterno all’uomo, ma qualcosa di interno. Non è la trasgressione di una regola, di una legge, di un comandamento, ma il male che tu coscientemente e volontariamente provochi nell’altra persona, il danno che gli fai.

 

Quindi Gesù adesso nella sua risposta ignora la prima tavola.
Come mai? Lo abbiamo visto stamattina rispondendo alle domande. Nella parabola chiamata del giudizio universale molta gente Dio non lo ha mai sentito nominare. Molti lo hanno sentito nominare ma lo hanno rifiutato perché gli era stato presentato in una maniera talmente sbagliata che non potevano non rifiutarlo. Allora per Gesù ciò che consente la pienezza della vita è questo.

 

Gesù enumera 5 comandamenti e 1 precetto. Nessuno di questi riguarda il culto, riguarda la divinità. Allora Gesù rispose:

  1. non ucciderai, (quindi non ammazzi, non sopprimi una vita)

  2. non commetterai adulterio (non sopprimi l’unione, il matrimonio),

  3. non ruberai (non togli le sostanze),

  4. non testimonierai falsamente.

 

Questo comandamento ha bisogno di una spiegazione perché almeno nei catechismi di una volta veniva banalizzato e questa falsa testimonianza veniva un pò ridotta alla bugia. Allora troverete i piccolini che si confessavano: ho detto falsa testimonianza o cose del genere. E’ un trauma per i piccoli essere preparati alla comunione perché devono passare attraverso la prima confessione. In pratica questi bambini devono inventare un peccato per far contento il prete.

 

E’ tremendo: attenzione perché se poi il bambino ci crede in quello che dice sarà un futuro cliente di psicologi e psichiatri. Il bambino viene convinto o meglio obbligato a inventare dei peccati. E quali sono? Ho disubbidito alla mamma e al papà. Quelle che sono virtù o fattori di crescita vengono visti come peccati da denunciare. Un bambino che non disobbedisca ai genitori è un tonto che va curato. Il bambino deve disubbidire ai genitori, deve fare il contrario di quello che gli dicono, ma per mostrare il suo carattere deve far emergere la sua personalità. Quindi non testimoniare il falso non indica la bugia, è la testimonianza falsa nel corso di un processo penale con la quale si uccideva, si faceva mandare a morte un innocente. E’ una menzogna, è una falsa testimonianza con la quale si uccide un innocente.

 

  1. Onora il padre e la madre, lo abbiamo visto ieri sera, non indica il dovuto rispetto dei genitori, ma il mantenimento economico. A quell’epoca non c’erano le pensioni ed era compito deI primogenito maschio mantenere economicamente i propri genitori.

 

Ebbene Gesù ignora i comandamenti che riguardano gli obblighi verso Dio, che distinguevano Israele da tutti gli altri popoli e che erano il vanto di Israele, soprattutto Gesù ignora il comandamento del sabato e fa una sintesi degli altri 7 ma enumerandone soltanto 5.

 

A questi Gesù aggiunge quello che non era un comandamento ma un precetto tratto dal libro del levitico:

 

  • Amerai il prossimo tuo come te stesso.

Anche qui una piccola parentesi. Quando si parla con dei credenti poco esperti del Vangelo, quando si chiede: qual è l’insegnamento sull’amore, come deve amare un cristiano? Molti rispondono: amerai il prossimo tuo come te stesso. No, attenzione, questo è per gli ebrei non per i cristiani !

Nel mondo ebraico il massimo della spiritualità aveva raggiunto questa formula. Un amore a Dio totale, assoluto. Amerai Dio con tutta l’anima, con tutto il tuo cuore, con tutto te stesso, quindi un amore a Dio totale e l’ amore al prossimo: come te stesso. Cioè un amore al prossimo limitato, relativo: devo amarvi come amo me. E siccome io sono una persona limitata, questo amore sarà limitato.

 

E poi attenzione, il concetto di prossimo nel mondo ebraico non è quello che assumerà poi nel cristiano. Prossimo nel mondo ebraico significava l’appartenente al clan familiare, alla tribù. In termini più larghi arrivava fino allo straniero che dimorava in Israele, ma era un concetto molto limitato.

 

Gesù invece cambia il concetto di prossimo. Il concetto di prossimo non è quello che viene aiutato, ma quello di cui ti fai prossimo per aiutare. Quindi nella spiritualità ebraica la massima dell’amore era un amore a Dio totale e un amore relativo alle persone: Ama il prossimo tuo come te stesso. Io sono il metro di questo amore e pertanto questo è un amore limitato. Non così per la comunità cristiana. Mai Gesù dirà ai suoi discepoli: ama il prossimo tuo come ami te stesso.

 

Gesù ci lascia un comandamento che non è un comandamento. Lo chiama comandamento per contrapporlo ai comandamenti di Mosè. Ma Gesù nel vangelo di Giovanni cap. 13 ci lascia un comandamento comandando l’unica cosa che non è possibile comandare alle persone.

 

Cos’è che non si può comandare alle persone? Di amare. Io potrò comandarvi di obbedirmi, di servirmi, di sottomettervi, posso comandarvi tutto, ma di volermi bene no. Non riesco. Non posso entrare nel vostro intimo e comandarvi di volermi bene. Mi rispetterete, mi temerete, avrete paura di me, quello che volete, però non posso comandarvi di amare. Perché Gesù parla d’amore e parla di comandamento.

 

Non parla di comandamento, ma per contrapporlo ai comandamenti di Mosè dice: vi lascio un comandamento, il termine nuovo in greco si dice in due maniere. Uno quello che adoperiamo anche noi nella lingua italiana e si dice: neos che significa: nuovo, aggiunto. Quindi se abbiamo 10 comandamenti vi dò un comandamento in più.

 

Gesù, l’evangelista non adopera questo termine ma un termine greco che significa ciò che è migliore, ciò che è eccellente e che glissa tutto l’altro. Per cui Gesù dice: vi lascio un comandamento migliore.

E qual è questo comandamento? Non ama il prossimo tuo come te stesso, ma “amatevi tra di voi come io vi ho amato.”

 
La misura di questo amore non è l’individuo, ma è l’amore del Signore. E notate i tempi non sono al futuro. Non dice: amatevi come io vi amerò! Non sta parlando dell’amore totale che poi Gesù si esprimerà nell’amore di croce. Ma sta parlando con tempi al passato: amatevi come io vi ho amato.

 

E com’è che ha amato Gesù? Il cap. 13 di Giovanni l’evangelista dice che Gesù portando al massimo la sua capacità d’amore prese una bacinella d’acqua e si mise a lavare i piedi dei suoi discepoli. Quindi l’amore per la comunità cristiana implica il servizio. Un amore senza servizio non è reale.

 

Torniamo a questo brano. Quindi Gesù gli enumera 5 comandamenti e 1 precetto. Prima avevamo trovato che era uno, adesso l’evangelista fa crescere questa persona e dice che questo uno è un giovanetto. Il termine giovanetto indica una persona che non ha raggiunto ancora la propria maturità. Normalmente nel mondo greco indicava l’arco di tempo tra i 24 e i 40 anni dopo del quale l’uomo era maturo, era adulto. Quindi quell’individuo che è stato presentato come uno, adesso viene chiamato come giovanetto, cioè una persona che è in crescita, ma non ha ancora raggiunto la piena maturità.

 

Che non abbia raggiunta la piena maturità si vede dalla domanda che fa. Gli dice il giovane: tutto questo l’ho osservato….il testo greco fa vedere che questa persona è boriosa e si riempie la bocca, dà l’idea di una persona soddisfatta di tutto questo. Il greco dice: “pantatauta”: Seentite: riempie la bocca… Lui è soddisfatto e dice: “tutto questo l’ho osservato”. Ma “l’ho osservato”, l’osservanza delle regole religiose non gli ha dato la felicità. Infatti si chiede: che cosa ancora mi manca?

 

Perché si chiede: “che mi manca?”  Perché lui osserva questi regolamenti religiosi, osserva queste prescrizioni, ma questo non l’ha portato alla maturità, lo ha mantenuto nell’infanzia, è una persona religiosa. La religione, proprio come fine (ricordo per quelle persone che sono qui per la prima volta che parleremo di religione sempre in termini negativi. Mentre parleremo in termini positivi di fede. Per religione si intende ciò che gli uomini fanno per Dio, per fede ciò che Dio fa per gli uomini.)

 

La religione deve mantenere i suoi addetti sempre in uno stato perenne di infantilismo che impedisce di raggiungere la pienezza della maturità.
Qual è la condizione infantile? E’ quella di dipendere da un adulto: dal papà, dalla mamma o comunque dai genitori. La condizione infantile è quella che la religione desidera per i propri adepti. Cioè persone che non possono mai decidere cosa è bene e cosa è male, cosa è giusto e cosa non è giusto, cosa devono fare e cosa non devono fare. Devono sempre fare riferimento a una autorità che gli dica: fai così, non fare così, senza avere bisogno di dare spiegazioni, semplicemente per il fatto che io te lo dico.

 

L’infanzia è caratterizzata dall’obbedienza. Allora la religione produce delle persone immature, delle persone infantili che non sanno ragionare con la propria testa.

 

“Ma tu che pensi ?” Io penso come l’autorità che mi comanda, senza una opinione. La religione ha bisogno di persone infantili che siano fedeli esecutori di decisioni prese dall’alto.

 

Non c’è nulla di più tragico e drammatico nell’esistenza di un individuo della persona obbediente. I grandi crimini dell’umanità, ricordiamocelo sempre, sono stati perpetrati da persone che hanno obbedito.

Perché? Perché la persona che obbedisce, non consulta la propria coscienza, si limita ad eseguire l’ordine che ha ricevuto. Infatti quando queste persone vengono messe poi sotto processo, come cercano di discolparsi? Ho seguito gli ordini. Quindi la religione produce dei piccoli criminali, dei serial killer che non consultano mai la propria coscienza per sapere se quello che stanno facendo è buono o no. Loro obbediscono anche se l’ordine è sbagliato, se l’ordine non gli consente di crescere.

 

Quindi questo è un individuo che è rimasto nell’età infantile. Ed è il fascino della religione. Perché la religione affascina tanto le persone? Perché la religione ti toglie la libertà, ma ti dona la sicurezza. Tu non devi pensare ad altro. C’è qualcuno che pensa per te. Tu devi soltanto eseguire. Non sei libero però sei sicuro. Invece Gesù, il messaggio di Gesù conduce le persone alla piena maturità e alla piena autonomia.

 

Il credente in Gesù che accoglie il suo messaggio diventa una persona che ragiona ed agisce in base alla propria coscienza, non in base a quella degli altri. Ecco perché un verbo che non ha diritto di cittadinanza all’interno dei Vangeli è il verbo ubbidire. Mai! Mai Gesù chiede ubbidienza per sé, mai Gesù invita ad obbedire a Dio. Figuratevi se chiede obbedienza per qualcuno delle persone.

 

Il termine obbedire, obbedienza, nei 4 vangeli compare soltanto 5 volte ma sempre in relazione ad elementi nocivi all’uomo: il vento in tempesta, il mare agitato, il gelso… E’ a questi elementi contro l’uomo che Gesù comanda “obbedisci!”, ma mai alle persone.

 

Abbiamo visto in questi giorni con Gesù, non è l’obbedienza, ma la somiglianza quello che fa crescere la persona. Quindi la maturità consiste nel rendersi liberi e nel rendersi autonomi. E’ importante questo perché chi rimane nella religione sarà sempre un servo di Dio e non riuscirà mai a percepirne la bontà, la pienezza della vita. Allora questo individuo dice: “pantatauta”, tutto questo l’ho fatto, che mi manca?

 

“Gli disse Gesù: se vuoi diventare (e qui c’è il termine che traduciamo con maturo adesso spiegandolo) maturo, va vendi i tuoi averi a dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli: poi vieni e seguimi.

Questo giovanetto, era preoccupato per la vita, la felicità nell’aldilà. Gesù lo invita ad abbassare lo sguardo qui su questa terra e vedere quanti infelici stanno attendendo un suo gesto, una sua azione per vivere qui più serenamente. Per questo a colui che gli chiedeva: cosa devo fare per avere la vita eterna, il Signore gli risponde invitandolo ad avere una pienezza di vita già qui in questa esistenza.

Il giovanetto chiedeva per sé, Gesù lo sta invitando ad occuparsi degli altri.
La forza del messaggio di Gesù è che mentre la legge viene imposta con la paura, il messaggio di Gesù viene proposto con amore.

 

Essendo il messaggio di Gesù amore, non può avere altra forma che quello della proposta.

Quando l’amore viene imposto questo si chiama violenza, si chiama stupro e l’amore non può essere imposto.

Quindi dicevamo stamattina come criteri di interpretazione: quando il Dio che ci viene presentato in qualche maniera mette paura, quando il Dio che ci viene imposto in qualche maniera richiama castigo o punizione, non abbiamo scrupolo a sbarazzarcene, non è il padre di Gesù, perché il padre di Gesù non mette paura.

Ugualmente per questo che stiamo vedendo: quando una dottrina ci viene imposta, quando ci viene messo un obbligo, non viene dal Signore perché in Gesù non ci sono imposizioni, non ci sono obblighi. L’amore non può essere imposto, l’amore non può essere obbligato, l’amore può essere soltanto offerto.

 

Quindi Gesù gli fa una offerta…se.. è una proposta. Il messaggio di Gesù è una proposta. Lui sa che la forza di questo messaggio qual è? Il vangelo, quella che noi chiamiamo la buona notizia, non fa altro che formulare il desiderio di pienezza di vita che ogni creatura porta dentro di sé. In ognuno di noi c’è questa scintilla del divino, c’è questa impronta di Dio e c’è questo desiderio, che noi chiamiamo felicità che in realtà è di pienezza di vita. Il Vangelo, il messaggio di Gesù non fa altro che formulare questo desiderio di pienezza di vita.

 

Allora Gesù non lo deve imporre, non deve obbligare, Gesù basta che lo offra. Se la persona ha il terreno sgombro da detriti che impediscono di accogliere questo messaggio risponderà prontamente.

Sapete in tanti anni che svolgo questo servizio di divulgazione della buona notizia, una espressione che dal nord al sud viene fuori specialmente dalle persone anziane, sapete qual è?

 

“Sa che queste cose le avevo sempre sentite dentro di me, però le tenevo represse perché avevo paura che fossero peccato: Adesso finalmente le sento formulate.”

 Quindi in ognuno di noi c’è un desiderio di pienezza di vita. Gesù non fa altro che formularlo. Allora Gesù, non impone, non minaccia. Se vuoi diventare…il termine adoperato dall’evangelista è letteralmente, perfetto, ma è la perfezione che riguarda l’età. Abbiamo visto che nel mondo greco romano, la maturità si raggiungeva dopo i 40 anni. Quindi c’è l’individuo, c’è il giovanetto e poi l’uomo maturo. Allora Gesù a questo individuo che è religioso e quindi ha osservato tutte le cose (ricordate quel pantatauta, sentite come si riempie la bocca) Gesù sente che tutto questo non l’ha portato alla maturità perché la religione non porterà mai alla maturità gli individui. Allora Gesù: “se vuoi essere un uomo, cioè se vuoi crescere, se vuoi diventare maturo…”, Gesù gli dice: “va, vendi i tuoi avere e dalli ai poveri”.

 

Quando si legge questo brano, bisogna interpretarlo secondo la cultura dell’epoca. Gesù non chiede mai di spogliarci di quello che abbiamo. Ci chiede semplicemente di vestire qualcun altro, questo è il senso della prima beatitudine. Io credo che nessuno di noi per vestire una persona debba andare in giro nudo. Ognuno di noi può vestire una o più persone. Quindi Gesù non invita a una vita di sofferenza e di stenti, no, invita ad occuparsi degli altri.

 

Come abbiamo visto qui, in maniera sceneggiata, l’evangelista sta presentando la prima beatitudine. Ricordate stamattina la prima beatitudine che consiste : abbassa un po’ il tuo livello di vita per permettere alle persone che lo hanno troppo basso di innalzarlo un po’. Non attraverso l’elemosina. L’elemosina non è una virtù cristiana. L’elemosina suppone un benefattore e uno che viene beneficato, ma tra i due c’è sempre un abisso.

 

Non attraverso l’elemosina, ma attraverso la condivisione. L’elemosina produce benefattori e beneficati, la condivisione produce dei fratelli, fa nascere dei fratelli. Allora Gesù dice: “va, vendi i tuoi averi”, (cioè al giovanetto che chiedeva per sé, Gesù lo invita a occuparsi degli altri) “dalli ai poveri” (cioè quelli che non hanno) e “avrai un tesoro nei cieli”.

 

Ricordate stamattina quando si parlava dei cieli: cieli è una espressione ebraica che indica Dio. Cioè, tu preòccupati della felicità degli altri e la tua sicurezza (il tesoro è quello che dà sicurezza, quello che dà la forza della vita) il tuo tesoro sarà Dio stesso. E’ un cambio meraviglioso. E’ quello che abbiamo visto con l’invito alla prima beatitudine. Tu sèntiti responsabile della felicità degli altri e il Padre diventerà responsabile della tua felicità. E’ un cambio vantaggioso.

 

Dicevamo: facciamo la prova, alla prima occasione che ci capita di dare diamo il doppio, il triplo di quello che abbiamo calcolato, vedrete che non solo non perdiamo niente, ma ci viene restituito molto di più di quello che possiamo dare perché Dio non si lascia vivere in generosità. Il Padre regala vita a chi produce la vita agli altri. Quindi amare gli altri come ci si sente amati dal Padre, significa comunicare un amore illimitato. Abbiamo già detto, nel corso di questi incontri ed è una massima veramente ricca da tener presente che emerge dai vangeli: si possiede soltanto quello che si è dato. Quello che si trattiene per sé è perso, è perduto. Quello che si dona agli altri è l’unica cosa che possediamo nella nostra esistenza.

 

Poi vieni e segui me… Quindi Gesù lo invita: òccupati della felicità degli altri, sii responsabile del benessere degli altri, abbi la sicurezza che se fai questo, Dio si prenderà cura di te, e poi vieni dietro di me.

Vieni dietro di me per fare cosa? Abbiamo visto che l’esperienza di Gesù rende l’uomo felice di essere nato e Lui ci chiede una sola cosa, che è possibile a tutti: fa che ogni persona che incontri, dopo averti incontrato sia ancora più felice di essere nata. L’obiettivo di Gesù è allargare questo circolo di felicità e fare in modo che la proposta di felicità raggiunga tutte le persone. Quindi Gesù lo sta invitando a praticare la prima beatitudine.
“Sentendo questa parola, questo messaggio, il giovanetto se ne andò rattristato… ”
Ricordate ?

Ha incontrato Gesù che era un anonimo; l’evangelista nel corso dell’incontro ci dice che era un giovanetto. Gesù gli ha proposto: cresci, diventa maturo, e lui rinuncia. Termina drammaticamente questo episodio con l’evangelista che dice: “il giovanetto”.

Non è cresciuto, c’è qualcosa di più forte di lui che gli ha impedito di crescere e di accogliere il messaggio di Gesù. E’ il fiasco completo per Gesù.

Cosa ci può essere che ha impedito di cogliere il messaggio di Gesù e far sì che Gesù faccia fiasco completo?  Eppure Gesù è riuscito a purificare un lebbroso! C’è qualcosa che rende impura una persona che è più forte della lebbra. Gesù è riuscito a liberare un indemoniato. Eppure c’è qualcosa che rende prigionieri gli uomini più terribile dell’indemoniamento. Cosa può essere?

Ce lo rivela l’evangelista come colpo di teatro finale. se ne andò rattristato…..non conviene sempre incontrare Gesù! Ricordate, abbiamo detto che l’incontro con Gesù ci rende ancora più felici di essere nati. Qui l’effetto contrario: se ne andò rattristato. Non è vero che incontrare Gesù rende le persone ancora più felici perché questo ha incontrato Gesù e non è felice, anche se Gesù gli aveva proposta la felicità. Sii felice come? Occupati degli altri. Ed ecco il colpo di scena.

 

Perchè? Perché aveva molte proprietà… cioè era un uomo ricco. Il giovanetto invitato a scegliere tra la felicità piena, completa e la tristezza, sceglie di rimanere triste (se ne andò rattristato) perché aveva molte proprietà.

La denuncia che fa l’evangelista è drammatica. Quello che doveva garantirgli la felicità (uno pensa che la ricchezza garantisca la felicità) è al contrario fonte di tristezza.

Il giovanetto aveva dichiarato di avere sempre amato il prossimo (ricordate: tutto questo l’ho fatto da sempre…) ma invitato a dimostrarlo praticamente attraverso la condivisione dei beni non ne è capace.

 

Evidentemente i poveri non rientrano nel prossimo da amare. Gesù l’ha invitato a diventare un uomo e lui resta un giovanetto e non maturerà mai.
Lui credeva di possedere i beni, in realtà ne era posseduto. E’ il vero indemoniato del vangelo: un indemoniato talmente potente che neanche Gesù riesce a liberare perché lui è volontariamente indemoniato, lui è posseduto dai beni che credeva di possedere. La ricchezza è un demonio che si impossessa degli individui rendendoli completamente refrattari alla buona notizia proposta da Gesù. Invitato ad essere nella pienezza della gioia, sprofonda nella tristezza.

 

Di fronte a questo fiasco Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità vi dico un ricco difficilmente entrerà nel regno dei cieli.”

Regno dei cieli lo ricordo non indica l’aldilà, ma è una espressione ebraica che indica il regno di Dio, cioè la comunità inaugurata da Gesù. Per Gesù all’interno della sua comunità, nel Regno, non c’è posto per i ricchi, ma solo per i signori.

Qual è la differenza? Il ricco è colui che ha e trattiene per sé, il signore è colui che dona agli altri.

Per i ricchi non c’è posto nella comunità di Gesù, per chi ha e trattiene per sé non c’è posto. C’è posto soltanto per i signori. Ricchi non tutti possiamo esserlo, signori tutti, perché signore è quello che dà e tutti quanti possiamo dare qualcosa o quello che abbiamo.

 

Quindi qui Gesù non sta parlando dell’aldilà, ma del di qua.
Tante volte – non fosse stato compreso – Gesù dice: di nuovo lo ripeto: E’ più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio.

 

Quindi Gesù – è chiaro con quelle espressioni che sono tipiche del linguaggio orientale -  indica qualcosa di impossibile. Sceglie l’animale più grande conosciuto, l’animale più grande impuro conosciuto e l’apertura più piccola. Come non è possibile che un cammello entri per la cruna di un ago così è impossibile che un ricco entri nel regno di Dio.

 

C’è sconcerto nel gruppo dei discepoli. Provate a immaginare Gesù e i suoi discepoli: era gente che aveva abbandonato tutto per seguirlo, vivevano di aiuti, alla giornata, finalmente arriva un ricco (il ricco si vedeva dal vestito, dal comportamento) che può entrare nella comunità. Immaginate la gioia e la felicità quel giorno: ragazzi, oggi altro che fichi secchi….oggi mettiamo via il pesce secco, i fichi secchi, c’è questo che entra da noi. Immaginate lo sconcerto quando Gesù mette come condizione al ricco se vuole entrare di sbarazzarsi di tutte le ricchezze.

 

 Allora c’è un grande sconcerto che si riflette in questa protesta. I discepoli udirono, ma rimasero molto sconcertati e dicevano: chi dunque si potrà salvare?

 Attenzione, non riguarda la salvezza eterna. Avete visto prima, per la vita eterna, per la salvezza eterna, anche il ricco ci entra basta che osservi quei comandamenti elementari che implicano un rispetto dell’altro. Qui non si tratta di salvezza eterna, ma di salvezza fisica. Il verbo salvarsi indica sfuggire a un pericolo. Qui si tratta della fame del gruppo, del mantenimento del gruppo. Se a te Signore, uno con i soldi che vuole entrare nel gruppo gli dici che se vuole entrare deve metter via i soldi, qui come si campa? Come si va avanti?

 Vedete, la chiesa si è accorta che la confessione non ha fatto crescere le persone.

 

 

 

“Ma Gesù fissandoli rispose” (nel vangelo di Matteo appare il verbo fissare solo 2 volte), qui e quando ha parlato nel famoso discorso della montagna dicendo: “guardate gli uccelli del cielo, non seminano, non mietono, non raccolgono nei granai eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?” Gesù tra i tanti esempi che fa prende proprio gli uccelli che erano considerati animali nocivi per i quali non si benediva il Signore. Allora Gesù dice: guardate, anche gli animali che sono considerati i più inutili, i più nocivi sono nutriti dal Signore. Quanto più il Padre si prenderà cura di voi?

Allora questo verbo fissare ritorna qui e associa quindi il tema dell’azione del Padre e dice: presso gli uomini questo è impossibile, ma presso Dio ogni cosa è possibile.

Qual è il significato che questa salvezza presso gli uomini è impossibile, ma è possibile presso Dio?

Presso gli uomini che considerano che la felicità consiste nell’avere, nel trattenere e quindi pensano che la felicità consiste nella ricchezza. Più beni io ho più sono felice, questo è possibile da capire. Ma presso Dio no, presso Dio che è la generosità che condivide, tutto questo è possibile. E’ l’unico fiasco che Gesù fa. E’ riuscito a liberare il lebbroso, l’indemoniato, ma contro il ricco non è riuscito a far niente Quindi:

  • la ricchezza ti chiude agli altri,

  • la ricchezza ti rende un infelice.

  •  

Terminiamo con una immagine tratta da Luca del ritratto dell’uomo ricco che tutti conosciamo del ricco e del povero Lazzaro. La pennellata che dà l’evangelista del ricco che viene condannato non perché si sia comportato in maniera malvagia nei confronti del povero, ma semplicemente perché lo ha ignorato. Il ricco vive a un livello che non si accorge dell’esistenza del povero. Dice: “c’era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente”.

 

E’ un ritratto di una grande finezza psicologica. Vestiva di porpora e di bisso: potremo tradurre in maniera comprensibile, vestiva firmato da capo a piedi.
Cos’è il significato? La povertà interiore dell’individuo veniva mascherata dalla ricchezza esteriore.

 

Più una persona è ricca esteriormente più denuncia la povertà interiore. Al contrario: più una persona è ricca interiormente e più lo esprime con la semplicità esteriore. “Tutti i giorni banchettava lautamente”. Non dice una volta alla settimana, una volta al mese… tutti i giorni !

 

Quanta fame aveva questo? Tutti i giorni lui ha fame, fame della vita e crede che la fame si plachi ingurgitando le cose dentro e non ha capito che la fame si placa donando agli altri, non trattenendo il pane per sé, mangiandolo per sé, ma condividendolo con gli altri.

 

Domanda: e la confessione?

Risposta: la confessione è il sacramento più detestato dai cristiani. Sacramento significa comunicazione di grazia, cioè la vita di Dio che viene comunicata, come è stato possibile che noi preti l’abbiamo deturpata a questo punto che è diventato da sempre un sacramento detestato?

 

Io non so la vostra esperienza, ma la mia negli anni del catechismo, quando ci si doveva confessare si individuava sempre il prete più anziano, se era sordo era l’ideale, perché è sempre stato un qualcosa di umiliante, di imbarazzante. Come è stato possibile che questo sacramento sia così detestato e soprattutto strida con il messaggio di Gesù?

 

Sapete la materia è drammatica, ci sono persone che dagli effetti devastanti di una confessione, specialmente donne, non hanno più messo piede in chiesa. Andarsi a confessare da certi preti è come andare a fare una visita ginecologica da un maniaco sessuale: si esce ugualmente devastati dentro!

 

Ma come è stato possibile che un sacramento venga detestato così? La chiesa è corsa ai ripari. Sapete questo sacramento è nato con la chiesa, si è modificato nei tempi fino all’ultima riforma che non è stata portata in porto, purtroppo per la pigrizia dei preti.

 

L’ultima riforma, 30 anni fa ha cambiato il nome, non è il sacramento della confessione, ma della riconciliazione o della penitenza nel senso di pentimento. Il sacramento della confessione pone la nota sulla confessione, sull’accusa precisa dettagliata delle colpe; accusa che generava tanto scrupolo, sapete che se nascondevi anche un solo peccato era un sacrilegio.

 

Io ricordo nel mio paese dove abito, c’era una signora anziana scrupolosa che quando si confessava, per essere sicura di aver detto tutto diceva: “confesso tutto quello che ho fatto e anche tutto quello che non ho fatto”, perché voleva essere sicura che non sfuggisse niente quindi si accusava di tutto quello che aveva fatto e di quello che non aveva fatto.

 

Il sacramento ora si chiama della riconciliazione ed è un sacramento che è atto a mettere in sintonia la tua vita con il progetto che Dio ha su di te. L’incontro con Gesù non è sempre quello umiliante dell’elenco infantile delle proprie colpe, ma quello sempre arricchente del Suo infinito amore.
È questo che è sacramento, è questo che comunica vita.

 

 

 

L’essere tonti non è una virtù cristiana, è l’essere buoni la virtù cristiana. L’amore va sempre accompagnato dall’intelligenza; non c’è nulla di più devastante di un amore non collegato all’intelligenza. Conoscete il proverbio popolare: “il medico pietoso manda la gamba in cancrena”. Quindi l’amore deve sempre essere accompagnato dall’intelligenza. È chiaro, io rinnoverò la mia fiducia all’altro, ma se l’altro ne approfitta per farmi del male ancora, io dovrò mettermi in condizioni di non nuocermi prendendo tutte le misure che ritengo possibili.

 

 

 

Domanda: se Gesù avesse chiesto al giovanetto di condividere invece di vendere tutto, forse sarebbe stato meno triste?

Risposta: il significato è identico: quello c

 

 

 

La prova? Le confessioni erano ritmate periodicamente: Sapete che molti preti considerano i penitenti come i barattoli della conserva che hanno la data di scadenza: “quanto tempo è che non ti confessi?” E l’esperienza ha dimostrato che persone che praticavano questo sacramento non crescevano perché tutta la vita portavano sempre lo stesso elenco di colpe. C’è qualcosa che non funziona! Come è possibile che per tutta la vita un individuo porti sempre lo stesso elenco di peccati, di colpe?

 

C’è qualcosa che non va. Nel mio paese, paese agricolo, gente semplice, c’era un anziano ultra ottantenne che quando si veniva a confessare mi diceva: “il solito”. Era da quando aveva fatto la prima comunione che confessava sempre le stesse colpe! L’assoluzione era istantanea: il solito.

 

Allora è possibile che un sacramento non faccia crescere le persone? Adesso il modello del sacramento è stato ripreso dalla parabola del figliol prodigo dove questo figlio torna dal Padre non perché è pentito, al Padre non interessa e lo inonda d’amore e quando il figlio attacca l’atto di dolore, il Padre gli mette la mano sulla bocca, non lo vuole sentire. Non mi interessano le tue motivazioni, le tue scuse, le tue colpe: senti quanto io ti amo.

 

Il sacramento allora non è tanto dire ad un prete quello che hai fatto, perché tu lo sai, al prete di per se non interessa, ma soprattutto il Padre sa meglio di te, perché molte cose che la nostra coscienza ci accusa come peccato, magari agli occhi del Signore non lo sono.

 

Allora metti da parte tutto questo e senti quanto è grande l’amore di Dio per te. Vi assicuro che questi sono incontri sacramentali che fanno crescere e irrobustiscono la vita della persona.

 

Domanda: è sacramentale la riconciliazione durante la messa? Risposta: all’inizio dell’eucaristia c’è già il perdono delle colpe, quindi per chi partecipa all’eucaristia, nell’eucaristia c’è già il perdono delle colpe sempre condizionato dal perdono delle colpe degli altri. Gesù lo ha detto molto chiaramente: Lui ci offre l’amore del Padre immeritato e incondizionato, indipendentemente dal nostro amore e dalla nostra condotta,ma questo perdono diventa operativo in noi se si trasforma in altrettanto amore nel confronto degli altri.

 

Nella celebrazione eucaristica tutti sono invitati, qualunque sia la loro condotta, qualunque sia la loro situazione, tutti sono invitati a ricevere il Signore che si fa dono.

 

C’è una unica persona che non può permettersi di riceverlo: è l’individuo che non vuole perdonare chi gli ha fatto del male.  A volte il torto, il danno che ci è stato fatto è talmente grande che il perdono richiede un processo lunghissimo, non come gli intervistatori che vanno a chiedere se perdona chi gli ha ammazzato il famigliare…Sarebbero da uccidere! Il perdono non può essere istantaneo, richiede un processo di maturazione e a volte richiede anni. Non importa.

 

Vuoi perdonare, ma non ci riesci? Ebbene io ti do la forza, ma uno che dica no io non voglio, allora se non vuoi perdonare che cosa vieni a fare qui a messa? Ecco l’unica categoria di persone che non può partecipare all’eucaristia. Non chi non può, chi non vuole perdonare! Quindi nel sacramento dell’eucaristia – già dato per scontato che noi perdoniamo le colpe degli altri – il perdono di Dio diventa operativo ed efficace.

 

Domanda: come entra nel cristianesimo la figura del Cristo redentore che muore per i nostri peccati?

Risposta: quando da bambini ci fanno vedere il crocifisso, e il bambino chiede chi è, dicono che è un uomo buono, e che degli uomini cattivi lo hanno messo in croce.

 

Quando siamo un po’ più grandi, la cosa peggiora, perché gli uomini cattivi diventiamo noi: è morto per i tuoi peccati! Io ricordo da piccolo quando al catechismo mi dicevano che quel Cristo inchiodato in croce era morto per le mie colpe, io pensavo, ma non siamo neanche parenti! Come ha potuto morire per me e poi.., avrò commesso delle stupidaggini, ho potuto anche fare del male alle persone, ma non credo che noi nella vita commettiamo dei peccati talmente gravi da determinare la morte in croce di Gesù. Mi sembra una esagerazione che Gesù muoia per le mie colpe…

 

Vedete questa immagine che Dio ha voluto la morte del Figlio per riappacificarsi con l’umanità non appartiene ai Vangeli, ma è nata nel mondo latino, nel mondo romano dove il reato dipendeva dall’importanza della persona offesa. Per esempio se uno insultava uno schiavo non era niente, se insultava una persona libera c’era una punizione, se insultava un sacerdote o un capo c’era la prigione, se insultava il re ti tagliavano la testa.

 

Quindi lo stesso insulto determinava una condanna di versa in rapporto a chi veniva diretto. Ebbene qui ragionavano con questa mentalità latina, è stato insultato Dio, è stato offeso Dio, allora chi può scontare un peccato del genere? Ci vuole solo un Dio, quindi l’immagine atroce che Dio ha voluto il sacrificio del figlio per rimettersi a posto con l’umanità.

 

Nulla di tutto questo, non c’è nulla di tutto questo. Gesù è morto non perché fosse la volontà di Dio, ma perché era la convenienza del sommo sacerdote; Gesù è morto per essere fedele all’impegno preso con il Padre di manifestare sempre comunque e ovunque il Suo amore.

Allora se questo è vero, da che cosa Gesù ci ha salvato? Questa è un’altra delle grandi incognite della nostra educazione cristiana! Siamo tutti d’accordo che Gesù è il Salvatore, ma quando si chiede alle persone da che cosa ci ha salvato, non sanno bene cosa rispondere.

 

Se dicono ci ha salvato dalla morte, allora non si muore più!!!, e allora?

Ci ha salvato dai peccati, non commettiamo più peccati?, beh qualche volta magari!! Allora da che cosa ci ha salvati?

 

Gesù nel vangelo dice che non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti. Questo termine riscatto apparteneva all’ordine giuridico ebraico dove quando un individuo veniva ridotto in schiavitù, per una guerra o per debiti, il parente più prossimo aveva l’obbligo di pagare la somma di riscatto, di liberazione dalla schiavitù.

 

Quindi dai vangeli sappiamo che Gesù ha dato la sua vita per liberarci da una schiavitù: quale? Lo dice Paolo nelle sue lettere: Gesù ci ha liberati dalla maledizione della legge, da un rapporto con Dio basato sull’osservanza della legge che divideva l’umanità tra puri e impuri, meritevoli e no. Gesù ci ha liberato da tutto questo e per farlo ha dato la sua vita.

 

Domanda: fino a che punto bisogna essere disponibili per gli altri, e quando gli altri ne approfittano, devi continuare a essere servizievole?
Risposta: Dal messaggio di Gesù si deduce questo: Gesù ci invita ad essere buoni fino in fondo, ma non confondiamo l’essere buoni con l’essere tonti, perché molti pensano che essere buoni sia anche essere tonti: quindi buoni fino in fondo, ma tonti, neanche un po’.

 

 

he hai dallo a chi non ha in modo da permettere che quelli che non hanno vita possono avere un po’ di vita. Ma il ricco non può essere generoso perché se fosse generoso non sarebbe ricco. Le persone più generose sono le persone più modeste, e lo avrete sicuramente constato quando dovete raccogliere qualcosa. Più le persone hanno e meno danno, perché sono ricchi !? Perché non sono generosi ! Il ricco è fino in fondo condizionato dal suo egoismo.

 

 

 

 

Oggi abbiamo ricordato la parabola del ricco e Lazzaro. Quando finalmente il ricco si accorge dell’esistenza di Lazzaro è per usarlo per i propri fini: comanda!  Dice ad Abramo: “mandalo”, lo usa perché per al ricco tutto gli è dovuto, tutto gli si deve e quando Abramo gli dice, no non può, il ricco egoista fino in fondo non fa altro che pensare a se stesso e dice: “mandalo a casa dai miei 5 fratelli”. Non dice mandalo al popolo che annunci che tragedia che c’è per chi vive per se stesso, ma anche in quel luogo di morte pensa solo ai propri interessi. Quindi il ricco non potrà mai essere signore perché il ricco è tale perché non è generoso.

 

Domanda: chi è ricco? Chi è povero? E di che cosa?

Risposta: premesso che Gesù non ci invita a spogliarci, ma a vestire le altre persone, la definizione (e tutte le definizioni sono necessariamente limitate) il ricco è colui che ha e trattiene per se. Per povero si intende l’altro che non ha le stesse cose che io ho. Non ci può essere amore per l’altro se non è accompagnato dal desiderio che l’altro abbia le stesse cose che io ho. Io non posso stare bene se so che la persona che conosco non ha le stesse cose di confort, di comodità, naturalmente necessarie, indispensabili, che io ho.

 

Gesù però non entra in una casistica, non dice questo è il povero, questo è il ricco, Gesù ci invita: orienta la tua vita verso il bene degli altri. Sarà l’orientamento verso il bene degli altri che la tua sensibilità ti farà scoprire tutti i poveri che ci sono. Perché, vedete, il povero lo associamo al mendicante, può darsi, anche quello. Ma ci sono tante povertà nascoste e camuffate da una apparenza dignitosa perché le persone hanno una dignità e non vogliono far vedere che sono nell’indigenza. Allora compito della comunità cristiana è avere le antenne sensibili e cercare di individuare la persona che ha bisogno.

 

Ma, attenzione: la condivisione va fatta con delicatezza, facendo comprendere all’altro che mi fai un piacere se accetti questo. Quindi non è il dono altezzoso di chi ha, umiliando chi non ha, guarda quanto sono buono, guarda quanto sono bravo!, ma guarda fammi questo regalo, accetta queste cose.

Domanda: nelle beatitudini, la prima ha il verbo al presente, e tutte le altre al futuro, perché?

 

Risposta: le altre sono le possibili conseguenze della scelta della prima beatitudine. Riguardo alle beatitudini, ricordo che non sono rivolte ad un individuo, ma ad una comunità. Gesù parla sempre al plurale: beati quelli che.. se c’è una comunità che accoglie la prima beatitudine si innesta un meccanismo di cambiamento nella società dove al primo posto ci sono le situazioni di coloro che soffrono e vedranno non una consolazione, ma la fine del loro dolore e della loro sofferenza, ma queste sono messe al futuro perché sono una possibilità che viene determinata dal gruppo.

 

Se non c’è il gruppo non c’è niente!. Quindi la prima è reale ed immediata, se c’è questa poi verranno tutte le altre, ecco i verbi al futuro; sono le possibili azioni liberatrici che Dio con quanti hanno accettato la prima beatitudine potrà compiere nell’umanità.

 

Domanda: soffro del male planetario, ma quello che c’è vicino a noi. Soffro e non sono felice, dove è che sbaglio?

 

Risposta: dobbiamo essere razionali, concreti e ragionevoli. Immaginate che cuore doveva avere Gesù, ma Gesù non ha risolto tutti i casi pietosi dell’umanità; ha guarito una decina di lebbrosi, perché lui che poteva, non li ha guariti tutti? Ha curato qualche cieco, perché non tutti? In questo nostro immergersi nell’umanità, attenzione che dobbiamo essere responsabili, concreti e pratici: non possiamo farci carico dell’enorme sofferenza che incombe sull’umanità perché altrimenti la nostra vita ne sarebbe schiacciata e noi non saremmo più utili per gli altri, ma dobbiamo vedere il raggio di azione della nostra azione e li, dove possiamo, misurando bene le forze, arrivare ad operare.

 

Non ci dobbiamo esaurire per rispondere a tutte le necessità di bisogno che ci sono nell’umanità perché nel giro di poco tempo, invece di soccorrere i bisognosi ci ritroviamo noi ad essere tra i bisognosi da soccorrere. Quindi nella azione verso gli altri ognuno dosi se stesso. Un esempio personale: non potete immaginare le richieste di incontro che arrivano. Sto già prendendo impegni per il 2010, ma io una ne accolgo e 10 dico di no. Perché non vai? Anche li c’è un gruppo di persone che faresti tanto felice con questo tuo messaggio, c’è gente che chissà quanto ne gioverebbe dal sentire la Buona Notizia: semplicemente perché non posso.

 

Un incontro richiede tanta preparazione, richiede tanto impegno fisico emotivo, celebrale, ed io non posso fare un incontro dopo l’altro perché nel giro di qualche anno sarei da rottamare, ed allora non sarei più utile per gli altri. Allora io faccio 1 o 2 incontri al mese e poi basta, dico di no e mi dispiace, ci soffro a dire di no, ma non posso dire di si perché non posso farmi carico di tutte le necessità, di tutti i gruppi che ci sono altrimenti nel giro di poco tempo mi renderei sterile e non sarei più capace di trasmettere queste cose.

 

Dobbiamo quindi farci carico delle sofferenze dagli altri, ma senza permettere che queste sofferenze incidano nella nostra felicità. E’ chiaro che soffriamo a vedere certe situazioni, certe tragedie dell’umanità, ma dove possiamo arrivare, arriviamo, ci rimbocchiamo le maniche, ma dove non possiamo non angosciamoci di questo altrimenti non campiamo più.

 

Domanda: perché beati i poveri e non beato il povero?

Risposta: perché le beatitudini sono rivolte ad un gruppo e non ad un singolo? Perché Gesù vuole trasformare radicalmente questa società: un individuo è il fatto, ma non trasforma la società, una comunità riesce a trasformarla! Quindi Gesù non si rivolge all’individuo che vive le beatitudini perché prima di tutto perché non può. Da solo non puoi vivere le beatitudini perché vivere le beatitudini significa andare contro corrente e tutti i poteri istituzionali che si sentiranno urtati da questo tuo atteggiamento non faranno altro che schiacciarti.

 

Non puoi essere solo, hai bisogno di una comunità alle spalle in modo che quando arriva la persecuzione tu abbia in qualche maniera le spalle coperte altrimenti la società ti schiaccia. Tante persone generose, volonterose che hanno voluto vivere individualmente le beatitudini si sono bruciate nel giro di poco tempo. C’è bisogno di una comunità, perché è la comunità che incide radicalmente nella società.

 

Un esempio banale: se io ritiro il mio conto corrente da una banca, perché so che questa banca investe in droga o commercio di armi, alla banca non gli fa un baffo! Un conto corrente di meno non indica molto, ma se siamo una comunità, 200, che togliamo tutti e 200 il nostro conto corrente, alla banca questo comincia a preoccupare. Se invece di 200 siamo 2000, la banca corre ai ripari, è questo che trasforma la società.

 

Quindi il gruppo di Gesù è una forza che incide beneficamente nella società, Gesù parla di lievito che trasforma tutta la massa.

Domanda: la non obbedienza come si concilia con gli obblighi che la chiesa ci impone?

Risposta: Allora,  io cucino bene e ti invito a mangiare. Non ho bisogno di obbligarti: vieni a pranzo da me perché altrimenti ti capita questo, tu sai che io cucino tanto bene e quando ti dico di venire a pranzo tu vieni di corsa perché sai che ti offro una cosa buona. Se io invece sono un cuoco pessimo e quello che mangio è disgustoso, per farti venire a pranzo ti devo obbligare. Vieni a pranzo da me altrimenti ti faccio questo e questo.

 

Quando la chiesa impone od obbliga qualcosa, si vede che non è convinta della sua efficacia o comunque non fa bene alle persone. Se qualcosa fa bene alle persone, io non la devo obbligare, non la devo imporre. La persona lo prenderà perché la persona è istintivamente chiamata al bello, al buono, al piacere, alla felicità nella propria vita.

 

Quindi la chiesa quando deve proporre – mai imporre -  qualcosa, se questo qualcosa corrisponde ai bisogni delle persone non c’è bisogno di chiedere obbedienza, di imporlo. Quando lo fa, si vede che per prima non è convinta sulla bontà di tutto questo. Allora noi dobbiamo stare attenti quando le cose ci vengono imposte, quando le cose ci vengono collocate con la paura e l’obbligazione: non possono venire dal Signore perché il Signore non comanda, non obbliga e soprattutto non mette mai paura. Questo è il criterio per capire se una cosa viene da Dio o no.

 

Domanda: Come mai con questo flusso d’amore da Dio, nel Padre nostro diciamo non ci indurre in tentazione?

 

Risposta: Quando il nostro gruppo più di 30 anni fa propose una nuova traduzione al posto di quella inesatta del Padre nostro (è tutto da rivedere, non c’è una frase tradotta bene!), apriti cielo, ci hanno detto che eravamo contro la Chiesa, che facevamo soffrire il Papa.. e sono tutti i rischi di tutti coloro che stanno in un piano innovativo, poi c’è da aspettare, adesso la stessa Cchiesa, che arriva sempre un po’ dopo, però ci arriva!

 

Nella edizione ufficiale che adesso uscirà della sacra scrittura, ha cambiato la traduzione del Padre nostro. Sapete che il testo del Padre nostro è il testo più difficile di tutto il nuovo testamento, perché esistono delle parole greche sconosciute nella lingua greca. È una preghiera brevissima, ma difficilissima da tradurre per cui quella traduzione ci ha abituato a dire non ci indurre in tentazione come se il Signore fosse lui a spingerci in tentazione, e per tentazione si è confuso tutto quello che riguarda chissà quali sfere, ho avuto le tentazioni, nulla di tutto questo!

 

Letteralmente li l’evangelista dice che la comunità che è già caduta di fronte alla prova del Getsemani, dove Gesù ha detto: ” vegliate e pregate per non cedere al momento della prova”. Quale è il momento della prova? L’arresto di Gesù, l’arresto del Messia, la sua condanna e la sua crocifissione. Pensate che avevano assicurato Gesù: “siamo tutti pronti a morire per te”.

 

Ma quando da lontano hanno visto le luci delle guardie sono scappati tutti quanti e lo hanno lasciato solo. Quindi la comunità che è reduce da questa tragica esperienza che di fronte al momento della prova e della persecuzione tutti sono fuggiti, tutti hanno ceduto, nella preghiera dice: fa che nel momento della prova noi non cadiamo, non lasciare che affoghiamo.

 

Quindi non è una tentazione, chissà quale possa essere, ma il momento della persecuzione. Chiunque vive fedelmente il messaggio di Gesù, prima o poi incontra la persecuzione ed il rischio che si corre è quello di cedere, quello di lasciarsi andare, invece no bisogna rimanere fermi se ci si crede in queste cose perché il Signore sta sempre con i perseguitati e mai con chi perseguita.

 

Quarta conferenza

 

  
Stiamo trattando Dio e la felicità degli uomini e abbiamo visto che quella che è la massima aspirazione dell’uomo, la felicità coincide con il desiderio, la volontà di Dio che vuole l’uomo felice. Abbiamo visto che tutto quello che impedisce la felicità, uno dei responsabili della mancata felicità degli uomini è l’immagine di un Dio da temere, di un Dio che castiga, di un Dio in qualche maniera geloso della felicità degli uomini. Abbiamo visto che tutto questo non c’è nel messaggio di Gesù, abbiamo visto, attraverso gli evangelisti, la maniera per essere pienamente felici qui in questa esistenza terrena, non nell’al di là.

 

A Gesù non interessa assicurarci una felicità ultraterrena, Gesù è venuto ad inaugurare, quel regno di Dio, quel paradiso, come abbiamo sentito questa mattina nella lettura del vangelo, qui in questa esistenza terrena. Dio ama tanto i suoi figli e i genitori per loro vogliono la felicità ed il Padre tutto concorre affinché l’uomo sia felice. E questa mattina concludiamo con lo stesso messaggio visto da un altro evangelista, un altro punto di vista, ma tutti gli evangelisti in maniera diversa formulano lo stesso messaggio: Dio è amore, l’amore chiede di essere accolto e una volta che questo amore viene accolto si inaugura nella persona un dinamismo di crescita vitale che lo porta alla piena maturità.

 

Un altro degli elementi che avevamo tenuto presente in questi giorni, è che mentre nella religione l’uomo si spiritualizza, cioè si separa dagli altri per ravvicinarsi ad un Signore che si immagina lontano, inarrivabile, la persona pia, la persona religiosa attraverso le preghiere, le devozioni stile di vita si separa dalla gente comune, con Gesù, Dio lascia quel cielo dove la religione lo aveva collocato e si fa uomo, si mette a livello degli uomini.

 

Avevamo visto quindi per quale motivo i religiosi praticamente sono atei, perché nella religione l’uomo sale per incontrare Dio, ma Dio è sceso per incontrare l’uomo: gli uni salgono, gli altri scendono e non si incontrano mai. Più la persona è religiosa e pia, e più è distante da un Dio che è profondamente umano. E sempre per parlare della felicità dicevamo che quando l’uomo diventa profondamente umano scopre il divino che è in lui perché Dio non si trova spiritualizzandosi, ma Dio si trova umanizzandoci. Se noi con Lui e come Lui mettiamo la nostra vita al servizio del bene degli altri, li c’è la presenza di Dio, la nostra esistenza e quella di Dio si intrecciano e scopriamo la meraviglia di un Dio che si vuole fondere con l’uomo.

 

Questa mattina vediamo dal cap. 15 del Vangelo di Giovanni la stessa realtà, ma formulata in una maniera diversa. È un capitolo di una grande importanza, è uno di quei capitoli del Vangelo che, se compresi, cambia radicalmente il rapporto dell’uomo con il Signore e di conseguenza il rapporto degli uomini con i suoi simili.

 

Inizia Gesù dicendo Gv. 15,1-8: “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo.”
Quando Gesù si esprime con questa formula Io sono, non è una semplice rivendicazione di esistenza, ma Io sono nell’antico testamento era il nome di Dio. Quando Mosè nell’episodio conosciuto del roveto ardente a questa entità, a questa divinità chiede chi sei, questa divinità gli risponde dicendo: Io sono, e Io sono era diventato nella tradizione ebraica il nome di Dio. Allora qui Gesù rivendica pienamente la condizione divina. Ricordo che il vangelo di Giovanni si apre con quello che viene chiamato il prologo che termina con queste parole: Dio nessuno lo ha mai visto, solo il Figlio ne è stato la rivelazione. Cioè l’evangelista dice, tutto quello che voi pensate di Dio, tutto quello che vi è stato insegnato, tutto quello che credete, adesso sospendetelo, confrontatelo in questo individuo Gesù.

 

 Se quello che vi è stato insegnato di Dio corrisponde a quello che vedete nell’insegnamento e nell’azione di Gesù si conserva; se invece si discosta o si allontana, lasciatelo via perché sono immagini false che deturpano il volto di Dio.

Quindi il vangelo ci dice che soltanto centrando la nostra attenzione su Gesù scopriamo chi è Dio, perché in Gesù si manifesta chi è Dio, e molte idee che abbiamo di Dio appartengono a superstizioni, alle religioni, alle filosofie, e non corrispondono a quello che vediamo in Gesù: Gesù rivendica la piena condizione divina.

 

“Io sono la vera vite” – Perché Gesù parla della vite?

 

La vite era la pianta da frutta che raffigurava il popolo d’Israele, e per Gesù il vero popolo del Signore non è più Israele, il vero popolo del Signore è quello di quanti hanno dato adesione a Lui. “Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo”.

 

Gesù comincia a dividere i compiti:  Lui è la vite e il Padre è il vignaiolo. Vedremo nel corso di questo brano che ci sono dei compiti e specializzazioni ben distinte che non è lecito confondere. E continua Gesù, ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie; il tralcio attaccato alla vite succhia la linfa vitale e trasforma questa linfa vitale in grappoli di uva. Questo il compito del tralcio, ma afferma Gesù, ci può essere il rischio che un tralcio (la sottolineatura è in me) immagine del credente, del discepolo che pur dando adesione a Gesù non porta frutto.

 

Perché non porta frutto? Perché il tralcio pensa a nutrire soltanto se stesso: è un tralcio parassita, lo toglie. Quindi ogni tralcio è chiamato alla produzione crescente di frutto, spetta al Padre valutare la crescita o meno, ma il tralcio non produce frutto quando non risponde alla vita che riceve e non la comunica agli altri. Cosa vuol dire Gesù. Questo tralcio riceve al vita di Gesù, ma pur ricevendo l’amore non lo trasforma in frutto, quindi una appartenenza alla comunità cristiana che prende l’amore del Signore, prende l’amore degli altri, ma poi non lo rielabora e non lo trasforma in un frutto per gli altri.

 

Per fare un esempio concreto: abbiamo partecipato all’eucaristia, abbiamo mangiato un Gesù che si fa pane affinché fossimo poi capaci noi di farci pane per gli altri, questo è il significato dell’eucaristia! L’eucaristia non è fine a se stessa, non è per la propria santità, per la propria devozione, il partecipare all’eucaristia non si conclude con il momento in cui si fa la comunione, ma quando questa comunione ci dà energia per farci pane per gli altri. Quindi nell’eucaristia, Gesù il Figlio di Dio, si fa pane, cioè vita per noi perché quanti lo accolgono e sono poi capaci di farsi pane per gli altri, diventino anche essi figli dello stesso Dio.

 

Quindi con questa immagine del tralcio Gesù allude a quei discepoli a quei credenti che pur cibandosi del pane che è il suo corpo, non si fanno pane per gli altri, pur ricevendo la vita di Gesù non pensano a trasmettere questa vita agli altri; sono quei credenti, l’immagine è caricaturale, che sono talmente preoccupati per la propria santità che non hanno tempo di pensare agli altri, sono quelle persone che quando devono scegliere un servizio liturgico, una devozione, una preghiera e un servizio da fare agli altri non hanno esitazione: per loro viene prima Dio e poi, se c’è tempo, il fratello.

 

Esempio pratico: sono quelle persone che quando incontriamo e gli diciamo che stiamo attraversando magari un momento difficile, avremo bisogno di una mano, loro non ci danno una mano e ci dicono: ti ricorderò nella preghiera, e tu rimani nella merda come prima. Queste sono persone pericolose: le mani sono fatte per stendere la mano all’altro, non per essere giunte al Signore; il Signore non gli dispiace se recito una Ave Maria di meno, ma è contento se offro un aiuto alla persona.

 

Comunque, attenzione: è il Padre che lo toglie, non è lecito agli altri tralci giudicare la crescita, la maturità del tralcio, non lo fa neanche la vite. Non lo espelle la Vite che è Gesù, ma è il Padre. Ognuno di noi ha dei ritmi diversi di crescita, ognuno di noi ha delle capacità di sviluppo diversi, e solo al Padre spetta valutare la maturità, la crescita e il frutto di questo tralcio, ma non tocca agli altri.

Prima la parte negativa: una persona che appartenendo alla comunità cristiana assorbe amore, ma poi non lo traduce in altrettanto amore per gli altri, è un parassita, cioè colui che nutre se stesso a scapito degli altri: allora il Padre lo toglie.

 

La parte positiva:  la parte straordinaria “E ogni tralcio che porta frutto…”,  quindi il tralcio, i discepoli, il credente che unito a Gesù, assorbendo questa linfa vitale del suo amore lo traduce in altrettanto amore per gli altri, ecco l’azione straordinaria del Padre: lo purifica perché porti più frutto.

 

Abbiamo parlato in questi giorni di quanto è importante una esatta traduzione del Vangelo perché se il Vangelo è tradotto male o interpretato male, la nostra vita ne avrà delle conseguenze negative. Se noi fondiamo la nostra esistenza sul vangelo, ma questo ci viene tradotto male o interpretato male la nostra esistenza ne avrà delle conseguenze nefaste.

 

In passato questo verbo purificare veniva tradotto con potare, l’azione del Padre è quella di potare. È un’azione da temere perché come sempre capita nella vita ci sono momenti di difficoltà, momenti di tristezza, ci sono dei lutti delle malattie delle situazioni rovescio. E sempre le persone pie, quelle più pericolose da incontrare in queste situazioni, le persone pie sono quelle che hanno pronta la risposta per tutto: loro sanno tutto quello che Dio fa o che Dio non fa e ci vengono a dire: è il Signore che ti ha potato.

 

Quindi questo vignaiolo pazzo che vede un bel tralcio e lo pota; questo ha generato il terrore, la paura di Dio e delle sue scelte, finendo per attribuire al Signore tutto quello che di negativo si incontrava nell’esistenza. Ebbene l’azione dl Padre è unicamente positiva. L’evangelista non dice che pota il tralcio, ma che lo purifica; è nell’interesse del Padre che ogni tralcio porti sempre più frutto ed è il Padre, attenzione, non il tralcio e neanche gli altri tralci ad individuare nel tralcio quegli elementi negativi, quegli elementi nocivi che possono impedire al tralcio di portare più frutto, e Lui lo purifica. Quindi non è una azione di potatura, ma di purificazione del tralcio.

 

Cosa vuol dire questo? In ognuno di noi ci sono indubbiamente degli elementi negativi, chiamiamoli difetti, tendenze che possono impedire di portare frutto. Ebbene l’evangelista dice: attento non ci pensare minimamente tu a toglierti quel difetto, quella tendenza o quell’aspetto negativo perché il risultato è soltanto disastroso; l’unica tua preoccupazione qual è ? Ogni giorno crescere nell’amore e far felice gli altri. Se in te ci sono degli elementi di disturbo degli elementi nocivi, non tu e neanche gli altri tralci, ma il Padre che sa quali sono questi elementi, pensa Lui a purificarli.

 

Capite che questo cambia completamente il rapporto con Dio, è la fine dell’esame di coscienza, ho fatto questo, non ho fatto quest’altro…?! E’ un rapporto pienamente sereno: io sono chiamato ad orientare la mia vita per il bene degli altri, con le imperfezioni, i limiti che ho, le incertezze, a volte in maniera più intensa, a volte meno, ma l’importante è che tu orienti la tua vita per il bene degli altri.

 

E se in te ci sono degli elementi negativi, che abbiamo chiamato difetti, tendenze, o comunque situazioni che ognuno di noi reputa nocive, non sei tu che te li devi togliere perché provocheresti un disastro, perché non faresti altro che centrarti su te stesso! La persona quando si centra su se stessa impedisce a questa linfa vitale di andare verso gli altri.  Allora centrandoti su te stesso, sui tuoi difetti, sulle tue necessità, non ti accorgi delle necessità e dei bisogni degli altri e poi soprattutto puoi rischiare di rovinare la tua esistenza perché magari metti tutta la tua energia per togliere quello che credi un difetto o una tendenza negativa e magari agli occhi del Signore non è tale.

 

È così perché la morale corrente ci dice che questo è un difetto o qualcosa di negativo. Ma chi dice che agli occhi del Signore lo sia veramente? Nella prima lettera a Giovanni l’autore ha una espressione molto bella e dice: “e anche se il tuo cuore -  e il cuore nel mondo ebraico significa coscienza -  ti rimprovera qualcosa, Dio è più grande del tuo cuore e conosce ogni cosa”. 1Gv.3,20.

 

È stupendo questo: noi orientiamo la nostra vita al bene degli altri;  se c’è in noi qualcosa di negativo, lascia fare, se è veramente negativo, nocivo, ci pensa il Padre ad eliminarlo con sicurezza. Se rimane, si vede che agli occhi del Signore non è poi così nocivo, non è così di disturbo o di rallentamento…

Allora attraverso l’immagine di questo tralcio Gesù invita il discepolo a non concentrarsi su quell’idea satanica che è la perfezione spirituale (non c’è cosa più deleteria e devastante in una persona che il desiderio di una perfezione spirituale), ma di concentrarsi sul dono di se.

 

E quale è la differenza tra la perfezione spirituale e il dono di se?
La perfezione spirituale è tanto lontana e astratta quanto grande è la propria ambizione e il proprio io; al contrario il dono di se è immediato e concreto e consente all’uomo la vera crescita.

 

Cosa si intende per perfezione spirituale? La persona non si accetta così come è perché vede i suoi limiti i suoi difetti, le sue tendenze e vorrebbe essere un altro, e quindi colloca su un piedistallo un io ideale, una persona, quello che vorrebbe essere e tutti i suoi sforzi sono per tendere a questa immagine irreale di quello che è.

 

Succede che quando poi si cade, il momento della colpa, che ci ricorda quello che siamo, guarda quello che sei !, non sei l’idolo che tu ti sei immaginato, guarda chi sei!

 

Non subentra la reazione normale alla caduta che è il pentimento, (ho sbagliato va bene ricominciamo da capo), ma subentra una rabbia omicida verso se stesso dicendo ma perché, non volevo, come ho fatto?

 

E soprattutto si cerca di individuare il proprio difetto nelle altre persone per poi aggredirle. Voi sapete che non c’è persona che ci sta più antipatica come quella in cui noi vediamo riflessi quei difetti che noi non accettiamo. Se una persona a prima vista ci sta antipatica è perché è il nostro specchio. Vediamo quei difetti che noi non vogliamo ammettere. Allora Gesù non ci invita a centrarci sulla perfezione spirituale, irraggiungibile, astratta, una perfezione che ci fa centrare su noi stessi e non ci fa accorgere del bisogno degli altri, ma Gesù ci invita a centrarci sul dono verso gli altri.

 

La perfezione è astratta ed irraggiungibile, il dono di se è immediato e concreto e questo assicura il lavoro del Padre. Quindi Gesù dice, voi orientate la vostra vita per il bene degli altri, se in voi c’è qualcosa di negativo, ci pensa il Padre a toglierlo. Capite che questa è la serenità totale! Questa è la serenità piena traboccante, ed è quello che il Signore vuole, perché non possiamo essere persone afflitte o persone turbate.

 

In questi giorni abbiamo detto che l’incontro con Gesù ci rende ancora più felici di essere nati e Lui ci chiede una sola cosa: fa che ogni persona che incontri si senta poi ancora più felice di essere nata. Ma la felicità non può essere trasmessa attraverso un documento, un testo, la felicità si può trasmettere soltanto attraverso il contagio, solo una persona traboccante di felicità mi potrà contagiare e trasmettere la felicità. Ma se questa persona è turbata delle proprie colpe, è afflitta per i propri peccati, si sente in colpa o non si sente degno, che immagine potrà dare?

 

Invece Gesù dice: tu vivi per gli altri, se in te c’è qualcosa che non va, il Padre lo toglie e se l’elemento negativo rimane, è segno che agli occhi del Signore non è così negativo.

E continua Gesù: ” Voi siete già puri – quindi c’è una purificazione iniziale – per il messaggio che vi ho annunziato”.

Questo brano del cap. 15 viene dopo la cena in cui Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli e li ha invitati a fare altrettanto. Il servizio volontariamente reso agli altri esercita una funzione purificatrice nella persona. Paradossalmente purificando gli altri, cioè lavando i piedi degli altri purifichiamo la nostra esistenza. Qui,  dice Gesù,vi siete già puri per il messaggio che vi ho annunziato,ed il messaggio è un amore che si traduce in servizio.

 

Il servizio verso gli altri è quello che ci purifica (vedete che l’azione del Padre per purificare la nostra vita richiede la nostra collaborazione); il Padre ci purifica e noi ci purifichiamo, non attraverso riti penitenziali, ma attraverso gesti concreti che aiutano l’altro che lo fanno sentire signore.

“Dimorate in me ed io in voi”.

 

Con Gesù cambia il rapporto con Dio.

Nella religione l’uomo deve cercare Dio, un Dio lontano, un Dio da supplicare, un Dio da invocare, con Gesù, Dio non va più cercato, ma accolto. L’uomo non è più orientato verso Dio, ma con Dio e come Dio orientato verso gli altri: così dice Gesù, dimorate in me ed io in voi.

 

Nella religione c’era il santuario, il tempio che era il luogo della presenza di Dio e le persone per incontrarsi con il Signore dovevano raggiungere il tempio. Ma non tutti se lo potevano permettere: le persone considerate in peccato, le persone considerate impure non potevano neanche entrare nel tempio per cui erano escluse per tutta la vita dal Signore.

 

Con Gesù il santuario non è più un tempio, un luogo fisso dove le persone possono andare e soltanto i meritevoli possono accedere, con Gesù il vero santuario è la comunità cristiana.

E la comunità cristiana è quella che va incontro a tutte le persone per far si che nessuna persona, qualunque sia la sua condotta e il suo comportamento possa sentirsi esclusa dall’amore di Dio.

 

Ricordate l’espressione straordinaria di Pietro, che faceva difficoltà ad andare verso i pagani, ma poi è rimasto sconvolto perché ha visto che su Cornelio, centurione pagano, romano, è disceso lo Spirito tale e quale come a loro. Per Pietro è stato uno choc e da quella esperienza ha capito quella che lui formula così: perché Dio mi ha fatto conoscere che nessun uomo può essere considerato impuro.

 

Non c’è neanche una persona al mondo che, per la sua condotta, la sua situazione, la sua moralità, possa sentirsi esclusa dall’amore di Dio. È la religione che separa gli uomini da Dio dividendo i puri dagli impuri, meritevoli e non, ma non Gesù. L’amore del Padre non esclude neanche una persona qualunque sia il suo comportamento nell’accoglienza del suo amore. Ebbene questa presenza di Dio è dinamica, va verso gli altri Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non dimora nella vite, così anche voi se non dimorate in me.

 

Il servizio ai fratelli, per Gesù, è l’unica garanzia di piena comunione con il Signore, e ripete Gesù: “Io sono la vite e voi i tralci. Chi dimora i me ed io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. C’è una immagine di un Dio onnipotente, di un Dio che può far tutto che non corrisponde a quello che Gesù dice.

 

La Vite per poter far uva ha bisogno dei Tralci;se voi togliete tutti i Tralci alla Vite, potrà avere tutta la linfa che volete, ma l’uva non la fa.

Quindi portando l’immagine al Signore: Dio è amore ma questo amore se non ha la collaborazione delle persone non può diventare realtà concreta, non può manifestarsi.

 

È vero che il tralcio se staccato dalla vite non porta frutto, ma è anche vero che la vite se non ha i tralci non porta frutto; quindi noi dipendiamo dal Signore per avere linfa, ma il Signore è condizionato, dipende dalla nostra collaborazione perché questa linfa si manifesti.

Quindi pensate quanto siamo preziosi ognuno di noi, ognuno di noi è importante, il Padre ha bisogno di ognuno di noi perché il suo amore si trasformi in realtà.

Se uno di noi non collabora frustra il disegno di Dio e continua Gesù: Chi non dimora in me viene gettato via come il tralcio e si inaridisce e poi lo raccolgono lo gettano nel fuoco e lo bruciano.

 

Perché Gesù tra i tanti esempi che poteva fare ha preso proprio quello della vite? In fondo l’esempio che serviva a Gesù era un albero che porta frutto, poteva parlare del melo e più o meno sarebbe stato uguale, ma perché ha scelto la vite? Perché nel profeta Ezechiele si leggeva un brano che fa capire la diversità della vite da tutte le altre piante da frutto. Dice Ezechiele: che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri alberi, gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa? Può essere utile a qualche lavoro? Anche quando era intatto non serviva a niente! Ora dopo che il fuoco lo ha divorato, lo ha bruciato, ci si ricaverà forse qualcosa?

 

L’esperienza della gente che viveva in campagna era che il legno della vite non serve assolutamente a niente; come con il legno del melo o di altri alberi ci puoi fare un attrezzo per la campagna, ci puoi fare un qualcosa di utile, il legno della vite non serve assolutamente a niente, serve solo a portare frutto. E anche una volta bruciato, se chiedete ai nonni vi diranno che una volta, quando non c’erano i detersivi, specialmente le lenzuola, si lavavano con la cenere, ma non con la cenere della vite, perché non era buona neanche per lavare i panni perché macchiava.

 

Quindi Gesù ha preso proprio questa immagine della vite perché la vite serve solo per portare frutto, altrimenti è inutile, e così è la nostra esistenza: noi siamo chiamati a realizzarci portando un frutto d’amore altrimenti la nostra vita è un fallimento, è una non- esistenza, è una vita non vissuta.

 

“Se dimorate in me, e le mie parole dimorano in voi, chiedete quello che volete e vi sarà dato”. Io non cesso mai di stupirmi dall’avidità con cui noi credenti abbiamo semplificato le espressioni di Gesù formulandole tutte a nostro favore ed eliminando quello che ci è scomodo. Quando si chiede cosa ha chiesto Gesù sulla preghiera, molti sanno rispondere: chiedete quello che volete, e vi sarà dato!

 

Ma quando si chiede, a quale condizione? Ma perché c’è una condizione?

 

Gesù è vero che dice di chiedere quello che vogliamo e vi sarà dato, e spesso rimaniamo male perché non otteniamo, quindi c’è qualcosa che non va. Stranamente abbiamo censurato la prima parte:      “se dimorate in me – c’è il condizionale – e le mie parole dimorano in voi… “.

 

Noi abbiamo preso la scorciatoia, chiediamo quello che vogliamo, e non ci viene dato, ma ci siamo ricordati delle prima parte? Gesù dice e ce lo garantisce: se dimorate in me, cioè se la nostra vita diventa un prolungamento di quella del Signore, se noi diventiamo una manifestazione visibile del suo amore, e tutto il suo messaggio è orientato verso il bene degli altri, stiamo tranquilli che qualunque cosa abbiamo bisogno ci sarà data, ma in una misura immensamente superiore a quella che noi possiamo chiedere, immaginare o semplicemente sognare. Ma c’è la condizione:  se dimorate in me.

 

Come si fa a sapere che si dimora nel Signore? Se si è orientata con Lui e come Lui la propria vita al servizio degli altri, pur nell’imperfezione, nei limiti che possiamo avere, negli stop che la vita ci presenta, negli sbagli, non importa!

Siamo, dimoriamo nel Signore quando abbiamo orientato la nostra vita verso il bene degli altri e sopratutto, ricordate quella triplice formula che ci deve ricordare se siamo in sintonia con il Signore:

  • Se siamo con Lui e come Lui capaci di voler bene a chi ci vuole male,

  • se siamo con Lui e come Lui capaci di voler bene per la gioia di fare del bene senza attendere nulla in cambio,

  • e soprattutto se siamo capaci con Lui e come Lui di perdonare prima che il perdono venga richiesto, (la caratteristica del perdono cristiano è che va concesso prima che l’altro ti chieda il perdono per facilitare questa rappacificazione).

 

Se ci sono questi triplici aspetti siamo certi di dimorare nel Signore, la Sua parola dimora in noi, e dice Gesù, chiedete quello che volete perché il Padre è desideroso di soddisfare i bisogni dei suoi figli e di salvarli. In questo è glorificato il Padre mio, che portiate molto frutto e così sarete miei discepoli.

La gente proiettando le proprie ambizioni o le proprie frustrazioni nel Signore ha tentato di dare gloria al Signore attraverso la magnificenza, costruiamo templi sempre più grandi, più lussuosi: facciamogli statue, facciamogli funzioni sempre più lussuose in modo di dare gloria…

 

Qui Gesù tocca un altro dei punti vitali, delicati della religione.
Nella religione la gloria di Dio si manifesta nella magnificenza.
Gesù dice no! In questo – ed è la parola di Dio stesso – in questo glorificate il Padre mio: che portiate molto frutto e cosi sarete miei discepoli.
La gloria di Dio non si manifesta nello splendore, nelle azioni straordinarie, nelle ricchezze.

 

La gloria di Dio si manifesta in un individuo, in una comunità che aumenta la sua capacità d’amore. Essendo Dio amore, la sua gloria si può manifestare soltanto nell’amore. E la vita non sarà più la stessa e non si torna più indietro.

Cosa accadrà? Che avremo sintonizzato la nostra vita, la nostra capacità d’amore con la lunghezza d’onda dell’amore di Dio e dal preciso momento in cui avremo fatto del bene a chi ci ha fatto del male, la nostra vita si innesta con quella di Dio.

Allora il Dio creduto, il Dio adorato non è più una entità astratta, ma una realtà presente nella nostra esistenza. Allora anche noi, dopo il sogno di Giacobbe che vede una scala che va verso il cielo, dirà stupito: il Signore era qui e io non lo sapevo.

Dio è presente qui con noi, e come mai molti non lo percepiscono? Se io vi dico che in questa stanza c’è una bellissima musica, non è che sono matto, la musica c’è, solo che per ascoltarla devo avere un apparecchio, una radio, la devo accendere, ma non basta accenderla. Devo girare fintanto che capto la musica, e vi assicuro che in questa stanza in questo momento c’è una bellissima musica. Se non la sento non posso dire che non c’è, ma non ho i mezzi gli strumenti per sentirla: ci vuole una radio, accenderla e sintonizzarla.

 

Ugualmente Dio è qui presente e se molti non ne percepiscono la presenza, se molti non sentono questa vita di Dio che palpita, è perché non hanno gli strumenti necessari per sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di Dio. E gli strumenti per farlo sono questi: perdonare e fare del bene a chi ci ha fatto del male.

 

Una volta fatto la nostra vita non è più la stessa perché ci accorgiamo della presenza di Dio, un Dio che come Padre si prende cura anche degli aspetti minimi ed insignificanti della nostra esistenza: e non si torna più indietro. Una volta che si è sperimentato questo -  lo dico in maniera paradossale -  quasi si aspetta che qualcuno ci faccia del male per fargli del bene, c’è l’ebbrezza della vita.

 

Pensate:  quel Dio adorato, quel Dio sospirato, quel Dio pregato, ci accorgiamo che è presente nella nostra vita. Allora, esagerando, si va in cerca di qualcuno che ci faccia del male per fargli del bene per provare a sperimentare di nuovo cosa significa vivere con Dio nella nostra esistenza:

  • un Dio a nostro servizio,

  • un Padre che tutto trasforma in bene

  • e soprattutto un Signore che non è insensibile alle sofferenze dagli uomini, ma gli è accanto

  • e soprattutto il Padre di Gesù non ascolta i bisogni dei suoi figli, il Padre di Gesù non va incontro ai bisogni dei suoi figli, ma li precede.

 

Allora capite che di fronte ad un Padre  che addirittura non è che aspetta che noi gli chiediamo,  che noi gli obbediamo,  che noi gli esponiamo i nostri bisogni,
ma un Padre che li precede, la vita cambia completamente, ed è quella felicità che Gesù ci aveva annunziato

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ALBERTO MAGGI, dell’Ordine dei Servi di Maria, è nato nel 1945 in Ancona. Direttore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci», cura la divulgazione, a livello popolare, della ricerca scientifica nel settore biblico attraverso scritti, trasmissioni e conferenze in Italia e all’estero. Ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche «Marianum» e «Gregoriana» (Roma) e all’«École Biblique et Archéologique française» di Gerusalemme. Collabora con la rivista «Rocca» e ha curato per la Radio Vaticana la trasmissione «La Buona Notizia è per tutti!». Attualmente sta lavorando alla traduzione e commento dei capitoli 18 e 19 del Vangelo di Giovanni e, insieme a Ricardo Pérez alla traduzione del Vangelo di Matteo.    
RICARDO PÉREZ MÁRQUEZ, nato a Granada (Spagna) nel 1958. Laureato in Lettere e Filosofia (specializzazione in Storia dell’Arte) all’Università di Granada, all’età di 23 anni è entrato nell’Ordine dei Servi di Maria in Italia. Ha studiato nelle Pontificie Facoltà «Marianum», e «Gregoriana» (Roma) conseguendo la licenza in Teologia Biblica. Nel settembre del 1995, insieme a fra Alberto Maggi ha fondato il Centro Studi Biblici dove collabora nello studio e nella diffusione del messaggio evangelico con particolare attenzione al Libro dell’Apocalisse del quale sta curando un commento di prossima pubblicazione. Insegna alla Pontificia Facoltà «Marianum» (Roma) dove tiene un corso su “Gesù e le istituzioni giudaiche”.

  
PAOLO ZANNINI, dell’Ordine dei Servi di Maria, è nato nel 1956 in Ancona. È entrato a far parte del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» dal 1998, arricchendo il Centro di un nuovo settore, quello dell’apporto dei Padri della Chiesa alla comprensione del messaggio di Gesù. Ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche «Marianum», «Gregoriana» e al «Pontificio Istituto Orientale» (Roma), conseguendo la licenza e il dottorato in “Scienze Ecclesiastiche Orientali”. Professore associato di  “Patrologia e Liturgia Orientale” nella Pontificia Facoltà Teologica «Marianum» (Roma) dal 1997, dopo aver insegnato per anni (1999-2005) anche nella Pontificia Università  Lateranense (Roma), dal 2005 insegna anche al «Pontificio Istituto Orientale» (Roma). Soprannominato da Alberto “frate computer” è anche il Webmaster di questo sito. 

FRA MARCO FABELLO O.H.: “Per una volta chiedo…”

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Posted on Giugno 29th, 2009 di Angelo | Edit  

    

FRA MARCO FABELLO O.H.: “Per una volta chiedo…”

29 Giugno 1968 – Fra Marco, a destra, mentre promuncia i voti di povertà, castità, obbedienza e ospitalità.

SMS Brescia

“Per una volta chiedo una preghiera per me: domani [29 Giugno] sono ben 47 anni di Professione Religiosa!

Grazie. Fra Marco”. 

Antologia dei suoi scritti:

http://fraraimondo.splinder.com/tag/ospitalit%C3%A0+-+fra+marco+-+antolo

  

 I VOTI  “SEGNO DI CONTRADDIZIONE”

“…Capii che l’amore racchiude tutte le vocazioni, che l’amore è tutto, che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi, in una parola che è eterno. Allora, nell’eccesso della mia gioia delirabte, esclamai: Gesù, Amore mio, la mia vocazione l’ho trovata finalmente, la mia vocazione è l’amore!

Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto, Dio mio, me l’avete dato voi! Nel cuore della Chiesa mia Madre, io sarò l’amore. Così sarò tutto…e il mio sogno sarà attuato!” (S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo – OC 226, tr.it.238).

 

Caro Fra Marco,  

                           nel partecipare alla tua gioia odierna per il dono della perseveranza che il Signore ti ha fatto, la nostra preghiera, come ci chiedi, non ti verrà a mancare.  E noi ci collochiamo nella tua, affinché le nostre voci cantino all’unisono il Magnificat di ringraziamento.   

YouTube – Mina Magnificat

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Sui voti religiosi credo che i laici christifideles ci capiscano abbastanza poco, giacché sembra cosa che non li riguardi. E poi, solo da poco s’è introdotta la prassi, non diffusa, di far emettere la consacrazione religiosa nella parrocchia d’origine del candidato, proprio per sensibilizzare i cristiani e coinvolgerli in questa dimensione di Chiesa che non è altro rispetto al vivere cristiano e, dunque, riguarda tutti.

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In vista anche del Capitolo Generale Straordinario, che si prefigge di convolare a nozze con i Laici, da tempo stavo lavorando sull’argomento che prendevo in mano e riponevo.

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Temo che non si possano affrontare svolte storiche senza opportuni approfondimenti su tematiche basilari. Vale il principio che per sposarsi bisogna conoscersi. Ed i  laici, pur fidanzati con i  frati da tanti anni, in verità di essi sanno molto poco.

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Dal momento che ciò che riguarda i religiosi riguarda la Chiesa, a buon diritto riguarda anche  i laici che costituiscono la parte più numerosa del Popolo di Dio. E potrebbe non riguardare la  consacrazione di chi vorrebbe condividere con me le fatiche apostoliche?

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CLICCA:

CAPITLO GENERALE STRAORDINARIO FBF – 2009 

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Oggi, per via del tuo 47° di consacrazione religiosa, vedo di fare il punto sul tema e di pubblicarlo sul blog in ADESSO – Litterae communionis.

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Forse dovrò riprenderlo in mano, rielaborarlo e riadattarlo. Ma per ora teniamolo com’è.

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Per affrontare adeguatamente le immense ed entusiasmanti sfide di oggi e rinnovare lo spirito di avventura della vita religiosa, andrebbero considerati tanti aspetti della vita dell’ Ordine, realtà che prima di tutto è Chiesa. Per esaurire l’argomento forse sarebbe necessario scrivere un certo numero di lettere. In questa prima, vorrei esaminare soltanto un problema che ho visto emergere nel tempo parlando con l’uno o l’altro dei Fratelli.  

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Una prima domanda curiosa: possono, i voti pronunciati essere una sorgente di vita, di dinamismo e di sostegno nella vita missionaria di samaritani a tempo pieno ? 

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Converrai, Fra Marco, che i  voti non sono tutto nella vita religiosa, ma è spesso in relazione ad essi che frati e suore pongono e si pongono problemi delicati che andrebbero affrontati insieme. Si dice sovente che i voti sono solo un mezzo. E questo è vero, poiché l’Ordine non è stato fondato perché alcuni vivano i voti, ma perché inviati per la missione: “Andate…guarite…annunciate…” (Mt 10ss).  

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Ma se la missione la s’intende condivisa, allora bisogna cominciare a condividere la riflessione. Guardandomi attorno, su questo punto non mi faccio illusioni: si condivide molto poco. Ma credo si illudano tutti coloro  che immaginano il cambiamento come stipulare una nuova polizza assicurativa, dove basta rivedere e sottoscrivere le le clausole.

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Comunque, per tornare al tema, pur potendone parlare con una certa cognizione di causa, ho pensato di  affidarmi alle considerazioni dell’ex Maestro Generale dei frati Domenicani Timoty Radcliffe che sa unire sapienza, esperienza ed ammettere anche i suoi limiti in ciò che afferma, giacché – egli dice –  “tutto è legato alla mia storia di uomo e di frate”. 

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Proverò ad adattarle alla vita religiosa degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, cosa abbastanza facile, giacché povertà, castità ed obbedienza sono comuni a tutti gli ordini e congregazioni, sia maschili che femminili. Per il quarto, quello di ospitalità è già talmente descritto sui nostri blog che lo affronterò un’altra volta. E poi tu sei uno specialista in materia e non ho che da rimandare all’antologia dei tuoi scritti che sto creando con quello che trovo sparso ovunque.

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Il Padre Radcliffe sull’argomento si sforza di ripensare la tradizione non per impoverirla e rendere più blandi gli impegni che i voti comportano ma perché il consacrato trovi il modo di esprimere al meglio la sua libertà interiore. Agostino direbbe: “Non già schiavi sotto la legge ma figli sotto la grazia”. Quando il religioso sta bene di salute (spirituale s’intende) beneficiano anche coloro che gli girano intorno. Purtroppo, è vero anche il contrario. E allora sono guai.

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Padre Timoty sostiene che “i voti non sono puramente un mezzo in senso utilitaristico, come può esserlo un’automobile per spostarci da un luogo all’altro. I voti sono mezzi per farci diventare veramente missionari. San Tommaso dice che tutti i voti hanno come scopo la charitas [1] l’amore che è la vita stessa di Dio. Essi servono al loro scopo solo se ci aiutano a crescere nella carità, così che noi possiamo parlare con autorità del Dio dell’amore”.

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Se le cose stanno così, come credo, mi chiedo: Sarà vero che oggi i voti non attraggono ? Purtroppo i numeri parlano chiaro. Ma la  colpa è dei voti o delle testimonianze poco convincenti?

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A prima vista i voti sono in contraddizione fondamentale con i valori di gran parte della società, specialmente della cultura consumistica che sta diventando rapidamente la cultura dominante del nostro pianeta.

  • Il voto di obbedienza contraddice l’idea che l’essere umano sia dotato di una autonomia radicale e pure l’individualismo;

  • essere poveri è nella nostra cultura il segno di essere dei falliti e di non valere niente;

  •  e la castità sembra essere il rifiuto inimmaginabile dell’universale diritto umano all’appagamento sessuale;

  • Quanto al voto di ospitalità, si tende a pensare che carità si può praticare ovunque ed in ogni stato di vita. Forse, maggiormente stando nel mondo che solo formalmente a tempo pieno.

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Padre Timoty  non ha paura di mettere in tavola il rischio che egli corre ogni giorno con i suoi fratelli: “Se noi facciamo i voti, c’è da aspettarsi che ad un certo punto li troveremo duri da osservare. Ci potrà sembrare che essi ci condannino alla frustrazione e alla sterilità.  

  • Se noi li accettiamo semplicemente come un mezzo utilitaristico per un certo scopo, come un inconveniente necessario nella vita del predicatore, del missionario, dell’impegnato nel sociale, ecc… possono apparire come un prezzo che non vale la pena pagare.  

  • Ma se li viviamo in quanto ordinati alla charitas, come uno dei tanti modi di partecipare alla vita del Dio dell’amore, allora possiamo credere che la sofferenza può essere feconda, e il morire che noi sperimentiamo può spalancare la via alla risurrezione”.  

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 E qui cita l’espressione di un suo confratello, di Orleans che è riuscito a scrivere perfino una cosa enorme: “Non credo di aver acquistato alcun merito vivendo in questo Ordine, poiché vi ho sempre trovato così tanta gioia“. [2]  

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Le poche e semplici osservazioni che seguono a proposito dei voti, necessitano di un preavviso. Padre Timoty precisa: “Esse sono largamente segnate dai miei personali limiti e dalla cultura nella quale sono stato formato. È mia speranza che contribuiscano ad un dialogo attraverso il quale sia possibile arrivare ad una visione comune, che ci permetta di incoraggiarci a vicenda e ci dia la forza di essere un Ordine che osa cogliere le sfide del prossimo secolo”.

 

Questa “visione comune che ci incoraggi a vicenda” io non la vedo. Spero che la veda almeno tu.  Secondo me, se i laici riescono a percepire il vero senso della donazione, non potranno che provare ammirazione e desiderio di impegnarsi, secondo il proprio stato, nella missione che si esprime in modalità diverse ma per un obiettivo comune: portare a compimento il Regno di Dio che è già in mezzo a noi. Ma se non ne comprendono la ragione, sarà difficile non solo chiedere ed ottenere ma persino dare, offrire.

Il coraggio dei voti

 

Padre Timoty che ha girato il mondo in lungo e in largo,  constata che “in molte parti del mondo, specialmente in quelle segnate dalla cultura occidentale, vi è stata una profonda perdita di fiducia nel fare delle promesse. Questo lo si nota nel fallimento disastroso dei matrimoni, nell’alta percentuale dei divorzi, oppure ‑ all’interno del nostro stesso Ordine ‑ nelle numerose e continue richieste di dispensa dai voti, nella lenta e continua emorragia del sangue vivo dell’Ordine”.

 

Egli si chiede e chissà quanti gliel’hanno chiesto: Che senso ha dare la propria parola usque ad mortem?

 

Una delle ragioni per cui dare la propria parola può sembrare una cosa non seria dipende forse dall’indebolimento della coscienza collettiva circa l’importanza delle  parole che si dicono.

  • Sono veramente così importanti le parole nella nostra società?

  • Fanno davvero qualche differenza?

  • Si può offrire la propria vita ad un altro, a Dio o nel matrimonio, dicendo poche parole?

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Secondo il frate domenicano sembrerebbe di sì: “Noi predicatori [samaritani] della Parola di Dio siamo testimoni che le parole contano. Noi siamo stati fatti ad immagine di Dio, che disse una parola, e i cieli e la terra furono. Egli proferì una Parola, che divenne carne della nostra redenzione”.

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Ma egli non si limita a queste considerazioni e va ben oltre: “Le parole che gli essere umani, si scambiano offrono vita o morte, creano la comunità o la distruggono. La tremenda solitudine delle nostre grandi città è certamente il segno di una cultura che ha cessato a volte di credere nell’importanza del linguaggio, di credere che può costruire una comunità mediante la condivisione del linguaggio.

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Quando diamo la nostra parola nella professione dei voti, noi testimoniamo una vocazione umana fondamentale, quella di pronunziare parole che hanno peso e autorità”.

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Egli ha messo il dito nella piaga. Travolti da fiumi di parole, parolai a nostra volta, la diffidenza e la riserva mentale possono fare così forte presa su di noi da trasformare in prudenza e cautela anche le nostre misere vigliaccherie.

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Un’obiezione di apparente buon senso potrebbe essere questa: se non possiamo sapere che significato avranno i nostri voti e dove ci porteranno, com’è che osiamo emetterli?

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Curioso di conoscere la sua risposta, sono veramente rimasto spiazzato dalla semplicità del suo argomentare:

  • “Certamente solo perché il nostro Dio ha fatto così, e noi siamo suoi figli.

  • Osiamo farlo, ma lo ha fatto per primo il nostro Padre.

  • Fin dall’inizio, la storia della salvezza è stata del Dio che ha fatto delle promesse, che ha promesso a Noè che mai più la terra sarebbe stata sommersa dal diluvio,

  • che promise ad Abramo una discendenza più numerosa della sabbia,

  • e promise a Mosè di condurre il suo popolo fuori della schiavitù.

  • Il culmine e la stupenda realizzazione di tutte quelle promesse è stato Gesù Cristo, l’eterno “sì” di Dio.  

Il religioso che ragiona così, viene a dire a me laico che anch’io posso fidarmi di Dio. E me lo dice non tanto a parole, quanto con la vita donata. Se come figli di Dio osiamo dare la nostra parola non sapendo che cosa essa significherà per noi, questo atto diviene un segno di speranza, quando sono tentato, come molta gente, di credere che quelle di Dio sono soltanto delle divine promesse. 

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Padre Timoty che dice Messa ogni giorno, davanti a quel pane e a quel vino  non esita a pronunciare le parole consacratorie. Invocato lo Spirito, il “fate questo in memoria di me” è garantito dalla parola del Signore data per sempre.    .   

Allora se io sono bloccato dalla disperazione, distrutto dalla povertà o dalla disoccupazione, o imprigionato dal mio fallimento personale, allora forse non c’è niente in cui possa mettere la mia speranza e fiducia se non nel Dio che ci ha fatto dei voti, che continuamente ha offerto la Sua alleanza all’umanità e, attraverso i profeti, ci ha insegnato a sperare nella salvezza. Tutto ciò, se è presente nella quarta Preghiera Eucaristica è perché la Chiesa crede alle parole del suo Signore.

 

Allora il consacrato, con il suo gesto e con il segno del suo abito viene a dirmi parole confortanti:

  • Che in questo mondo così tentato dalla disperazione, non vi può essere altra sorgente di speranza se non la fiducia in quel Dio che ci ha dato la sua Parola.

  • Che per credere al voto divino, mi è stato dato un segno: quello di uomini e donne che hanno il coraggio di emettere voti, sia nel matrimonio che nella vita religiosa.

 

Padre Timoty racconta: “Non ho mai capito così chiaramente il significato dei nostri voti, come quando sono andato a visitare un sobborgo ai margini di Lisbona, abitato dalla gente più povera, i dimenticati e invisibili della città. Vi ho trovato il quartiere pieno di vita e di gioia, perché una suora che condivideva la loro esistenza stava per fare la professione solenne. Era la loro festa.”

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La nostra è stata definita “la Generazione dell’istante”, la cultura in cui vi è solo l’attimo presente. Questo può essere la fonte di una meravigliosa spontaneità, di una freschezza e immediatezza di cui dovremmo rallegrarci. Solo che, se il mio momento presente non significa che povertà o fallimento, sconfitta o depressione, allora che speranza può esservi?

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Qui, Fra Marco, tocca a te e ai tuoi confratelli essere convincenti, giacché i voti per loro natura tendono verso un futuro ignoto. Ma, forse,  – o senza forse -  le nostre obiezioni sono anche le vostre paure

  • Per S. Tommaso, emettere un voto era atto di generosità radicale, perché si offriva in un solo istante una vita che doveva essere vissuta nel futuro. [3]

  • Per molti nella nostra cultura, questa offerta di un futuro, che non può essere previsto, può non avere alcun senso. Come posso impegnarmi fino alla morte, se non so chi o che cosa diventerò? Che succederà tra dieci o vent’anni? Chi incontrerò e chi attirerà il mio cuore?

 

Mi par di conoscere la tua risposta:

  • Per noi questo è un segno della nostra dignità di figli di Dio e di fiducia nel Dio della Provvidenza, che offre inaspettatamente ad Abramo l’ariete impigliato nei cespugli.

  • La professione dei voti rimane un atto dal significato più profondo, un segno di speranza nel Dio che ci promette un futuro, anche quando è al di là della nostra immaginazione, e che manterrà la sua parola. 

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Come laici, talora certi nostri giudizi radicali e impietosi nei confronti dei consacrati, è indice della nostra povertà sia culturale che spirituale. Ma talvolta i Confratelli stessi sono ingenerosi e non sempre di grande aiuto verso chi attraversa un momento di difficoltà. Se “fraternità” non fosse un termine astratto ma una realtà incarnata, “portare gli uni i pesi degl’altri” sarebbe molto più facile”. Comunque, poiché le cose, in genere, vanno in un certo modo, davanti a certe situazioni Padre Timoty, più che stracciarsi le vesti, invita a comprendere e a non giudicare. Egli fa queste considerazioni:

  • “È vero che a volte un fratello, o una sorella, può rendersi conto di essere incapace di continuare a vivere con i voti che ha emesso.

  • Questo può succedere per via di una mancanza di discernimento al tempo della formazione iniziale, oppure semplicemente perché questa è una vita, in tutta onestà, che non riescono più a sopportare.

  • Esiste allora la saggia disposizione della possibilità di dispensa dai voti.

  • Ringraziamo almeno per quanto hanno dato, e rallegriamoci per quanto abbiamo condiviso!

  • Domandiamoci pure se, nelle nostre comunità, abbiamo fatto tutto il possibile per sostenerli nell’osservanza dei loro voti.”

 

Per ora mi fermo qui. Successivamente ci addentreremo sui voti specifici.

Con gli auguri più fervi ed un omaggio floreale, AD MULTOS ANNOS ! 

Lettera ai popoli e a chi ha paura

Lettera ai popoli e a chi ha paura

 

di Ermes Ronchi

Nel dibattito sempre più caldo sui clandestini rilanciamo questa riflessione sapienziale (ma non tranquilla) scritta dando voce all’apostolo Paolo

Da giorni ormai il tema degli immigrati clandestini domina le prime pagine dei nostri giornali. Per questo ci sembra significativo oggi rilanciare un testo che invita ciascuno ad andare alla radice di questo dibattito. Si tratta di una «lettera paolina» scritta qualche tempo fa da padre Ermes Ronchi, religioso dei Servi di Maria di Milano, amico di padre David Maria Turoldo e commentatore del Vangelo domenicale per il quotidiano Avvenire. La «Lettera ai popoli e a chi ha paura» è una delle sette lettere scritte da padre Ronchi per il concerto spirituale «L’apostolo delle genti», un’iniziativa promossa l’8 novembre scorso a Roma dal Servizio nazionale Cei per il Progetto culturale e dal Servizio nazionale per la Pastorale giovanile. Di questo evento – trasmesso in diretta da Sat2000 – è stato realizzato anche un Dvd (clicca qui per le informazioni).

Io, Saulo, ebreo figlio di ebrei, della tribù di Beniamino,
io, detto Paolo, nato a Tarso tra i greci, in Cilicia dell’Asia Minore
che sono per diritto cittadino romano,
io migrante per tutto il Mediterraneo,
a tutti i fratelli immigrati in paese straniero.

Io che ho navigato per isole e coste, e conosco i naufragi,
che ho attraversato deserti e città,
che conosco Gerusalemme, Atene e Roma,
amo Efeso e Antiochia e le città dell’Asia Minore:
io oggi mi rendo conto che ogni terra è per me patria,
e ogni patria è per me terra straniera.
Io mi rendo conto che davanti a Dio
non esiste giudeo né greco,
non esiste schiavo né libero,
non esiste uomo o donna,
nordeuropeo o nordafricano,
poiché tutti siamo uno in Cristo,
una sola persona in Gesù.
Cristo ci ha liberati da ciò che appartiene all’uomo esteriore,
per la libertà ci ha liberati.
Ognuno resta ciò che è,
ogni diversità rimane, ma non conta più.
Ciò che conta non è circoncisione o non circoncisione,
ma l’ essere una nuova creatura, in Cristo.
La nostra identità è Cristo.

Io, di nome latino, di origine ebraica, per cultura greco,
figlio di tre popoli, non appartengo a nessuno di questi,
e sono debitore di tutti,
debitore verso i greci come verso i barbari,
verso i dotti come verso gli ignoranti,
ho un debito d’amore da versare a ogni uomo.

Io, straniero in Roma
scrivo a voi che sentite lo straniero come una minaccia.
Dio dei molti vuole fare uno,
delle molte genti un popolo solo, un solo corpo,
crea la comunione nella differenza, e non nell’uniformità.

Ogni identità rimane, ma le mie radici non vanno indietro
verso qualche luogo oscuro,
ma sono braccia che si protendono e abbracciano.
E si allargano in superficie
incontrandone e stringendone altre,
senza rinnegare l’origine,
ma facendola continuamente vivere
e dunque mutare negli incontri.
Così mi sono fatto tutto a tutti,
greco con i greci, giudeo con i giudei,
debole con i deboli, mi sono arricchito di tutti.
Fratello che hai paura, Dio ha riconciliato il mondo nella croce di Cristo
ma ora ha affidato a noi, a me,
la parola della riconciliazione.

E vai, vai leggero
dietro il sole e il vento, e canta.
Vai di paese in paese
e saluta, saluta tutti:
il nero l’olivastro
e perfino il bianco.
Che tutti i paesi
si contendano di averti generato (David M. Turoldo)

Dio, quel Pane che si fa lievito in noi

 

Dio, quel Pane che si fa lievito in noi

 

di Ermes Ronchi

Avvenire 13/08/2009 – XX Domenica Tempo Ordinario-Anno B

 

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».

Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

 Euraristia ggg 07-Eucarestia

In questo breve Vangelo di otto versetti, Gesù per otto volte ci parla di un Dio che si dona: «Prendete la mia carne e mangiate». Farsi pane è  un bisogno incontenibile di Dio. Qui emerge il genio del cristianesimo: non più un Dio che domanda agli uomini offerte, doni, sacrifici, ma un Dio che offre, sacrifica, dona, perde se stesso dentro le sue creature, come lievito dentro il pane, come pane dentro il corpo. «Mangiate e bevete di me»: mangiare e bere Cristo significa diventare luce da luce, Dio da Dio, della stessa sua sostanza.

 

Per farlo occorre cogliere il segreto vitale di Gesù, assimilarne il nocciolo vivo e appassionato. Gesù ha scelto il pane come simbolo dell’intera sua vita. Perché per arrivare ad essere pane c’è un lungo percorso da compiere, un lavoro tenace in cui si tolgono cortecce e gusci perché appaia il buono nascosto di ogni cuore: spiga dentro la paglia, chicco dentro la spiga, farina dentro il chicco. Il percorso del pane è quello di coloro che amano senza contare le fatiche. Semini il grano nella terra oscura, marcisce, dice il Vangelo, e nascono le foglioline.

 

È bello a gennaio vedere le foglioline tremare mentre si alzano sopra la neve. Ma se ti fermi lì, hai vinto il nero della terra e il bianco della neve, ma non diventi pane. Per diventarlo devi andare su, salire, e a giugno la spiga gonfia si piega verso la terra, quasi a voler ritornare lì, a dire: «ho finito».

 

Invece viene la mietitura, e se lo stelo dice «basta, ho già patito la violenza della falce!» non diventa pane. Poi viene la battitura, la macina, il fuoco, tutti passaggi duri per il chicco. A cosa serve alla fine tutto questo? Serve a saggiarci il cuore. Dio ci mette alla prova perché sa che dentro di noi c’è del buono, vuole soffiare via la pula perché appaia il chicco, togliere la crusca perché appaia la farina. Al buono di ciascuno Dio vuole arrivare.

 

Cristo si fa pane perché ognuno di noi prima di morire deve diventare pane per qualcuno, un pezzo di pane che sappia di buono per le persone che ama. E goccia di sangue, che è il simbolo di tutto quanto abbiamo di buono e di caldo e di vivo, che mettiamo a disposizione di chi amiamo e, ancor più, di chi ha bisogno di essere amato.

 

Dio è pane incamminato verso la mia fame. Sapermi cercato, nonostante tutte le mie distrazioni, nonostante questa mia vita superficiale e le risposte che non do, sapere che io sono il desiderio di Dio è tutta la mia forza, tutta la mia pace.

 

(Letture: Proverbi 9, 1-6; Salmo 33/34; Efesini 5, 15-20; Giovanni 6, 51-58)

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CRISTO SIGNORE, PONTEFICE ASSUNTO DI MEZZO AGLI UOMINI – ANGULO – Angelo Nocent

osted on Luglio 3rd, 2009 di Angelo | Enregistré dans : CHIESA POPOLO DI DIO — 25 février, 2009 

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CRISTO SIGNORE, PONTEFICE ASSUNTO DI MEZZO AGLI UOMINI

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Salutiamo voi che, uniti a Gesù Cristo,

siete diventati il popolo di Dio

INSIEME con tutti quelli che, ovunque si trovino,

invocano il nome di Gesù Cristo, nostro Signore.

*

Dio, nostro Padre,

e Gesù Cristo , nostro Signore,

diano a voi grazia e pace. (1 Cor 2-3)

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POPOLO DI DIO:

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Chiamati ad essere santi insieme

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PERCHE’ ANGULO?

sangiovannididioilmendicantedigranada.jpgAi tempi di San Giovanni di Dio, c’era un uomo di nome Giovanni d’Avila - da non confondere con il Santo suo direttore spirituale - che, oltre ad essere un caro amico, era diventato l’uomo di fiducia, il suo braccio destro.

Egli lo chiamava familiarmente ANGULO.

Oggi noi lo ricordiamo proprio perché il suo nome  viene ripetutamente menzionato o sott’inteso nelle Lettere.

“Verrà lì Giovanni d’Avila, che è il mio compagno, benché io lo chiami sempre Angulo: però il suo vero nome è Giovanni d’Avila” (68). Sorella mia molto amata, buona duchessa di Dessa, mandatemi un altro anello o qualsiasi altro vostro monile, affinché abbia che impegnare…(69) (II Lettera alla duchessa di Sessa)

Verrà lì Giovanni d’Avila, che è il mio compagno, benché io lo chiami sempre Angulo: però il suo vero nome è Giovanni d’Avila” (68). Sorella mia molto amata, buona duchessa di Dessa, mandatemi un altro anello o qualsiasi altro vostro monile, affinché abbia che impegnare…(69) (II Lettera alla duchessa di Sessa)

sangiovannididiofirmaabbreviata.jpg“…Se a Gesù Cristo piacerà togliermi da questa vita presente, lascio qui disposizioni per quando tornerà il mio compagno Angulo, che si è recato a Corte, e lo raccomando a voi, poiché si ritrova assai povero lui e sua moglie! . (16).  (III Lettera alla Duchessa di Sessa).

Il suo matrimonio con Beatrice De Ayvar fu celebrato all’interno dell’Ospedale il 14 Maggio 1549.

Il primo suo figlio Giovanni, nacque il 20 Marzo 1550, a soli dodici giorni dalla morte di San Giovanni di Dio; seguirono Filippa nel 1552, Pedro nel 1554 e Alonso nel 1556.

Vn. M. De Mina, Angulo = Juan de Avila. Prototipo del tranajador cristiano en el primewro Hospital de San Juan de Dios, in “Eermanos Hospitalarios”, 163: 110-113, 1991

nocentangelo431339.jpgUn buon motivo per dedicare ad ANGULO un meritato posto nel web. Ma anche per rinsaldare con il Santo di Granada un’antica alleanza e rinvigorire  passioni giovanili disperse in tutte le latitudini.

Video Apocalisse di San Giovanni

“Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le …”

fugisantramonto

LA CHIESA

.

POPOLO DI DIO

pellegrinocardarcivescovomicheleditorino.jpgLa messa in risalto di Chiesa popolo di Dio viene dal Concilio Vaticano II, (1Cor 2-3) .

Scriveva il Card. Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino:

Non un agglomerato di gente, non una massa di gente che si trova lì per caso. No, ma un popolo che racoglie in sé tutti i batezzati, che hanno in comune qualcosa di profondo, di grande.

Quando si dice “popolo di Dio” vuol dire che prima di qualsiasi istituzione gerarchica, di qualsiasi differenza, tra preti, vescovi, laici, c’è qualcosa che accomuna tutti i batezzati, tutti i credenti in Cristo, in una unità, in una comunione…

Tuttavia si tratta di una comunità articolata, non indiferenziata. Non siamo chiamati a fare tutti le stesse cose, tutti allo stesso livello. Una comunità differenziata in cui c’è una distinzione di ministeri…

E specificava:

  • Un cristianesimo cosciente…
  • Un cristianesimo critico…
  • Cristiani corresponsabili…
  • Essere coerenti…
  • Essere aperti all’uomo…
  • Apertura al mondo…
  • Apertura agl’ultimi…
  • Apertura a Dio.

Ultima in ordine di tempo, ma non in ordine di importanza. Anzi la dico alla fine, proprio per insistere sull’importanza di questa sigenza. Ho detto: apertura all’uomo, e ora dico apertura a Dio. Del resto, senza l’apertura a Dio non c’è vera e completa apertura ai fratelli”. (Maglie, Lecce , 1979)

pellegrinoarcivescovo.jpg “Mi commuovo quando penso ai mesi in cui il padre, una volta alla settimana, scendeva lo scalone dell’Arcivescovado, bussava alla porticina d’ingresso della nostra sede, si sedeva con noi attorno al tavolo, nella sacrestia e ci spiegava il Vangelo di Giovanni. Una cinquantina di ragazzi, un registratore e lui, il cardinale, con la paternità e l’affabilità che lo distinguevano, ci educava al gusto della Parola.” (Ernesto Oliviero)

gesuciecoduccio.jpg781 « In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la sua giustizia.

Tuttavia piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse.

Si scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un’alleanza e lo formò progressivamente […].

Tutto questo però avvenne in preparazione e in figura di quella nuova e perfetta Alleanza che doveva concludersi in Cristo […] cioè la Nuova Alleanza nel suo sangue, chiamando gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito » 206

Le caratteristiche del popolo di Dio

782 Il popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono nettamente da tutti i raggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia:

— È il popolo di Dio: Dio non appartiene in proprio ad alcun popolo. Ma egli si è acquistato un popolo da coloro che un tempo erano non-popolo: « la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa » (1 Pt 2,9).

— Si diviene membri di questo popolo non per la nascita fisica, ma per la « nascita dall’alto », « dall’acqua e dallo Spirito » (Gv 3,3-5), cioè mediante la fede in Cristo e il Battesimo.

— Questo popolo ha per Capo Gesù Cristo (Unto, Messia): poiché la medesima unzione, lo Spirito Santo, scorre dal Capo al corpo, esso è « il popolo messianico ».

— « Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio ». 207

— « Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati ». 208 È la legge « nuova » dello Spirito Santo. 209

— Ha per missione di essere il sale della terra e la luce del mondo. 210 « Costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza ». 211

— « E, da ultimo, ha per fine il regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento ». 212

Un popolo sacerdotale, profetico e regale

783 Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito « Sacerdote, Profeta e Re ». L’intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano. 213

784 Entrando nel popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo popolo, la vocazione sacerdotale: « Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo “un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre”. Infatti, per la rigenerazione e l’unzione dello Spirito Santo i battezzati vengono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo ». 214

785 « Il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo ». Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il popolo, laici e gerarchia, quando « aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi » 215 e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo.

786 Il popolo di Dio partecipa infine alla funzione regale di Cristo. Cristo esercita la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua morte e la sua risurrezione. 216 Cristo, Re e Signore dell’universo, si è fatto il servo di tutti, non essendo « venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti » (Mt 20,28). Per il cristiano « regnare » è « servire » Cristo, 217 soprattutto « nei poveri e nei sofferenti », nei quali la Chiesa riconosce « l’immagine del suo Fondatore, povero e sofferente ». 218 Il popolo di Dio realizza la sua « dignità regale » vivendo conformemente a questa vocazione di servire con Cristo.

« Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l’unzione dello Spirito Santo sono consacrati sacerdoti. Non c’è quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani, rivestiti di un carisma spirituale e usando della loro ragione, si riconoscono membra di questa stirpe regale e partecipi della funzione sacerdotale. Non è forse funzione regale il fatto che un’anima governi il suo corpo in sottomissione a Dio? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull’altare del proprio cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? ». 219

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GR = a:

“…ci educava al gusto della Parola.” (Ernesto Oliviero)

Globuli Rossi = a

“… ci educava al gusto della Parola”


San Giovanni di Dio e San Giovanni Grande

LA TRADIZIONE: Giovanni evalgelista, Agostino vescovo, Raffaele arcangelo, Giovanni di Dio, Giovanni Grande…

E ancora: Riccardo, Benedetto, i Martiri della Spagna, Olallo, Eustachio, i Venerabili…alla scuola di Maria, per il momento, la sola donna. Ma quante Marie di Magdala dietro le quinte…!

Chi pensasse alla GLOBULI ROSSI Company come ad una recente fondazione, a un nuovo movimento carismatico, con tanto di fondatore,  prima o poi da mettere sugli altari, si sbaglierebbe.

Di attuale c’è soltanto poca cosa: il nome, discutibilissimo. Ma i santi, alcuni di vecchia data, altri freschi di nomina,  compreso uno stuolo di martiri, già esistono e tutti ”canonizzati”. Perciò si cammina sul sicuro.

pampuricopertinabiografiaafumettisanpampuri2.jpgNon c’è merito. Solo la grazia della presa di coscienza di una realtà che esiste almeno da cinque secoli, ma che origina molto, molto prima. A guardar bene, è l’altare dell’Ultima Cena che va dilatandosi a dismisura, fino a raggiungere gli estremi confini della terra.

C’è voluto poco: è bastato spolverare la cassaforte, lucidare le maniglie, oliare la serratura, riaprirla…e i gioielli son tornati a risplendere, a parlare  al cuore.

La rivitalizzazione è solo opera dello Spirito che ha ossigenato e rigenera gl’occhi degli osservatori per coinvolgerli nella divina avventura:

“Et dixit qui sedebat in throno: ecce nova facio omnia” (Ap 21,5).

Riccardo è un educatore:

“…ci educa al gusto della Parola”

GLOBULI ROSSI VUOL DIRE CADERE DA CAVALLO

paolopalaconversione324.jpgGR, pur frammento, è Popolo di Dio e perciò stesso Corpo di Cristo.

Ognuno, religioso o laico, dovrebbe essere animato da quell’amore capace di sacrificare se stesso, che Cristo ha mostrato sulla Croce:

Cristo non ha cercato ciò che piaceva a lui” (Rom.15,3 – Sal. 69,10).

Ognuno ha la sua “via di Damasco”. Ognuno è chiamato a sperimentare la caduta dal cavallo delle umane sicurezze.

  • Alla voce che scende dal Cielo, la domanda che viene spontanea  è sempre la stessa: “Chi sei, o Signore?”.
  • Ed ognuno conserva nel cuore la risposta: “Io sono Gesù…Perché mi persegiti? Su, alzati e rimettiti in piedi”.(Atti: 26, 14-18).
  • Dolcissimo, affettuoso, meritato rimprovero !

Come lo zelante Saulo di Tarso, ognuno possiede le perversioni farisaiche tipiche di colui che si propone come salvezza di se stesso, credendo di essere giunto all’apice della perfezione.

A riguardo delle perversioni più profonde, la situazione di Paolo, persecutore zelante, è istruttiva.

Il Card. Martini,  rifacendosi al Vangelo che dice: “I peccatori vi precedono nel Regno di Dio“, ne ricava questo insegnamento:

Vuol dire che chi commette dei peccati, ad esempio, si ubriaca o si lascia vincere dalla sensualità, commette peccato, certo, ma è sempre, in qualche modo, conscio di fare il male: ha bisogno di comprensione, di aiuto e dimisericordia per superare la propria debolezza e confessa di essere fragile e debole.

Ed è questo il peccato che Gesù attacca nei farisei: quella perversione fondamentale per cui l’uomo si fa salvezza di se stesso e, credendo di essere giunto all’apice della perfezzione, giunge alle più gravi aberrazioni della violenza“.

Di questo male oscuro  patiamo un po’ tutti: sia i consacrati che i laici cristiani.

GR, nell’anno Paolino, assume il significato di una richiesta all’apostolo  per sapere dove il Signore lo ha portato dopo la caduta da cavallo.

La risposta di Paolo è nella Lettera ai Filippesi e in quella ai  ai Galati, dove egli ci fa comprendere il significato di questa direzione.

Noi, un po’ alla volta, in questa analisi dei,testi ci faremo guidare dalle sapienti considerazioni dell’Arcivescovo Martini…

Vedi anche SAN PAOLO CADUTO TRE VOLTE – Gianfranco Ravasi

Vedi anche   SAN PAOLO CADUTO TRE VOLTE – Gianfranco Ravasi

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UNA FEDE ADULTA E PENSATA

melogranofiore.jpgGR è un melograno fatto di tanti chicchi che aspirano a maturazione per diventare rossi e succulenti. Un frutto generato da un albero genealogico  ben piantato e solido: Giovanni di Dio, un avventuriero illuminato.

GR è un invito a riflettere, un modo di pensare, un risveglio, una rinascita, una iniziativa, rimedio alla tentazione di stanchezza e scoraggiamento che si registrano su diversi fronti.  E’ una proposta terapeutica per le anemie spirituali, un’offerta di riconciliazione con se stessi, con la propria sorte, con la propria vita, con la propria salute, con i propri difetti, con il proprio ambiente, con la propria famiglia, con la società, con il proprio lavoro, con la Chiesa .

Una compagnia di persone che, da anemiche che erano, una volta  graziate ed amate, si fanno, a loro volta,  per così dire, “donatori di sangue“, portatori di ossigeno nei tessuti asfittici del proprio contesto . Ciò è reso possibile dal sentirsi a proprio agio come figli del Padre, fratelli con i fratelli e sorelle nella società civile ed ecclesiale.

Ma con una caratteristica anche espressiva: di persone “gioioisamente” graziate ed amate che lo esprimono anche nel saluto: Shalom! . E con il cantico sulle labbra: Magnificat!

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GR può perfino diventare un ministero della carità misericordiosa, vicendevolmente esercitato. Un percorso di paziente ricostruzione di personalità che, da fragili e inconsistenti, diventano armoniche, capaci di relazioni giuste, con Dio e con il prossimo, col Mistero assoluto, con la propria povertà, con l’ambiente, per meschino che sia, col mondo per torvo e torbido che appaia.

GR è un modo molto semplice, un clima per recepire l’appartenenza alla Nuova Alleanza che è nuova creazione, nuovo inizio, a partire dalla risurrezione del Crocifisso che indica l’amore di Dio che si dona sino alla fine, che perdona “settanta volte sette”, 490 volte.

Dove si posa l’alito dello Spirito, l’amore  della Trinità divinai, ogni cosa si rianima, torna come nuova. Più semplice  di così !

E allora, musica:

Concerto brandeburghese n.2

Clicca sull’immagine per ingrndire

L’ERA NUOVA E IL GIORNO DEL SIGNORE .

angelonocentNella terza fase della mia età, mi trovo provvidenzialmente ad incarnare in qualche modo le due anime dei Fatebenefratelli: la religiosa e quella laica. Il connubio è frutto di vicende storiche che mi hanno portato ad alterne esperienze di vita.

Te le senti addosso come la pelle e non te le potresti togliere se non scorticandoti. Una mutilazione dolorosa e inutile.

Come in ogni convivenza, anche nella mia  non mancano le contraddizioni, i lati oscuri, le penombre, le paure, magari incorniciate in una paludata sicurezza, solo apparente, che cela diverse fragilità e nasconde numerosi limiti.

Epperò, chi si trova in questa posizione che non frutta  benefici materiali ed esenta dalla preoccupazione di dover tutelare o difendere interessi personali o economico-istituzionali, non avendo un’immagine da salvaguardare, nulla da dimostrare, possiede una grande ricchezza: la libertà interiore.

Se c’è una forza, una grazia, è proprio contenuta in questa pronunciata debolezza: essere uomini che non contano. Il vantaggio è immediato: ci si sente liberi e leggeri (che non vuol dire irresponsabili e distanti) e  si avverte di poter osare il linguaggio della fede senza esitazioni, laddove  il “politicamente corretto,” consiglierebbe di usare un idioma alla pari: quello umano del dare e dell’avere, dei calcoli e delle scaltrezze.  Nulla di male, s’intende, ma limitante.

In un clima di pesanti condizionamenti, saturo di riserve mentali di ogni genere, su ogni tema,  il modo di comportarsi è soggetto a incombenti tentazioni:

  • mandare a farsi benedire il “Regno di Dio“, espressione che non viene colta nel suo significato, quasi fosse una cosa che ha da venire. Lo dice espressamente l’evangelista Luca: “Il Regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il Regno di Dio è in mezzo a voi” (Lc 17,20-25).

  • Gesù non viene solo ad annunciare il Regno ma è lui stesso la venuta  del Regno. In Lui il Regno viene partecipato come dono. Non a caso, a non accorgersene sono proprio i Farisei. Sono loro a domandare a Gesù, che rende presente il Regno, quando il Regno verrà.

  • Farisei di oggi siamo noi nella misura in cui non reagiamo  agli stimoli della Grazia, ossia dello Spirito, promesso compagno di viaggio alla Chiesa, fino alla fine dei tempi. Il primo gesto cui siamo chiamati è di aprire gl’occhi su questa presenza non appariscente, ma reale e determinante.

  • Il rischio incombente è sempre lo stesso: lasciarci sorprendere e sospingere verso “altro” che non sia il Regno di Dio. E poi, riformulare l’astuta e scaltra domanda: quando verrà?

santamariadellortoroma.jpgQualche giorno fa mi sono sentito al telefono con l’amico carissimo Don Enrico Ghezzi, oggi Rettore di Santa Maria  dell’Orto di Roma, dopo aver lasciato da poco la Parrocchia.

Gli sono riconoscente debitore, giacché in  gioventù, lui studente alla Gregoriana, io aspirante… mi ha fatto tanto amare la Chiesa con le lettere che mi scriveva ed i libri che mi spediva.

Ad un certo punto della conversazione è emersa una constatazione:  noi apparteniamo, senza merito,  a quella generazione  che ha vissuto lo svolgersi del Vaticano II. Una grazia enorme.

Ma anche una generazione sfortunata, se vogliamo, perché  di “sognatori e visionari”, molto simile a quella di cui parla il profeta Gioele al cap. 3.  E’ per via di un contesto che voleva e vorrebbe altro.  E’ il ripetersi della domanda farisaica: quando verrà il Regno di Dio?

Fortunatamente basta rileggere il passo della promessa per sentirsi rinfrancati sulle gambe e riprendere vigore:

Dopo questo,
io effonderò il mio spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;

i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni.

Anche sopra gli schiavi e sulle schiave,
in quei giorni, effonderò il mio spirito.

Farò prodigi nel cielo e sulla terra,
sangue e fuoco e colonne di fumo.

Il sole si cambierà in tenebre
e la luna in sangue,
prima che venga il giorno del Signore,
grande e terribile.

Chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato, poiché sul monte Sion e in Gerusalemme
vi sarà la salvezza, come ha detto il Signore,
anche per i superstiti che il Signore avrà chiamati.

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Deludersi per i tempi? Mai. Dio va cercato là dove ci si trova, ha detto recentemente il Card. Martini, fiaccato nel fisico ma sorretto sempre da una gioiosa speranza. Quelli come me che hanno una piccola debole fede, hanno sempre la possibilità di unirsi a quella grande, assoluta, di Maria. Volendo, anche noi come lei, siamo in grado di vedere già ora il non ancora.

Che fortuna! Ci sono stati riservati proprio gli anni migliori della Storia.

Dall’incarnazione del Verbo, quelli che viviamo, sono i migliori perché è un espandersi del Regno di Dio che ci coinvolge come protagonisti nell’Evento che in Cristo, Alfa e Omega,  ricapitola l’universo intero.

Non so ancora bene perché ho messo in piedi questo nuovo cantiere. Forse mi premeva di evidenziare una cosa che ho in animo, ossia che i movimenti, le associazioni, gli ordini e le congregazioni… mi vanno benissimo. A patto che non si perda mai di vista la consapevolezza di appartenere al POPOLO DI DIO e che non si straveda – come talvolta accade – più per i fondatori che per il Sommo Sacerdote.

CRISTO GESU’

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Udite, udite !

“Io, Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, saluto i fratelli della città di Efeso che credono in Cristo Gesù: Dio nostro Padre e Gesù Cristo nostro Signore, vi diano grazia e pace.

Dio ci ha amati per mezzo di Cristo

Benedetto sia Dio
Padre di Gesù Cristo nostro Signore.

Egli ci ha uniti a Cristo nel cielo,
ci ha dato tutte le benedizioni dello Spirito.

Prima della creazione del mondo
Dio ci ha scelti
per mezzo di Cristo,
per renderci santi e senza difetti
di fronte a lui.

Nel suo amore
Dio aveva deciso
di farci diventare suoi figli
per mezzo di Cristo Gesù.
Così ha voluto
nella sua bontà.

A Dio dunque sia lode,
per il dono meraviglioso
che egli ci ha fatto
per mezzo di Gesù
suo amatissimo Figlio
Cristo è morto per noi
e noi siamo liberati;
i nostri peccati sono perdonati.

Q uesta è la ricchezza della grazia di Dio,
che egli ci ha dato
con abbondanza.

Ci ha dato la piena sapienza
e la piena intelligenza:

ci ha fatto conoscere
il segreto progetto della sua volontà:

q uello che fin da principio
generosamente
aveva deciso di realizzare
per mezzo di Cristo.

C osì Dio conduce la storia
al suo compimento:
riunisce tutte le cose,
quelle del cielo e quelle della terra
sotto un unico capo,
Cristo.

E Dio realizza
tutto ciò che ha stabilito.

Così ha voluto
che fossimo una lode della sua grandezza,
noi che prima degli altri
abbiamo sperato in Cristo.

E anche voi
siete uniti a Cristo,
perché avete ascoltato
l’annunzio della verità,
il messaggio del Vangelo
che vi portò la salvezza,
e avete creduto in Cristo.

Allora Dio vi ha segnati
con il suo sigillo:
lo Spirito Santo che aveva promesso.

Lo Spirito Santo
è caparra della nostra futura eredità:
di quella piena liberazione
che Dio darà a tutti quelli che ha fatto suoi,
perché possano lodare
la sua grandezza.

Formidabile l’ammonimento dell’Apostolo Pietro: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori”.

E bella quella messa in luce di un’altra profonde esigenza di vita che tocca tutti:“Siate pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3, 15).

Essa viene  dall’ascolto della Parola e dalla fede accolta anche

  • nella sua bellezza e forza intellettuale,

  • nella sua intima “ragionevolezza”,

  • nella singolare sintonia che essa sa realizzare con i valori e le richieste della mente umana,

  • e dunque come risposta piena, anzi eccedente a tutte le istanze autentiche della ragione

Questi sono gli intenti che si prefigge il cantiere.

Buona navigazione e partecipazione, dallo scafista

Angulo

MARIA NELL’ARTE GIAPPONESE

Posted on Luglio 4th, 2009 di Angelo | Edit

[Madonna and Child from Japanese Carmel]
Japanese Mother and Child
THE CHRISTIAN MESSAGE is not bound either by geography or by a specific culture. Christ’s spirit is the spirit of incarnation. It permeates history and features the thousand faces of human endeavor. Religious art is only one of its many expressions. So why shouldn’t there be a Japanese Madonna to portray Christ’s coming and presence among his brothers and sisters in Japan? Wherever her Son, there is Mary.

Carmelite Nuns of Tokyo, Japan, made this display of Marian images possible. The convent’s prioress recently wrote: “We would like very much to avoid publicity, so unbecoming of poor Carmelite nuns, and so we ask you not to mention the artist’s name. Our greatest privilege is to be instrumental in spreading the Marian devotion–Mary, who is our Queen and Mother of Carmel.”

The artist-nun of the Tokyo Carmel was born in Aichi Prefecture in the Nagoya diocese. She is the youngest of four children. The family eventually moved to Tokyo, where the future artist-nun entered the Futaba School run by the Sisters of St. Maur.

Sister is self-taught, having studied art only in the school’s mandatory hour-a-week course. At the age of thirteen, she began painting with watercolors, but long before this age, she had enjoyed drawing familiar Japanese scenes.

She entered the Carmel at the age of twenty-one, and was immediately inspired to paint a Madonna in traditional Japanese garb. Thanks to a senior monastery-artist, Sister was able to learn and perfect the art of painting holy persons, something she had never been taught before. However, in 1964, the senior artist was confined to her bed with cancer. It was at this time that the work of designing the monastery’s Christmas cards was passed on to her. Proceeds from the sale of these cards support the twenty nuns who form the community.

[Japanese Madonna] Japanese Madonna

[Japanese Madonna] Japanese Madonna

Postal Address: Carmel of the Holy Trinity; 27-I, 3-chome; Motomachi, Jindaiji, Chofu-shi; Tokyo 182; JAPAN

Exhibited at the Marian Library: March 1 – April 15, 1990

Sister began her new duty by painting “copies” of some of her mentor’s works – until at last she was proficient enough to create her own charming images that we know today.
When asked how long it took her to paint an original Madonna, the cloistered nun responded: “It is difficult to compute the hours spent on each painting, as the time of work is cut up by hours of prayer, and dispersed throughout the day.”
It is quite doubtful that this humble Japanese nun is aware of it – but her Madonnas are fondly admired throughout the world. And it is truly an honor to have been offered to exhibit twenty-seven of her original paintings across the United States.

As the Carmelite nun paints, she is silent with her thoughts. And if you study her beautiful images with this same gentle quietness, almost assuredly you will be able to hear her messages of hope and peace for the whole world.

by the Carmelite Nuns of Japan

Come … non credere in te Signore.

Posted on Luglio 6th, 2009 di lory58 | Edit

Come non credere in Te Signore……..
Io fin da bambina Gesù…..ti porto nel profondo del mio cuore….ti ritrovavo nei fiori …negli uccelli… nella pioggia….e nel sole splendente del mattino…nel mio gatto che amavo tanto…tanto… tu eri sempre nei miei sogni e nei miei silenzi…..Proprio per questo desidero ringraziarti perchè oggi posso rendermi conto del tuo Amore…..
Come non credere in Te…. se mi hai dato la Gioia del cuore e la vita….come non credere in Te….se mi hai dato la persona che amo ….come non credere in Te se ti sento nel mio petto ogni momento….nella risata di un bambino e negli occhi stanchi di mia madre quando mi carezza il viso…..Come non credere in Te che sei Vivo nell’Eucarestia….se mi hai donato le mani aperte delle sorelle…..Come non credere in Te Signore se mi hai dato la certezza che ogni giorno ha il suo domani…
per la Fede….la Speranza e l’Amore ….come non credere in Te Signore!

FERNANDO MICHELINI MISSIONARIO – Di Ambrogio Chiari e Serafino Acernozzi

sted on Luglio 7th, 2009 di Angelo |

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FERNANDO MICHELINI E L’AFRICA

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Di Ambrogio Chiari

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fra mosè bonardi oh priore generale1Negli anni 1950-60 fra Mosé Bonardi, Superiore Generale dell’Ordine, animato da profondo spirito missionario, diede un impulso rilevante alle varie Province perché sviluppassero opere nei tre continenti più bisognosi: Africa, America del Sud ed Asia. Le Province si attivarono in tal senso e la Provincia Lombardo-Veneta si impegnò in Israele, con l’ospedale di Nazareth, succedendo nella gestione alla Provincia Austriaca nel 1959, ed in Togo e Dahomey (ora Benin) in Africa.

L’invito per la realizzazione di un ospedale in Togo era arrivato in particolar modo dal vescovo di Lomè, mons. Casimir Dosseh, che aveva avuto modo di conoscere ed avvicinare i Fatebenefratelli, i Comboniani ed altri.

Individuate le zone che presentavano una maggior necessità nel settore sanitario ospedaliero ed espletate le richieste formalità ed autorizzazione, si diede inizio ai lavori di costruzione degli ospedali intitolati a S. Giovanni di Dio ad

Afagnan in Togo ed a Tanguiéta in Dahomey, rispettivamente nel 1961 e nel 1965.

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Michelini ebbe una parte molto importante, in quanto predispose i progetti e poi ne seguì personalmente le opere costruttive, soprattutto per l’ospedale di Tanguiéta. Per un decennio circa Michelini visse prevalentemente in Africa.

Come è già stato sottolineato più volte, questa scelta di impegno totale a favore dei più bisognosi non è stata un colpo di testa bensì il desiderio di dedicare esclusivamente per il bene del prossimo quella vita che gli era stata

conservata grazie all’intercessione del medico fatebenefratello Riccardo Pampuri, che verrà beatificato proprio per il miracolo a Michelini..

michelini

fra-onorio-tosini-un-votato-allospitalitaSe si dovesse scrivere una bella biografia di Michelini molte pagine dovrebbero essere dedicate alla sua attività africana. E chissà quante cose avrebbero potuto raccontare i religiosi fatebenefratelli fra Onorio Tosini, fra Tommaso Zamborlin, fra Aquilino Puppato, fra Clemente Tempella… ed altri ancora.

In questa occasione si vuole illustrare brevemente, forse per la prima volta, le opere eseguite da Michelini a Tanguiéta. La tecnica usata è quella dell’affresco, mediante colori ricavati triturando le pietre locali.

(In apertura) S. Giovanni di Dio soccorre un malato. Il santo è raffigurato con l’abito bianco, quasi fosse il camice del medico o dell’infermiere, tenuto conto anche dell’esigenza dello stesso per via del particolare clima. Il malato, con una fasciatura alla gamba sinistra, si sorregge su una stampella con il braccio destro e con l’altro al braccio del santo. Vi sono dipinte altresì una brocca, una ciotola, una benda ed una pianta, probabilmente medicinale. C’è pure la scritta “S. Giovanni di Dio celeste patrono dei malati”.

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La rappresentazione si rifà all’episodio della vita del Santo, che vide trasfigurarsi in Gesù un malato mentre amorosamente gli lavava i piedi. É Gesù stesso che gli dice “Sono io stesso che tu curi nei tuoi poveri” (frase riportata nel quadro).

Gesù è seduto su uno sgabello ed ha i piedi in un catino. Dai fori delle mani, dei piedi e del costato partono dei raggi, a sottolineare appunto l’aspetto salvifico di quelle piaghe”.

Proprio dalla mano destra benedicente di Gesù partono dei raggi che si proiettano sul volto del santo, il quale sta in ginocchio con il volto rivolto estasiato al volto di Gesù. Sulla sinistra sono raffigurati dei malati allettati come si usava un tempo nelle corsie ospedaliere.

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2) L’Immacolata. La Madonna, in vesti completamente bianche, in atteggiamento di preghiera, con il capo circondato da dodici stelle, pone il piede destro sulla luna mentre con il sinistro schiaccia la testa al serpente, che ha in bocca una mela. Il riferimento alla nuova Eva Maria è evidente.

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3) L’incontro con Gesù Bambino. Gesù Bambino, su una roccia, tra i rami di un albero, mostra a Giovanni una melagrana sormontata da una croce e da una stella. “Giovanni di Dio Granada sarà la tua croce” (frase riportata sul quadro). Il santo è inginocchiato e tende le braccia verso l’apparizione. A terra c’è una cassetta contenente dei libri, in quanto in quel periodo il santo svolgeva l’attività di venditore ambulante. Sullo sfondo è raffigurata la città di Granada, collocata su un monte, come una città fortificata.

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4) L’ultima Cena. Gesù è rappresentato al centro della tavola, in piedi, con tra le mani un calice, mentre il pane è sulla tavola. Lo circondano, seduti sugli sgabelli, gli apostoli in atteggiamento quasi di attesa mentre Giuda, seduto ad un fondo del tavolo, tiene in mano un sacchetto di monete (Giuda era il tesoriere e l’economo del gruppo) ed il suo sguardo è rivolto altrove. Il Cenacolo è una semplice stanza. Qui Michelini ha potuto sbizzarrirsi nella colorazione, molto bella e variegata. Il tema stesso si prestava a questo.

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5) La Resurrezione. In mezzo a due soldati romani accecati dalla luce, Gesù si erge sul sepolcro scoperchiato in atto benedicente del vincitore della morte. Vi è dipinta la scritta “Il Signore è veramente risorto. Alleluia!”.

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6) La guarigione del cieco nato. Gesù, scacciato dai farisei dal tempio uscendo si imbatte in un uomo, cieco dalla nascita. Con la saliva fa del fango, lo spalma sugli occhi del cieco e gli dice di andare a lavarsi nella piscina di Siloe. Il cieco va, si lava gli occhi e riacquista la vista… Ma i farisei, increduli, lo sottopongono ad un serrato interrogatorio…

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Gesù, invece, gli dice che la sua fede lo ha salvato (testo riportato nel dipinto). In questo quadro Michelini ha voluto sottolineare la bontà di Gesù ed anche la fiducia e la fede della gente. Egli, infatti, è circondato non solo dagli apostoli ma soprattutto da persone che aspettano da Lui una guarigione: oltre al cieco ci sono altri malati (un giovane che si appoggia ad una stampella, un bambino con un braccio sorretto da una fascia, e due mamme con i loro figli, forse anch’essi bisognosi di un gesto di guarigione …

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Quasi al centro della scena un giovane alza le braccia al cielo, in segno di stupore per il miracolo a cui ha assistito o di ringraziamento?

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… Le austere mura del tempio, con le sue colonne, contrastano con la semplicità e la povertà della scena. Qui Michelini ha dato sfoggio alla sua fantasia…

Michelini - Gesù batezzato nel Giordano

7) Il battesimo di Gesù. La scena è quella che vediamo solitamente: Gesù immerso nel fiume Giordano, il Battista che gli versa l’acqua in testa, la colomba dello Spirito Santo, il Padre che proclama che Gesù è il Suo Figlio

prediletto… Di fianco a questa scena Michelini ha dipinto quattro Angeli che portano rispettivamente una veste bianca, una lucerna accesa, una ciotola con del sale e il vaso con l’olio sacro.

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Questi sono i dipinti. Non sto a sottolineare il loro valore pittorico ed estetico. È inconfondibile la mano di Michelini: la linearità dei tratti, le pennellate ben sicure, la geometricità delle forme, la compostezza delle figure e la colorazione armoniosa in una ambientazione molto semplice, priva di costruzioni che appesantiscono l’insieme. Quel che conta è che la visione suggerisca il significato della scena con immediatezza, senza dover ricorrere a ricostruzioni mentali…

MICHELINI - dar da mangiare agli affamati

Michelini ha sempre un obiettivo didascalico nelle sue pitture: devono dire ed insegnare, o almeno far capire un messaggio ben preciso: elevare la mente ed il cuore, aprirlo al mistero e, perché no, alla preghiera.

NELLA GALLERIA DEI RICORDI

Serafino Acernozzi o.h.

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Fra Serafino Acernozzi in Africa

Dare volto ai ricordi del prof. Michelini per fermarli, incorniciarli ed esporli in rassegna come in una galleria d’arte…

Quando fui in missione a Tanguiéta (Rep. Del Bénin) anche là trovai dipinti e affreschi del Professore. Poi passai ad Afagnan (nel Togo) ed anche là trovai ancora dipinti ed affreschi del Professore. Lo incontrai più volte, poiché risiedeva a Lomé, capitale del Togo, e precisamente alla Scuola Professionale dell’Arcidiocesi ove era insegnante delle Belle Arti. Al sabato di buon mattino arrivava ad Afagnan all’ospedale, con i suoi allievi per far vedere quanto aveva realizzato con il suo progetto nonché la decorazione, come architetto e pittore.

Il Professore ad Afagnan, durante il mio priorato lo incontrai più volte, anche

perché offrivamo un buon pranzo e cena all’africana. Una volta il Professore mi ha raccontato che di buon mattino mentre i religiosi Fatebenefratelli erano in cappella per la meditazione e la S. Messa di comunità, aveva affrescato una parete del refettorio raffigurando i discepoli di Emmaus. Quando i confratelli uscirono dalla cappella ed entrarono in refettorio per la piccola colazione rimasero sbigottiti nel vedere l’affresco e si domandavano come in così poco tempo avesse fatto tutto questo… Era il carisma degli artisti.

Il prof. Michelini nel Togo era a disposizione anche dell’Arcivescovo di Lomé, mons. Casimir Dosseh che lo inviava in tutte le Diocesi del Togo per progettare nuove Chiese e opere sociali. Affrescava anche le nuove opere e le cappelle raffigurando sempre San Giovanni di Dio, patrono universale dei malati, degli ospedali e delle associazioni infermieristiche.

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Togoville (TOGO) – Interno Santuario Mariano – Foto F. Mauli 10/2001

Un’altra particolarità del Professore che entrerà nella storia della religiosità della Chiesa Togolese: in un solo giorno dipinse un quadro della Madonna con in braccio il Bambin Gesù. Questo venne posto in una cappella della Parrocchia retta dai Padri missionari Comboniani nei pressi del lago detto di Togoville, successivamente davanti a questo quadro i cristiani andavano a pregare e a chiedere grazie ed in pochi anni questo luogo è diventato sacro per i togolesi e l’autorità ecclesiastica l’ha dichiarato Santuario Mariano nazionale del Togo.

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LE DUE CULTURE – Francesco Paolo Casavola

Posted on Luglio 12th, 2009 di Angelo | Edit

Francesco Paolo Casavola

Storico del diritto romano, costituzionalista, nato a Taranto il 12 gennaio 1931. Conseguita nel 1958 la libera docenza in diritto romano, è diventato (1960) professore di istituzioni di diritto romano, insegnando questa disciplina prima all’università di Bari, poi (1967) all’università di Napoli, dove nel 1977 è passato all’insegnamento di storia del diritto romano. Socio di numerose Accademie e società scientifiche, dal marzo 1998 è Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana.

LE DUE CULTURE

Francesco Paolo Casavola


Ludovico Geymonat apre la prefazione all’edizione Feltrinelli del libro di Charles Percy Snow, romanziere e scienziato inglese, intitolato Le due culture1, con questa frase: “Nessuno può essere, oggi, così cieco da non rendersi conto che l’esistenza di due culture, tanto diverse e lontane una dall’altra quanto la cultura letterario-umanistica e quella scientifico-tecnica, costituisce un grave motivo di crisi della nostra civiltà; essa vi segna una frattura che si inasprisce di giorno in giorno, e minaccia di trasformarsi in un vero muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”.


Era il luglio 1964. Sono trascorsi quarantatre anni e quelle parole con quel giudizio “muro di incomprensione, più profondo e nefasto di ogni altra suddivisione”, sono ancora più che mai attuali. Sono mutati i contesti, ma proprio per questo le due culture hanno segnato la loro capacità di sostituirsi ad “ogni altra suddivisione”. Quando Snow preparava il suo libro, uscito per

la Cambridge University Press nel 1959, sullo scenario inglese si avvertiva, come effetto della separazione degli umanisti dagli scienziati, un ritardo, rispetto alla Russia e agli Stati Uniti, nel sistema della istruzione tale da non far fronte alle esigenze del progresso tecnologico.


L’eccesso di specializzazione nel mondo accademico, con una dominanza assoluta della matematica, isolava gli inglesi dalle scienze applicate. L’istruzione media, con fondamento prevalentemente letterario, non dava adito alla comprensione della mentalità e delle leggi logiche della scienza né predisponeva talenti indirizzati alla ricerca e progettazione tecnologica.


Più in generale, ancora, da questa frattura tra umanesimo e scienza, derivava una incapacità di collegare mutamento sociale e rivoluzione scientifica. Snow proponeva una riforma dei programmi scolastici, che non solo riducesse il diaframma tra educazione letteraria e scientifica, e per questa seconda tra scienza pura e scienze applicate, ma che impartisse ai giovani scienziati una profonda e nuova educazione umana.


Per questa educazione umana sembra proporre le scienze della società, dietro le quali potrebbe avanzare una terza cultura. Nel 1968, nella collana Nuovo Politecnico Einaudi, esce di Giulio Preti, Retorica e logica, le due culture2. Il quadro storico è più ampio, la dialettica tra vecchio e nuovo èpiù tagliente.


Si tratta di fare i conti con l’intera tradizione della nostra civiltà: “Di questa tradizione fanno parte una ricca eredità letteraria, una gloriosa storia della scienza: l’una e l’altra, nei millenni, hanno dato, a volte in cooperazione, più spesso in discordia, il carattere e il volto a quella che ancora si chiama ‘civiltà europea’, e non si sa per quanto ancora continuerà a chiamarsi così.


Letteratura e scienza: due forme, due atteggiamenti, che a lungo si sono contesi il primato nella nostra cultura, e che entrambe hanno preteso di caratterizzarla; e che ora si trovano ancora di fronte, forse per l’ultima volta, nel grave momento storico in cui sembra decidersi se la civiltà europea debba continuare a vivere, oppure debba voler morire”3.


Preti è molto severo nel giudicare il libro di Snow “un brutto libro, arbitrario, superficiale, in cui un tema così importante è stato impostato e trattato con una disinvoltura ‘giornalistica’ che non meritava”4. Ad uno scheletrico sunto del libro conferenza di Snow, Preti aggiunge un giudizio sulla ignoranza scientifica degli scienziati, per lo più proletari della ricerca o savant bétes come li chiamava A.Huxley sulla scia di V. Hugo: “piccoli ricercatori senza cultura e senza luce, “Banasoi“ della ricerca scientifica in laboratorio, le cui microricerche si compongono poi nei grandi quadri scientifici che trascendono la loro intelligenza e la loro cultura. Molti di loro riescono poi a salire in cattedra – ahimè: e, se pure possono educare qualcuno, educano soltanto degli altri “Banasoi“, che quando verrà il loro turno saliranno in cattedra. Fuori dal loro ‘Istituto’, smettono di pensare, e ricadono immediatamente al livello di mentalità pre-logica delle loro mogli, madri e nonne. Per questo, proprio per mancanza di intelligenza, cultura e fantasia, sono spesso degli ottusi conservatori.


Mentre per i letterati succede (sempre da noi, in Italia, in Francia e altrove) proprio il contrario: per quanto modesti, non scadono mai al livello di bruti, di “Banasoi“ della penna: conservano un senso di critica, di autonomia, di libertà dal costume e dalla “doxa pollón”. E’ ben giusto, con buona pace di Snow, che si siano arrogati il titolo di ‘intellettuali’5”.


E correggendo Snow, Preti trova che reazionari e progressisti ci sono da una parte e dall’altra. L’opposizione non sta tra gli individui, ma tra humanae litterae e scienza. Due forme mentali, due rappresentazioni della verità. Da diverso altro scrittore inglese, il Trilling, Preti accetta la definizione della letteratura come critica della vita. Ma è nel Seicento che alla tradizione degliantichi, raccolta nel termine delle lettere, viene contrapposta la novità dei moderni, che criticano il modello di pensiero degli antichi. La polemica antiaristotelica contro il principio di autorità vede uniti Galileo, Bacone, Gassendi, Pascal. Il principio di autorità come chiarisce Preti, non è il rifiutodi pensare con la propria testa. Lo stesso San Tommaso affermava argumentum ex auctoritate infirmissimum est. Auctoritas è la tradizione, sono i libri della tradizione, tra i quali si selezionavano i buoni libri degli antichi e i cattivi libri della scolastica medievale. Invece “i moderni ripudiano, di principio, i libri come tali, buoni o cattivi che siano, cercando la verità nella ragione e nell’esperienza, e continuando a leggere i libri solo sussidiariamente, per quel tanto di ragione e di esperienza che possono contenere6”. E’ dunque questa la radicale rottura, come si esprime Preti, delSeicento rispetto al Rinascimento umanistico.


E’ significativa la nota immagine di Bernardo di Chartres “nani sumus supra humeros gigantis”. I moderni nani sulle spalle dei giganti vedono più lontano. Ma se antichi vuol dire più vecchi, e più vecchi vuol dire con maggiore esperienza i veri antichi sono i moderni, idea presente, ricorda Preti, nella Cena delle ceneri di Giordano Bruno, e nei Problemata di Cassmann del 1546. La conoscenza è dunque progressiva. Ma Preti sollecita un approfondimento per quel che riguarda Galileo, l’idea del processo si connette con l’idea dell’infinità del vero: “Extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti,l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come uno zero”7. Intensive, invece, come nei teoremi delle matematiche pure la cognizione dell’intellettuale umano “ragguaglia la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore”8.


E tuttavia “Dio conosce tutte le proposizioni matematiche nella loro infinità, in un solo istante e intuitivamente, mentre il nostro intelletto deve procedere con discorsi e con passaggi di conclusione in conclusione”. Senza seguire la ricca analisi sulla polemica antiumanistica del Seicento, giungiamo alla conclusione di Fontenelle, che appare a Preti come uno schema di filosofia della storia: “Il confronto che abbiamo fatto degli uomini di tutti i secoli con un uomo solo può estendersi a tutta la nostra questione degli antichi e dei moderni. Una buona mente colta è composta, per così dire, di tutte le menti dei secoli precedenti: non è che una medesima mente che si è coltivata pertutto quel tempo. Così questo uomo che è vissuto dall’inizio del mondo fino ad oggi ha avuto la sua infanzia in cui non si è occupato che dei bisogni più urgenti della vita, la giovinezza in cui è riuscito abbastanza bene nelle cose dell’immaginazione, come la poesia e l’eloquenza, e in cui anche ha cominciato a ragionare, ma con meno solidarietà che valore. Ora è nell’età virile, in cui ragiona con più forza e con più lumi che mai [143]”9. La civiltà classica è dunque prevalentemente letteraria e umanistica, quella moderna è una civiltà della scienza, e dunque superiore.


Lasciamo a questo punto il libro di Preti, per riprendere il filo del discorso come era proposto da Snow: l’educazione umana degli scienziati. Nella prima metà del Novecento agli scienziati e ai tecnici si poneva il tema della speranza sociale, di come cioè il progresso delle conoscenze e delle tecnologie potesse condurre anche al progresso della condizione umana, non solo nei paesi dell’Occidente, ma in tutto il pianeta. E’ il tema dei rapporti tra scienza e politica nella duplice versione del comunismo e del capitalismo. E’ il tema della dipendenza delle tecnoscienze dal mercato o dallo Stato.


Con la bomba atomica si apre l’era della sovranità della tecnica con la stessa tensione che aveva attraversato la modernità tra potere pubblico e libertà privata. La possibilità che l’uso bellico dell’energia atomica conducesse ad un olocausto nucleare dell’intera specie umana ha determinato all’indomani della seconda guerra mondiale, con la guerra fredda tra le due megapotenze Unione Sovietica e Stati Uniti, il cosiddetto equilibrio del terrore, cioè la minaccia senza seguito del conflitto nucleare.


La fisica atomica è il simbolo della potenza della scienza sul destino dell’umanità al bivio tra impiego bellico o pacifico di una energia scoperta tra calcolo matematico e costruzione tecnica. Ma la civiltà della scienza non si è rivolta solo alla realtà della natura esterna all’uomo, giungendo a dominarla dopo averne letto le leggi, fino a produrla sinteticamente nelle materie plastiche o a manipolarla geneticamente nelle specie botaniche. La scienza si è impossessata del corpo dell’uomo, ne ha spostato i confini naturali della nascita e della morte. La biomedicina è risalita dal nato al feto dall’embrione ai gameti, fin dove la spes hominis è solo un materiale cellulare.


Da quando il sesso del nascituro era ignoto fino al parto, siamo arrivati alla conoscenza dell’embrione, delle sue alterazioni e difettività, che possono portare il nascituro ad una esistenza non degna, come s’usa dire, di essere vissuta, e che consigliano selezione terapeutica o addirittura eugenetica. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita combattono sterilità e infertilità e pongono alternative tra inseminazione omologa e eterologa.


La possibilità che la scienza moduli l’individuo umano fino a costituirne una copia con le tecniche di clonazione è un segnale di quanto grande sia il suo potere dal confine dell’inizio della vita. Lungo la vita i progressi delle terapie farmacologiche, delle protesi, della chirurgia dei trapianti, della diagnostica per immagini, hanno migliorato e prolungato l’esistenza umana, nel mondooccidentale per intere popolazioni, e non più, come per millenni, solo per individui particolarmente validi e longevi. Ma sull’altro confine la scienza non ha abolito la morte, ha anzi diffuso un nuovo terrore della morte diverso da quello che da sempre ha assillato gli uomini, che a differenza degli animali sanno di dover morire. I Greci chiamavano gli uomini mortali.


E’ l’artificiale protrazione del termine della vita con le tecniche della rianimazione, della respirazione meccanica, dell’accanimento terapeutico, della conservazione di stati vegetativi permanenti e irreversibili a fondare il modello moderno del terrore della morte intubata. Anche qui viene invocata la dignità della vita perché essa sia spenta, prima di diventare indegna di essere vissuta. Rifiuto legittimo delle cure, autodeterminazione del malato terminale, direttive anticipate sul testamento biologico, divieto dell’accanimento terapeutico, richieste eutanasiche, medicina palliativa, affollano di problematicità il confine dell’esistenza. Nell’entrare con tale invasività nell’esistenza corporea degli umani la scienza scopre la sua non estraneità all’altra parte del mondo storico, cioè a quello morale e sociale.


Qui è il punto che impone di uscire dal dualismo tra cultura umanistica e scientifica. La scienza moderna si poneva il tema della coscienza delle leggi della natura, la scienza contemporanea modifica la natura ivi compresa la natura umana.

  • Può farlo senza adeguata conoscenza dell’universo storico che l’uomo ha prodotto e da cui è stato prodotto?

  • Perché nei confronti del progresso incessante della biomedicina si è adottato un atteggiamento difensivo non solo con pratiche sociali, quale quello del living will o testamento biologico, poi con leggi nazionali e convenzione internazionali?

  • Perché nella convenzione di Oviedo del 1997, è formulato il principio del primato del bene e dell’interesse dell’essere umano sul solo interesse della scienza e della società?


La emersione della persona umana come fine e centro dell’ordine del mondo era stato formalizzato nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dalle Nazioni Unite nel dicembre del 1948. La dignità dell’uomo è un bene costituzionale intangibile, come proclama la legge fondamentale di Bonn del 1949.


Da allora sono messe in causa non solo le forme di organizzazione politica degli Stati, ma anche gli ordinamenti sociali. La scienza vive al di sopra delle frontiere nazionali, ma non fuori della società. E ogni società ha il suo patrimonio culturale, di tradizioni, di religioni, di istituzioni, di mentalità.


Quando la convenzione di Oviedo indica i tre attori, la persona umana, la società, la scienza, non designa tre identità astratte, ma tra universi che possono, ma non debbono, gravitare intorno a interessi separati o comunque non finalizzati al bene della persona umana. Non dunque individualismo radicale, né solo libertà della scienza, né ragioni collettive della società. Ecco perché negli anni ’70 del Novecento si intese, introducendo il termine bioethics bioetica, proporre un’etica fondata sulla scienza biologica, di quella parte della civiltà della scienza che andava modificando la natura corporea e morale degli umani. Quel disegno ambizioso è stato sostituito da una esperienza interdisciplinare di diversi saperi, medici, biologici, filosofici, teologici, giuridici, sociologici, storici. In questa attuale bioetica, che vuole produrre anche una biogiuridica e una biopolitica, domina il dialogo o il conflitto? Non v’è dubbio che le posizioni estreme replicano i ruoli che abbiamo già registrato nel più lontano inizio della modernità europea: la scienza non vuole gli impacci dei valori tradizionali, reclama la più illimitata libertà di ricerca; la morale tradizionale, specie quella religiosa, è diffidente di ogni innovazione che scuota le radici naturalistiche e giusnaturalistiche dei principi e delle regole dei comportamenti sociali. Gli uni difendono le ragioni della manipolabilità del corpo per una vita migliore e più degna, gli altri quelle della sacralità della vita.


Uno schema ricorrente per descrivere le due posizioni è che per i primi tutto ciò che si può fare, si deve fare, per i secondi tanto più diviene possibile fare, quanto meno si deve fare. Che si debba uscire da queste due armatissime frontiere sembra necessario.


In un recente confronto delle tesi del filosofo Hans Jonas e del medico Hugo Tristram Engelhardt, Luisella Battaglia, dinanzi alle sfide della ingegneria genetica, si chiede se non sia obbligatorio per il ricercatore “di usare la sua immaginazione morale nella stessa misura in cui usa la sua immaginazione scientifica”10.


Per attivare quella immaginazione morale occorre ben altro che l’esperienza del laboratorio o della clinica. Certo, bisogna ripartire dai sistemi di educazione di base, con maggiore profondità di mira di quanto non apparisse a Snow e ai suoi critici del Novecento. Non sono in gioco l’educazione umanistica e quella scientifica. Il superamento delle due culture sta nello storicizzarle entrambe e allearle nella responsabilità della guida nel mondo umano. La scienza non può fermarsi al qui ed ora, perché è responsabile del futuro. La morale non può trovare la sua risorsa solo nel passato se deve governare e non solo ostacolare il futuro. Questa è la nuova cultura, la scienza e la morale in alleanza dialettica, non in reciproca lotta dogmatica.


Note

1 C.P. Snow, Le due culture, Milano, Feltrinelli, 1964.

2 G. Preti, Retorica e logica, Torino, Einaudi, 1968.

3 Op. cit., p. 9.

4 Op. cit., p.10.

5 Op. cit., p. 12.

6 Op. cit., p. 65.

7 Op. cit., p. 69.

8Ibid.

9 Op. cit., p. 143.

10 I. Sanna (ed.), La sfida del post-umano. Verso nuovi modelli di esistenza?, Roma, Edizioni

Studium, 2005, p. 142.

GIUSEPPE LAZZATI SERVO DI DIO -

Posted on Luglio 13th, 2009 di Angelo

Signore, ti ringraziamo perché
fra i segni innumerevoli della Tua benevolenza,
ci doni quello di scoprirTi:

  • – nei volti che ci rivelano un profondo ininterrotto colloquio

    interiore con Te, Padre sommamente amato

  • – nei pensieri che ci introducono soavemente

    alla conoscenza più profonda e vitale

    delle supreme Verità:

    Un Dio “totalmente altro” e insieme coinvolto

    nelle vicende dell’uomo e del mondo

  • – nei comportamenti che dicono

    ricerca appassionata, risposta generosa di amore

    a Te e al Tuo disegno di salvezza universale,

    nelle alterne vicende della vita,

    nelle ore liete e in quelle della prova e del dolore.

Ti ringraziamo, Signore,
per averci dato di scorgerti
nel volto, nei pensieri, nei comportamenti
di Giuseppe Lazzati.

Dona alla Tua Chiesa, a noi,
di poterlo sempre meglio guardare
ed imitare come modello,
di poterlo presto pregare come santo.

Amen

lazzati-giuseppe-1

La gioventù (dal 1909 al 1927)

Lazzati è nato a Milano il 22 giugno 1909 ed è stato battezzato nella chiesa di S. Gottardo al Corso il 25 giugno.

Dei suoi anni giovanili, nella Milano di Porta Ticinese, Lazzati non ha quasi mai parlato. Nel 1915 inizia le scuole elementari. Nel 1918 si trasferisce ad Alassio con la famiglia, dove frequenta la quarta elementare e la prima ginnasio. Nel 1920 torna a Milano.

In quell’anno, Lazzati ha undici anni, e la madre, lo iscrive, come i fratelli, all’Associazione studentesca «Santo Stanislao», perchè possa completare la propria formazione spirituale.

L’esperienza associativa avrebbe lasciato in Lazzati un segno profondo e permanente sul piano della formazione spirituale, grazie anche all’incontro con un sacerdote che possedeva uno straordinario carisma e una grande capacità educativa: don Ettore Pozzoni, che Lazzati ha avuto come catechista al suo ingresso nell’Associazione.

Importantissimi per Lazzati sono stati gli esercizi annuali che la «Santo Stanislao» richiedeva ai suoi iscritti. Lazzati vi ha partecipato per la prima volta nel 1922, all’età di tredici anni non ancora compiuti.

Il 1926 ha segnato un momento importante della vita di Lazzati: l’8 luglio è morto suo padre, che aveva appena cinquant’ anni.

Il diciassettenne Giuseppe si è visto così indotto a impegnarsi per il proprio sostentamento con l’impartire ripetizioni, concorrere con successo ad alcune borse di studio e svolgere l’attività di aiutante-economo della «Santo Stanislao».

Anche per questo il suo legame con l’Associazione è divenuto più stretto ed egli ha acquisito un ruolo più significativo di quello di un socio. Con il 1927, infatti, Lazzati cominciava a pubblicare sul «Bollettino» dell’Associazione articoli e note in cui offriva sintesi ragionate delle conferenze tenute nella «Santo Stanislao».

Che il suo legame e il suo ruolo nell’Associazione sia cresciuto nel tempo è anche suggerito dal fatto che, dopo il giugno 1927, conseguita brillantemente la maturità, anziché confluire in altra associazione come suggeriva lo statuto associativo, Lazzati ha continuato a vivere nella «Santo Stanislao» rimanendo a disposizione dei soci minori.

Presidenza diocesana della Gioventù di AC

Lazzati è ancora sotto le armi quando, quasi contemporaneamente, diventa assistente del Prof. Ubaldi, col quale si era laureato il 21 ottobre 1931, e si sente chiamare a impegnarsi nella Gioventù Cattolica milanese da una persona a cui non può dire di no: don Ettore Pozzoni, il suo primo catechista alla Santa Stanislao. Don Pozzoni era Assistente diocesano della Gioventù Cattolica e aveva bisogno di qualcuno che si occupasse, su base diocesana, degli studenti iscritti all’associazione.

È Lazzati stesso che ci ha lasciato una testimonianza del processi di… iniziazione cui lo sottopose don Pozzoni.

«Fu all’inizio degli anni Trenta che don Ettore… venne a pescarmi per introdurmi nell’ambiente della Federazione giovanile di Azione Cattolica, ambiente a me del tutto ignoto per una separazione e, si può dire, estraneità voluta da mons. testa tra la “Santo Stanislao” e l’Azione Cattolica. Fu così che mi trovai a dovermi occupare degli studenti presenti nelle associazioni giovanili e la cosa avvenne sotto lo stimolo e con il sostegno di don Ettore che -lui solo sa il perché – voleva fare del chiuso e timido studente universitario il continuatore dell’organizzazione della Gioventù Cattolica ambrosiana».

Ma il progetto non era quello di avere un nuovo Delegato diocesano degli studenti per aiutarlo in quel settore associativo. Il suo progetto, chiamando Lazzati, era più ambizioso anche se lazzati non ne sapeva nulla; fare di lui il Presidente della Federazione diocesana della Gioventù Cattolica. Progetto che matura non molto dopo nell’Assemblea federale del 13 maggio 1934 che elegge Lazzati Presidente Diocesano.

L’impegno nella Azione Cattolica sarà molto importante per Lazzati. Egli vi sarà impegnato attivamente fino alla deportazione nei Lager tedeschi nel settembre 1943.

È in questo periodo che Lazzati si rivela un vero leader e dimostra di avere uno speciale carisma educativo. Ed è a partire da quegli anni che, per oltre mezzo secolo, Lazzati ha approfondito una doppia intuizione: quella della responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e quella del valore cristiano nella realtà secolare.

Della sua esperienza di Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica ha lasciato una bella testimonianza Mons. Pietro Zerbi che lo conobbe allora. Egli ha scritto: “Volendo indicare i tratti fondamentali ed anche i punti di forza della presidenza di Lazzati, comincerei dalla fede. La sua opera di formazione dei giovani cominciò sempre di lì. Voleva una fede forte e consapevole, nutrita di studio teologico, proporzionato alla cultura del singolo si intende – ma seria e approfondita. Come tutti i formatori di anime giovanili, egli aveva perfettamente capito che quello, e solo quello, è il problema fondamentale, risolto il quale tutti gli altri si sciolgono, mentre là dove manca tale premessa, nulla sta in piedi a lungo andare”.

E ancora: “Quando rievoco, prima di tutto per me, una personalità di cristiano, mi piace conoscere, se la cosa è possibile, come pregava; come parlava con Dio, prima che con gli uomini. Posso annotare pochissimo su questo punto; anzi, una cosa sola: l’impressione ricevuta da Lazzati immerso in solitaria preghiera, che ebbi più di una volta alle “quattro giorni”, è una delle più vive e profonde che lui abbia avuto. Non so se mi sia mai accaduto di vedere un uomo pregare così. La parola umana qui non può soccorrere, né mi piace indugiare su questo tema, che si presta alle facili, generiche, esteriori esaltazioni, oppure può indurre alla pretesa di penetrare là dove non è consentito a uomo. Dirò soltanto che non mi meraviglierei di sapere, un giorno, che egli era giunto, nell’orazione, ad un grado molto alto di unione con Dio”.

lazzati-giuseppe-2

Gli anni del “Lager” (dal 1943 al 1945)

Lazzati ha ricordato quella dura prova in uno scritto apparso dopo la sua morte:

«Il mattino del 9 settembre 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma del 5° Alpini, un ufficiale chiedeva, ad uno ad uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’esercito o di aderire alle formazioni fasciste. La seconda scelta li avrebbe fatti rientrare nelle loro case, la prima significava la deportazione.Il “sì” alla prima scelta suonò come grido di libertà e caricati sui camion – i soldati e sottufficiali già marciavano inquadrati dai Tedeschi verso lnnsbruck – cominciò quella deportazione che di Lager in lager si sarebbe conclusa con il rientro a Milano il 31 agosto 1945.

lì lager era per tutti una realtà di cui non si aveva esperienza, forse solamente qualche conoscenza indiretta o informazione giornalistica; ma si presentò subito nella sua tragica veste che veniva a dare un singolare peso al sì pronunciato nella caserma di Merano. E non è da meravigliarsi troppo se, dopo le prime settimane di un’esperienza subumana, ricca solamente di pesanti privazioni – da quella della libertà a quella di sufficienti mezzi di sussistenza, di assistenza, di qualche mezzo di informazione e cultura – i meno saldi psicologica-mente tendessero a perdere adeguate misure di controllo della propria dignità, coerente volontà, chiarezza di coscienza».


L’opera politica (dal 1940 al 1953)
“Il cristiano e la città in Giuseppe Lazzati” di Armando Oberti

1. Pensare politicamente Sulle origini di questo progetto le informazioni più puntuali sono quelle che ci ha consegnato mons. Carlo Colombo, che ha raccontato come, nei primi mesi del 1940, due giornalisti cattolici – Raimondo Manzini, allora direttore a Bologna de «l’Avvenire d’Italia», e mons. Busti, direttore a Milano de «l’Italia» – sollecitarono il rettore dell’Università Cattolica, padre Gemelli, ad incoraggiare nell’ambiente accademico una seria riflessione sull’atteggiamento che i cattolici italiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della guerra. l’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico troncò bruscamente l’incipiente dibattito nell’Ateneo milanese; ma un gruppo di giovani professori continuò ad incontrarsi per discutere ancora su varie tematiche socio-politiche.

A casa di Umberto Padovani, docente di filosofia della religione, si incontrarono più volte i suoi colleghi Dossetti, Fanfani, Vanni Rovighi, Bontadini, lo stesso Colombo, talvolta anche La Pira che viveva già a Firenze. Tra loro anche Lazzati.

Essere più puntuali su quel laboratorio non è possibile, perché tutte le documentazioni degli incontri di casa Padovani, conservate dapprima da Dossetti, furono poi dallo stesso Dossetti bruciate sulle colline reggiane, durante i mesi della militanza partigiana.

Circa l’esperienza maturata da Lazzati in quegli incontri è possibile, comunque, fare due considerazioni. Anzitutto Lazzati in quell’occasione, confrontandosi con i suoi amici sulle dottrine di Aristotele e di Tommaso d’Aquino e leggendo Maritain, si formò un’idea alta e non strumentale della politica, intesa da lui come la più nobile attività degli uomini (di tutti gli uomini), capace di realizzare quel bene comune che è da intendere quale condizione per il massimo sviluppo possibile di ogni persona.

In tal senso la politica si configurò, nel pensiero del giovane Lazzati, come impegno obbligatorio dei cristiani, chiamati da Dio ad ordinare le realtà terrene secondo la loro natura ma sempre in vista dell’integrale umanizzazione dell’uomo. Inoltre Lazzati, in quegli incontri clandestini, si convinse che i cattolici italiani – per varie ragioni storiche, che dall’ostruzionismo fascista alla partecipazione democratica nella vita politica risalivano al non expedit pontificio post-unitario – erano assolutamente impreparati all’impegno politico e che, quindi, dovevano apprendere finalmente a «pensare politicamente».

Era una valutazione in cui gli amici di casa Padovani si autoincludevano, ma nutrendo la consapevolezza e il desiderio di superare l’impasse «[…].
Il giudizio comune degli amici con i quali allora si lavorava, Dossetti, Fanfani, La Pira, era quello di non impegnarci direttamente nell’azione politica. Di non farlo perché non eravamo preparati, non tanto e non solo come singole persone, ma come ambiente cattolico: i cattolici non erano preparati a seguirci sulla strada che andavamo ipotizzando.
Era necessario un lungo, paziente e capillare lavoro di preparazione culturale, non solo di vertice, ma alla base, la quale certamente solo così avrebbe potuto recepire il frutto del nostro lavoro e il significato delle proposte politiche che venivamo facendo».

Lazzati si andava convincendo che l’azione deve essere necessariamente preceduta e preparata dalla formazione; di più: che la formazione è essa stessa azione e impegno di tipo politico. In tal senso, il progetto lazzatiano dimostra, sin dall’inizio, una valenza e uno scopo formativi.

Dopo l’armistizio del 1943 i «professorini» di casa Padovani si dispersero. Dossetti partecipo alla resistenza partigiana; La Pira andò a Roma; Fanfani si rifugiò in Svizzera; Lazzati fu internato in Germania. Ed è nel lager che Lazzati comincia a realizzare il suo progetto.

Negli anni più terribili della guerra, trascorsi in prigionia, egli concepisce l’architettura concettuale della «civitas humana» e la propone gia ai soldati, internati insieme con lui, in piccoli incontri formativi che nutrivano la grande speranza di preparare, nonostante tutto, un futuro migliore.
In morte di Lazzati, Alessandro Natta, ha ricordato quell’esperienza: «Subito trovammo, pur partendo da culture diverse, il terreno e lo scopo di un’opera comune e solidale: quella dell’incoraggiamento morale e della maturazione politica dei tanti prigionieri che, travolti dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale, penavano a darsi ragione degli avvenimenti e a recuperare un ideale e una speranza.

[..] Poi il dialogo tra noi si fece più stringente attorno al tema grande e inedito di quale Italia costruire sulle ceneri della disfatta. Lui cattolico, io laico e già comunista e altri compagni di differenti convinzioni filosofiche e politiche, ci confrontammo, con entusiasmo di costruttori, sui caratteri, i fondamenti, i fini di una nuova comunità nazionale».

Dopo la fine della guerra, i clandestini di casa Padovani uscirono allo scoperto e si ritrovarono tutti impegnati nell’agone politico. Anche Lazzati fu prima pressantemente invitato e poi convinto ad entrare in politica dai suoi giovani colleghi, soprattutto da Dossetti.

Ma gli rimase sempre il dubbio di non essere al proprio posto, tanto da conservare l’impressione di essere stato in quell’occasione quasi «acchiappato da loro e trascinato con loro» come ebbe a confessare pubblicamente in seguito – perché gli pareva di «non tenere così fede al primitivo proposito formativo».

La perplessità tuttavia – non lo impacciò nella militanza politica. Consapevole di scegliere non «una posizione comoda, ma una irta di difficoltà in tutti i sensi», Lazzati si dimise da presidente diocesano della Gioventù di Azione cattolica e si candidò nelle file della Democrazia cristiana per le amministrative di Milano, risultando subito eletto; al primo congresso nazionale del partito, nell’aprile 1946, venne eletto consigliere nazionale, quattordicesimo dei sessanta eletti, e quindi membro della direzione nazionale; il 2 giugno 1946 fu eletto anche all’Assemblea costituente.

Il 18 aprile 1948 fu eletto alla Camera dei deputati e quindi nominato vicepresidente del gruppo parlamentare democristiano e assegnato alle commissioni per l’agricoltura e l’alimentazione prima e per l’istruzione e le belle arti dopo.

Ricordando le ragioni della sua opzione politica, Lazzati spiegò in seguito che essa «non fu scelta spontaneamente ma quasi di necessità»: «sia pure con libera adesione, dovetti cedere nel momento in cui il mio Paese, uscito prostrato, politicamente ed economicamente, dalla tragica vicenda della guerra e della liberazione dal giogo della dittatura fascista, si trovò di fronte al compito immane della ricostruzione. Rientravo da due anni di prigionia e trovavo gli amici, universitari come me, con i quali ci si era culturalmente preparati a quel compito costruttivo, impegnati a un servizio politico diretto cui costringeva l’urgenza e la durezza dell’ora, in vista di assicurare che non andasse nuovamente perduto, sotto segno opposto, quel supremo bene di libertà che si era, faticosamente e ad alto prezzo, riconquistato».

Il periodo della Costituente lo vide protagonista della travagliata ricostruzione del Paese, giocando egli un ruolo importantissimo non solo all’interno dell’Assemblea, ma anche e soprattutto in seno al gruppo dossettiano, personificando il punto di riferimento sicuro e il termine di confronto critico circa la coerenza di quanto il gruppo portava avanti in sede di elaborazione della Carta Costituzionale con i motivi ideali e con i propositi di fondo che costituivano la spinta politico-culturale fondante il gruppo stesso.
In tal senso, se a Dossetti veniva riconosciuta la leadership politica, a Lazzati veniva riconosciuta una leadership etico-religiosa, certamente meno evidente e documentabile, ma non meno importante.

Per Lazzati, insomma, restava prioritario l’impegno a formare a «pensare politicamente».
Tanto più che, durante le campagne elettorali, aveva constatato non solo l’assenza di preparazione politica tra i cattolici, ma anche l’ingenua convinzione diffusa che fosse sufficiente essere buoni cristiani per divenire bravi ed efficaci politici.

A chi gli mostrava questa ingenuità, Lazzati faceva presente la necessità di saper governare, che non si acquisisce con la sincerità dei sentimenti religiosi, ma con la conoscenza tecnica di regole e di meccanismi amministrativi ben precisi («Il bello – commentava – è che un bravo cristiano può mandare in malora un comune, se non sa cosa vuoi dire fare un bilancio»).

Presidenza diocesana della Gioventù di AC

Lazzati è ancora sotto le armi quando, quasi contemporaneamente, diventa assistente del Prof. Ubaldi, col quale si era laureato il 21 ottobre 1931, e si sente chiamare a impegnarsi nella Gioventù Cattolica milanese da una persona a cui non può dire di no: don Ettore Pozzoni, il suo primo catechista alla Santa Stanislao. Don Pozzoni era Assistente diocesano della Gioventù Cattolica e aveva bisogno di qualcuno che si occupasse, su base diocesana, degli studenti iscritti all’associazione.

È Lazzati stesso che ci ha lasciato una testimonianza del processi di… iniziazione cui lo sottopose don Pozzoni.

«Fu all’inizio degli anni Trenta che don Ettore… venne a pescarmi per introdurmi nell’ambiente della Federazione giovanile di Azione Cattolica, ambiente a me del tutto ignoto per una separazione e, si può dire, estraneità voluta da mons. testa tra la “Santo Stanislao” e l’Azione Cattolica. Fu così che mi trovai a dovermi occupare degli studenti presenti nelle associazioni giovanili e la cosa avvenne sotto lo stimolo e con il sostegno di don Ettore che -lui solo sa il perché – voleva fare del chiuso e timido studente universitario il continuatore dell’organizzazione della Gioventù Cattolica ambrosiana».

Ma il progetto non era quello di avere un nuovo Delegato diocesano degli studenti per aiutarlo in quel settore associativo. Il suo progetto, chiamando Lazzati, era più ambizioso anche se lazzati non ne sapeva nulla; fare di lui il Presidente della Federazione diocesana della Gioventù Cattolica. Progetto che matura non molto dopo nell’Assemblea federale del 13 maggio 1934 che elegge Lazzati Presidente Diocesano.

L’impegno nella Azione Cattolica sarà molto importante per Lazzati. Egli vi sarà impegnato attivamente fino alla deportazione nei Lager tedeschi nel settembre 1943.

È in questo periodo che Lazzati si rivela un vero leader e dimostra di avere uno speciale carisma educativo. Ed è a partire da quegli anni che, per oltre mezzo secolo, Lazzati ha approfondito una doppia intuizione: quella della responsabilità dei laici nella Chiesa e nel mondo e quella del valore cristiano nella realtà secolare.

Della sua esperienza di Presidente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica ha lasciato una bella testimonianza Mons. Pietro Zerbi che lo conobbe allora. Egli ha scritto: “Volendo indicare i tratti fondamentali ed anche i punti di forza della presidenza di Lazzati, comincerei dalla fede. La sua opera di formazione dei giovani cominciò sempre di lì. Voleva una fede forte e consapevole, nutrita di studio teologico, proporzionato alla cultura del singolo si intende – ma seria e approfondita.

Come tutti i formatori di anime giovanili, egli aveva perfettamente capito che quello, e solo quello, è il problema fondamentale, risolto il quale tutti gli altri si sciolgono, mentre là dove manca tale premessa, nulla sta in piedi a lungo andare”. E ancora: “Quando rievoco, prima di tutto per me, una personalità di cristiano, mi piace conoscere, se la cosa è possibile, come pregava; come parlava con Dio, prima che con gli uomini.

Posso annotare pochissimo su questo punto; anzi, una cosa sola: l’impressione ricevuta da Lazzati immerso in solitaria preghiera, che ebbi più di uan volta alle “quattro giorni”, è una delle più vive e profonde che lui abbia avuto. Non so se mi sia mai accaduto di vedere un uomo pregare così. La parola umana qui non può soccorrere, nè mi piace indugiare su questo tema, che si presta alle facili, generiche, esteriori esaltazioni, oppure può indurre alla pretesa di penetrare là dove non è consentito a uomo. Dirò soltanto che non mi meraviglierei di sapere, un giorno, che egli era giunto, nell’orazione, ad un grado molto alto di unione con Dio”.

Gli anni del “Lager” (dal 1943 al 1945)

Lazzati ha ricordato quella dura prova in uno scritto apparso dopo la sua morte:

«Il mattino del 9 settembre 1943, agli ufficiali radunati in Merano nella caserma del 5° Alpini, un ufficiale chiedeva, ad uno ad uno, se sceglievano di essere fedeli al giuramento di fedeltà fatto nel momento in cui erano entrati a far parte dell’esercito o di aderire alle formazioni fasciste. La seconda scelta li avrebbe fatti rientrare nelle loro case, la prima significava la deportazione.Il “sì” alla prima scelta suonò come grido di libertà e caricati sui camion – i soldati e sottufficiali già marciavano inquadrati dai Tedeschi verso lnnsbruck – cominciò quella deportazione che di Lager in lager si sarebbe conclusa con il rientro a Milano il 31 agosto 1945.

Lì lager era per tutti una realtà di cui non si aveva esperienza, forse solamente qualche conoscenza indiretta o informazione giornalistica; ma si presentò subito nella sua tragica veste che veniva a dare un singolare peso al sì pronunciato nella caserma di Merano. E non è da meravigliarsi troppo se, dopo le prime settimane di un’esperienza subumana, ricca solamente di pesanti privazioni – da quella della libertà a quella di sufficienti mezzi di sussistenza, di assistenza, di qualche mezzo di informazione e cultura – i meno saldi psicologica-mente tendessero a perdere adeguate misure di controllo della propria dignità, coerente volontà, chiarezza di coscienza».

L’opera politica (dal 1940 al 1953)
“Il cristiano e la città in Giuseppe Lazzati” di Armando Oberti

1. Pensare politicamente Sulle origini di questo progetto le informazioni più puntuali sono quelle che ci ha consegnato mons. Carlo Colombo, che ha raccontato come, nei primi mesi del 1940, due giornalisti cattolici – Raimondo Manzini, allora direttore a Bologna de «l’Avvenire d’Italia», e mons. Busti, direttore a Milano de «l’Italia» – sollecitarono il rettore dell’Università Cattolica, padre Gemelli, ad incoraggiare nell’ambiente accademico una seria riflessione sull’atteggiamento che i cattolici italiani avrebbero dovuto assumere nei confronti della guerra. l’ingresso dell’Italia nel conflitto bellico troncò bruscamente l’incipiente dibattito nell’Ateneo milanese; ma un gruppo di giovani professori continuò ad incontrarsi per discutere ancora su varie tematiche socio-politiche.

A casa di Umberto Padovani, docente di filosofia della religione, si incontrarono più volte i suoi colleghi Dossetti, Fanfani, Vanni Rovighi, Bontadini, lo stesso Colombo, talvolta anche La Pira che viveva già a Firenze. Tra loro anche Lazzati.

Essere più puntuali su quel laboratorio non è possibile, perché tutte le documentazioni degli incontri di casa Padovani, conservate dapprima da Dossetti, furono poi dallo stesso Dossetti bruciate sulle colline reggiane, durante i mesi della militanza partigiana.

Circa l’esperienza maturata da Lazzati in quegli incontri è possibile, comunque, fare due considerazioni. Anzitutto Lazzati in quell’occasione, confrontandosi con i suoi amici sulle dottrine di Aristotele e di Tommaso d’Aquino e leggendo Maritain, si formò un’idea alta e non strumentale della politica, intesa da lui come la più nobile attività degli uomini (di tutti gli uomini), capace di realizzare quel bene comune che è da intendere quale condizione per il massimo sviluppo possibile di ogni persona.
In tal senso la politica si configurò, nel pensiero del giovane Lazzati, come impegno obbligatorio dei cristiani, chiamati da Dio ad ordinare le realtà terrene secondo la loro natura ma sempre in vista dell’integrale umanizzazione dell’uomo. Inoltre Lazzati, in quegli incontri clandestini, si convinse che i cattolici italiani – per varie ragioni storiche, che dall’ostruzionismo fascista alla partecipazione democratica nella vita politica risalivano al non expedit pontificio post-unitario – erano assolutamente impreparati all’impegno politico e che, quindi, dovevano apprendere finalmente a «pensare politicamente».

Era una valutazione in cui gli amici di casa Padovani si autoincludevano, ma nutrendo la consapevolezza e il desiderio di superare l’impasse «[…].
Il giudizio comune degli amici con i quali allora si lavorava, Dossetti, Fanfani, La Pira, era quello di non impegnarci direttamente nell’azione politica. Di non farlo perché non eravamo preparati, non tanto e non solo come singole persone, ma come ambiente cattolico: i cattolici non erano preparati a seguirci sulla strada che andavamo ipotizzando.

Era necessario un lungo, paziente e capillare lavoro di preparazione culturale, non solo di vertice, ma alla base, la quale certamente solo così avrebbe potuto recepire il frutto del nostro lavoro e il significato delle proposte politiche che venivamo facendo».

Lazzati si andava convincendo che l’azione deve essere necessariamente preceduta e preparata dalla formazione; di più: che la formazione è essa stessa azione e impegno di tipo politico. In tal senso, il progetto lazzatiano dimostra, sin dall’inizio, una valenza e uno scopo formativi.

Dopo l’armistizio del 1943 i «professorini» di casa Padovani si dispersero. Dossetti partecipo alla resistenza partigiana; La Pira andò a Roma; Fanfani si rifugiò in Svizzera; Lazzati fu internato in Germania. Ed è nel lager che Lazzati comincia a realizzare il suo progetto.

Negli anni più terribili della guerra, trascorsi in prigionia, egli concepisce l’architettura concettuale della «civitas humana» e la propone gia ai soldati, internati insieme con lui, in piccoli incontri formativi che nutrivano la grande speranza di preparare, nonostante tutto, un futuro migliore.
In morte di Lazzati, Alessandro Natta, ha ricordato quell’esperienza: «Subito trovammo, pur partendo da culture diverse, il terreno e lo scopo di un’opera comune e solidale: quella dell’incoraggiamento morale e della maturazione politica dei tanti prigionieri che, travolti dalla sconfitta e dall’umiliazione nazionale, penavano a darsi ragione degli avvenimenti e a recuperare un ideale e una speranza.

[..] Poi il dialogo tra noi si fece più stringente attorno al tema grande e inedito di quale Italia costruire sulle ceneri della disfatta. Lui cattolico, io laico e già comunista e altri compagni di differenti convinzioni filosofiche e politiche, ci confrontammo, con entusiasmo di costruttori, sui caratteri, i fondamenti, i fini di una nuova comunità nazionale».

Dopo la fine della guerra, i clandestini di casa Padovani uscirono allo scoperto e si ritrovarono tutti impegnati nell’agone politico. Anche Lazzati fu prima pressantemente invitato e poi convinto ad entrare in politica dai suoi giovani colleghi, soprattutto da Dossetti.

Ma gli rimase sempre il dubbio di non essere al proprio posto, tanto da conservare l’impressione di essere stato in quell’occasione quasi «acchiappato da loro e trascinato con loro» come ebbe a confessare pubblicamente in seguito – perché gli pareva di «non tenere così fede al primitivo proposito formativo».

La perplessità tuttavia – non lo impacciò nella militanza politica. Consapevole di scegliere non «una posizione comoda, ma una irta di difficoltà in tutti i sensi», Lazzati si dimise da presidente diocesano della Gioventù di Azione cattolica e si candidò nelle file della Democrazia cristiana per le amministrative di Milano, risultando subito eletto; al primo congresso nazionale del partito, nell’aprile 1946, venne eletto consigliere nazionale, quattordicesimo dei sessanta eletti, e quindi membro della direzione nazionale; il 2 giugno 1946 fu eletto anche all’Assemblea costituente.

Il 18 aprile 1948 fu eletto alla Camera dei deputati e quindi nominato vicepresidente del gruppo parlamentare democristiano e assegnato alle commissioni per l’agricoltura e l’alimentazione prima e per l’istruzione e le belle arti dopo.

Ricordando le ragioni della sua opzione politica, Lazzati spiegò in seguito che essa «non fu scelta spontaneamente ma quasi di necessità»: «sia pure con libera adesione, dovetti cedere nel momento in cui il mio Paese, uscito prostrato, politicamente ed economicamente, dalla tragica vicenda della guerra e della liberazione dal giogo della dittatura fascista, si trovò di fronte al compito immane della ricostruzione. Rientravo da due anni di prigionia e trovavo gli amici, universitari come me, con i quali ci si era culturalmente preparati a quel compito costruttivo, impegnati a un servizio politico diretto cui costringeva l’urgenza e la durezza dell’ora, in vista di assicurare che non andasse nuovamente perduto, sotto segno opposto, quel supremo bene di libertà che si era, faticosamente e ad alto prezzo, riconquistato».

Il periodo della Costituente lo vide protagonista della travagliata ricostruzione del Paese, giocando egli un ruolo importantissimo non solo all’interno dell’Assemblea, ma anche e soprattutto in seno al gruppo dossettiano, personificando il punto di riferimento sicuro e il termine di confronto critico circa la coerenza di quanto il gruppo portava avanti in sede di elaborazione della Carta Costituzionale con i motivi ideali e con i propositi di fondo che costituivano la spinta politico-culturale fondante il gruppo stesso.
In tal senso, se a Dossetti veniva riconosciuta la leadership politica, a Lazzati veniva riconosciuta una leadership etico-religiosa, certamente meno evidente e documentabile, ma non meno importante.

Per Lazzati, insomma, restava prioritario l’impegno a formare a «pensare politicamente».
Tanto più che, durante le campagne elettorali, aveva constatato non solo l’assenza di preparazione politica tra i cattolici, ma anche l’ingenua convinzione diffusa che fosse sufficiente essere buoni cristiani per divenire bravi ed efficaci politici.

A chi gli mostrava questa ingenuità, Lazzati faceva presente la necessità di saper governare, che non si acquisisce con la sincerità dei sentimenti religiosi, ma con la conoscenza tecnica di regole e di meccanismi amministrativi ben precisi («Il bello – commentava – è che un bravo cristiano può mandare in malora un comune, se non sa cosa vuoi dire fare un bilancio»).

Lazzati con Giovanni Paolo II - 91539

Il rettorato

L’Istituto Secolare Cristo RE


“GIUSEPPE LAZZATI: UNA SCELTA E UNA PROPOSTA DI VITA” di

Armando Oberti

Continuando ad essere fedele all’impegno tipico dell’«Associazione Santo Stanislao» di partecipare ad un corso annuale di esercizi spirituali, Giuseppe Lazzati nel mese di maggio del 1931 frequentò un corso presso la casa dei passionisti in Gravate.
Predicatori eccezionali: padre Agostino Gemelli e mons. Francesco Olgiati. Fu l’occasione per un approfondimento della scelta dello stato di vita e per una conseguente decisione così formulata:

« 1 maggio 1931 – 10 venerdì del mese. Ho scelto come mio stato la vita del celibato. Sento in ogni momento la grandezza e la sublimità di questa grazia di Dio giacché, grazie alla castità, potrò unirmi più a Lui, cui consacro anima e como, ed esercitare apostolato più largo ed efficace. Debbo però ricordare che su tale via si deve camminare nella preghiera continua e nel sacrificio. M’assistano la grazia di Dio e la Mamma celeste!»

La scelta allora fatta comportò l’adesione al «Sodalizio Missionari della Regalità», fondato da Gemelli nel 1929, un’associazione di laici consacrati all’apostolato.

Di quel periodo conosciamo pochi dati.

Lazzati nel 1931 iniziava il noviziato arrivava nel 1934 alla consacrazione. Dopo l’interruzione del 1932 dovuta al servizio milltare, riprendeva a frequentare regolarmente anno dopo anno il corso di esercizi spirituali. Un momento cruciale per l’associazione gemelliana è il 1937. In quell’anno prevale nel sodalizio la posizione di coloro – di cui è pensabile Lazzati possa esser stato il leader – che ritengono che il sodalizio stesso debba essere sostanzialmente luogo di formazione, teso a sostenere e stimolare la vita interiore degli associati per l’esercizio di un apostolato laicale da esercitare ciascuno là dove si trova a vivere e operare senza essere legato a nessuna opera e a nessuna specifica formula di Apostolato: né l’Università cattolica, nè l’Azione cattolica, quindi. Gemelli accetta nel 1937 il prevalere di questa posizione. Ma la riflessione successiva lo porta a ritenere che tale posizione produce un vero e proprio snaturamento del suo progetto. Così, a neppure un anno di distanza pone a tutti i membri del sodalizio un vero e proprio aut aut.

Che Lazzati sia stato uno dei principali,sostenitori della linea risultava prevalente nel 1937 è suggerito dal fatto che il 19 maggio 1938 Gemelli gli scrisse una lettera accompagnando la bozza di una circolare che intendeva inviare ai sodali.

In tale circolare, poi spedita a tutti i sodali il 30 maggio 1938 Gemelli riconosceva che l’anno precedente aveva accettato
« [...] le osservazioni di coloro tra voi che affermavano che il sodalizio non deve essere legato alle opere, ma provvedere esclusivamente alla vita interiore dei singoli. E per la stessa indulgenza e debolezza io mi sono lasciato trascinare da molti di voi a deformare l’idea ispiratrice del sodalizio.»

Gemelli, costatato che la linea prevalsa finiva per non risultare più funzionale a ciò che riteneva dovesse essere quella ispiratrice e istitutrice dell’associazione, richiamava chiaramente gli scopi specifici del sodalizio così concludendo: « Invito tutti coloro oggi sono nel nostro pio sodalizio ad un esame di coscienza indispensabile e che si concreta in una questione: «Io ho, o non ho, la vocazione per questo sodalizio? […] Non si tratta di accettare la materialità di un articolo o di uno statuto. Questo sarebbe un’impostura e un tradimento. Si tratta dì avere lo stato d’animo che permetta di vivere lo statuto secondo lo spirito che lo informa. [...] Per la festa del sacro Cuore, giorno 24 giugno, attendo le vostre risposte.» Gemelli, indubbiamente, aveva colto il problema di fondo. La diversità tra la sua idea, il suo progetto e l’idea di Lazzati supponeva l’esistenza di due vocazioni differenti.

Due vocazioni distinte che, peraltro, in generale, supponevano e facevano riferimento a due modalità diverse di vivere la laicità cristiana e rivelavano, in profondità, due modi di concepire il laicato cristiano.

È in quei pochi giorni – tra il 19 maggio ed il 24 giugno 1938 – che intercorrono tra la circolare di Gemelli e la risposta di Lazzati che si consuma uno dei momenti critici, decisivi, per Lazzati.

Conoscendo Lazzati, è evidente che non è in quei giorni di maggio-giugno 1938 che egli costruisce una linea di pensiero e un progetto di vita, sintesi di un modo di concepire e di praticare la vita cristiana.
Tale linea era già formata in lui. Esistevano già in lui convinzioni profonde ed egli sapeva esprimerle in modo convincente. La maturità a Lazzati era tale già allora da aver indotto l’associazione di Gemelli a un mutamento di rotta.

Quei pochi giorni costituiscono, però, un momento decisivo perché è allora che Lazzati decide – e Dio sa con quanto sforzo spirituale e con quanta tensione interiore – che la linea che è venuta costruendosi come comprensione non semplicemente a una propria vocazione, ma, molto di più, di una propria vocazione come componente di un piano, di un’economia (il piano e l’economia della creazione e della redenzione), non è né componibile né compatibile con quella indicata e voluta da Gemelli per il sodalizio da lui creato. Una decisione difficile non solo spiritualmente e intellettualmente, perché si tratta di dire no a un uomo Gemelli – con il quale ha da tempo un rapporto stretto, profondo e che ha avuto un ruolo specialissimo nella sua scelta della laicità consacrata.

Si tratta di dire no a una linea seguita da un gruppo col quale ha condiviso un’esperienza spirituale e intellettuale di grande profondità.

Decisione difficile anche umanamente, perché con tali persone egli dovrà continuare ad avere un rapporto frequente sia nel suo impegno nell’Università, sia nel suo impegno apostolico nell’Azione cattolica. Si tratta di dire un no – e Lazzati ne è consapevole – che coinvolgerà anche altri. Altri che, come lui, sono parte del sodalizio e che, avendo fiducia in lui e sentendolo come punto di riferimento, si uniranno al suo no. Mi pare di poter dire, ragionevolmente, che tutti questi elementi spirituali, psicologici, pratici, debbono essere stati vagliati in profondità da Lazzati in quei giorni.

Verso la Casa del Padre

Nei primi mesi del 1984 i medici hanno riscontrato un tumore e quindi sono intervenuti. All’uscita dalla clinica Lazzati ha ricevuto un telegramma del Crd. Casaroli con espressioni di partecipazione da parte del Santo Padre. Nuovamente ricoverato nel maggio 1986 è stato raggiunto la mattina del giovedì santo da una telefonata del Santo Padre. La mattina del giorno di Pentecoste il 18 maggio 3.22 è venuto a mancare dopo momenti edificanti narrati da P. Bonato che in quei giorni si trovava in clinica per un triduo per le Suore. Punto centrale sta in queste parole di Bonato: «Al termine della confessione mi prese la mano e me la strinse fortemente dicendomi: “Padre, permetta che le baci la mano, intendo baciare la Chiesa“».

Viene sepolto nell’eremo di San Salvatore, sopra Erba, in provincia di Como. Ecco il testamento spirituale che Giuseppe Lazzati ci ha lasciato:

«Amate Gesù Cristo, il Sovrano cui abbiamo consacrato la vita, che per primo ci ha amati e si è dato a noi; amatelo appassionatamente, a fatti non a parole, fatti suoi seguaci in vera povertà, in amabile castità, in feconda obbedienza; dandovi per lui, che è dire per la diffusione del suo Regno, senza misura che non sia quella suggerita dalla soprannaturale virtù della prudenza, e nei modi che il vostro amore per lui vi suggerirà, fino alle estreme conseguenze, per usare le parole di papa Paolo VI. Amate la Chiesa, mistero di salvezza del mondo, nella quale prende senso e valore la nostra vocazione che di quel mistero è una singolare manifestazione. Amatela come la vostra Madre, con un amore che è fatto di rispetto e di dedizione, di tenerezza e di operosità. Non vi accada mai di sentirla estranea o di sentirvi estranei a lei; per lei sia dolce lavorare e, se necessario, soffrire. Che se in essa dovreste a motivo di essa soffrire, ricordatevi che vi è Madre: sappiate per essa piangere e tacere.

Amate l’Istituto come quello nel quale la vostra vita prende tutto il suo rilievo e custoditene il carisma con il quale lo Spirito lo ha suscitato nella Chiesa e che ne costituisce tutta la sua ragion d’essere. Tale carisma è la forma secolare della vostra consacrazione: la secolarità! Che l’amore di novità non ve lo faccia perdere; che l’amore per esso vi renda capaci di aggiornare le forme senza intaccarne la sostanza quando esigenze di particolari situazioni lo rendessero necessario.

Amatevi tra voi con sincerità di cuore e aiutatevi, portando gli uni i pesi degli altri, a realizzare la vostra vocazione così che la vostra luce splenda, sotto la custodia dell’umiltà, a testimoniare nel mondo la presenza e la forza dell’Amore, fattia tutti servi, tanto più grandi fossero le responsabilità cui potete essere chiamati.

Perché tutto questo sia, abbiate cure di coloro che il Signore chiama e vi dona e non badate a sacrifici per farne veri servi di Cristo Re, forti, fedeli, ardimentosi.

Questi miei ultimi desideri affido alla Madonna, Regina dell’Istituto, perché il suo aiuto, che non mancherò di supplicare con voi, ve ne faciliti l’attuazione e in grazia della sua protezione ci sia dato, dopo il combattimento sostenuto e il servizio reso a Cristo, alla Chiesa, al mondo, di ritrovarci tutti insieme con lei, «in fine senza fine» nel Regno del Figlio suo e Re nostro.

Christe Rex, adveniat Regnum tuum, per Mariam!»

Storia del quartiere ticinese

Struttura urbanistica milanese e i quartieri

Le mura della Milano medievale erano scandite da sei porte principali e da dodici (o tredici) porte minori (Pusterle).

Il centro della città era costituito dal Palazzo della Ragione, che si trova nell’attuale piazza Mercanti, e che al tempo era difeso da mura, dotate a loro volta di sei porte disposte in direzione delle corrispondenti porte della città.

Le sei porte sono:

  • Porta Romana,

  • Porta Ticinese,

  • Porta Vercellina,

  • Porta Comasina,

  • Porta Nuova,

  • Porta Orientale (Porta Venezia).

Le pusterle sono:

  • Pusterla di S. Eufemia,

  • Pusterla della Chiusa,

  • Pusterla dei Fabbri,

  • Pusterla di S. Ambrogio,

  • Pusterla Giovia,

  • Pusterla delle Azze,

  • Pusterla di S. Marco e Beatrice,

  • Pusterla del Borgonuovo,

  • Pusterla di S. Andrea,

  • Pusterla Monforte,

  • Pusterla Tosa,

  • Pusterla del Bottonuto.

La linea che univa le porte al centro della città costituiva l’asse intorno al quale si sono organizzate le sei zone storiche della città, che prendono originariamente il nome dalle rispettive porte. I “sestrieri” (non, quindi, in senso proprio “quartieri”) si estendevano fino alla cerchia delle mura. Successivamente essi si sono estesi anche al di fuori delle mura, estendendo il triangolo ideale fino ai confini della città e dissolvendosi progressivamente verso la periferia milanese. L’evoluzione urbanistica della città ha ovviamente profondamente alterato il senso di questa partizione ed il suo significato. I tentativi compiuti dall’amministrazione comunale nel corso degli anni di creare una struttura basata su “zone” si è sovrapposta sia alla partizione storica che all’autocoscienza dei cittadini stessi. Tuttavia diversi quartieri milanesi hanno sviluppato nel corso degli anni una propria configurazione caratteristica (anche se articolata) che giustifica l’utilizzo della partizione storica.

Porta Ticinese

Il Sestriere Porta Ticinese (”Porta Cicca”) prende il nome dalla porta Ticinese, che si apre in direzione di Pavia (”Ticinum”), e può essere rappresentato come un triangolo che ha per vertice piazza Mercanti e come lati la linea che univa il vertice alla Pusterla de’ Fabbri (all’incrocio tra Via Cesare Correnti e via De Amicis) e la linea che si estende fino alla Pusterla di S. Eufemia, verso Corso Italia. Nel corso degli anni la delimitazione del quartiere si è estesa verso la periferia seguendo il corso dei Navigli, Corso S. Gottardo e le zone limitrofe, includendo il più tardo rione di Porta Genova. Esistono tuttavia diverse delimitazioni dei confini del quartiere. La partizione storica più rigorosa parte dal Centro e giunge fino alle mura comunali. Una seconda partizione tende ad escludere la zone di Via Torino e a far cominciare il quartiere Ticinese al Carrobbio, per farla giungere tuttavia fino alle mura esterne, in corrispondenza della “Porta Marengo” di P.za XXIV maggio, fatta erigere in onore di Napoleone tra il 1799 ed il 1814. Una partizione più ampia coinvolge l’intera zona compresa tra il Carrobbio e la circonvallazione esterna.

Gli elementi urbanistici fondamentali del quartiere sono costituiti dalla Basilica di S. Lorenzo e dal suo colonnato, dalla Basilica di S. Eustorgio, e dalle “porte” Ticinesi all’inizio e al termine del Corso di Porta Ticinese, oltre che dalla darsena e dai navigli (Naviglio Grande e Pavese) che rappresentano l’ultimo tratto scoperto della cerchia dei navigli che fino ai primi decenni del Novecento circondava Milano.

PADRE LEONE HABERSTROH S.V.D – Profilo spirituale di una grande guida illuminata – D.Pietro Brazzale

Posted on Luglio 16th, 2009 di Angelo | Edit

Cinquant’anni fa, nel 1959…

Padre Leone

.

E in questo anno che Padre Leone viene trasferito a Padova. E’ ospite, con la comunità dei Padri Verbiti, in via San Massimo, presso i Padri Conventuali (in attesa della costruzione del nuovo collegio di via Forcellini, N. 172 che sarà prono nel 1961.

.

Di lui il Superiore Provinciale della Provincia Italiana, P. Francesco Sarego SVD, il 3 dicembre 1995, nel presentare il “PROFILO SPIRITUALE DI UNA GUIDA ILLUMINATA”, di D. Pietro Brazzale, così scriveva da Bolzano:

.

“La persona di P. Leone Habertroh è ancora ricordata da molte persone specialmente a Padova, dove egli ha operato per oltre 25 anni.

Questo lkavoro di DON Pietro Brazzale, Preside del Seminario Minore di Padova, vuole offrire una prima panoramica della personalità di P.Leone, come confessore, guida e come persona attenta ai movimenti dello Spirito.

.

Confidiamo che il progetto completo, di cui il presente “profilo” è solo una parte di una vera biografia, possa essere portato a termine al più presto.

Questo libro viene presentato nella ricorrenza del decimo anniversario della morte di P. LeoneL’augurio è che quanti lo hanno conosciuto possano incontrare di nuovo la sua persona, attraverso queste righe e per quanti leggendole lo incontreranno pewr la prima volta, di essere incoraggiati a scoprire la presenza di Dio, resa palese tra gli uomini attraverso quanti, come P. Leone, hanno cercato Lui e dedicato la loro vita nell’aiutare i fratelli a fare ugualmente.”

.

PREGHIERA per la sua glorificazione

.

O Dio che in modo eminente

hai concesso al Tuo Servo P. Leone Haberstroh

di vivere le virtù della mitezza, dell’umiltù e della carità

e il dono di dare pace a molti cuori,

concedi a noi di seguire il suo esempio

e per sua intercessione

donaci le grazie di cui abbiamo bisogno.

A gloria della SS. Trinità

e per la glorificazione del Tuo Servo.

.

Padre LEONE HABERSTROH:“amare, ecco la mia vita di cristiano”

.


L’8 gennaio 2006, nella circostanza del 20° anniversario della morte di padre Leone Haberstroh, sacerdote missionario verbita – nato a Mariazell (Germania) il 24 giugno 1905 -, alcuni
“amici” della serva di Dio Maria Bolognesi si sono recati a Padova per partecipare alla S. Messa, celebrata nella Chiesa del “Santo Spirito” non solo per fare memoria di questo sacerdote santo ed illuminato, ma anche e soprattutto per ringraziare il Signore di averci donato la gioia di un incontro con una guida spirituale che ha accompagnato, con la preghiera e con
il consiglio, la nostra Associazione fin dal suo “nascere”.


Infatti, nell’immaginetta con preghiera per la sua glorificazione, contenente brevi cenni biografici, si legge che Padre Leone, nel corso della sua vita “si distinse per le sue doti di penetrazione spirituale e di guida sicura ed illuminata e per le grandi virtù che dimostrò nella sua intensa vita interiore e nel più generoso servizio al prossimo”.


Desiderando consegnare ai lettori di Finestre Aperte alcuni pensieri tolti dai suoi scritti, ci soffermiamo con tenerezza su quello in cui è riportata la seguente espressione “hai voluto chiamarmi a collaborare con te”: va da sé che il concetto di “chiamata” si innesta in modo meraviglioso sull’intera esistenza di Maria Bolognesi, di cui abbiamo fatto memoria in tante altre pagine del Periodico.

.

  • “Voglio essere cosciente della mia missione:con te, Gesù, in Te, devo redimere il mondo,nella misura in cui prego, opero e soffro per amore.

  • Unito a Te nella carità,ma solidale col mondo, devo e voglio cooperare alla redenzione, e sempre coopero alla redenzione, se in me vive la carità di Dio, se io compio con amore la volontà del Padre, a Tuo esempio, Gesù, là dove Egli mi ha messo, ed accetto ciò che mi capita di duro, di penoso, di mortificante.


  • Quale grande missione! L’accetto e Ti benedico, chè hai voluto chiamarmi a collaborare con Te.


  • Amare, ecco la mia vita di cristiano. Amare così da assumere nel mio spirito l’angoscia e il dolore di tutti”.

.http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/wp-content/uploads/2009/08/domenico-di-bartolo-cura-e-governo-degli-infermi-particolare.jpg

Croce ed Eucaristia

Posted on Luglio 28th, 2009 di silvia

Con gioia ho incontrato P.Leo H. anche qui.

Avrei volentieri scritto nello spazio a lui dedicato. Non sapendo se possibile, propongo qui, una sua “testimonianza” a me moltocara e preziosa. E’ parte di una sua lettera a me indirizzata a suo tempo: ne ha copia don Brazzale, perciò credo di non mancare di discrezione ma solo di rendere onore aDio e a P.Leo.

Questa lettera rispecchia senza esaurirlo, il suo pensiero eucaristico.

Carissima sorella,

……………………..ora provi la tua totale impotenza. E fa bene sperimentarla così profondamente. Accetta questa prova.

Ma poi ti ricordi che accanto a te sta Uno, pronto ad aiutarti: il divin Liberatore. Tutti i giorni noi diciamo assieme a Gesù: ” Prendete, mangiate, questo è il mio corpo,…questo è il mio sangue.”

E noi, cosa offriamo noi, insieme con Gesù, nella Messa? E appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto, che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire al nostro ambiente, il nostro “corpo” cioè il tempo, le energie,l’attenzione, in una parola la vita?

Gesù, dopo aver pronunciato quelle parole, poche ore dopo, diede veramente il suo corpo e il suo sangue sulla croce.

Diversamente, tutto resta parola vuota, anzi menzogna. Bisogna dunque che, dopo aver detto ai fratelli: ” Prendete, mangiate” , noi ci lasciamo veramente “mangiare” e ci lasciamo mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza ed il garbo che ci aspetteremmo.

Ognuno di noi ha attorno a sè dei denti acuminatiche lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste e palesi, divergenze di vedute con chi ci sta attorno, diversità di carattere.Dovremmo essere perfino grati a quei fratelli o familiari che ci aiutano in questo modo; essi ci sono infinitamente più utili che non coloro che ci approvano e ci lusingano.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa. Prendete…mangiate…Una madre di famiglia celebra così la Messa e poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose, apparentemente è cosa da niente quello che fa , ma è una Eucaristia insieme con Gesù.

Grazie all’Eucaristia, non ci sono più vite, azioni “inutili”. Tutto serve per lo scopo più sublime che ci sia: per essere un sacrificio vivente, un’Eucaristia insieme con Gesù.

Se vedi la tua penosa situazione in questo senso, tutto diventa sopportabile.
Non cesso di pregare per te in questo senso. Augurandoti ogni bene e grazia, benedico te e i tuoi cari e ti saluto con fraterno affetto.

di P.Leone Habestroh Padova,16 Agosto 80 lettera a M. Silvia

Croce ed Eucaristia

Croce ed Eucaristia

Posted on Luglio 28th, 2009 di silvia | Edit

Con gioia ho incontrato P. Leo H. anche qui.

Avrei volentieri scritto nello spazio a lui dedicato.

Non sapendo se possibile, propongo qui, una sua

“testimonianza ” a me molto

cara e preziosa.E’ parte di una sua lettera a me

indirizzata a suo tempo: ne ha copia don

Brazzale, perciò credo di non mancare di

discrezione ma solo di rendere onore a

Dio e a P.Leo. Questa lettera rispecchia senza

esaurirlo, il suo pensiero eucaristico.

Carissima sorella,……………………..ora provi la tua totale impotenza. E fa bene sperimentarla così profondamente.

Accetta questa prova.

Ma poi ti ricordi che accanto a te sta Uno, pronto ad aiutarti: il divin Liberatore. Tutti i giorni noi diciamo assieme a Gesù: ” Prendete, mangiate, questo è il mio corpo,…questo è il mio sangue.”

E noi, cosa offriamo noi, insieme con Gesù, nella Messa? E appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto, che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire al nostro ambiente, il nostro “corpo”cioè il tempo, le energie,l’attenzione, in una parola la vita?
Gesù, dopo aver pronunciato quelle parole, poche ore dopo, diede veramente il suo corpo e il suo sangue sulla croce.

Diversamente, tutto resta parola vuota, anzi menzogna. Bisogna dunque che, dopo aver detto ai fratelli: ” Prendete, mangiate” , noi ci lasciamo veramente “mangiare” e ci lasciamo mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza ed il garbo che ci aspetteremmo.

Ognuno di noi ha attorno a sè dei denti acuminatiche lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste e palesi, divergenze di vedute con chi ci sta attorno, diversità di carattere.Dovremmo essere perfino grati a quei fratelli o familiari che ci aiutano in questo modo; essi ci sono infinitamente più utili che non coloro che ci approvano e ci lusingano.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa. Prendete…mangiate…Una madre di famiglia celebra così la Messa e poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose, apparentemente è cosa da niente quello che fa , ma è una Eucaristia insieme con Gesù.

Grazie all’Eucaristia, non ci sono più vite, azioni “inutili”. Tutto serve per lo scopo più sublime che ci sia: per essere un sacrificio vivente, un’Eucaristia insieme con Gesù.

Se vedi la tua penosa situazione in questo senso, tutto diventa sopportabile.
Non cesso di pregare per te in questo senso. Augurandoti ogni bene e grazia, benedico te e i tuoi cari e ti saluto con fraterno affetto.

di P.Leone Habestroh Padova,16 Agosto 80 lettera a M. Silvia

BROTHER RICHARD PAMPURI O.H. CANONIZED

http://compagniadeiglobulirossi.org/blog/wp-content/uploads/2008/11/san-riccardo-pampuri-medico-condotto.jpg

Posted on Marzo 13th, 2009di Angelo

ST. RICHARD PAMPURI O.H.

Brother Richard in religion, was the tenth of the eleven children of Innocenzo and Angela (nee Campari) Pampuri. He was born at Trivolzio (Pavia, Italy), on 12 August 1897 and was baptised the following day.

When he was three years of age his mother died and he was then taken into the home of his mother’s sister, at Torrino, a village near Trivolzio. In 1907 also his father is expired at Milan.

He went to two primary schools at nearby villages and then went to Milan where he attended a junior high school. He completed his high school studies as a boarder at Augustine’s College, Pavia, where after graduation, he enrolled in the Medical Faculty of Pavia University. Between the years 1915 and 1920, he was in the fighting zone of World War I.

He served firstly as a sergeant and later went into training as an officer in the Medical Corps. On 6 July 1921, he graduated top of his class in Medicine and Surgery at the above mentioned university. After a three years practical experience with this doctor uncle, and for a short time as temporary assistant in the medical practice at Vernate, he was appointed to the practice of Morimondo (Milan).

In 1922 he passed his internship with high honours at the Milan Institute of Obstetrics and Gynaecology. In 1923 he was registered at Pavia University as a General Practitioner of Medicine and Surgery.

Very soon his heart and mind began opening up to the Christian ideals of medicine and the apostolate. Even as a young boy he wanted to become a missionary priest, but was dissuaded from this on account of his delicate health.

From his youth he was always a shining example of Christian virtue everywhere he went. Whilst living in the midst of the world, he openly and consistently professed the Gospel message and practised works of charity with generosity and devotion.

He loved prayer and kept himself constantly in close union with God, even when he was kept very busy. He assiduously attended the Eucharistic table and spent long periods in profound adoration before the Tabernacle. He had a tremendous devotion to the Blessed Virgin Mary and prayed the Rosary often more than once a day.

He was an active and diligent member of Pavia University’s Severino Boezio Club for Catholic Action. He also belonged to the St. Vincent de Paul Society and the Third Orden of St. Francis. Since his boyhood he was involved in Catholic Action so when he arrived at Morimondo to practice medicine, he gave valuable assistance to the parish priest and helped him to set up a musical band and a Catholic Action Youth Club of which he was the first president. Both of these under the patronage of St. Pius X.

He was also secretary of the Parish Missionary Aid Society. He organised regular retreats for the Youth Club, farm labourers and local workers, at the Jesuit Fathers’ “Villa del Sacro Cuore” at Triuggio, generally paying their expenses.

He used to invite his colleagues and friends to come along as well. As well as being studious and competent in practising his profession, he was generous, charitable and very concerned for his patients. Throughout his practice he visited them both by day and night, never sparing himself no matter wherever they lived, even in places difficult to find. Since most of his patients were poor, he gave them medicines, money, food, clothing, and blankets. His charity extended to the poor rural workers and needy folk in and around Morimondo and even going further afield to other towns and districts.

When eventually he was to leave his practice in six years time, to become a religious, the grief at having lost the “holy doctor” was so greatly felt everywhere, that even the daily press took up the story. Dr. Pampuri joined the Hospitaller Order of St. John of God so as to follow the way of evangelical holiness more closely and at the same time to be able to carry on his medical profession so as to alleviate the suffering of his neighbour.

He joined the St. John of God Brothers at Milan on 22 June 1927. He did his novitiate year at Brescia and when it was over, made his profession of religious vows on 24 October 1928. He was then appointed Director of the dental clinic attached to the St. John of God Brothers’ Hospital at Brescia. This was mostly frequented by working people and the poor. Brother Richard untiringly gave himself fully to serving them with such wonderful charity that he was admired by all.

Throughout his life as a religious, Brother Richard was, as he had always been before he became a St. John of God Brother, a model of virtue and charity: to his Brothers in the Order, the patients, the doctors, the paramedics, the nurses, and all who came into contact with him. Everybody agreed upon his sanctity.

He suffered a fresh outbreak of pleurisy, which he first contracted during his military service, and this degenerated into specific bronco-pneumonia. On 18 April 1930 he was taken from Brescia to Milan, where he died in sanctity on 1 May at the age of 33 years: “leaving behind, the memory of a doctor who knew how to transform his own profession into a mission of charity; and a religious brother who reproduced within himself, the charism of a true son of St. John of God” (Decree of heroic virtue, 12 June 1978).

After his death, his reputation of sanctity which he demonstrated throughout his life, greatly expanded throughout Italy, Europe and the entire world. Many of the faithful received significant graces from God, even miraculous ones, through his intercession.

The two required miracles were accepted and he was beatified by His Holiness John Paul II on 4 October 1981. Later on, a miraculous healing through the intercession of Blessed Richard Pampuri, took place on 5 January 1982 at Alcadozo (Albacete, Spain). This was approved as a miracle and so, on the feast of All Saints, 1 November 1989, he was solemnly canonized.

“The brief, but intense life, of Brother Richard Pampuri is a stimulus for the entire People of God, but especially so for youth, doctors and religious brothers and sisters. He invites the youth of today, to live joyfully and courageously in the Christian faith; to always listen to the Word of God, generously follow the teachings of Christ’s message and give themselves to the service of others. He appeals to his colleagues, the doctors, to responsibly carry out their delicate art of healing; vivifying it with Christian, human and professional ideals, because theirs is a real mission of service to others, of fraternal charity and a real promotion of human life.

Brother Richard recommends to religious brothers and sisters, especially those who quietly and humbly go about their consecrated work in hospital wards and other centres, to hold fast to the original charism of their Institute in their lives, loving both God and their neighbour who is in need” (Johannes Paulus II – Homily, 4 October 1981).

St. Richard Pampuri’s body is conserved and venerated in the Parish Church of Trivolzio (Pavia, Italy). His feastday is celebrated on 1 May.

Fra Fortunatus Thanhäuser o.h. fondatore delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio

Posted on Marzo 15th, 2009 di Angelo |

Fra Fortunatus Thanhäuser o.h. fondatore

delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio

La settimana scorsa abbiamo ricevuto la notizia che lo stato di salute di fra Fortunatus Thanhäuser era definito critico; in seguito però siamo stati informati che stava meglio.

Oggi, 21 novembre, ci è giunta la notizia della sua morte. Così scrive fra Pascual Piles, Superiore Generale dell’Ordine. È il giorno della Presentazione al tempio della Vergine Maria. È il giorno in cui ricorrono i 69 anni della sua professione religiosa.

Il Signore ha voluto che, 69 anni dopo aver emesso la sua prima professione come Fatebenefratello, si presentasse in cielo, alla presenza di Dio, per udire da Lui stesso queste amorevoli parole: “vieni, entra nella dimora che già da tempo avevo preparato per te”.

Fra Fortunatus Thanhäuser apparteneva all’antica Provincia di Silesia, e successivamente a quella Renana. Attualmente era incardinato nella Provincia Indiana.

Fece parte del primo gruppo di confratelli che realizzarono la fondazione della nostra missione a Kattappana, in India, nell’anno 1970, ed è stato il fondatore delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio, sostenuto in modo particolare da fra Prakash, nel 1981.

Durante la sua vita, e soprattutto nel periodo in cui è stato missionario in India, è stato la testimonianza vivente di come dev’essere un grande religioso. Era molto identificato con la figura del nostro Fondatore, ed era vicino ai poveri e ai bisognosi, per i quali aveva una predilezione particolare,aiutandoli per quanto poteva, dimostrando una grande sensibilità per le persone sofferenti.

Semplice nei modi e nei gesti, era una persona di grande preghiera. Come proclamò Maria nella sua umiltà, possiamo affermare che il Signore ha fattoin lui grandi cose.

Il suo spirito rimarrà sempre vivo nel nostro Ordine, nella Provincia Indiana diSan Tommaso Apostolo, nella Congregazione delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio.

La sua morte ci addolora profondamente. Pur nel dolore, però, dobbiamo rendere grazie al Signore per la sua testimonianza di vita. Lo ricorderemo sempre e lo ricorderanno in modo particolare quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di vivere accanto a lui. Preghiamo per la sua anima. Che il Signore dia forza a tutti noi, e soprattutto accompagni e sostenga in questi momenti i Confratelli dell’India e le Suore della Carità di San Giovanni di Dio. Siamo certi che Fra Fortunatus si trovi già alla presenza del Signore Risorto.

La settimana scorsa abbiamo ricevuto la notizia che lo stato di salute di fra Fortunatus Thanhäuser era definito critico; in seguito però siamo stati informati che stava meglio.

Oggi, 21 novembre, ci è giunta la notizia della sua morte. Così scrive fra Pascual Piles, Superiore Generale dell’Ordine. È il giorno della Presentazione al tempio della Vergine Maria. È il giorno in cui ricorrono i 69 anni della sua professione religiosa.

Il Signore ha voluto che, 69 anni dopo aver emesso la sua prima professione come Fatebenefratello, si presentasse in cielo, alla presenza di Dio, per udire da Lui stesso queste amorevoli parole: “vieni, entra nella dimora che già da tempo avevo preparato per te”.

Fra Fortunatus Thanhäuser apparteneva all’antica Provincia di Silesia, e successivamente a quella Renana. Attualmente era incardinato nella Provincia Indiana.

Fece parte del primo gruppo di confratelli che realizzarono la fondazione della nostra missione a Kattappana, in India, nell’anno 1970, ed è stato il fondatore delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio, sostenuto in modo particolare da fra Prakash, nel 1981.

Durante la sua vita, e soprattutto nel periodo in cui è stato missionario in India, è stato la testimonianza vivente di come dev’essere un grande religioso. Era molto identificato con la figura del nostro Fondatore, ed era vicino ai poveri e ai bisognosi, per i quali aveva una predilezione particolare,

aiutandoli per quanto poteva, dimostrando una grande sensibilità per le persone sofferenti.

Semplice nei modi e nei gesti, era una persona di grande preghiera. Come proclamò Maria nella sua umiltà, possiamo affermare che il Signore ha fattoin lui grandi cose.

Il suo spirito rimarrà sempre vivo nel nostro Ordine, nella Provincia Indiana diSan Tommaso Apostolo, nella Congregazione delle Suore della Carità di San Giovanni di Dio.

La sua morte ci addolora profondamente. Pur nel dolore, però, dobbiamo rendere grazie al Signore per la sua testimonianza di vita. Lo ricorderemo sempre e lo ricorderanno in modo particolare quanti hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di vivere accanto a lui. Preghiamo per la sua anima. Che il Signore dia forza a tutti noi, e soprattutto accompagni e sostenga in questi momenti i Confratelli dell’India e le Suore della Carità di San Giovanni di Dio. Siamo certi che Fra Fortunatus si trovi già alla presenza del Signore Risorto.

Le Suore della Carità di San Giovanni di Dio, fondate in India da un nostro confratello tedesco: fra Fortunato, come noi Fatebenefratelli seguono lo spirito e la missione del nostro fondatore San Giovanni di Dio.

Domenica 12 giugno 2005 sono giunte nella residenza per anziani “San Carlo Borromeo” di Solbiate Comasco. Una nuova comunità che sostituisce le religiose di Nostra Signora degli Apostoli che circa un mese fa hanno concluso la loro collaborazione presso questo centro.

Le suore collaboreranno con la comunità religiosa nel servizio di ospitalità.

Nella Celebrazione Eucaristica alla presenza del nostro Padre Provinciale, degli ospiti, dei collaboratori, dei parenti e dei volontari, con la lettura in lingua inglese del saluto che San Giovanni di Dio usava nelle sue lettere, viene loro dato il benvenuto e sono state gioiosamente accolte da tutti i nostri ospiti.

Ad animare la Santa Messa era presente la corale di Caidate (Varese) che con i loro canti hanno dato un tono solenne a tutta la celebrazione. Un giorno grande, un giorno in cui dobbiamo ringraziare il Signore per aver mandatoin mezzo a noi queste suore che semineranno nel campo del Signore assistendo tutti gli ospiti di questo nostro centro.

Prima di terminare la celebrazione un ospite, a nome di tutta la comunità, ha offerto una pianta come segno di ringraziamento e di accoglienza, nonché di augurio per un cammino fruttuoso e ricco di speranza.

Suor Rosely, Consigliera Generale che ha accompagnato il gruppo di suore ha voluto ringraziare tutti noi per l’affetto e l’accoglienza che è stata loro riservata, leggendo un breve messaggio nella nostra lingua.

A noi non resta che sostenerle con la preghiera, ricordarle al nostro Padre Fondatore e affidarle a Dio e alla Vergine Maria, affinché possano essere portatrici di quel messaggio di Amore che Dio chiede ad ognuno di noi.

Visita Canonica delle Suore di San Giovanni di Dio

Suore della carità di San Giovanni di Dio - Visita Canonica

La Visita Canonica della Superiora Generale suor Rosy Joseph alla Comunità delle Suore di Carità di San Giovanni di Dio di Kattappana (Kerala-India), che operano nella
nostra casa di Solbiate si è svolta in ottemperanza alle delibere del loro ultimo Capitolo
Generale. Suor Rosy è arrivata il 20 marzo e si è fermata fino al 29, accompagnata da suor Santi della Comunità di Solbiate, la quale aveva emesso la Professione perpetua a Kattappana il 31 gennaio scorso.

A dire il vero la Visita Canonica era dedicata alle comunità presenti in Austria, Germania ed Italia ed era iniziata con una visita sui luoghi di San Giovanni di Dio a Granada. Arrivate in Italia a Solbiate i primi tre giorni sono stati impegnati con riunioni con le tre sorelle che formano la comunità: suor Lincy, superiora, suor Jees e suor Santi con la visita ai vari reparti della struttura.

Successivamente sfruttando la permanenza in Italia la Superiora Generale si è recata in diversi luoghi sia in pellegrinaggio che in visita turistica per vedere le bellezze naturali ed artistiche italiane.

Accompagnata sempre dal Priore della casa di Solbiate, fra Pierdamiani, ha visitato lanostra Curia Provincializia a Cernusco sul Naviglio con un breve ed interessante colloquio con il Superiore Provinciale fra Giampietro. La visita è continuata fino a Venezia per visitare, oltre alla città, l’Hospice del nostro ospedale e i suoi reparti di riabilitazione.

La visita è continuata anche con una tappa nel nostro ospedale Sacra Famiglia di Nazareth: nella foto vediamo l’incontro di suor Rosy Joseph con la comunità.

Serafino Acernozzi o.h.

Il SACERDOZIO illustrato da BENEDETTO XVI

Posted on Marzo 18th, 2009 di Angelo | Edit

Fra Roberto Varasi o.h.

Il SACERDOZIO illustrato da BENEDETTO XVI

Dal blog di De Magister un grande commento alla Lettera del Papa

Da leggere e meditare questo commento di Pietro De Marco apparso oggi sul Blog di Sandro Magister:

http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/2009/03/17/il-metodo-di-benedetto-xvi-pietro-de-marco-commenta-la-lettera-del-papa/


Viene richiamato fortemente, nell’articolo di De Marco, che:

Solo un uso politico del Concilio, non la sua dottrina, ha declassato sotto il pretesto della “rottura” conciliare, e respinto ai margini della vita cattolica, i secoli di vitale, autentica Tradizione cui i tradizionalisti cattolici si richiamano.


Come spesso abbiamo letto sul blog di fr Z., anche De Marco riprende il concetto di “contrappeso”. C’è bisogno di reintrodurre forme di stabilizzazione della dottrina, della liturgia, dell’esegesi biblica, che riportino molti cristiani (non certo la Chiesa Cattolica) nell’alveo di una Tradizione in continuo progresso, ma senza cesure o tentazioni di discontinuità. Chi ha ceduto a tali tentazioni dovrà, piano piano, riconoscerle e liberarsene, come ai tradizionalisti “congelati” si chiede di non pensare di poter rimanere al 1962:

La riabilitazione di stili, sensibilità e forme della storia cristiana intende agire come paradigma stabilizzatore delle derive centrifughe, della frammentazione soggettivistica, che operano non solo nelle sperimentazioni avanzate, ma anche nella pastorale corrente. La stabilizzazione esige, però, che quello che ho chiamato “uso politico” del Concilio divenga consapevole del proprio eccesso squilibrante, della propria parzialità; e ne tragga conseguenze autocritiche. Così l’obiettivo della riconciliazione nel seno della Chiesa diviene parte di un più ampio intervento medicinale per la Chiesa universale.


Un forte richiamo all’unità nella fede, pur nella tolleranza di espressioni diverse dell’unica fede. Sono invece intollerabili le espressioni diverse di fedi diverse. Questa sarebbe “rivoluzione”, un vero e proprio inconcepibile recidere le radici dell’albero che ci sostiene.

L’azione riformatrice del pontefice si conferma, dunque, rivolta contro una lettura ideologica e sostanzialmente “rivoluzionaria” del Concilio che è stata data da élite teologiche e pastoralistiche cattoliche ed è lentamente penetrata nei laicati parrocchiali. Slittamenti che hanno una preoccupante incidenza sulla fede. Si tratterà sempre, per Benedetto XVI, di assumere il rischio di indicare “opportune et importune” l’eccesso, quando dottrine e condotte oltrepassano soglie estreme di tollerabilità. In effetti lo spazio di tolleranza, implicito nella ricerca e nella condotta dialogica, ha i suoi confini teorici e pratici, richiesti dalla logica stessa del confronto aperto.


De Marco fa notare che ultraconservatori e ultraprogressisti condividono l’idea rivoluzionaria del Concilio. La differenza è la loro opposta valutazione. Ma entrambi gli schieramenti si sbagliano di grosso, soprattutto quando confondono le posizioni teologiche che stigmatizzano (soprattutto i lefebvriani fanno questo) con la dottrina del magistero della Chiesa, che sarebbe ormai irrimediabilemente compromesso:

Basti pensare che la non-accettazione del magistero del Concilio, o la più contingente disapprovazione degli atti ecumenici di Benedetto XVI, da parte dei membri della Fraternità, sono almeno simmetriche per gravità alle recezioni discontinuistiche del Concilio, quando esse si pongono come eversive della tradizione dei Concili antichi: ad esempio il serpeggiante anticalcedonismo delle scuole teologiche, o l’antagonismo alla cristologia dei Concili nel biblicismo cattolico riduzionista.


Riprendendo le note teorie di René Girard sul “capro espiatorio” e “la violenza che tenta di esorcizzare il male producendolo”, De Marco si spinge a sottolineare che questo comportamento non-cristiano si è spesso prodotto nel rinnegare il proprio passato, fino a trovare nei tradizionisti il capro espiatorio da eliminare, perchè continua a rammentare quel passato che si vuole estinguere:

La domanda provocatoria, elevata dai critici contro Joseph Ratzinger: “Ci dica il papa se dobbiamo ancora seguire il Concilio o ritornare alla Chiesa del passato”, è una conferma di questa “vittimizzazione” (nel senso di René Girard) del preconcilio e dei suoi difensori. Ma che i segni preferenziali per la selezione della vittima espiatoria siano il catechismo di Pio X o la messa tridentina, indica quanta falsa scienza sottende la violenza e il disprezzo di cui sono stati fatti oggetto i membri della Fraternità. Girard sostiene, infatti, che il meccanismo del capro espiatorio funziona come “una falsa scienza, una grande scoperta, una rivelazione”.


Infine De Marco invita a tener presente quale sia lo scopo finale di Papa Benedetto: confermare nella fede i fratelli. Non fede in un dio qualunque, ma nel Dio di Gesù Cristo, così come si è rivelato ed è stato consegnato alla Chiesa nella sua “intera storia dottrinale”. Non si può tollerare dunque una diluizione dei contenuti della fede cattolica. Chi dice che l’importante è “far del bene” e “amare tutti” senza badare a conoscere il vero Dio, sta invitando a tener presente solo metà del comandamento di Gesù: Ama Dio e Ama il prossimo (e per amare, si sa, bisogna prima conoscere). Il Cristianesimo non è una religione civile, è – invece – la fede nell’unico vero Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo:

Priorità suprema della Chiesa e del successore di Pietro è dunque “condurre gli uomini verso il Dio che parla nella Bibbia”, non un dio qualsiasi….Certo, non si vede a che serva “l’intera storia dottrinale” della Chiesa se, a coronamento di tutto, si risolvono l’assiduità con la Parola di Dio e la differenza cristiana in istanze di ordinaria moralità pubblica, buone a tutti gli usi, anche a contingente polemica politica. Basterebbe a costoro il residuo cristiano della religione civile di Rousseau, magari equivocata con il messaggio traente e rivoluzionario del Concilio.

Papa alla Congregazione del Clero:

Non c’è Chiesa senza sacerdoti,

non c’è sacerdote senza Chiesa

Riassumerei con il gioco di parole del titolo tutto il discorso, limpido e “monumentale” minicompendio di dottrina sul sacerdozio del Papa alla Plenaria di oggi della Congregazione del Clero: Non c’è Chiesa senza sacerdoti, e non c’è sacerdote senza Chiesa.

Chi prevede una chiesa secolarizzata e completamente laicale ha sbagliato il bersaglio, chiarisce Sua Santità: il sacerdote è indispensabile alla Chiesa. Il suo sacerdozio è una configurazione al sacerdozio di Cristo “essenzialmente” diversa rispetto al sacerdozio battesimale. La dottrina che già fu di Pio XII, ripresa dal Vaticano II in Lumen Gentium 10, viene ancora riproposta, perchè non se estingua la consapevolezza nel popolo di Dio. Senza sacerdote, niente eucaristia; senza eucaristia, niente Chiesa.
I preti non sono supplibili dai laici nel loro ministero essenziale. Il sacerdozio battesimale è certamente il più importate ai fini della salvezza: è il sacerdozio della vita, che configura ogni battezzato a Cristo sacerdote, che offre tutto se stesso al Padre sulla Croce. Ma per avere la forza di far questo nella vita di ciascun cristiano è necessaria la fontana di grazia che scaturisce dai sacramenti: per questo esiste il sacerdozio ministeriale. Appunto un ministero, un servizio: a servizio dei fratelli, perchè possano adempiere nella vita il Mistero di cui si sono precedentemente nutriti mangiando alla duplice mensa della Parola e del Pane eucaristico.
Ma il Papa completa il quadro: non c’è sacerdote senza riferimento e legame forte con la Chiesa. Nessun prete è padrone del messaggio che annuncia. E pur avendo la potestas sul corpo di Cristo vero e sull’annuncio evangelico, non può disporne a suo piacimento. La verità dottrinale va sempre tutelata e ribadita. Ministro, cioè servo. Servitore dei fratelli, ma servitore di Dio, suo portavoce, non suo sostituto.  ”Portare di Dio”, dunque, non di se stesso.
Tutta la Chiesa si esprime per bocca dei suoi sacerdoti, e per le mani dei sacerdoti tutta la Chiesa partecipa ancora, ogni giorno, del dono di Dio.
Commento con le parti in rosso questo splendido messaggio di Benedetto XVI:
Signori Cardinali,

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio!

Sono lieto di potervi accogliere in speciale Udienza alla vigilia della partenza per l’Africa, ove mi recherò per consegnare l’Instrumentum laboris della Seconda Assemblea Speciale del Sinodo per l’Africa, che si terrà qui a Roma nel prossimo ottobre. Ringrazio il Prefetto della Congregazione, il Signor Cardinale Cláudio Hummes, per le gentili espressioni con cui ha interpretato i comuni sentimenti, e ringrazio per la bella lettera che mi avete scritto. Con lui saluto tutti voi, Superiori, Officiali e Membri della Congregazione, con animo grato per tutto il lavoro che svolgete a servizio di un settore tanto importante della vita della Chiesa.

Il tema che avete scelto per questa Plenaria – «L’identità missionaria del presbitero nella Chiesa, quale dimensione intrinseca dell’esercizio dei tria munera» – consente alcune riflessioni per il lavoro di questi giorni e per i frutti abbondanti che certamente esso porterà. Se l’intera Chiesa è missionaria e se ogni cristiano, in forza del Battesimo e della Confermazione, quasi ex officio (cfr CCC, 1305) riceve il mandato di professare pubblicamente la fede, il sacerdozio ministeriale, anche da questo punto di vista, si distingue ontologicamente, e non solo per grado, dal sacerdozio battesimale, detto anche sacerdozio comune. [Papa Benedetto riprende la distinzione ormai classica, tra il sacerdozio di tutti i fedeli (mi raccomando, non il sacerdozio dei laici, che non esiste proprio). Tutti i battezzati sono configurati a Cristo sacerdote, ma la consacrazione ministeriale distingue alcuni fedeli in modo essenziale: rimane in essi il sacerdozio battesimale, e viene loro conferito, per il servizio della chiesa, il ministero sacerdotale, per il quale compiranno il sacrificio eucaristico.] Del primo, infatti, è costitutivo il mandato apostolico: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). Tale mandato non è, lo sappiamo, un semplice incarico affidato a collaboratori; le sue radici sono più profonde e vanno ricercate molto più lontano.

La dimensione missionaria del presbitero nasce dalla sua configurazione sacramentale a Cristo Capo: essa porta con sé, come conseguenza, un’adesione cordiale e totale a quella che la tradizione ecclesiale ha individuato come l’apostolica vivendi forma. Questa consiste nella partecipazione ad una “vita nuova” spiritualmente intesa, a quel “nuovo stile di vita” che è stato inaugurato dal Signore Gesù ed è stato fatto proprio dagli Apostoli [Il Papa dice: chi è apostolo, non ha solo la FUNZIONE dell'apostolo, ma deve risplendere con una vita conforme a quella di Cristo. Certamente il punto di riferimento è Paolo]. Per l’imposizione delle mani del Vescovo e la preghiera consacratoria della Chiesa, i candidati divengono uomini nuovi, divengono “presbiteri”. In questa luce appare chiaro come i tria munera siano prima un dono e solo conseguentemente un ufficio, prima una partecipazione ad una vita, e perciò una potestas [Il Papa riprende la terminologia teologica dei TRIA MUNERA sancita dal Vaticano II, e tanto invisa ai Lefebvriani che vorrebbero tornare a parlare solo della potestà d'ordine e della potestà di giurisdizione. No, dice il Papa, manteniamo quest lettura teologica del dato dottrinale, perchè essa mette meglio in luce il fatto che prima c'è il dono "munus" di Cristo alla sua Chiesa, e "solo conseguentemente" questo si concretizza in un ufficio, prima sono un partecipare alla vita divina di Cristo, solo dopo - e il Papa non lo nega - sono un'esercizio di sacra potestas. Anche la giurisdizione è dono di Cristo, non è un elemento sociologico per l'andamento della Società-Chiesa]. Certamente, la grande tradizione ecclesiale ha giustamente svincolato l’efficacia sacramentale dalla concreta situazione esistenziale del singolo sacerdote, e così le legittime attese dei fedeli sono adeguatamente salvaguardate. Ma questa giusta precisazione dottrinale nulla toglie alla necessaria, anzi indispensabile, tensione verso la perfezione morale, che deve abitare ogni cuore autenticamente sacerdotale.[Qui il Papa dice: è vero che un prete mascalzone consacra validamente, ma quanto è meglio per il popolo di Dio avere un prete santo! Non bisogna fare la teologia del sacerdozio sul caso limite, altrimenti ci si fossilizza sui discorsi di validità e liceità, senza volare in alto anche con la spiritualità sacerdotale].

Proprio per favorire questa tensione dei sacerdoti verso la perfezione spirituale dalla quale soprattutto dipende l’efficacia del loro ministero, ho deciso di indire uno speciale “Anno Sacerdotale”, che andrà dal 19 giugno prossimo fino al 19 giugno 2010. Ricorre infatti il 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, vero esempio di Pastore a servizio del gregge di Cristo. Sarà cura della vostra Congregazione, d’intesa con gli Ordinari diocesani e con i Superiori degli Istituti religiosi, promuovere e coordinare le varie iniziative spirituali e pastorali che appariranno utili a far percepire sempre più l’importanza del ruolo e della missione del sacerdote nella Chiesa e nella società contemporanea.

La missione del presbitero, come evidenzia il tema della plenaria, si svolge «nella Chiesa». Una tale dimensione ecclesiale, comunionale, gerarchica e dottrinale è assolutamente indispensabile ad ogni autentica missione e, sola, ne garantisce la spirituale efficacia.[Ecco il secondo tema. Il sacerdote nella e per la Chiesa: la comunione ecclesiale, gerarchia e dottrinale: sono i legami che fin dall'inizio caratterizzano la Chiesa cattolica. Il Triplice legame della stessa fede, degli stessi sacramenti e dei legittimi pastori.]

I quattro aspetti menzionati devono essere sempre riconosciuti come intimamente correlati: la missione è “ecclesiale” perché nessuno annuncia o porta se stesso, ma dentro ed attraverso la propria umanità ogni sacerdote deve essere ben consapevole di portare un Altro, Dio stesso, al mondo [contro il personalismo e le innovazioni individuali che spaccano la comunione]. Dio è la sola ricchezza che, in definitiva, gli uomini desiderano trovare in un sacerdote. La missione è “comunionale”, perché si svolge in un’unità e comunione che solo secondariamente ha anche aspetti rilevanti di visibilità sociale. [Come scrivevo qualche post fa: La chiesa è mistero di Comunione che si rende visibile in una dimensione sociale comunitaria. Non si può ribaltare questo ordine dei fattori] Questi, d’altra parte, derivano essenzialmente da quell’intimità divina della quale il sacerdote è chiamato ad essere esperto, per poter condurre, con umiltà e fiducia, le anime a lui affidate al medesimo incontro con il Signore. Infine le dimensioni “gerarchica” e “dottrinale” suggeriscono di ribadire l’importanza della disciplina (il termine si collega con “discepolo”) ecclesiastica e della formazione dottrinale, e non solo teologica, iniziale e permanente [Un passaggio splendido! Disciplina, cari sacerdoti, vuol dire essere discepolo, e perciò avere sempre un maestro (senza voler mettersi al suo posto). Per questo finito il seminario non si archivia la formazione. E non solo quella "teologica", dice il papa teologo, ma quella "dottrinale". Cioè è importate sapere come intepretare il dato di fede, ma è più importante essere certi del dato di fede in quanto tale].
La consapevolezza dei radicali cambiamenti sociali degli ultimi decenni deve muovere le migliori energie ecclesiali a curare la formazione dei candidati al ministero. In particolare, deve stimolare la costante sollecitudine dei Pastori verso i loro primi collaboratori, sia coltivando relazioni umane veramente paterne, sia preoccupandosi della loro formazione permanente, soprattutto sotto il profilo dottrinale e spirituale [Traduzione: Cari vescovi, siate padri veri per i vostri presbiteri, vogliate bene a questi vostri collaboratori di cui avete bisogno. Preoccupatevi anche della loro ortodossia e della loro vita spitituale, non solo dei conti delle parrocchie o di evitare scandali quando ormai le frittate sono fatte. Metodo preventivo salesiano anche con i preti]. La missione ha le sue radici in special modo in una buona formazione, sviluppata in comunione con l’ininterrotta Tradizione ecclesiale, senza cesure né tentazioni di discontinuità [Non c'è bisogno di commento: niente cesure, niente tentazioni di discontinuità. Più chiaro di così. Adesso nessuno venga a dire che l'ermeneutica della continuità è un'invenzione e che il Papa non la appoggia e non la diffonde]. In tal senso, è importante favorire nei sacerdoti, soprattutto nelle giovani generazioni, una corretta ricezione dei testi del Concilio Ecumenico Vaticano II ["Corretta ricezione", cioè interpretazione autentica, di che cosa? dei "TESTI" non dello SPIRITO del Vaticano II], interpretati alla luce di tutto il bagaglio dottrinale della Chiesa.
Urgente appare anche il recupero di quella consapevolezza che spinge i sacerdoti ad essere presenti, identificabili e riconoscibili sia per il giudizio di fede, sia per le virtù personali sia anche per l’abito, negli ambiti della cultura e della carità, da sempre al cuore della missione della Chiesa [Qui il papa, contrariamente a quello che titoleranno i giornaloni, non sta solo dicendo: "preti mettetevi la talare". Sta dicendo: "siate presenti nella società, siate visibili, udibili, non sparite dalle scuole, dalle università, dai luoghi dove si elabora la cultura e l'attività sociale-caritativa: ma siate sempre riconoscibili, non mascherati da altro che da voi stessi: sempre sacerdoti prima di tutto. Ai laici il compito regale di animare le realtà terrene, cosa in cui essi e solo essi eccellono. Ai sacerdoti il compito di animare e formare per queste realtà santi laici e di essere sempre per loro visibili e riconoscibili richiami al Cristo stesso].

Come Chiesa e come sacerdoti annunciamo Gesù di Nazaret Signore e Cristo, crocifisso e risorto, Sovrano del tempo e della storia, nella lieta certezza che tale verità coincide con le attese più profonde del cuore umano. Nel mistero dell’incarnazione del Verbo, nel fatto cioè che Dio si è fatto uomo come noi, sta sia il contenuto che il metodo dell’annuncio cristiano. La missione ha qui il suo vero centro propulsore: in Gesù Cristo, appunto. La centralità di Cristo porta con sé la giusta valorizzazione del sacerdozio ministeriale, senza il quale non ci sarebbe né l’Eucaristia, né, tanto meno, la missione e la stessa Chiesa. In tal senso è necessario vigilare affinché le “nuove strutture” od organizzazioni pastorali non siano pensate per un tempo nel quale si dovrebbe “fare a meno” del ministero ordinato, partendo da un’erronea interpretazione della giusta promozione dei laici, perché in tal caso si porrebbero i presupposti per l’ulteriore diluizione del sacerdozio ministeriale e le eventuali presunte “soluzioni” verrebbero drammaticamente a coincidere con le reali cause delle problematiche contemporanee legate al ministero. [La botta finale: Nessuno si illuda o pensi che un domani si possa organizzare la Chiesa senza la figura ministeriale del prete, o riducendolo a "consacratore di ostie". No, il prete rimane figura di Cristo capo della Chiesa, deve predicare, celebrare e annunciare il Vangelo. Il ministero di un sacerdote non può essere supplito se non da un altro sacerdote. Senza che questo sia una dimuzione del laico. Anzi, la vera promozione è la complementarietà tra laici e chierici; il servizio insostituibile dei sacerdoti a tutti i fedeli non è potere, ma appunto ineliminabile ministero.]

Sono certo che in questi giorni il lavoro dell’Assemblea plenaria, sotto il protezione della Mater Ecclesiae, potrà approfondire questi brevi spunti che mi permetto di sottoporre all’attenzione dei Signori Cardinali e degli Arcivescovi e Vescovi, invocando su tutti la copiosa abbondanza dei doni celesti, in pegno dei quali imparto a voi e alle persone a voi care una speciale, affettuosa Benedizione Apostolica.

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