VITA DA LAICI “CHRISTIFIDELES” – Fatebenefratelli – A cura di Angulo

Posted on Aprile 7th, 2009 di Angelo |

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I religiosi eletti nel LXVI Capirolo Generale alla guida dell’Ordine F.B.F.

REVISIONE DEGLI STATUTI GENERALI

Madrid, Mercoledì 3 settembre 2008

Il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine, celebrato a Roma nell’ottobre 2006, ha approvato la proposta di creare una commissione per la revisione degli Statuti Generali e dei punti delle Costituzioni che ne conseguono.

Fra Jesús Etayo, Consigliere Generale, ha presentato la prima stesura della revisione degli Statuti, frutto del lavoro della commissione istituita nel 2007, un tema che sarà affrontato in tutte le Conferenze Regionali. Ha poi illustrato i criteri seguiti per il lavoro che ha portato alla stesura del documento, e che tra gli altri sono stati: gli Statuti devono raccogliere norme generali, aperte e universali, che devono essere verificate e basate su fonti proprie e della Chiesa, i Collaboratori come parte integrante della famiglia ospedaliera, specialmente per quanto si riferisce alla missione dell’Ordine, la dimensione universale dell’Ordine, l’esperienza di altri istituti, la partecipazione dei Confratelli e l’incorporazione dei nostri documenti più recenti, come la Carta d’Identità, il libro sulla Spiritualità, le Dichiarazioni dei Capitoli Generali, il Progetto Formativo dei Fatebenefratelli e lo studio sullo Stato della Formazione nell’Ordine.

Ha poi continuato con la struttura degli Statuti, che si compone di un’introduzione e sei capitoli: Consacrazione, Collaboratori, Comunità, Formazione, Governo e Fedeltà alla nostra vocazione ospedaliera. Ha concluso con la spiegazione dei cambiamenti proposti e il lavoro di gruppo per l’esame e gli apporti del caso.

Il pomeriggio è stato dedicato ad una visita turistica alla città di Madrid, che dista circa 60 chilometri da Los Molinos, e la giornata si è conclusa con una cena tipica e uno spettacolo di musica e di flamenco.

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I Christifideles Laici, come ora vengono chiamati i batezzati che non sono nè sacerdoti , nè religiosi, vivono da duemila anni  nella posizione equivoca di chi ha la consapevolezzasa di non essere “né carne né pesce”.

Le ragioni storiche sono infinite, ma il passaggio ad una nuova consapevolezza non è né facile né imminente per il perdurare di pregiudizi, presenti a tutti i livelli e superabili solo attraverso la frequentazione reciproca e la mediazione della Parola di Dio.

Quello di seguito non è altro che una raccolta di punti di riflessione che andrebbero portati avanti INSIEME: RELIGIOSI E LAICI.

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SPUNTI DI REVISIONE

STATUTI F.B.F. GENERALI 2008

PREMESSA

Il libretto degli  “Statuti Generali” è uno dei tanti che, forse letto per intero appena uscito o magari anche solo sbirciato, finisce in uno scaffale e vi resta per anni, nuovo di zecca.  Il fatto che non interessi più di tanto, deve celare una ragione che qui si vorrebbe smascherare: forse un certo modo di dire cose importanti ma con distacco burocratico. Se gli Statuti appaiono un codice di norme più che una lettera d’amore che, di tanto in tanto,  si riprende volentieri in mano perché parla l’Amato ed è coinvolgente e passionale, l’interesse ovviamente vien meno.

Il nostro Santo Padre Agostino, Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa,  in una preghiera , come del resto anche nella Regola, ci ricorda il movente gioioso della sequela: “Signore, rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come schiavi sotto una legge, ma come uomini liberi guidati dalla grazia”.

Questo lavoro è stato costruito  a più mani e chi ne è interessato e lo condivide, non ha che da sottoscriverlo. Che, se altri hanno fatto di meglio, saremo i primi a scartare questa proposta e ad aderirvi gioiosamente, perché grande è il Signore.

In un primo momento si era tentato di rispondere punto per punto alla Bozza Statuti Generali 2008, come da istruzioni. Ma subito ci si è resi conto che i ritocchi avrebbero solo guastato la Bozza che ha una sua logica e regge su uno schema di fondo. Le varianti avrebbero finito per stravolgere più che migliorare il documento.  Ed è proprio su tale impostazione che è subito nato il disaccordo. Disaccordo che non è tanto nelle norme dettagliate su una questione o su un’altra, di carattere squisitamente giuridico-regolamentare,  ma sull’impostazione di fondo, la stessa della precedente edizione.

Dopo ripetute letture, la convinzione maturata è che i nuovi Statuti nascono vecchi e non si adeguano sufficientemente all’evolversi rapido delle situazioni. Le ragioni sono molteplici  ma le maggiori criticità si notano proprio in quel “processo di collaborazione e di integrazione istituzionale con i laici “che, partendo da   equivoci di fondo, è solo generatore di contraddizioni e difficoltà applicative.

Sull’identità dei laici bisogna fare chiarezza e non bisogna emarginarli. Per farlo, non mancano i pretesti, non sempre infondati: non sono preparati, hanno una debolezza d’identità vocazionale, ecc… Fosse davvero così, sarebbe un motivo in più per concentrare gli sforzi onde promuovere concretamente la loro maturazione. Mantenere lo status quo, significa rinunciare al mandato che ci affida la Chiesa, voce dello Spirito Santo. Le  generiche buone intenzioni non bastano. Approvare uno Statuto che non si sa fino a che punto sia condiviso da religiosi e laici – almeno nella Provincia Lombardo-Veneta -  e, successivamente, renderlo esecutivo, è quanto di meno auspicabile, in un contesto dai sensibilissimi nervi scoperti. Se dovesse accadere, rispecchierebbe una mentalità che stenta a morire: quella di calare le cose dall’alto, senza farle maturare a livello di base. In altre parole: la regola nasce a tavolino. Ad altri tocca viverla e realizzarla. Si è già verificato mille volte e non funziona.

A 20 anni dal Convegno di Brescia “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE”, momento indubbiamente Pentecostale, s’è perso il gusto di guardare il mondo, le persone, la vita, il lavoro, il denaro, la missione, l’impegno culturale e politico, ossia la Dottrina sociale della Chiesa, che è un guardare la realtà con lo sguardo di Cristo, alla luce del Vangelo. Il “dialogo” pluridirezionale sembra essersi spento e il fuoco, se la legna è umida, non s’accende.

Partendo da questa premessa, si è ritenuto di suggerire pochi punti chiave, da ribadire in premessa, perché ritenuti fondamentali e determinati il seguito. Essi hanno uno scopo propedeutico ed una intrinseca forza pedagogica propositiva che viene dalla Parola, la sola capace di suscitare le novità dello Spirito, la fantasia della carità e di riscaldare il cuore di noi discepoli, per certi versi, molto simile a quello dei due avviliti di Emmaus.

Pertanto, se le Commissioni lo riterranno, non avranno che da schematizzare le parti sviluppate, focalizzando i punti che contraddistinguono questo lavoro, incompleto per ragioni di tempo, ma sufficientemente indicativo dal punto di vista metodologico:

1. L’Introduzione… che parte con la benedizione di San Giovanni di Dio e l’invocazione della Trinità Santissima per il dono della saggezza.

2. Le pagine bibliche dimenticate

3. Dove sono, Signore? …L’interrogativo di  Giacobbe e di Giovanni di Dio, due smarriti in un tempo che assomiglia al nostro.

4. La strada…

5. Il Tempo -  Kairòs, il tempo favorevole

6. Il Volto nei volti…

7. La Grazia

8. Lo Spirito di Verità

9. I Laici Christifideles…   con particolare riguardo alla donna.

10.

ARGOMENTI CHE DOVREBBERO FIGURARE NEGLI STATUTI

La Chiesa del Concilio Vaticano II indica tre grandi prospettive vocazionali per l’unica missione:

1. la ministerialità dei laici cristiani, i quali, pur coscienti dell’indole secolare della propria missione sono disposti alla testimonianza del servizio nella Chiesa;

2. la ministerialità dei consacrati, chiamati al carisma di una “vita-segno” del Cristo vergine, povero, obbediente e accogliente;

3. la ministerialità dei presbiteri, “ripresentazione sacramentale” del Cristo pastore e capo della sua Chiesa, nonché la ministerialità dei diaconi permanenti, coniugati compresi, segni della pluriforme diaconia di Cristo.

Ne consegue che, sia l’Ordine che la Provincia, devono assumere dei connotati ben visibili:

4.     Una Provincia in ascolto, che colloca la Parola al centro della sua programmazione. L’ascolto si tramuta in servizio: “Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore” (D. Bonhoeffer).

E’ un’amara constatazione: davanti al Testo Sacro si può restare inerti e muti o per indifferenza o per impreparazione.

In questo modo tante potenzialità contenute nelle Scritture, che sarebbero di speranza per il contesto in cui operiamo, rimangono inesplorate e improduttive. Questo è un buon motivo per incoraggiare ad acculturarsi. Qui, a tal proposito, va inserito il paragrafo 8 della Dei Verbum.

5. Una Provincia che si colloca in stato di missione per promuovere le menzionate tre prospettive vocazionali. I diaconato permanente di laici coniugati sono una possibilità da prendere in seria considerazione. Lo stesso dicasi per l’”ordo virginum”, tornato in auge dopo il concilio e da incrementare collaborando con il Vescovo nella Chiesa locale. Sono ministeri che possono avere una ricaduta benefica sui Centri di assistenza.

6. Un osservatorio Provinciale “caritas” permanente, in contatto con le caritas delle diocesi dove si è presenti. E’ lì che si percepisce il polso della Chiesa locale we del Territorio: l’ emarginazione, il disagio psichico, i malati che vivono a domicilio nell’anonimato…

7. Un “Sinodo” decennale della Provincia, syn (che significa: insieme),  odòs (che significa: cammino), potrebbe essere un modo per sentirsi Chiesa viva, in stato di missione. Un tale organismo, farebbe capire  immediatamente che il sinodo è un evento che ha il preciso scopo di permettere una partecipazione ampia di tutte le componenti della Famiglia Ospedaliera con le componenti ecclesiali e sociali dei  territori interessati. Attraverso il Sinodo, cioè, il “cammino percorso insieme”,  si potrebbe dar vita ad uno “Statuto Provinciale” che si  ispiri a quello dell’Ordine ma lo adegui alle realtà locali. Un modo di partecipazione plenaria statuitaria, periodica e prestabilita, (possibilmente subito dopo il Convegno Ecclesiale Nazionale CEI), per verificare lo stato di salute della Comunità Terapeutica e del rapporto Chiesa locale -Territorio.

8. Il genio poliforme della donna: dimensione interiore e linguaggio della tenerezza. Una ricchezza enorme di cui dispone la Provincia e che magari non sa apprezzare a sufficienza. La donna, come Maria a Cana – bisogna scriverlo negli Statuti – restando talora nelle retrovie del silenzio, può sdrammatizzare scontri, tessere comunione, aiutare le persone a superare i guadi del disagio, illuminare decisioni più avvedute. La donna consacrata non è da meno: essa sa disegnare una sorprendente geografia della carità. Più ore di presenza di suore nei centri, più fermento della pasta, più carità in espansione. Facciamo parlare le donne consacrate. Quelle preparate a farlo non mancano.

9. Aprire a sacerdoti, religiosi e laici esterni: sono queste le forze capaci di contagio evangelico e di sostegno nel momento di debolezza diffusa che sperimentiamo. Noi siamo Chiesa ma la Chiesa è anche per noi. E  dobbiamo umilmente lasciarci soccorrere e curare nel momento della fragilità.

10. Apprendere e sviluppare la mentalità di una nuova “Economia di Comunione”. Discorso difficile ma che va iniziato perché il mondo è già su un’altra rotta.

11. Contatto mensile con i Centri per mezzo di una “équipe” volante che si sposta, fornisce linee per un sentire comune nella Provincia, crea comunione,  raccoglie le criticità locali, mantiene i contatti e stimola all’unità in una gioiosa carità.

…. Ecc…

STATUTI GENERALI ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO

BOZZA STATUTI 2008

INTRODUZIONE

Siamo un Istituto di fratelli approvato dalla Chiesa come un Ordine Religioso per vivere e testimoniare il carisma dell’ospitalità. La nostra missione consiste nel manifestare la misericordia di Dio mediante il servizio ai poveri, ai malati e ai bisognosi.. Esistiamo per continuare l’opera iniziata da San Giovanni di Dio a Granada in Spagna nel sedicesimo secolo. La nostra identità di fratelli consacrati nell’ospitalità ci impegna ad incoraggiare, favorire e creare legami di fraternità con tutti coloro che desidera unirsi a noi per condividere la nostra spiritualità, il carisma e/o la missione come volontari, professionisti e benefattori.

NUOVA PROPOSTA 2008

INTRODUZIONE

Questo  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

Criterio abbandonato

INSIEME PER SERVIRE

INTRODUZIONE

Questo  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

La tentazione ricorrente nella vita consacrata postconciliare è quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme una lista  di impegni, di propositi o elencare dei campi in cui metterci ad operare, dimenticando che la domanda vera cui tentare una risposta è un’altra: a quali condizioni c’è per la vita consacrata  un futuro carico d’eternità.

“…voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!

A queste sollecitazioni della Chiesa, segue un incoraggiamento  da raccogliere:

Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (Vita consacrata.110)

L’impegno post conciliare dev’essere coronato e rafforzato da un nuovo impeto (13). Ma se la rivitalizzazione passa attraverso l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei Fondatori (37), l’audacia e la creatività scaturiscono dalla familiarità con la pagina evangelica, molto pragmatica:

Gesù disse loro anche questa parabola: “Nessuno strappa un pezzo di stoffa da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio, altrimenti si trova con il vestito nuovo rovinato, mentre il pezzo preso dal vestito nuovo non si adatta al vestito vecchio.

E nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino li fa scoppiare: così il vino esce fuori e gli otri vanno perduti. Invece, per vino nuovo ci vogliono otri nuovi. Chi beve vino vecchio non vuole vino nuovo. Dice infatti: quello vecchio è migliore“. (Lc 5, 36-39)

Se il Concilio Vaticano II è nuova Pentecoste venuta a ravvivare lo spirito, la nostra presa di coscienza è di sentirci coinvolti  ora  nel ricreare  generosamente strutture, metodi e prospettiva affinché il punto di convergenza sia lo Spirito. Se le strutture in cui operiamo non sono carismatiche, evangelizzatrici, fraterne, semplici, comunicative, chiare, trasparenti…vuol dire che, al di là delle buone intenzioni e della generosità personale, esiste qualcosa che non va.

San Giovanni di Dio a parte, nel passato abbiamo avuto singolari figure di innovatori. Due per tutte:

  • il Padre Alfieri, per lunghi anni Priore Generale dell’Ordine,

  • San Benedetto Menni, restauratore e fondatore.

Dai loro scritti e dalla loro esperienza dobbiamo attingere l’ardore “paolino” che li ha animati: Guai a me se non evangelizzo (1 Cor 9,16).

La rivitalizzazione di un orto passa attraverso due fasi principali:

  • la bonifica del terreno

  • la semina

Se è vero che  le strutture si rinnovano attraverso architetti ed ingegneri, a noi vengono chiesti sapienza,vigilanza e discernimento:

“Se uno di voi decide di costruire una casa, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori. Altrimenti, se getta le fondamenta e non è in grado di portare a termine i lavori, la gente vedrà e comincerà a ridere di lui e dirà: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non è stato capace di portare a termine i lavori”.
“Facciamo un altro caso: se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila, non vi pare?2Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace. (Lc 14, 28-32)

A rinnovare le persone è la semina:

  • la riscoperta personale della Bibbia (quotidiana lectio divina),

  • la vicinanza diretta, fisica,  ai poveri ed ai malati,

  • il ritorno costante alle fonti dell’Ordine,

  • l’apertura mentale che avviene con la fatica dello studio ed il contatto con le scuole del sapere umano e teologico,

  • il contatto con la Chiesa locale, i suoi giovani, i suoi malati (il frate che porta l’eucaristia a domicilio),

  • la presenza nell’Università

  • la promozione del Centro di ascolto e di condivisione (caritas)

LE PAGINE DIMENTICATE

In quel tempo Gesù disse: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Gesù si rivolge al fariseo che l’aveva accolto in casa e lo esorta ad invitare, le prossime volte, coloro che non possono dargli una ricompensa. Ancora una volta rovescia completamente le regole abituali di questo mondo.

Alla cura meticolosa con cui si scelgono gli invitati di riguardo, Gesù contrappone la larghezza e la generosità nell’invitare coloro che non possono ricambiare, ed elenca poveri, ciechi, storpi e zoppi. Tutti costoro erano esclusi, ma Gesù li rende partecipi del banchetto che si deve preparare.

È una concezione nuova dei rapporti tra gli uomini che Gesù stesso vive per primo: le nostre relazioni vanno fondate non sulla reciprocità ma sulla totale gratuità, sull’amore unilaterale, appunto com’è l’amore di Dio che abbraccia tutti e particolarmente i poveri.

E la felicità, contrariamente a quanto si pensa ordinariamente, sta proprio nell’allargare il banchetto della vita a tutti gli esclusi senza pretendere una ricompensa. La ricompensa vera, infatti, è poter lavorare per questo.

Peraltro, solo in questa prospettiva si costruisce un mondo su basi solide e pacifiche. L’allargarsi della distanza tra chi sta alla tavola della vita e chi ne è escluso, mina alle radici la pace tra i popoli. Il messaggio del Vangelo è esattamente il contrario. Ma è un’altruità che salva il mondo dal cadere nel baratro della violenza.

Siccome molta gente andava con Gesù, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.

Gesù, dopo una lunga sosta nella casa di uno dei capi dei farisei, riprende il cammino verso Gerusalemme. Molta folla lo segue, nota l’evangelista. L’entusiasmo di quelli che lo seguono è davvero sorprendente. Ed è comprensibile: come restare affascinati da un uomo così buono che cercava in ogni modo di consolare e di confortare tutti e particolarmente chi aveva problemi e bisogno di guarigione?

Gesù, di fronte a questa folla che gli andava dietro, sente però l’esigenza di chiarire cosa significa seguirlo, cosa significa essere suo discepolo.

Ne ha già parlato precedentemente quando ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso” (9,23). Tornarci sopra sta a dire l’importanza che egli attribuisce alla scelta della sequela. Gesù chiede un legame esclusivo con lui, più forte di quello che si ha con la propria famiglia.

L’evangelista Luca fa un lungo elenco di persone che non debbono essere amate più di lui. Può suonare strano l’elenco. Ma è assolutamente chiaro che la scelta di seguire Gesù viene prima di ogni affetto e di ogni affare. E’ la scelta più alta che l’uomo è chiamato a compiere.

Ed è in tale contesto che va compresa la parola “odiare”, ossia non preferire nessun altro.

La scelta di seguire Gesù in maniera così radicale comporta evidentemente tagli e divisioni da fare, a partire dall’interno del cuore di ciascuno. L’amore esclusivo per Gesù è il fondamento della vita del discepolo.

Se non c’è questo amore, che si esprime appunto nel seguirlo, nell’ascoltarlo, nel mettere in pratica il Vangelo, è come costruire una torre (la vita) senza fondamenta o come andare in battaglia senza un esercito adeguato. L’amore per Gesù è la sostanza del Vangelo ed è anche ciò che i discepoli debbono testimoniare al mondo. Questo amore è il sale della vita.

DOVE SONO, SIGNORE?

Per un certo verso, Giacobbe e Giovanni di Dio si assomigliano. Entrambi sono dei viandanti sbandati,  hanno vissuto una situazione di smarrimento e di inquietudine, senza più riferimenti certi sui quali fondare il proprio cammino nella vita. Entrambi sono un po’ il simbolo dell’uomo fuggiasco, che non sa dove va e si smarrisce nell’oscurità della notte. Ma che Dio alla fine sottrae all’abbandono ed accompagna verso il destino che ha loro preparato.

Racconta il Libro della Genesi che “10Giacobbe partì da Bersabea e si avviò verso Carran. Capitò in un posto dove passò la notte perché il sole era già tramontato. Li prese una pietra, se la pose sotto il capo come guanciale e si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e  scendevano angeli di Dio. Il Signore gli stava  dinanzi e gli diceva:

“Io sono il Signore,
il Dio di Abramo e di Isacco.
La terra sulla quale sei coricato,
la darò a te e ai tuoi discendenti:
14essi saranno innumerevoli,
come i granelli di polvere della terra.
Si estenderanno ovunque:
a oriente e a occidente,
a settentrione e a mezzogiorno;
e per mezzo tuo e dei tuoi discendenti
io benedirò tutti i popoli della terra.
15Io sono con te,
ti proteggerò dovunque andrai,
poi ti ricondurrò in questa terra.
Non ti abbandonerò:
compirò tutto quel che ti ho promesso”.


16Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”.

17Fu preso da spavento e disse: “Quant’è terribile questo luogo! Questa è certamente fa casa di Dio! Questa è la porta del cielo!”.

E’ da questa consapevolezza  della presenza di Dio – non astratta ma concreta e personale – che deve iniziare anche il cammino dell’uomo che cerca Dio, sia esso consacrato o fedele laico, e che da Dio è già cercato.

Dio cerca per chiamare a sé, e questa chiamata è per tutti, indipendentemente da quello che uno è, da quello che uno fa, da dove uno viene.

Spesso, tuttavia, non ci si rende conto per che cosa si è chiamati, e – come i discepoli sulla barca che pescano tutta la notte “senza prendere nulla” (Gv 21,3) – si sperimenta l’amarezza della delusione e del fallimento, che tuttavia non è vana perché serve come salutare purificazione per capire, proprio attraverso l’insuccesso, che si è chiamati a qualcosa di più grande.

Come Giovanni di Dio, anche Giacobbe

  • non ha la protezione della madre,

  • ha dovuto abbandonare il padre senza poterlo nemmeno salutare,

  • è stato costretto a sottrarsi a tutte le sue coordinate visibili,

  • la sua situazione morale non è a posto,

  • il peccato gli rimorde la coscienza.

  • Finanziariamente ha perso tutto e cerca scampo senza poter contare sul denaro.

Persi i tre riferimenti che per la Bibbia  sono costitutivi dell’uomo:

  • Dio,

  • la famiglia,

  • le amicizie, la terra e il lavoro,

quasi un maledetto da Dio, si ritrova con la domanda bruciante nel cuore: dove sono? Quale sarà il mio avvenire?

  • l simboli: > il sogno di Giacobbe; > “Granada sarà la tua croce” –

  • la promessa: la discendenza, le nazioni…

  • il risveglio: “Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”. (Gen 28,16).  Giovani di Dio: “Lo farò io un ospedale come lo voglio io!”

C’è la presa di coscienza, che per Giovanni all’Eremo dei Martiri, poi la scoperta straordinaria di chi si vede al centro delle coordinate di Dio e reinterpreta tutta la sua vita – l’essere solo in viaggio, ramingo e povero – ed in fine la luce che mette chiarezza nei pensieri e coraggio nell’azione.

Entrambi, Giacobbe e Giovanni di Dio, assumono una nuova umanità , una missione, un impegno di cammino che affronteranno fiduciosamente. Due testimoni che ci fanno scuola

LA STRADA

L’inizio del cammino.

Prima di mettersi in viaggio è fondamentale conoscere due cose:

  • la meta,

  • l’itinerario.

Gli Statuti Generali intendono rispondere a questa esigenza. Dovendo talora attraversare zone desertiche, è sconsigliabile procedere senza mappa, la guida, la bussola. Siamo eredi di una storia che inizia con il Libro della Genesi e termina con le parole dell’Apocalisse: Maràn Athà

Dove c’è l’assunzione piena e completa di una “passione per Dio e di una passione per l’uomo” del nostro tempo lì c’è “vita consacrata”.

Se l’espressione è comunemente intesa come una scelta nel seguire il Signore attraverso una “vocazione di particolare consacrazione a Lui”, essa non può essere più limitata alla vita religiosa strettamente intesa, ma pensando anche a tutte quelle forme di vita che vivono in maniera totale e radicale il discepolato del Signore nei vari ambiti ecclesiali. Dunque, “vita consacrata” si ha nel presbiterato come nella vita religiosa; nella vita monastica come in quella missionaria; o in tutte quelle particolari forme di consacrazione laicale, nelle quali il Sì al Signore è totale, pur esplicandosi in ambiti di vita anche diversificati, rispetto alle più conosciute e classiche forme della vita religiosa.

Il Signore apre tante “strade” all’uomo. Il cantore di questa topografia divina è il secondo Isaia che, proponendo un messaggio in un momento storicamente travagliato agli uomini del suo tempo, finisce per indicare anche a noi la strada: “Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa“. (Is 43,19) “Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore, li guiderò a fresche sorgenti” (Is 49, 10-11).

Il Profeta mette in guardia anche dalla troppo facile confusione tra le scelte e i cammini umani e i sentieri di Dio: “Cercate il Signore, ora che si fa trovare. Chiamatelo, adesso che è vicino. Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità; chi è perverso rinunci alla sua malvagità! Tornate tutti al Signore ed egli avrà pietà di voi! Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza! Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).

Chiamati a sperimentare la profezia, se il nostro padre Abramo è per eccellenza l’uomo di fede che percorre le strade che Dio gli indica (Gn 12, 1-5), in San Giovanni di Dio, nostro fondatore, scorgiamo il discepolo del Signore che ci ha preceduti nella testimonianza della sequela. La sua esistenza così movimentata ed apparentemente inconcludente, evidenzia come come tutti gli itinerari umani possono essere strade del Signore se percorsi con Gesù che è la “via” (Gv 14,6) e esperienze mortificanti, come ad Emmaus, quando il Signore è recepito come un passante qualsiasi col quale sfogare le proprie frustrazioni e delusioni.

Già negli Atti degli Apostoli il cristianesimo stesso è qualificato come la “via” (At 9,2; 18,25; 24,25). Ciò significa allora che noi, consacrati o donne e uomini Christifideles laici, nella misura in cui siamo discepoli autentici del missionario di Granada perché attratti dal suo esempio e desiderosi di continuare l’opera da lui iniziata, siamo in realtà discepoli del Maestro Divino, Via che porta alla Verità, generatrice di Vita Eterna.

Il Padre dei poveri ha sperimentato la missione attraverso la via dell’ospitalità, la stessa percorsa da Abramo, da numerosi servi del Signore e, in modo mirabile dalla Vergine Maria, la “sempre intatta”.

Ed è nel suo incontro con Elisabetta, proprio perché si sente accolta dalla sua parente e avverte di essere capita nel suo intimo segreto, cioè nella sua maternità per opera dello Spirito Santo, che prorompe nel canto di gioia. Un inno che, se esalta l’opera di Dio nella storia della salvezza, è anche profezia. Stranamente la Madre di Dio, usa una serie di verbi al passato: “Grandi cose ha fatto l’Onnipotente, ha spiegato la potenza del suo braccio, ha rovesciato i potenti, ha disperso i superbi, ha innalzato gli umili, ha soccorso Israele”. Come può la Benedetta pronunciare queste parole quando ha appena cominciato a sperimentare la grandezza di Dio in lei? Se ancora molti superbi non sono stati dispersi, né potenti sono stati rovesciati dai troni, né affamati sono stati ricolmati di beni e Gesù stesso non ha ancora proclamato beati i poveri, su che cosa si fonda questa incrollabile certezza?

Maria non esita a proclamare eventi che in parte si devono ancora verificare perché mettendosi dalla parte di Dio, nella certezza della sua fede, vede già il compimento delle promesse messianiche. Infatti l’Apostolo Paolo scriverà alla comunità degli ebrei che la fede è un possedere già le cose che si sperano (Eb 11),

La piena di Grazia Maria pone anche noi, chiamati a realizzare la profezia, sulle orme di un “già e non ancora” che ci coinvolge nella dimensione del Regno.

Paolo, apostolo non per chiamata diretta ma per vocazione come noi, quando scrive ai fratelli Ebrei, è memore del comando del Signore:

Andate…annunciate…guarite…”(Mt. 10, 1-ss).

Nel vangelo di Matteo si legge che “1Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze.

Fra le istruzioni che il Signore ha dato a coloro che considera “sale e luce del mondo“, c’è questa:

7Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. 8Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.

9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Perché l’operaio ha diritto di ricevere quel che gli è necessario.”

Le raccomandazioni che Paolo rivolge ai fratelli cristiani di origine ebraica che si lasciavano prendere dalla nostalgia per il culto fastoso del tempio di Gerusalemme ed erano tentati di disertare le assemblee cristiane per ritornare all’ebraismo, rivolge un caldo invito alla perseveranza nella fede e nella vita cristiana. Esse rappresentano la traccia anche per le Fraternità di accoglienza che siamo chiamati a costruire nel mondo:

Continuate a volervi bene, come fratelli. Non dimenticate di ospitare volentieri chi viene da voi. Ci furono alcuni che, facendo così, senza saperlo ospitarono degl’angeli. Ricordatevi di quelli che sono in prigione, come se foste anche voi prigionieri con loro. Ricordate quelli che sono maltrattati, perché anche voi siete esseri umani”. (Eb 13,1,3).

L’Apostolo, nella medesima lettera, che dovrebbe essere parte integrante di questi Statuti, eco dello spirito di cui era animato San Giovanni di Dio, ai viandanti di oggi, servitori del Vangelo, aggiunge ancora alcune raccomandazioni importanti. Se a coloro che sono coniugati, pur essi mandati per la missione, egli rivolge un particolare monito: “Il matrimonio sia rispettato da tutti, e gli sposi siano fedeli (Eb 13, 4-8), a tutti, indistintamente, richiama la fedeltà di Dio:

La vostra vita non sia dominata dal desiderio dei soldi. Contentatevi di quel che avete, perché Dio stesso ha detto nella Bibbia:

Non ti lascerò,
no“5n ti abbandonerò mai.
6E così anche noi possiamo dire con piena fiducia: Il Signore viene in mio aiuto,
non avrò paura.
Che cosa mi possono fare gli uomini?

7Ricordatevi di quelli che vi hanno guidati e vi hanno annunziato la parola di Dio. Pensate come sono vissuti e come sono morti, e imitate la loro fede. 8Gesù Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre. 9Non lasciatevi ingannare da dottrine diverse e strane. È bene che il nostro cuore sia fortificato dalla grazia di Dio e non da regole a proposito dei vari cibi: chi ubbidisce a quelle parole non ne ha mai avuto un vantaggio”.

Paolo suggerisce a tutti di vivere in stato di provvisorietà e lo motiva così:14Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire. 15Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio – come sacrificio – le nostre preghiere di lode, il frutto delle nostre labbra che cantano il suo nome.
16Non dimenticate di fare il bene e di mettere in comune ciò che avete. Perché sono questi i sacrifici che piacciono al Signore.
17Ubbidite a quelli che dirigono la comunità e siate sottomessi. Perché essi vegliano su di voi, come persone che dovranno rendere conto a Dio. Fate in modo che compiano il loro dovere con gioia; altrimenti lo faranno malvolentieri e non sarebbe un vantaggio nemmeno per voi.

IL TEMPO

Questo è il Kairòs di Dio, il tempo opportuno, favorevole, che ci è stato accordato. Non siamo chiamati ad esprimere un giudizio severo e distaccato sul mondo della salute ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della Parola di Dio, il calore della carità e la testimonianza della sua misericordia: “Il signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sal 34,19).

Questo è anche il tempo dell’attenzione di Maria, come a Cana: “non hanno più vino” (Gv 2,1-5).

Siamo chiamati a imitarla nel suo atteggiamento davanti al messaggero celeste, portavoce dello Spirito: ascolta, si scuote, interroga, si domanda.

A noi oggi è chiesto un atteggiamento dialogico, semplice, istintivo e insieme delicato, attento, perfettamente proporzionato alla situazione di un mondo nuovo, imprevisto, inedito.

Negativo sarebbe il passare dalla paura alla rigidità, alla pretesa di prove dall’alto, quasi non bastassero il numero di santi che ci sono stati inviati negli ultimi tempi.

Ma a farci del male potrebbe contribuire anche un eccessivo e sconsiderato ottimismo che banalizza i problemi e  minimizza le priorità da intraprendere.

Il distacco di Maria, attento e discreto, le permette di vedere ciò che nessuno di fatto vede e cioè che il vino  è terminato.

Maria è modello di attenzione al momento umano dell’esistenza, è attenta alle situazioni, alle persone e alle cose. Sono gli atteggiamenti che deve tenere chi è chiamato a portare il Vangelo in un mondo che cambia.

I VOLTO NEI VOLTI

Come cristiani ed a maggior ragione, come consacrati, siamo chiamati a rivivere la Passione di Cristo, nella nostra carne e nella nostra sofferenza personale, alla quale rimanda anche San Giovanni di Dio in una sua lettera alla Duchessa di Sessa:

Quando vi trovate angustiata, ricorrete alla Passione di Gesù Cristo nostro Signore e alle sue preziose Piaghe, e sentirete grande consolazione; considerate tutta la sua vita: che cosa è stata se non fatiche, per darci l’esempio?…”(I lett. 10)

Se nel mistero e nel simbolo eucaristico la Chiesa rivive la Passione di Cristo, nel mistero pasquale entra nel dolore infinito del Crocifisso Risorto per l’uomo peccatore, in quella solidarietà che Gesù ha pagato a caro prezzo.

  • · E’ la sola capace di offrire parole credibili di conversione e di riconciliazione;

  • · la sola capace di calarsi nelle situazioni più aberranti dell’esistenza.

  • · E’ solidarietà che non dice semplicemente parole formali o esteriori bensì testimonia la comunione obbediente, pur se sofferta, con Dio e un a profonda solidarietà con le più terribili sofferenze umane.

  • · La più atroce delle sofferenze è quella del peccato, cioè della solitudine dell’uomo che si sente abbandonato da Dio perché ha tolto gli occhi da lui.

La contemplazione del Volto dolente del Signore del Venerdì Santo, ci mette in atteggiamento di Chiesa che non è atterrita e sommersa dalle miserie del genere umano perché sa che la croce di Cristo, posta al centro della liturgia e della vita, è capace di prendere su di sé tutto il dramma, il dolore, il peccato dei volti sfigurati dell’uomo.

E’ nella croce di Gesù che Dio stesso ci assicura che neppure la morte può fermare il suo amore e che non c’è situazione umana, per quanto drammatica e opaca, che possa rimanere estranea all’immenso abbraccio della croce. Del resto, questa è la stessa promessa di Gesù: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)

Oggi la Passione di Cristo passa per le case di una moltitudine che soffre:

  • · del disoccupato, di chi pensa all’avvenire con crescente timore,

  • · del sequestrato atteso con ansia e afflizione,

  • · della vittima di una violenza assurda e spietata.

  • · Ma passa anche per le case degli anziani, spremuti delle loro energie e messi da parte, in solitudine, che sono in troppi a lamentare.

  • · Passa per le case di coloro che attendono giustizia senza riuscire ad ottenerla,

  • · di quanti, per un qualunque motivo, hanno dovuto, abbandonare una patria senza riuscire a trovarne una nuovo o a sentirsi accolti, persone che forse non hanno neppure una casa e stanno magari vicino a noi.

Il mistero della croce si rinnova in tutti coloro che si sentono esclusi e che la società fa sentire tali. A cominciare dai sofferenti psichici.

Accanto all’irrefrenabile ondata del marcato disagio psichico giovanile ed accanto agli handicappati, esistono coloro a cui vengono indicate vie d’uscita che sono soluzioni di morte: drogati, disadattati, carcerati che, anche nei luoghi che dovrebbero essere di espiazione ma pure di redenzione, rimangono vittime di un clima di violenza che in passato hanno o possono aver contribuito a creare.

Questa Passione e questa sofferenza passa, infine, per il cuore dei molti che pensano inutile la loro fedeltà ed incompreso e vano il sacrificio al dovere quotidiano e che di questo dovere cadono vittime.

Le Fraternità dei discepoli di Giovanni di Dio, sparse in ogni latitudine, potrebbero estendere l’elenco dei disagi che affliggono donne e uomini del nostro tempo.

Se la passione del Signore insegna ad accorgersi di chi soffre ed a soccorrerlo, sprona a credere che possiamo anche essere annunciatori dell’alba del giorno di Pasqua. Il sapere che Cristo non vuole avere oggi altre mani che le nostre per farsi carico dei fratelli, fa di noi non solo dei samaritani ma anche dei profeti anonimi, come Isaia, donne e uomini che possiedono uno spirito nuovo e sono chiamati a dire parole nuove perché

4Dio, il Signore mi ha insegnato
le parole adatte
per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara
ad ascoltarlo,
come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna
ad ascoltarlo,

e io non gli resisto
né mi tiro indietro.

6 Ho offerto la schiena
a chi mi batteva,
la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto
agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi,
perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto,
rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso.
(Is 9, 4-7).

La sofferenza del messaggero è quella che salva il popolo. La Buona Notizia che siamo chiamati a diffondere, ossia che “per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53-5), non ci fa esitare perché ci riporta alla profezia del Magnificat: pur nell’apparente smentita della storia, mettendoci dalla parte di Dio, nella certezza della fede, come a Maria, ci è dato vede già il compimento.

IL CUORE

“Adamo, dove sei?”, dove sei finito?, si domanda sbalordito Dio di fronte alla condizione di morte in cui l’uomo è caduto col peccato.
E’ necessario partire da qui per capire l’iniziativa di salvezza che Dio attua per l’umanità; iniziando proprio da Maria, quale alba e primizia di un ricupero a quella dignità e destino che Lui stesso, Dio, si era proposto nel creare ogni uomo.

Maria diviene allora la pagina biblica – scritta in una vita non a parole – nella quale leggere con speranza la nostra stessa vicenda di uomini redenti; cioè rileggere la proposta di Dio e la nostra risposta.

1) KECARITOMÈNE, PIENA DI GRAZIA Quando l’angelo Gabriele giunge a Nazaret in casa di Maria, non la chiama per nome, ma “kecaritomène“, cioè “piena di grazia”, CARA A DIO, oggetto d’un amore personale, termine di un dono speciale. Il nome proprio di Maria davanti a Dio è:

  • “tutto mio dono – kecaritoméne”.

  • Ma anche tu allora, o uomo, chiunque tu sia, sei “kecaritomene”, sei CARO A DIO,

  • sei uscito dal suo cuore prima che dal ventre di tua madre,

  • sei amato da Lui “come se fossi l’unico” (sant’Agostino).

Benedetto sia Dio – esclama san Paolo – Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo“.

Una benedizione che si concretizza in un progetto preciso: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo“. Anzi, “in lui siamo stati fatti anche eredi, perché fossimo a lode della sua gloria“.

Perché proprio questa è la soddisfazione più grande di Dio: averci partecipi di casa sua.
L’uomo stranamente schifa questo dono col dire di no a Dio:

  • Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”; hai forse pensato di fare a meno di Me?

  • Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto“.

Quando si perde un padre, si trova un padrone: la padrona del mondo che è la morte, regalo del principe di questo mondo che è satana. -”Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe“; una drammatica lotta tra satana e l’umanità sconvolgerà tutta la storia dell’uomo: “tu le insidierai il calcagno”.

Anche se le prospettive alla fine sono positive: “essa ti schiaccerà la testa“, l’umanità ne uscirà vittoriosa!


Nel più autentico frutto della stirpe umana, in Cristo, questa battaglia si farà vittoriosa; l’uomo sarà liberato dal peccato, dal male e dalla morte; sarà reso capace di resistere a satana per riconciliarsi con Dio; riavrà fiducia in Dio e ancora la partecipazione alla natura divina. Per la prima volta proprio in Maria l’uomo si sente – gratuitamente, per pura misericordia – chiamato ancora “kecaritoméne”, mio amato figlio, mio perdonato figlio, mia pecora smarrita che sono venuto a cercare, mio figlio prodigo che sono pronto a riaccogliere in casa con più festa di prima!

Anche di Maria oggi è detto, come verità di fede, che è piena di grazia perché “preservata dal peccato ante previsa merita, cioè in previsione della croce di Cristo“. Immacolata non per merito suo, ma perché per prima – e per esprimere in modo vistoso la gratuità offerta poi a tutti – è stata preservata fin dal primo istante della sua vita, cioè dal concepimento, dall’onda del male (concepita immacolata, immacolata concezione).

In Maria leggiamo l’assoluta generosità e ospitalità di Dio che gioca sempre d’anticipo, prima cioè d’ogni nostro merito, d’ogni nostra stessa domanda. Dio ama sempre a credito.

2) IO SONO LA SERVA DEL SIGNORE

Prima di partire da lei, l’angelo Gabriele raccoglie un SI’ che è condizione decisiva per l’opera restauratrice di Dio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Alla gratuità del dono di Dio, Maria risponde con il SI’ della FEDE.

Da “kecaritoméne” Maria diviene “credente”: “Beata te che hai creduto” (Lc 1,45), la chiamerà subito dopo la cugina Elisabetta.

L’altra grandezza di Maria sta proprio nella sua risposta totale a Dio; dirà di lei sant’Agostino che “Maria è più grande per essere stata discepola di Gesù che non per essere sua madre“. Del resto un giorno Gesù disse così: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27).

Ogni dono di Dio richiede una riconquista. “Il Signore che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Dio stima troppo la nostra libertà, perché ci possa dare una salvezza senza la nostra collaborazione. Maria ha percorso il suo cammino di fede fino ai piedi della croce. A dire che anche la nostra fede si deve tradurre in opere quotidiane, in scelte coerenti, e in obbedienza d’amore a Dio, fatta anche di prove.

E’ un SI’ faticoso da esprimere a Dio, dopo il no che diciamo nel peccato. E’ quello che noi chiamiamo: santificazione. Maria è immacolata anche perché non ha mai detto di no a Dio.
Divenendo così il nostro modello e la nostra garanzia.

Una creatura, corrispondendo pienamente al dono di Dio, ha realizzato in pieno il superamento del male e della morte. Questa è la formula vincente, questa è la partenza per ogni riforma della nostra storia di uomini inficiata di egoismo e divisione. “Dio ci ha scelti – dice Paolo – prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità“: immacolati perché diciamo di sì al Signore vivendo come Lui l’amore.

NATALE: AUGURI SCOMODI – Autori diversi

DON TONINO BELLO – AGNESE GINOCCHIO – DON ANDREA GALLO & Company: Auguri scomodi

Posted on Gennaio 5th, 2009 di Angelo | Edit

gesu_bambino.jpgAuguri scomodi  di Buon Natale di Pace e di Speranza

dalla redazione ed amministrazione tutta del portale di “Alto Casertano-Matesino & d“. Sperando di fare cosa gradita,  desideriamo dedicare ed inviare i nostri Auguri a tutti gli amici e ai lettori che ci seguono da vicino e lontano, in modo particolare ai nostri connazionali all’estero, attraverso alcuni  significativi  scritti da meditare fino in fondo, che spiegano il reale significato del Natale. Il primo riguarda quello di un grande profeta di Pace: don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta e Presidente di “Pax Christi-Italia”. Il secondo é quello di Impegno per la Pace inviato dalla nostra contarranea Ambasciatrice di Pace Agnese Ginocchio. Il terzo, ovvero l’appello per un Natale più solidale, con particolare attenzione alle problematiche del nostro territorio, in particolare sul fenomeno poco conosciuto (e che andrebbe approfondito) del randagismo nel nostro comprensorio matesino & d…

(di don Tonino Bello)

Non obbedirei mai al mio dovere di vescovo, se vi dicessi «Buon Natale» senza darvi disturbo.

Io invece, vi voglio infastidire. Non posso, infatti, sopportare l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla «routine» di calendario.

Tanti auguri scomodi, allora! Gesù che nasce per amore, vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali.

E vi conceda la forza di inventarvi un’esistenza carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio.

Il bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità ad uno sfrattato, a un povero marocchino, a un povero di passaggio.

Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la carriera diventa l’idolo della vostra vita; il sorpasso progetto dei vostri giorni; la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate.

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla ove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che lo sterco degli uomini o il bidone della spazzatura o l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa.

Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi tutte le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi cortocircuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro.

Gli Angeli che annunciano la pace portino guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che, poco più lontano di una spanna con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfrutta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano i popoli allo sterminio della fame.

I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’ indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere «una gran luce» dovete partire dagli ultimi.

  • Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili.
  • Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura ma non scaldano.
  • Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative.

I pastori che vegliano nella notte, «facendo la guardia al gregge» scrutando l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino un desiderio profondo di vivere poveri: che poi è l’unico modo per morire ricchi. Sul nostro vecchio mondo che muore nasca la speranza!!!

(Dagli scritti di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, Presidente di Pax Christi Italia)

Leggi articolo correlato 1:

Auguri di un Natale scomodo e non rassegnato

(di Agnese Ginocchio)

Carissimo Amico e Amica della Pace, Auguro a Te, come a tutti i tuoi cari, un Natale scomodo e non rassegnato!

Quello di continuare ad essere ‘ Voce’ per chi non ha voce.

  • / Un Natale Solidale, che sappia riscaldare i cuori di tanti uomini afflitti dai mille problemi, che vivono nel degrado, nell’abbandono, nell’emarginazione e nella miseria.
  • / Un Natale che partendo dalla scena del presepe dell’Amore, sappia rilanciare il messaggio della Speranza e della condivisione fra gli uomini!  La Speranza di cambiamento poi, non venga meno, anche di fronte ai muri, alle sconfitte, alle omertà, alle ingiurie e alle sofferenze della vita!
  • / Solo la Speranza, attraverso strade nuove e imprevedibili,  può restituirci forza, il vigore e la buona volontà di non rassegnarci,
  • / ma di continuare a lottare per un sogno di Pace, di Giustizia e di Libertà da cui prende origine, forza e significato la vita stessa.
  • /  Si lotti e si faccia ogni sforzo per realizzare un mondo diverso, più equo, più solidale e più vivibile, ben lungi da ogni logica di potere, di mafia e profitto. L’ Augurio a non dimenticare mai di guardare con due occhi: uno al vicino e uno al lontano.
  • / Il Dio della Pace, che nasce tra l’ indifferenza dei potenti della terra, per primo ci ha dato l’ esempio:/ Egli, da Re che era si è annichilito, abbassato, fino a chinarsi su di noi e sulle miserie dell’umanità, / assumendo la nostra condizione umana nei panni di un infante / bambino, linguaggio disarmante dell’Amore.

  • / Egli, ‘Grande Re della Pace’ , compassionevole delle miserie dell’ umanità,
  • / non ha mai dimenticato di volgere il suo occhio al lontano,
  • / per questo è venuto sulla terra: per riportare Pace ai cuori erranti,
  • / restituire Speranza, liberare l’uomo dalla schiavitù,
  • / sollevare il povero dalla polvere,
  • / rinvigorire l’animo dello sfiduciato,  riportare ordine e sicurezza.
  • / Egli, ‘Grande Re della Pace’ ci ha annunciato tramite la ‘Voce’ dei suoi Messaggeri (profeti ) di Pace,
  • / il lieto annuncio della Speranza.
  • / Coraggio dunque, Coraggio !!!
  • /  Non rassegnatevi di fronte ai lutti, alle sconfitte, alle lotte di camorra che seminano panico nelle nostre città del sud,
  • / ed ancora di fronte alle infinite guerre, alle violazioni dei diritti umani, ai danni ambientali, alle ingiustizie, alle mafie, alle oppressioni,
  • / ma ABBIATE FORZA di andare avanti e di continuare il cammino.
  • / Bisogna lottare tenacemente e trovare la forza di mettersi insieme per vincere ogni intimidazione, ogni ricatto di origine mafioso, ogni paura.
  • /Il male si vince con la forza disarmante del bene cioè: l’Amore.
  • / Non siete soli!
  • / Non rassegnatevi dunque e non rassegniamoci!
  • / Nel comune cammino di Pace lottiamo per restituire il vero volto all’ umanità  deturpata dal male della violenza e dalla radice velenosa del potere, causa di ogni male,
  • / affinché a ogni uomo ed al nostro sud sia restituita dignità, diritto, libertà, sicurezza, e giustizia!
  • /  Carissimi Compagni di strada, a Voi é affidato questo Augurio ’scomodo’ di Pace,
  • / perché presto si avveri quel Sogno di Pace e di Giustizia senza confini, che parte dal messaggio del Natale.
  • / Possa dunque questo Natale globalizzare la Solidarietà, mettere radici profonde e trasformare radicalmente la nostra società.
  • / Regni allora Amore e Nonviolenza, Dialogo e Amicizia, Perdono e Riconciliazione fra gli uomini.
  • / Risuoni il Canto della Speranza, affinché vinca la vita e la Pace.
  • / Auguri di Buon Natale di Pace e di Liberazione.
  • / Un Natale di Solidarietà che lenisca le ferite delle membra doloranti dell’ umanità sofferente in cammino,  dell’ umanità sola, emarginata e sfiduciata, dell’ umanità che abbiamo accanto:
  • / povero, indifeso, senza tetto, immigrato, disabile, clandestino, emarginato, mendicante,
  • / barbone abbandonato nel degrado sociale e nella tristezza della propria misera condizione.
  • / Pace e Giustizia si avvererà quando avremo la forza di metterci in movimento,
  • / di impegnarci e di lavorare insieme per restituire Speranza, Diritto e Dignità a tutti gli uomini,
  • / proprio a tutti, nessuno escluso.
  • / E’ a questo ‘Disegno’ che noi Uomini e Donne di Pace di questa terra, siamo stati chiamati,
  • / per rendere vivo e concreto il messaggio del Natale.
  • / Buon Natale dunque e buon anno 2009 di rinascita , di Speranza e di cambiamento.
  • /  Giustizia, Diritti e Liberazione da ogni schiavitù, da ogni mafia e guerra,
  • / nel segno profetico dell’ Arcobaleno, simbolo dei ponti che uniscono uomini e nazioni, e che infine uniscono la terra al Cielo!
  • / Seminiamo la Speranza e nascerà la Pace! Pace, Pace e Pace, ieri, oggi, sempre e ovunque Pace!
  • / Auguri ‘Scomodi e Non rassegnati’ di Buon Natale 2008 e Buon 2009 di Speranza, Pace, Solidarietà, di Impegno e  di Giustizia  senza confini e senza barriere…! Shalom, Salaam, Amani, Peace, Mir, Pax, Paz, Pace…

Agnese Ginocchio, cantautrice ed Ambasciatrice Internazionale  per la Pace (Movimento Internazionale per la Pace e la Salvaguardia del Creato. Movimento Internazionale Ambasciatori per la Pace).

www.agneseginocchio.it

Pubblicato da red. prov. “Alto Casertano-Matesino & d”

Omelia di Natale di don Andrea Gallo(nella foto),

direttore della Comunità di recupero di San Benedetto al Porto di Genova. (Per gentile concessione del giornalista di PeaceReporter  Stefano Ferrario)

Ecco qui che penso che possiamo dire stasera…che siamo anche molto numerosi è proprio che Dio che ama…questo amore cosmico che inonda tutti…Per me il compito come tanti anni e dopo tanti anni di riflettere con voi sui testi che abbiamo qui.

Quest’anno i politici lasciamoli un po’ perdere…proprio non meritano granché insomma! Fermiamoci un po’ prima di tutto al Vangelo. Il primo nome che viene, guardate voi, in questo racconto così semplice, è niente meno che il nome dell’imperatore. Viene anche citato.

Questa storia assomiglia poi alla storia che si è distesa lungo i secoli a noi e che è messa in correlazione con l’episodio che è proprio all’inizio, all’opposto….: cosa potete pensare di più lontano dal palazzo dell’imperatore, dal palazzo del potere, che è una mangiatoia in una stalla fuori città! dove una coppia di pellegrini, Maria e Giuseppe, per i quali non c’è posto in città, si rifugia….e dove avviene il parto? L’atto più semplice con cui la specie umana pensava a se stessa, provvede alla propria continuazione… (nella foto 2 a sx: Don Andrea Gallo, la testimonial della Pace Agnese Ginocchio e padre Giorgio Poletti missionario comboniano di CastelVolturno, in una manifestazione a Genova , anno 2003: “Permessi di Soggiorno in nome di Dio” per i diritti dei fratelli immigrati) dove avviene questo parto?

In una mangiatoia! Abbandonata, tra l’altro… Quindi il bambino neonato Gesù in una mangiatoia.

E’ la storia a quota zero…è l’anti-storia… a mio avviso è quello che succede ancora all’inizio del terzo millennio nel caso di milioni di casupole e baracche disseminate nel mondo.

C’era qui padre Zanotelli. E fino, mi ricordo, ai tempi del G8, diceva: il 20%, per farsi comprendere lui dopo tanti anni in Africa, adesso sta da quattro anni al quartiere della Sanità di Napoli. Fino a qualche anno fa diceva: il 20% si pappa l’80% delle risorse… l’ho sentito a Firenze, due domeniche fa, e diceva che adesso è l’11% di abitanti di questa terra si pappa….fate voi la percentuale….siamo addirittura ad oltre l’ 80% delle risorse mondiali.

Ancora stasera ho visto un pezzo di Rai 2: ho sentito parlare autorità, vescovi….tutti dicono la crisi, la crisi quindi a solidarietà, la solidarietà….una solidarietà che continua a rimanere assistenziale… i nomi e i cognomi dei responsabili della crisi sono noti con indirizzo, non li sento….

E allora, vi rendete conto che la nascita è l’emblema di quella condizione umana a cui non giunge nemmeno un occhio di giornalista, di cui nessun cronista tiene nel giusto conto…è il simbolo di una immensa moltitudine di persone oggi…si, è vero, fanno tante statistiche, mostre fotografiche, filmati…

Allora?

Il senso del Natale è che Dio entra nella storia.

Ma come ci entra?

Non nel punto più alto, ma nel punto basso.

Cosa vuol dire? Allora, nei palazzi Dio non c’è ! Lì non c’è posto per l’uomo povero… per la donna, per i bambini, per i trans, per i rom, per i gay, per tutti coloro che non seguono la legge del branco…e per quelli che vivono e sopravvivono allo sbaraglio

Pensate solo alla situazioni delle carceri italiane, alle torture, senza protezione alcuna…

Quindi a questo punto qualcuno stasera pensa che don Andrea dia la spiegazione dell’esistenza di Dio….No! io non lo so…come faccio? C’è in S.Pietro il Santo Padre…

A noi importa dire: hai speranza? in un cambiamento strutturale, cioè in un nuovo mondo possibile?

E allora, secondo me Dio esiste! Il nostro tempo, è vero, è un tempo di iniquità! Ma quante esperienze ci sono…? Guardate queste, anche minuscole, ci fanno sentire il futuro…

Ma pensa alla resistenza indioafro-popolare, alla selva lacandona, ai sem terra, alle migliaia di cooperative indigene che ci sono…e via via fino alle nostre parti…. quante, quante strette di mano con la gente africana, sudamericana e asiatica…o dell’Est, che parlano con confidenza della fraternità… si aspettano da noi! E noi che dovremmo essere la civiltà occidentale cristiana?!

Io ho fatto più di 60000 km quest’ anno… e ne ho viste… il 31 sera sarò in Trentino per una marcia della Pace…. Quelli del Dal Molin mi hanno detto di scrivere ad Obama perché la base non si faccia…. Il microcredito a Firenze… Quindi migliaia e migliaia ovunque!

La paura è un sentimento che non si può rimuovere…. Forse noi siamo qui stasera per la paura…è un sentimento reale… e Gesù bambino ci stimola proprio con la sua mitezza e umiltà al dialogo, con chiunque… E soprattutto vorrei che rimanesse impresso nell’orecchio quel grido di Papa Giovanninon ascoltate i profeti di sventura!

Ma siamo cristiani? Ma siete pazienti ricercatori di spazi di incontri?

Il cristiano deve essere un sognatore…c’è bisogno di sognatori! È chiaro che se si sogna da soli il sogno non si avvera mai…sognando insieme, il sogno si realizza…

Chi vuole seguire Gesù, dalla sua culla fino alla croce e resurrezione, deve avere molta disponibilità ad ascoltare e comprendere, ad accogliere, questo altro che è e che ha tante risorse….Una fermezza nei principi, unita alla compassione…ecco il cristiano. Al sapere condividere con l’altro…e a volte in questi tempi, a fare silenzio insieme… Il cristianesimo è un’offerta… il cristiano non pretende di avere il monopolio della verità e della felicità!!

Ai cristiani tocca il compito di vivere e testimoniare l’annuncio del Vangelo. E qui aggiungo: in direzione ostinata e contraria! L’annuncio cristiano non deve avere forme arroganti, né un’ostentazione di privilegi…trovare il tempo opportuno per il dialogo e non giudicare mai…!!

Non giudicate se non volete essere giudicati… è un’opera di grande costanza e testimonianza…anche di persecuzione, così dicono le beatitudini, non di persuasione forzata… il cristiano non è fatto per vincere! È fatto per convincere ! equità, gratuità, libertà, giustizia, condivisione, Pace…. A un certo momento Isaia nella prima lettura dice che Gesù verrà con diritto e giustizia ed è principe della pace!!

E quindi questa Pace con quattro colonne.

  • Ecco è fuori dai palazzi, da tutti i poteri, dall’informazione menzognera…prima colonna.

  • Seconda colonna che sostiene la pace, le cause dell’ingiustizia.

  • Allora la terza colonna è l’amore, come sentirsi parte dell’intera famiglia umana, come Gesù ne è stato parte ed è stato il Salvatore… e fatica sostenuta dalla speranza di un cambiamento strutturale, di una rivoluzione… con speranza e tenerezza. Vi dicevo prima: basterebbe vedere le beatitudini. Il discorso della montagna… all’aperto, non in un palazzo! Dove va a fare questo grande discorso questo re dei re? Su una montagna… non ce l’ha il palazzo! Beati gli operatori di Pace, beati i puri di cuore, beati i perseguitati a causa della giustizia… beati coloro che sono perseguitati nel mio nome… Ed ecco che Gesù nella sua crescita, ci dice continuamente che è venuto per servire, non per essere servito. Voglio ripetere che non serve a nulla la paura! Dell’altro, del diverso, dello straniero o anche del vicino di casa…cessa di essere estraneo quando lo ascoltiamo… ascoltare non è semplicemente un atteggiamento d’orecchio, ma è soprattutto un atteggiamento interiore. Ciò richiede vigilanza, attenta riflessione, disponibilità a cambiare, una saldezza di convinzioni, a ricominciare da capo ogni giorno…

Vogliamo finalmente fondare la quinta internazionale?! Internazionale della speranza, del cambiamento…!

Ma lasciatemi infine fare gli auguri. Mi sono ispirato al grande vescovo don Tonino Bello, vescovo durante la tragedia della Bosnia Erzegovina. Andò a Sarajevo, con 500 persone…in piena battaglia…raccolse musulmani, raccolse cristiani, ortodossi, cattolici ma non una riga sui giornali…ed era già molto ammalato.

  • Partiamo da Gesù, che nasce per amore. Che dia a tutti noi la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali, senza saper perdere…

  • Ci conceda di inventarci una vita carica di donazioni, di preghiera, di silenzio, di coraggio, di gioia, di bellezza…!

  • E allora che questo bambino ci tolga qualche volta il sonno e ci faccia sentire il guanciale del letto duro come un macigno! Finché non avremo dato quella che è l’accoglienza… Questo bambino che diventa uomo ci faccia sentire dei vermi…! Ogni volta che la nostra superbia e indifferenza diventa titolo della nostra vita… lei non sa chi sono io…io pago le tasse… superbia, insolenza, arroganza…

  • Passiamo a Maria. Che trova solo nella paglia degli animali la culla dove porre con tenerezza il frutto del suo grembo. E allora che ci costringa a svegliarci per la partecipazione alla costruzione di una vita umana!

  • Giuseppe. E Giuseppe che andrà incontro a mille porte chiuse… chissà quante porte ha bussato…?! Nelle porte chiuse c’è il simbolo di tutte le emarginazioni. E allora che anche Giuseppe disturbi le nostre sbornie ideologiche, partitiche….che ci possano mettere in crisi dalla sofferenza i tanti genitori che versano lacrime… quanti ne vedo qui in ufficio, da tanti anni, tanti genitori che versano lacrime in segreto per i loro figli… senza fortuna, senza salute, senza lavoro…uccisi da trenta anni di proibizionismo sugli stupefacenti…una strage mafiosa!

  • Gli angeli. Gli angeli annunciano la Pace. E allora anche loro che ci disturbino….ci facciano vedere che a un palmo dal nostro naso, spesso con l’aggravante del nostro silenzio complice, del nostro mutismo, indifferenza, si compiono ingiustizie, si sfratta la gente…Quindi pensate, si fabbricano armi…sapete l’Italia ha più di cento bombe atomiche… si militarizza la terra degli umili!! Non crediamo alle “missioni di pace”! Anche Papa Giovanni nella sua enciclica “Pacem in terris” ci dice esplicitamente che è impensabile portare la democrazia con le armi, che ciò è “alienum a ratione”…vuol dire che chi fa quelle missioni è un pazzo!! Quindi la terra è degli umili e si condannano i popoli allo sterminio della fame.

  • E veniamo ai pastori. Che sono i più poveri. I poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità, nel loro disfacimento del sistema finanziario. E allora questa città sonnolenta, dell’indifferenza….pensate: ci stanno privatizzando l’acqua! Dio ha dato l’acqua per tutti!! E allora ci facciano capire questi pastori, che se anche noi vogliamo vedere una gran luce dobbiamo ripartire dagli ultimi, dalla stalla, da Gesù….bisogna uscire! Andare e rendere protagonisti i poveri!

  • Una solidarietà assistenziale si deve trasformare in una solidarietà liberatrice. L’elemosina di chi gioca sulla pelle della gente è grave!!

  • Vorrei ancora dire con i pastori che i ricatti dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio… se provocati da speculazioni corporative. E i pastori vegliano nella notte e fanno la guardia al gregge. E allora noi diventiamo guardiani della nostra comunità, dei nostri gruppi…


Buon Natale, su questo vecchio mondo che muore… è nata la speranza.

La quarta colonna della Pace è di una profonda inquietudine ed una grande aspirazione alla libertà…!!

Sia lodato Gesù bambino.

(Di don Andrea Gallo, profeta di Pace, presidente della Comunità di recupero San Benedetto al Porto di Genova.

L’Omelia é stata tascritta dal giornalista per la Pace Stefano Ferrario di PeaceReporter, per sua gentile concessione)

Pubblicato da red. prov. “Alto Casertano-Matesino & d”

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DALLA TESTA Al PIEDI – Don Tonino Bello vescovo

Posted on Febbraio 26th, 2009 di Angelo |

CENERE IN TESTA,

ACQUA SUI PIEDI


Cenere in testa e acqua sui piedi. Tra questi due riti si snoda la strada della Quaresima. Apparentemente, poco meno di due metri. Ma, in verità, molto lunga e faticosa.


Perché si tratta di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri.
A percorrerla non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la riduzione in scala.


Pentimento e servizio. Sono le grandi prediche che la chiesa affida alla cenere e all’acqua, più che alle parole.


Non c’è credente che non venga sedotto dal fascino di queste due prediche. Le altre, quelle fatte dai pulpiti, forse si dimenticano subito. Queste, invece, no: perché espresse con i simboli che parlano un “linguaggio a lunga conservazione”.


E difficile, per esempio, sottrarsi all’urto di quella cenere. Benché leggerissima, scende sul capo con la violenza della grandine. E trasforma in un’autentica martellata quel richiamo all’unica cosa che conta: “Convertiti e credi al Vangelo”.


Peccato che non tutti conoscono la rubrica del messale secondo cui le ceneri debbono essere ricavate dai rami d’ulivo benedetti nell’ultima domenica delle palme. Se no, le allusioni all’impegno per la pace, all’accoglienza del Cristo, al riconoscimento della sua unica signoria, alla speranza di ingressi definitivi nella Gerusalemme del cielo, diverrebbero itinerari ben più concreti di un cammino di conversione.


Quello “shampoo alla cenere”, comunque, rimane impresso per sempre: ben oltre il tempo in cui, tra i capelli soffici, ti ritrovi detriti terrosi che il mattino seguente, sparsi sul guanciale, fanno pensare per un attimo alle squame già cadute dalle croste del nostro peccato.


Così pure rimane indelebile per sempre quel tintinnare dell’acqua nel catino.
E’ la predica più antica che ognuno di noi ricordi. Da bambini l’abbiamo “udita con gli occhi”, pieni di stupore, dopo aver sgomitato tra cento fianchi, per passare in prima fila e spiare da vicino le emozioni della gente.
Una predica, quella del giovedì santo, costituita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia. Ricca di tenerezze, benché articolata su un prevedibile copione. Priva di retorica, pur nel ripetersi di passaggi scontati: l’offertorio di un piede, il levarsi di una brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.
Una predica strana. Perché, a pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici simboli della povertà umana, è un uomo che la mente ricorda in ginocchio solo davanti alle ostie consacrate.


Miraggio o dissolvenza? Abbaglio provocato dal sonno, o simbolo per chi veglia nell’attesa di Cristo? “Una tantum” per la sera dei paradossi, o prontuario plastico per le nostre scelte quotidiane? Potenza evocatrice dei segni!
Intraprendiamo, allora, il viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua.
La cenere ci bruci sul capo, come fosse appena uscita dal cratere di un vulcano. Per spegnerne l’ardore, mettiamoci alla ricerca dell’acqua da versare… sui piedi degli altri.


Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il nostro ritorno a casa.

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Cenere e acqua. Ingredienti primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi.


Un grande augurio.

don Tonino Bello

SAN GIOVANNI DI DIO: IL CARISMA ALLO STATO NASCENTE – Di Angelo Nocent

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SAN GIOVANNI DI DIO:

IL CARISMA ALLO STATO NASCENTE

di Angelo Nocent


La “STORIA DELLA VITA E SANTE OPERE DI GIOVANNI DI DIO – Prima biografia di S. Giovanni di Dio (di Francisco de Castro)” è il compendio della tradizione orale tramandata dai contemporanei del Santo Dio che hanno condiviso con lui l’Opus Dei, suscitata dallo Spirito e posta nelle sue mani perché la portasse a compimento nella Chiesa. E’ uno strumento unico per risalire al carisma del Fondatore nel suo stesso sbocciare, per così dire “allo stato puro”. È un kairòs per tutto l’Ordine che non può essere lasciato passare invano.

Solo che questo documento storico non andrebbe mai letto da solo ma in un contesto biblico, se non vogliamo che diventi ciò che non è: un libro ispirato che, anche se non intenzionalmente, rischia di precede il Sacro Testo, posto incautamente in secondo ordine ed utilizzato per le citazioni a sostegno e rafforzamento delle tesi che su di esso si intendono costruire.


I sociologi da tempo hanno messo in luce la forza e il carattere irripetibile di un movimento collettivo nel suo “statu nascenti”. Parlando degli stati di effervescenza collettiva, Durkheim ha scritto: “L’uomo ha l’impressione di essere dominato da forze che non riconosce come sue, che lo trascinano, che egli non domina…Si sente trasportato in un mondo differente da quello in cui si svolge la sua esistenza privata. La vita qui non è soltanto intensa, ma è qualitativamente differente”[1]. Per Max Weber la nascita di tali movimenti è legata alla comparsa di un capo carismatico che, rompendo con la tradizione, trascina i suoi seguaci in una avventura eroica, e produce in chi lo segue l’esperienza di una rinascita interiore, una ‘metanoia’, nel senso di san Paolo[2].

Premesso che la prospettiva di questi autori è sociologica, anche se non è in grado di spiegare da sola i movimenti religiosi, aiuta tuttavia a capirne la dinamica.

Secondo Francesco Alberoni, sono i momenti del nascere delle religioni, della riforma protestante, della rivoluzione francese o bolscevica; noi possiamo benissimo aggiungervi senza esitazione anche l’Ordine dei Fratelli Ospedalieri di San Giovanni di Dio . Vi è, secondo Alberoni, una indubbia analogia tra la nascita di questi movimenti e il fenomeno dell’innamoramento[3]. Questo fu, in ogni caso, ciò di cui si trattò per Giovanni di Dio e per suoi seguaci: un innamoramento:

  • Era tanta e tanto grande la carità, della quale nostro Signore aveva dotato il suo servo, ed erano così singolari le opere che da essa derivavano, che alcuni, giudicandolo con spirito vano, lo ritenevano per prodigo e dissipatore, non comprendendo che nostro Signore lo aveva messo nella cantina del vino ed ivi aveva stabilito in lui la sua carità1[33], e che egli si era in tal modo inebriato del suo amore, che non negava nessuna cosa che gli venisse chiesta per lui, fino a dare molte volte, quando non aveva altro, la povera roba di cui era vestito, e rimanere ignudo, essendo pietosissimo con tutti e molto austero e rigoroso con sé.” (Cap. 14)

  • E c’è un altro passo rivelatore di questo innamoramento: “Era il fratello Giovanni di Dio molto devoto della passione di nostro Signore Gesù Cristo, perché, essendo questa la sorgente principale di ogni nostro rimedio, aveva trovato in essa grande profitto e soavità. E perciò, volendo che quanto era giovato a lui giovasse anche al suo prossimo, per amor di Dio…ecc”. (Cap. 13)

  • E ancora: “La pazienza, che corona e perfeziona i soldati di Cristo, possedeva in tal modo l’animo di questo santo uomo, che, per quanti travagli gli avvenissero, nessuno lo vide mai turbato, né senti uscire dalla sua bocca parola irritata. Nelle maggiori ingiurie e negli affronti, anzi, rimaneva quieto e allegro, come colui che non aveva altra volontà che quella di nostro Signore Gesù Cristo, della cui croce solo si gloriava, come si vide in molti casi che gli accaddero dei quali qui ne riporteremo alcuni”. (Cap. 15)

  • Un altro sintomo dell’innamoramento è questo:“Sebbene il fratello Giovanni di Dio fosse stato chiamato da nostro Signore specialmente alle opere di Marta (nelle quali occupava la maggior parte del tempo), tuttavia non tralasciava quelle di Maria. Tutto il tempo, infatti, che gli avanzava, lo spendeva nell’orazione e nella meditazione, tanto che molte volte trascorreva le notti intere piangendo e gemendo, e chiedendo a nostro Signore perdono ed aiuto per le necessità che vedeva, con sì profondi gemiti e sospiri, che ben faceva capire di conoscere che la preghiera è l’àncora ed il fondamento di tutta la vita spirituale, e quella che risolve bene tutte le questioni dinanzi a Dio, e senza la quale tutto il resto ha poco fondamento. E perciò non intraprendeva cosa alcuna, senza averla prima raccomandata e fatta raccomandare molto a nostro Signore”. (Cap. 18).

Parlando di San Francesco d’Assisi, P. Raniero Cantalamessa scrive che “vi sono fiori che non si riproducono piantando di nuovo il loro seme o un ramoscello della pianta, ma solo a partire dal bulbo che misteriosamente si ridesta e torna a germogliare in primavera. Tali sono, tra quelli che conosco, i tulipani e le calle”.

Io credo che anche l’ Ordine dei Fatebenefratelli abbia bisogno di ripartire dal bulbo. E il bulbo è la primitiva intuizione, o meglio ispirazione, che Giovanni di Dio ebbe nel 1538:

  • «Gesù Cristo mi conceda il tempo e mi dia la grazia di avere io un ospedale, dove possa raccogliere i poveri abbandonai i e privi della ragione, e servirli come desiderio io». E nostro Signore lo esaudì pienamente.” (Cap. 9)

Naturalmente, non si tratta dell’unica intuizione che pur le riassume tutte. Bisogna evitare di restringere noi il suo campo d’azione, vedendo il lui soltanto l’uomo dell’ospedale perché, in tal modo, si rischia di ridurre tutto a ospedale. In realtà Giovanni è un uomo “da marciapiede” come si usa dire oggi di alcuni preti, l’uomo della notte, l’uomo dei postriboli, l’uomo delle carceri, il questuante di Granada, l’ufficio di collocamento di ragazze sottratte ai ruffiani…Ed è un carismatico avvezzo alla preghiera spontanea, un parlare diretto con Dio ed un parlare agli altri di Dio…

Egli è l’uomo-carità che nella Festa di San Sebastiano riceve il “battesimo nello Spirito”, ossia riscopre il primitivo battesimo e ritrova la Verità che, per il IV Vangelo è la persona stessa di Gesù, il suo volto ed il suo amore per noi, rivelatore del volto del Padre. E’ l’antica promessa che, progressivamente, si attua in lui:

  • Quando verrà il difensore che io vi manderò da parte del Padre mio, lo Spirito della verità che proviene dal Padre, egli sarà il mio testimone, 27e anche voi lo sarete, perché siete stati con me dal principio.

  • 2… 12“Ho ancora molte cose da dirvi, ma ora sarebbe troppo per voi; 13quando però verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà verso tutta la verità.

  • Non vi dirà cose sue, ma quelle che avrà udito, e vi parlerà delle cose che verranno. 14Nelle sue parole si manifesterà la mia gloria, perché riprenderà quel che io ho insegnato, e ve lo farà capire meglio.

  • 15Tutto quel che ha il Padre è mio. Per questo ho detto: lo Spirito riprenderà quel che io ho insegnato, e ve lo farà capire meglio”. (Gv 15,26-27; 16,12-15).

Giovanni di Dio è guidato verso una Verità che deve ancora scoprire nella sua interezza. Lo Spirito gli apre orizzonti nuovi di comprensione del volto di Dio e di accoglienza del suo amore. Il ri-nato si lascia guidare verso una verità di relazione che si contrappone all’ egoismo. I frutti di questo cammino sono visibili, sperimentabili:

  • “…22Lo Spirito invece produce: amore, gioia, pace, comprensione, cordialità, bontà, fedeltà, 23mansuetudine, dominio di sé.”. (Galati 5,22)

E’ la contrapposizione di quella che Paolo denomina ‘legge della carne’, alla “legge dello Spirito”. ‘Carne’ in tale contesto significa egoismo. Da adesso e fino all’ultimo respiro, la vita di Giovanni di si connoterà come esperienza in cui si rendono visibili i frutti di un’altra logica di vita: la vita dello Spirito, i desideri dello Spirito. Sono i segni di una vita che si apre verso l’altro, che attua il servizio, che prevede il movimento del donarsi. E il biografo, con poche parole essenziali, lo evidenzia: ”Quello che gli avanzava lo distribuiva ai poveri, che cercava di notte, buttati giù per quei portici, intirizziti e nudi, piagati ed infermi. Vedendone la moltitudine, mosso da grande compassione decise di procurar loro con maggiore impegno il rimedio” (Cap.11)

Ed il capitolo successivo è paragonabile all’Inno della Carità dell’Apostolo tradotto in quotidianità:

  1. Deciso di procurare realmente il conforto e il rimedio ai poveri, Giovanni di Dio parlò con alcune pie persone che durante i suoi travagli l’avevano confortato e, con il loro aiuto e il suo fervore, prese in affitto una casa alla pescheria della città, perché era nei pressi di piazza Bibarrambla, da dove e da altre parti raccoglieva i poveri abbandonati, infermi e storpi, che trovava2[28]; e comprò alcune stuoie di giunco ed alcune coperte vecchie in cui potessero dormire, non avendo ancora né danaro per far di più, né altra cura da prestar loro.

  2. E diceva ad essi: «Fratelli, rendete molte grazie a Dio, che vi ha atteso tanto tempo perché facciate penitenza. Pensate in che cosa lo avete offeso, ché io voglio condurvi un medico spirituale che vi curi le anime, e per il corpo poi non mancherà il rimedio. Confidate nel Signore, perché egli provvederà a tutto, come si suol fare con quelli che da parte loro fanno quel che possono».

  3. Quindi usciva e conduceva loro un sacerdote e li faceva confessare tutti. Vista la sua gran carità infatti, qualunque sacerdote, al quale si rivolgeva, andava molto volentieri a fare, quest’opera buona.

  4. Dopo di che, usciva animosamente per tutte le vie e, portando con molto sforzo una grande sporta sulle spalle e due pentole nelle mani, appese ad alcune cordicelle, andava dicendo ad alta voce: «Chi fa del bene a se stesso? Fate bene per amor di Dio, fratelli miei in Gesù Cristo!»

  5. Siccome all’inizio usciva di sera, a volte anche piovendo, e nell’ora in cui le persone stavano riunite nelle loro case, la gente, meravigliata nel sentire quel nuovo modo di chiedere elemosina, si affacciava dalle porte e dalle finestre. Con la sua voce lamentevole e la virtù che gli dava il Signore, sembrava che trapassasse l’animo di tutti. Ed insieme commuoveva molto il suo aspetto debole e affaticato, e l’austerità della sua vita, sì che tutti uscivano con le proprie elemosine, ciascuno secondo le sue possibilità, e gliele davano volentieri, con molto amore: alcuni danaro, altri pezzi di pane o pani interi, altri quanto avanzava dalla loro mensa, di carne ed altre cose, e lo ponevano nelle pentole che a ciò portava.

  6. Quando egli vedeva di aver ricevuto elemosina sufficiente, tornava correndo ai suoi poveri e, appena giunto, diceva: «Dio vi salvi, fratelli. Pregate il Signore per chi vi fa del bene».

  7. Quindi riscaldava ciò che aveva portato e lo distribuiva a tutti. Quando avevano mangiato e pregato per i benefattori, egli da solo lavava i piatti e le scodelle e strofinava le pentole, scopava e puliva la casa e portava acqua con due brocche dalla fontana con molta fatica, perché, essendo recente il ricordo che era stato giudicato pazzo e vedendolo così malandato, nessuno voleva andare a fargli compagnia per aiutarlo; e così sosteneva il lavoro da solo, fino a quando lo riconobbero per quello che era.

  8. Poiché egli serviva i poveri con grande carità, ve ne andavano molti. E siccome la casa era piccola e la gente molta, non c’era posto per quelli che vi accorrevano attirati dalla fama di Giovanni di Dio, e per quelli che egli stesso cercava con affabilità ed amore, i quali, pur avendo supplicato, non potevano entrare negli altri ospedali.

  9. Vista, perciò, la necessità che aveva, prese in affitto un’altra casa più grande e spaziosa, dove trasferì sulle proprie spalle tutti i suoi poveri menomati ed infermi che non potevano camminare da sé, come pure i giacigli in cui dormivano essi e i pellegrini. Qui mise più ordine ed armonia, e sistemò alcuni letti per i più sofferenti; e nostro Signore lo provvedeva di infermieri, che lo aiutassero a servirli, mentre egli andava a cercare elemosine e medicine per poterli curare3[29].

  10. Pertanto, come cresceva la carità in Giovanni di Dio, così andavano crescendo e moltiplicandosi l’arredamento e le masserizie della casa di Dio, giacché ormai la gente si era reso conto; e molte distinte ed onorate persone, dentro e fuori di Granata, lo tenevano in considerazione e lo stimavano, vedendo e constatando che perseverava, teneva ordine nelle sue cose e andava progredendo sempre di bene in meglio.

  11. E quando videro che non solo alloggiava pellegrini e abbandonati, come all’inizio, ma aveva altresì letti apprestati ed infermi che in essi curava, cominciarono tutti ad avere molta fiducia in lui e gli davano e garantivano qualunque cosa gli occorreva per i suoi poveri, e gli donavano elemosine più abbondanti di quanto solevano, come pure coperte, lenzuoli, materassi, indumenti ed altre cose.

  12. E poiché accorreva a lui ogni sorta di poveri e bisognosi per essere aiutati – vedove ed orfani onorati, in segreto; persone coinvolte in liti giudiziarie, soldati sbandati e poveri contadini, ché, essendo quello un anno penoso e di scarso raccolto, erano più numerosi -, egli soccorreva tutti secondo le loro necessità, e non mandava via nessuno sconsolato. Agli uni, infatti, quando poteva dava subito e con gioia, agli altri dava conforto con parole amorevoli e gioviali, infondendo in essi fiducia che Dio avrebbe provveduto, affinché tutti rimanessero confortati, e così avveniva, poiché si ritiene per prodigio che nessuno mai giunse a lui, senza che il Signore provvedesse Giovanni del poco o del molto, in modo che potesse aiutarlo.

  13. Non si contentava di occuparsi di tutti costoro, ma cominciò anche a prendersi la cura di cercare i poveri vergognosi: ragazze ritirate, religiose e monache povere, e donne sposate che pativano necessità in occulto. E con molta diligenza e carità le provvedeva del necessario, chiedendo elemosina per esse alle signore ricche ed agiate; ed egli stesso comprava loro il pane e la carne, e pesce e carbone, e tutto il resto che è necessario per il sostentamento, affinché non avessero motivo di uscire per procurarselo, ma rimanessero ritirate e coltivassero la virtù e il raccoglimento.

  14. E dopo averle provvedute del necessario per il corpo, perché non stessero in ozio ma lavorassero per aiutarsi a vestire, andava nelle case dei mercanti per cercare ad alcune seta da lavorare e ad altre lino da filare, e stoppa.

  • E poi si sedeva un po’ e le animava al lavoro e teneva loro un breve discorso spirituale, esortandole ad amare la virtù e aborrire il vizio. A tale scopo apportava vivaci argomenti, sebbene semplici, che ancora oggi sono vivi nella memoria di molti che li udirono. Dava loro speranza che così facendo, oltre a conseguire la grazia dal Signore, non sarebbe ad esse mancato il necessario per il sostentamento. Inoltre, prometteva anche qualche premio a quelle che avessero lavorato di più. Ed in questo modo le induceva ed animava a vivere virtuosamente e a servire nostro Signore.

15. Non gli mancarono invidiosi in quest’opera, come in tutte le altre che faceva, perché satana non cessa di far guerra, da sé o per mezzo dei suoi ministri, a coloro che vede usciti dal suo dominio ed incamminati nel servizio di nostro Signore. Alcuni di questi, infatti, lo motteggiavano o mormoravano di lui, dicendo che tutto era un ramo di pazzia, che gli era rimasto da quando andava per le vie di Granata privo della ragione, e che presto sarebbe crollato, perché non aveva fondamento.

  1. E oltre a ciò, gli tenevano gli occhi addosso, osservando le case nelle quali entrava ed informandosi di quanto ivi diceva e faceva, ed anche appostandosi in luoghi occulti. E vedendo con i loro occhi il suo grande esempio e l’onestà e santità delle sue parole e delle buone opere che faceva, rimanevano sbalorditi e confusi, ed erano costretti a tacere; e perfino alcuni, quando lo incontravano, quasi loro malgrado, lo lodavano e gli davano elemosina.

  2. Con tutto questo, non dimenticava i suoi poveri, perché la sua principale cura era per essi, consolandoli con le parole e provvedendoli del necessario la mattina prima di uscir di casa; e, dopo aver dato disposizioni su tutto, come ciascuno doveva adempiere il proprio ufficio verso di loro, e sapendo che i compagni, che già aveva per questo, lo facevano, egli se ne andava e si occupava a chiedere elemosina fino alle dieci o alle undici della notte” (Cap. 12).

A questo punto appare evidente che il periscopio di Giovanni di Dio rotea a 360 gradi. Nella prima biografia appare ciò che nelle Prime Costituzioni, chiamate a dare una sistemazione giuridica al movimento dei discepoli che riceve in questo modo il riconoscimento ecclesiale per tutta la cattolicità, per quanto ne rispettino l’ispirazione, non hanno potuto riportare.

Questa fonte parallela alle Costituzioni di ieri e di oggi, ci autorizza ad “osare” con la fantasia della carità che è lo Spirito. Il mandatum novum ci sollecita nelle direzioni più impensate. Sarebbe mortificante e riduttivo escludere il non previsto dai testi giuridici presi rigorosamente alla lettera. Sarebbe un precludersi e tarparsi le ali alle tante possibilità che un rinnovamento carismatico dell’Ordine avrebbe di esprimersi al meglio oggi, proprio utilizzando le risorse umane con il dovuto discernimento ma nel rispetto delle attitudini di ciascuno.

E’ accaduto con tutti gli Ordini Religiosi: quando il “movimento”, l’evento primordiale diventa istituzione, in tale passaggio l’Ordine fa degli gli acquisti, ma subisce delle perdite e mutilazioni. Ciò è avvenuto anche per i Fatebenefratelli: se gli articoli costituzionali hanno dato una forma precisa a idee intuite vagamente, gli stessi hanno dato un’impostazione strutturale in cui il pensiero originario di Giovanni di Dio è costretto a perdere qualcosa della sua originalità e forza. E’ come il mettere il vino nuovo negli otri vecchi”[4]. Senza togliere nulla al valore inestimabile delle prime Costituzioni, è a quel primo momento fondante dunque che bisogna costantemente rifarsi se si vuole affrontare con successo “la sfida della ri-fondazione”.

SAN RICCARDO PAMPURI – VITA CONSACRATA: PAROLA DI DIO VISSUTA – Di Angel Nocent

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SAN RICCARDO PAMPURI

VITA CONSACRATA: PAROLA DI DIO VISSUTA


Di Angelo Nocent


Il moltiplicarsi in questi anni delle beatificazioni e canonizzazioni di consacrati nell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, costituisce un fatto singolare che deve far pensare. E’ in atto una nuova generale forte chiamata alla santità, la quale non è privilegio di pochi, né a pochi è rivolta ma è posta come meta a tutta la grande famiglia ospedaliera che è

  • una famiglia di battezzati che ha ricevuto il dono più grande che si possa immaginare:

    - entrare nella santità di Dio stesso,

    - diventati figlie e figli adottivi del Padre,

    - essere incorporati in Cristo,

    - resi una dimora del suo Spirito:

    Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti” (Col 2,12);

  • una famiglia di cresimati nella quale lo Spirito opera perché possa raggiungere quella pienezza di cui parla l’apostolo Paolo: “Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1 Tim 4,3);

  • una famiglia di persone semplici ma generose, chiamate a fare l’esperienza della carità di Dio:

    - Cristo risuscitato vive nel cuore dei suoi fedeli.

    - In lui i cristiani gustano “le meraviglie del mondo futuro” ( Eb 6,5 )

    - La loro vita è trasportata da Cristo nel seno della vita divina: [Cf Col 3,1-3 ]

    - “Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro” ( 2Cor 5,15 ).

Era la consapevolezza del cristiano Erminio Pampuri, del consacrato Fra Riccardo. Già da laico percepisce che deve vivere costantemente l’esortazione di Gesù agli apostoli: “manete in dilectione mea”, “Come il Padre ha amato me, così anch’io amo voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9).

L’amico Enrico Ghezzi, che ha studiato particolarmente il Vangelo di Giovanni, mi aiuta a comprendere il senso di questa espressione. Egli fa notare che “qui ‘kanthōs‘ ha significato causativo col significato di ‘in quanto che‘; l’amore del Padre per Gesù è la base dell’amore di Gesù per i suoi discepoli; il Figlio ama i suoi discepoli con lo stesso amore divino che il Padre ha per lui”.

Chi è discepolo di Gesù vive nell’amore. Questa è la vera ineffabile condizione del credente cristiano: vivere della stessa vita di amore che è in Gesù, come tralcio che porta frutto perché attaccato alla vite”.

Ci si può chiedere: perché ci vengono additati i religiosi come santi ? Semplice: perché sono Parola di Dio vissuta, per la Chiesa e per il Mondo. E’ il senso della loro consacrazione. Chiamati a dar prova che la santità, un costante “a tu per tu con Dio” è un’esperienza alla portata di tutti. Essi sono dei “mandati” a incoraggiare il Popolo di Dio: «Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione», il vostro aghiasmos, santificazione.

Tutto ciò noi la vediamo presente, incarnato in un fragilissimo frate, Erminio-Riccardo Pampuri che sente dentro di sé questa forte implorazione di Gesù: “Rimanete nel mio amore ( gr. meίnate en tēi agàpēi tēi emē”.

Riccardo di queste parole si ricorderà perfino sul letto di morte. A don Beretta, venuto a portargli il ‘Viatico’, l’Eucaristia, sostegno per il viaggio che sta intraprendendo, con molta serenità e fiducia chiede: “Padre, come mi accoglierà Iddio?” Poi guardando in alto verso il cielo, dopo qualche istante di silenzio, soggiunge: “L’ho amato tanto e tanto l’amo!”. La risposta è intrinseca. Questa è la sua ultima dichiarazione d’amore che i nostri orecchi hanno potuto registrare. Qui è lo Spirito che parla in lui. Egli non rimane soltanto fermo nella fede in Gesù. Sente di vivere nell’amore ricevuto da lui, amore che è in atto, amore che viene dal Padre, attraverso il Figlio e che il Consolatore gli fa percepire. E abbiamo la sintesi della sua vita: poiché sono stato amato da Lui, ho potuto vivere amando. In me ha agito il Signore che ha promesso: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena ‘plēroũsthai” (v.11) . Gioia che va oltre il presente, che raggiunge la sua pienezza escatologica, ‘gioia’ insopprimibile, imperitura (16,22)

Tante volte mi sono chiesto:

  • Ora che Erminio Filippo, Fra Riccardo Pampuri, dalla Chiesa è stato proclamato “Santo”, è ancora utile scrivere di lui?

  • C’è qualcosa di nuovo che può essere aggiunto al già detto?

Nell’Anno di san Paolo, apostolo e missionario del Vangelo ad pochi mesi dopo il Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, trovo non solo che sia utile indagare sullo stesso tema, riferendolo alla vita e alla missione di Fra Riccardo nella Chiesa ieri e oggi, ma che sia anche doveroso, giacché facilmente si scoprono spetti legati alla sensibilità contemporanea. Negli ormai ottant’anni che ci separano dalla sua morte è successo di tutto: la seconda guerra mondiale, il Concilio Vaticano secondo, la caduta del muro di Berlino…ed è in corso una delle crisi economiche mai sperimentate fin’ora, con una mobilità di popoli in tutte le latitudini che fanno presagire due cose:

  • che siamo di fronte ad una svolta epocale;

  • che nelle nostre teste c’è confusione, crisi d’identità e bisogno di guardare in alto e di prendere il largo.

Avere per amico un dottore può essere anche un onore. Avere per amico un santo è certamente una grande fortuna da augurare a tutti.

Se il racconto biblico della presentazione di Gesù al tempio “costituisce un’eloquente icona della totale dedizione della propria vita per quanti sono chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”” (Vita consecrata, n. 1), nel nostro caso esso offre una chiave di lettura anche della vita consacrata del Pampuri.

Ecco la prima grande sorpresa: se la vita consacrata, per il fatto di ripresentare la forma di vita di Cristo, è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, il consacrato fra Riccardo è stato e lo è ancor più oggi che è stato elevato agli onori degli altari per l’intera Chiesa universale: Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo.

Il secondo motivo di stupore: se è vero che la Chiesa si riconosce sommamente realizzata nella donazione di sé a Cristo, la vita consacrata rappresenta questo vertice ecclesiale e quindi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa.

Se poniamo attenzione alla biografia di San Riccardo, il fascino di Dio lo coglie già durante il ginnasio, al collego Sant’Agostino di Pavia. Si può dire che la sua donazione a Cristo sia già totale negli anni del liceo. La sua è già una vocazione: essere fermento nella pasta, là dove si viene a trovare. La voglia di essere sale della terra e luce del mondo gli derivano dalla frequentazione abituale del Vangelo che si porta dietro perfino nello zaino militare, con le Lettere di San Paolo e l’Imitazione di Cristo. Lo attesta proprio il prof. Meda che del Pampuri è stato compagno di università e sotto le armi.

In entrambi questi periodi emerge un Pampuri che si spende generosamente e senza risparmio.

Il servizio militare rappresenta l’accettazione di un sacrificio generoso ad alto rischio, che servirà almeno a lenire le sofferenze di una guerra atroce e inutile dove un suo fratello di sangue perderà letteralmente la vita, rendendogli ancor più amara la chiamata di leva.

All’università si butta in uno sforzo generoso di recupero dei mesi perduti al fronte, per riportarsi alla pari con gli studi che son stati seri e proficui, come lo attesta il 110 e lode della laurea in medicina e chirurgia.

Mentre apprende la scienza medica, già tutto fa presagire che l’impegno non è tanto in vista di una brillante carriera ma è finalizzato a una missione. I suoi compagni di università e i docenti sono stati i primi a notare lo spirito che lo animava. O meglio, che era posseduto dallo Spirito che lui lasciava meravigliosamente agire senza porre resistenza.

Dove attingeva i generosi ideali? Al solito posto: vedi Marco 6, 7-13; Luca 9, 1-6: “Gesù percorreva città e villaggi, insegnava nelle sinagoghe e annunziava il regno di Dio, guariva tutte le malattie e tutte le sofferenze. Vedendo le folle Gesù ne ebbe compassione, perché erano stanche e scoraggiate, come pecore che non hanno un pastore. Allora disse ai discepoli: “La messe da raccogliere è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone del campo perché mandi operai a raccogliere la sua messe“.

Il tuo browser potrebbe non supportare la visualizzazione di questa immagine.Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze. I nomi dei dodici apostoli sono questi: innanzi tutto Simone, detto Pietro, e suo fratello Andrea; Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo; Filippo e Bartolomeo; Tommaso e Matteo, l’agente delle tasse; Giacomo figlio di Alfeo e Taddeo;  Simone, che era del partito degli zeloti, e Giuda l’Iscariota, che poi fu il traditore di Gesù.

Gesù mandò questi Dodici in missione dopo aver dato queste istruzioni: “Non andate fra gente straniera e non entrate nelle città della Samaria. Andate invece fra la gente smarrita del popolo d’Israele. Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.”

Per questa ragione, il tempo non lo ha dedicato solo al sapere, in vista della professione medica, ma anche alla crescita della vita interiore, grazie anche agli animatori del Circolo Universitario Severino Boezio che hanno saputo trasmettergli un tale gusto del Vangelo da farne di lui una forza di traino, un esempio persuasivo anche per gli altri giovani.

Le condizioni del tempo, dominato nella vita pubblica dal liberalismo settario, nella cultura dal positivismo ateo, rendono difficile ed aspra, ma perciò tanto più vera e intensa l’attività della nuova Associazione.

Erminio ha esercitato una vera attività apostolica tra gli studenti, in un clima politico-culturale dominato dal liberalismo settario, da un diffuso positivismo ateo e da un anticlericalismo pronunciato ed esteso. Una situazione difficile ed aspra, facilmente infiammabile.

A buon diritto Don Giussani lo ha additato a Comunione e Lierazione come modello del Movimento. Si potrebbe dire che il Pampuri è un “Ciellino” ante litteram. Egli allora ha onorato la FUCI, espressione universitaria dell’Azione Cattolica; oggi è a pieno titolo ispiratore di entrambi i movimenti, ma non dei soli.

Non va trascurato un altro fatto importante e significativo: che, proprio in questo periodo è così provocato dalla Parola di Dio che nel 1921, l’anno della laurea, si iscrive al Terz’Ordine di San Francesco, facendovi la professione l’anno dopo.

Ciò significa giocarsi in prima persona. Il cristiano Erminio vive un Battesimo adulto. Man mano che cadono i denti da latte, si nutre dei cibi solidi della Parola di Dio e dell’ascetica cristiana ben espressa nell’Imitazione di Cristo.

Gli effetti della Cresima si fanno via via sempre più visibili: egli si assume la responsabilità di essere testimone del Vangelo in prima persona, senza i se e senza i ma. Un impegno ecclesiale che si rafforzerà sempre più nelle tappe successive, quando con la donazione di sé a Cristo nella vita consacrata raggiunge il vertice ecclesiale: farsi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, per essere segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa nel mondo.

Il poeta, scrittore e giornalista pavese Federico Binaghi, nel suo “Un epistolario rivelatore” del 1964, dopo aver letto tutto ciò che era in circolazione sul Servo di Dio, si poneva quell’interrogativo che assilla chiunque si accosti a questa figura di santo, apparentemente fatto di nulla, chiedendosi: “Chi fu dunque quest’uomo ?”.

Soffermatosi a lungo sull’epistolario, constatava gli evidenti e pronunciati segni di una santità luminosa e intensa, seppur non ancora pienamente riconosciuta, “in attesa che il Vicario di Cristo la dichiari in tutto il mondo,

ad esempio di ogni cristiano,

a conforto di tutti gli ammalati,

a incitamento di tutti gli incerti,

a confusione di tutti i perversi”.

Il pronunciamento c’è stato: Riccardo è santo della Chiesa universale.

Ma il Binaghi s’era posto ulteriori incalzanti interrogativi che interpellano anche noi e mettono in discussione il nostro bieco modo non solo di concepire la vita ma di vivere il Battesimo. Sono considerazioni che ci mettono a nudo e non ci lasciano scampo, giacché d’ispirazione tutta evangelica:

Che importa salire negli spazi, approdare sulla luna se un giorno questi nostri occhi mortali dovranno inesorabilmente chiudersi per sempre e il nosro corpo sprofondare sotto terra?…

Che importa se l’arte, la scienza, i prodigi delle macchine più perfette non avranno servito a mostrare all’anima nostra l’onnipotenza di Dio, la grandezza della sua misericordia, la follia del suo amore per noi?

Che importa conquistare tutto il mondo se perderemo l’anima nostra?

Fra Riccardo è proprio la risposta sensibile e vibrante a tutte le interpellanze del Binaghi: egli s’è fatto manifesta Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, avendo assunto “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”.

Il Pampuri ha fatto tutto quello che ha fatto – scrive ancora il Binaghi – “pur di portare nel cuore di tutti coloro che avevano la ventura di avvicinarlo, il Nome di Gesù, la fede nel Padre comune, la presenza dello Spirito Santo”. Caspita! Ti par poco?

E aggiunge:

  • Fu un testimone dello Spirito Santo:

  • fu una delle sue voci più fervide, amorevoli, umili ma costanti, limpide e fascinose;

  • non aveva bisogno di parlare, il suo esempio parlava di lui e del suo amore e trascinava tutti con sapiente e sottile diplomazia alla fede, alla verità, alla gioia del vivere in Cristo.

  • Era sempre sereno: gli studenti lo amavano: chi non voleva cedere alla sua spiritualità non poteva però fare a meno di rispettarlo.

  • Parlava poco, sommessamente, ma quando il tema cadeva sulla Fede, non finiva più di parlare: esuberante, allora, e ardente e fluido e rapinoso travolgeva tutti gli ostacoli, abbatteva ogni contradditorio, trascinava tutti gli animi.

  • Una vita intensa, una giornata che non finiva mai: anche se di notte correva al capezzale degli ammalati, al mattino, come sempre era pronto alla Messa, era felice alla Comunione.

Questa è vita secondo Lo Spirito, un camminare lasciandosi guidare da Lui: «Camminate secondo lo Spirito (…). Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge».

Queste sono le strade praticate dal Signore per le vie della Palestina. Ecco perché San Riccardo oggi è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo, perché non è rimasto tra le mura del Cenacolo. La Parola del Signore, pronunciata duemila anni fa, attraverso i testimoni è viva ed efficace e si rivela più potente e più forte delle nostre debolezze.

Riccardo ha chiesto come Maria che avvenisse in lui secondo la Parla che gli veniva detta dal Vivente Spirito del Crocifisso Risorto, presente nelle Scritture. Da Maria ha appreso lo spirito di disponibilità che gli ha permesso di ritrovare la verità di se stesso nei percorsi che il Signore di volta in volta gli ha indicato.

La sua esistenza, seppur breve, rimanda al secondo Isaia, cantore della topografia divina:

  • Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa.” (Is 43, 19) .

  • Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore,li guiderò a fresche sorgenti. Faro poassare attraverso le montagne facili strade” (Is 49, 10-11).

Riccardo è stato mandato a mettere in guardia, a provocare, cominciando dai suoi dai suoi “fratelli d’abito”, la Chiesa intera, un Popolo di Dio  dalla troppo facile confusione tra le scelte e cammini umani e i sentieri d el suo Signore:

Cercate il Signore,ora che si fa trovare.

Chiamatelo, adesso che è vicino.

7Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità;

chi è perverso rinunzi alla sua malvagità!

Tornate tutti al Signore, ed egli avrà pietà di voi!

Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza!

8Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri
e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).

Quelli di Fra Riccardo sono trentatré anni di migrazione. E’ un itinerante con la fede di Abramo, ripetutamente chiamato a migrare sulle strade di Dio. Le sue sono tutte tappe di un esodo permanente che si conclude il 1 Maggio 1930, in Via San Vittore, 12 a Milano.

Un cammino emblematico fatto di ripetute richieste di aiuto, come fa Israele, per poter conoscere e percorrere le vie del Signore:

  • Tutti i sentieri del Signore sono verità e grazia per chi osserva i suoi precetti” (Sal 25,10).

  • Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie, santo in tutte le sue opere” (Sal 145, 17)

Nell’inconro di Riccardo con Gesù di Nazareth ci viene dato di riconoscere come tutte le strade umane possono essere strade del Signore, se percorse con Gesù che è la “via” (Gv 14,6).

Riccardo, che ha confidenza con le Scritture di cui si alimenta quotidianamente con una lettura orante, la lectio divina, sa che il cristianesimo delle origini, descritto negli Atti degli Apostoli, è qualificato come la “via”. Nell’ Anno Paolino è bene cogliere il cammino di conversione dell’Apostolo che il Pampuri non ha mai perso di vista:

1Saulo intanto continuava a minacciare i discepoli del Signore e faceva di tutto per farli morire. Si presentò al sommo sacerdote, 2e gli domandò una lettera di presentazione per le sinagoghe di Damasco. Intendeva arrestare, qualora ne avesse trovati, uomini e donne, seguaci della nuova fede, e condurli a Gerusalemme.


3Cammin facendo, mentre stava avvicinandosi a Damasco, all’improvviso una luce dal cielo lo avvolse. 4Allora cadde a terra e udì una voce che gli diceva:

  • Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?

  • 5E Saulo rispose:

  • Chi sei, Signore?

  • E quello disse:

  • Io sono Gesù che tu perseguiti! 6Ma su, àlzati, e va’ in città: là qualcuno ti dirà quello che devi fare.


7I compagni di viaggio di Saulo si fermarono senza parola: la voce essi l’avevano sentita, ma non avevano visto nessuno. 8Poi Saulo si alzò da terra. Aprì gli occhi ma non ci vedeva. I suoi compagni allora lo presero per mano e lo condussero in città, a Damasco. 9Là passò tre giorni senza vedere. Durante quel tempo non mangiò né bevve.


10A Damasco viveva un cristiano che si chiamava Ananìa. Il Signore in una visione lo chiamò:

Ananìa!
Ed egli rispose:
Eccomi, Signore!
Allora il Signore gli disse:

- Àlzati e va’ nella via che è chiamata Diritta. Entra nella casa di Giuda e cerca un uomo di Tarso chiamato Saulo. Egli sta pregando 12e ha visto in visione un uomo, di nome Ananìa, venirgli incontro e mettergli le mani sugli occhi perché ricuperi la vista.


13Anania rispose:

- Signore, ho sentito molti parlare di quest’uomo e so quanto male ha fatto ai tuoi fedeli in Gerusalemme. 14So anche che ha ottenuto dai capi dei sacerdoti l’autorizzazione di arrestare tutti quelli che invocano il tuo nome.
15Ma il Signore disse:

- Va’, perché io ho scelto quest’uomo. Egli sarà utile per farmi conoscere agli stranieri, ai re e ai figli d’Israele. 16Io stesso gli mostrerò quanto dovrà soffrire per me.


17Allora Ananìa partì, entrò nella casa e pose le mani su di lui, dicendo: “Saulo, fratello mio! È il Signore che mi manda da te: quel Gesù che ti è apparso sulla strada che stavi percorrendo. Egli mi manda, perché tu ricuperi la vista e riceva lo Spirito Santo”.

18Subito dagli occhi di Saulo caddero come delle scaglie, ed egli ricuperò la vista. Si alzò e fu battezzato. 19Poi mangiò e riprese forza.

Saulo predica a Damasco

Saulo rimase alcuni giorni a Damasco insieme ai discepoli, 20e subito si mise a far conoscere Gesù nelle sinagoghe, dicendo apertamente: “Egli è il Figlio di Dio”. 21Quanti lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: “Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme perseguitava quelli che invocavano il nome di Gesù? Non è venuto qui proprio per arrestarli e portarli dai capi dei sacerdoti?”. 22Saulo diventava sempre più convincente quando dimostrava che Gesù è il Messia, e gli Ebrei di Damasco non sapevano più che cosa rispondergli.

Saulo riesce a sfuggire agli Ebrei


23Trascorsero così parecchi giorni, e gli Ebrei fecero un complotto per uccidere Saulo; 24ma egli venne a sapere della loro decisione. Per poterlo togliere di mezzo, gli Ebrei facevano la guardia, anche alle porte della città, giorno e notte. 25Ma una notte i suoi amici lo presero, lo misero in una cesta e lo calarono giù dalle mura.

Saulo arriva a Gerusalemme


26Giunto in Gerusalemme, Saulo cercava di unirsi ai discepoli di Gesù. Tutti avevano paura di lui perché non credevano ancora che si fosse davvero convertito. 27Ma Bàrnaba lo prese con sé e lo condusse agli apostoli. Raccontò loro che lungo la via il Signore era apparso a Saulo e gli aveva parlato, e che a Damasco Saulo aveva predicato con coraggio, per la forza che gli dava Gesù. 28Da allora Saulo poté restare con i credenti di Gerusalemme. Si muoveva liberamente per la città e parlava apertamente nel nome del Signore. 29Parlava e discuteva anche con gli Ebrei di lingua greca, ma questi cercavano di ucciderlo. 30I credenti, venuti a conoscenza di questi fatti, condussero Saulo a Cesarèa e di là lo fecero partire per Tarso.
31La chiesa allora viveva in pace in tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria. Si consolidava e camminava nell’ubbidienza al Signore e si fortificava con l’aiuto dello Spirito Santo”- (Atti 9, 1-31)

Nel suo peregrinare sulle vie del Signore, il Pampuri fa pensare a un altro passo degli Atti, dove si parla di un certo Apollo e che lui ha certamente presente ed in quella stessa ottica sembra muoversi nei diversi contesti in cui viene a trovarsi: “A Efeso in quei giorni arrivò un Ebreo, un certo Apollo, nato ad Alessandria d’Egitti. Parlava molto bene ed era esperto nella Bibbia.

25Apollo era già stato istruito nella dottrina del Signore; predicava con entusiasmo e insegnava con esattezza quello che riguardava Gesù; egli però conosceva soltanto il battesimo di Giovanni il Battezzatore.


26Con grande coraggio Apollo cominciò a predicare nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo sentirono parlare: allora lo presero con loro e lo istruirono più accuratamente nella fede cristiana.


27Apollo aveva intenzione di andare in Grecia; i fratelli lo incoraggiarono e scrissero ai cristiani di quella provincia di accoglierlo bene. Appena arrivato, Apollo, sostenuto dalla grazia di Dio, si rese molto utile a quelli che erano diventati credenti. 28Egli infatti sapeva rispondere con sicurezza alle obiezioni degli Ebrei e pubblicamente, con la Bibbia alla mano, dimostrava che Gesù è il Messia promesso da Dio” (Atti 18, 24-25).

C’è un terzo aspetto degli Atti che Riccardo ha assimilato guardando all’Apostolo: essere decisi, forti, ma anche lasciarsi usare:


“24Alcuni giorni dopo, Felice fece chiamare Paolo per sentirlo parlare della fede in Cristo Gesù: era presente anche sua moglie, Drusilla che era ebrea. 25Ma quando Paolo cominciò a parlare del giusto modo di vivere, del dovere di dominare gli istinti e del giudizio futuro di Dio, Felice si spaventò e disse: “Basta, per ora puoi andare. Quando avrò tempo ti farò richiamare”. 26Intanto sperava di poter ricevere da Paolo un po’ di soldi: per questo lo faceva chiamare abbastanza spesso e parlava con lui.


27Trascorsero così due anni. Poi al posto di Felice venne Porcio Festo. Ma Felice voleva fare un altro favore agli Ebrei, e lasciò Paolo in prigione.” ((Atti 24-27).

Per il Pampuri l’importante è riuscire ad attuare la raccomandazione di Paolo, per una vita che abbia un senso:

Poiché avete accolto Gesù Cristo, il Signore, continuate a vivere uniti a lui. 7Come alberi che hanno in lui le loro radici, come case che hanno in lui le loro fondamenta, tenete ferma la vostra fede, nel modo che vi è stato insegnato. E ringraziate continuamente il Signore. 8Fate attenzione: nessuno vi inganni con ragionamenti falsi e maliziosi. Sono frutto di una mentalità umana o vengono dagli spiriti che dominano questo mondo. Non sono pensieri che vengono da Cristo.


9- 10Cristo è al di sopra di tutte le autorità e di tutte le potenze di questo mondo. Dio è perfettamente presente nella sua persona e, per mezzo di lui, anche voi ne siete riempiti.


11Uniti a lui, avete ricevuto la vera circoncisione: non quella fatta dagli uomini, ma quella che viene da lui e che ci libera dalla nostra natura corrotta. 12Infatti quando avete ricevuto il battesimo, siete stati sepolti insieme con Cristo e con lui siete risuscitati, perché avete creduto nella potenza di Dio che ha risuscitato Cristo dalla morte. 13Un tempo, quando voi eravate pagani pieni di peccati, eravate addirittura come morti. Ma Dio che ha ridato la vita a Cristo, ha fatto rivivere anche voi. Egli ha perdonato tutti i nostri peccati. 14Contro di noi c’era un elenco di comandamenti che era una sentenza di condanna, ma ora non vale più: Dio l’ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. 15Così Dio ha disarmato le autorità e le potenze invisibili; le ha fatte diventare come prigionieri da mostrare nel corteo per la vittoria di Cristo.” (Col 2, 6-16).

Ma l’aspetto rilevante di questa Parola biblica applicata a Riccardo è cogliere ciò che traspare da quel suo ripetuto abbandonarsi alla “volontà di Dio”. Per Riccardo la via o i sentieri sono del Signore, non tanto perché ci portano verso di Lui, ma perché sono percorsi da Lui o da noi ma con il Signore, operante in noi. Pur nello sforzo ascetico, più che il primato della capacità, lo sforzo, il merito personale, Riccardo esalta il primato dell’economia che regge la vita del cristiano: tutto è dono divino.

Ovunque il Pampuri è passato, nel suo fare del bene a tutti, ha sempre inteso di essere mandato per un annuncio, lo stesso di cui parla Paolo ai Corinzi:

17Cristo non mi ha mandato a battezzare, ma ad annunziare la salvezza” ( 1Cor 1,17)

6Il Cristo che vi ho annunziato è diventato il solido fondamento della vostra vita. 7Perciò non vi manca nessuno dei doni di Dio mentre aspettate il ritorno di Gesù Cristo, nostro Signore. 8Egli vi manterrà saldi fino alla fine. (1Cor 1,6-8).

La portata di questa affermazione è ben esplicata dall’apostolo nella menzionata lettera ai Corinti e che il Card. Ha fatto sua quando si è presentato alla Chiesa che è in Miano, inviato per esserne il Pastore. In quel programma apostolico c’è il ritratto dell’umile Fra Riccardo Pampuri, il disarmato di Dio, forte soltanto della sua Parola che dà vita anche alla carne più fragile e inferma:

Vengo dunque tra voi mandato dal Signore, attraverso la missione conferitami da Papa Giovanni Paolo II: e vengo per portarvi un annuncio, quello di cui parla san Paolo ai Corinzi. E’ 2il vangelo che voi avete ricevutomnel quale restate saldi e dal quale anche ricevete la salvezza: cioè

  • Gesù Cristo morto e risorto”,

  • redentore dell’uomo,

  • di ogni uomo e di ogni donna che viene in questo mondo,

  • Gesù Cristo morto per noi,

  • Gesù il vivente che ci ama come Dio sa amare.

  • Gesù proclamato nella predicazione e nella catechesi,

  • glorificato nella liturgia,

  • Gesù nostra giustizia, cibo, vita, perdono, speranza, amicizia, trasparenza, fraternità;

  • Gesù che deve crescere in ciascuno di noi e in ogni nostra comunità, perché l’amore cresca.

  • Gesù figlio di Dio, manifestazione della bontà di Dio che si mette a nostro servizio e che ci mette in stato di servizio a favore di tutti gli uomini e le donne del nostro tempo e specialmente dei malati, degli oppressi, degli afflitti, dei disperati.

Ecco l’unico oggetto del mio annuncio,

l’unica cosa che avrò a cuore di dire e ripetere con gesti e parole, in pubblico e in privato, a tutti voi e con tutti voi, in particolare con tutto il presbiterio, fino a che il Signore mi darà vita e parola”.

Ma, al di là delle sigle e di come lo vediamo noi, è curioso scoprire, come il Pampuri si vede, quale percezione ha di se stesso. Da un lato si evidenzia in lui una tale fame e sete di Dio che sembra insaziabile; dall’altra da far sollevare allo scrittore pavese Federico Binaghi, già nel 1964, nel suo “Un epistolario rivelatore”, un interrogativo che si pone anche oggi: “Chissà cosa c’era dentro l’anima per sentirsi sempre così colpevole!..”

è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo

Lo dimostra ritardando gli studi, nella professione medica, raggiungendo l’apice nella consacrazione della vita a Dio nell’Ordine degli Ospedalieri che, nel voto di ospitalità assume il significato di una dedizione ai fratelli fino a dare la vita e il sangue, se occorre.

Tale ricorrenza, inoltre, è motivo per ringraziare il Signore per il dono delle persone consacrate che con la loro vita di conformazione a Cristo, di testimonianza al Vangelo e con la loro generosa disponibilità ad annunciarlo nei vasti campi della missione attraverso i diversi servizi carismatici, sono portatori, come lo fu l’apostolo Paolo, della bellezza di Dio e dei doni che lo Spirito del Signore diffonde nel loro genere di vita.

La testimonianza profetica della vocazione dei consacrati e delle consacrate si fonda sull’amore di Gesù, che ha trasformato le loro esistenze, e richiama la stessa passione evangelica di san Paolo, come ha affermato Benedetto XVI il 28 giugno 2008 nei primi vespri dei santi apostoli Pietro e Paolo:  l’apostolo Paolo “ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. “(…) Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Lettera ai Galati 2, 20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; (…) è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore”.

È questo anche il movente che spinge ogni persona consacrata a donarsi a Dio e ai fratelli e che compendia tutta un’ampia riflessione sul valore fondante dell’amore per l’identità del cristiano e connota ancor più coloro che si donano al Signore alla radice stessa della loro vocazione e semplicemente li fa essere servi per amore del Vangelo.

Un fatto che certamente segnò la svolta decisiva nella vita di san Paolo fu l’evento di Damasco, l’incontro sconvolgente del giovane Saulo, feroce persecutore della Chiesa, con Gesù di Nazareth, che gli si manifestò con le parole: “(…) Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?… Io sono Gesù che tu perseguiti!” (Atti degli Apostoli, 9, 4-5), rivelazione divina che lo trasformò in apostolo e missionario delle genti.

Tale cristofania sulla via di Damasco operò la conversione di san Paolo e fu l’investitura divina della sua missione, quale annunciatore del vangelo ai pagani. Egli dirà nella Lettera ai Filippesi:  “(…) Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3, 12), e da colui che “si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Lettera ai Galati 1, 15-16).

È sempre il Signore che fa breccia nel cuore di ogni consacrato, chiamandolo alla comunione personale con lui e guidandolo in un’esistenza trasformata dal suo amore. La persona consacrata nel suo rapporto dialogico con Dio diventa così “epifania dell’amore di Dio nel mondo” (Vita consecrata, cap. III) e può ripetere con san Paolo:  “Per me (…) il vivere è Cristo” (Lettera ai Filippesi 1, 21),  perché  ”l’amore  del  Cristo ci spinge” (Seconda lettera ai Corinzi 5, 14).

La vita fatta donazione di amore, che le persone di vita consacrata vivono tramite i consigli evangelici, trova la sua sorgente e la sua forza nell’ascolto della Parola di Dio. Sul terreno dell’esperienza, infatti, tra i consacrati si avverte un notevole impulso verso la Bibbia come desiderio di ascoltare la Parola di Dio, per cui l’incontro con il Vangelo è la categoria privilegiata attraverso cui presentare la fede cristiana all’uomo d’oggi.

L’incontro con la Parola diviene così un fatto esistenziale interpersonale e un’esperienza religiosa da vivere. Il recente Sinodo dei Vescovi afferma:  “La vita consacrata nasce dall’ascolto della Parola di Dio e accoglie il Vangelo come sua norma di vita.

Alla scuola della Parola, riscopre di continuo la sua identità e si converte in evangelica testificatio per la Chiesa e per il mondo. Chiamata ad essere “esegesi” vivente della Parola di Dio, essa stessa è una parola con cui Dio continua a parlare alla Chiesa e al mondo” (Proposizione 24).

In questo cammino con la Parola di Dio le persone di vita consacrata, come esorta il concilio Vaticano ii, “abbiano quotidianamente tra le mani la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione dei Libri sacri imparino “la sovreminente scienza di Gesù Cristo” (Filippesi 3, 8)” (Perfectae caritatis, n. 6) e trovino rinnovato slancio nel loro compito di educazione e di evangelizzazione specie dei poveri, dei piccoli e degli ultimi con il Vangelo “promuovendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura” (Vita consecrata, n. 94).

Il Testo biblico deve diventare oggetto di quotidiana ruminatio e di confronto per un discernimento personale e comunitario in modo tale che Dio possa tornare, secondo le parole di sant’Ambrogio, a passeggiare con l’uomo come nel paradiso terrestre.

Specie la lettura orante della Parola di Dio (lectio divina), fatta insieme dalle persone consacrate, diventa il luogo per una rinnovata crescita vocazionale e un valido ritorno al Vangelo e allo spirito dei fondatori auspicato dal Vaticano II e sempre riproposto dal magistero della Chiesa come afferma Giovanni Paolo II:  “La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana.

Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante. È per questo che la lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione. Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito” (Vita consecrata, n. 94).

In particolare, le persone consacrate valorizzino il confronto comunitario con la Parola di Dio, che recherà comunione fraterna, gioiosa condivisione delle esperienze di Dio nella loro vita e faciliterà loro una crescita nella vita spirituale.

Molti sono stati i riferimenti alla vita cristiana e alla vita consacrata che il Sinodo dei Vescovi ha fatto in riferimento alla Parola di Dio. Una delle sottolineature più importanti emerse nell’Assemblea sinodale è stata quella relativa alla necessità di comprendere il senso e la dimensione dell’espressione “Parola di Dio” con il suo concetto analogico.

La Parola di Dio non va semplicemente identificata con le Sacre Scritture, testimonianza privilegiata della Parola, perché la Parola precede ed eccede la Bibbia stessa. La Parola, infatti, è essenzialmente una Persona, è Gesù Cristo, di cui il versetto di Giovanni 1, 14 sull’incarnazione, è la sintesi della fede cristiana. Il cristianesimo non è la religione del libro, ma la religione della Persona, di Gesù Cristo  evento centrale della storia umana, che offre a tutti i credenti la chiave ermeneutica per comprendere le Scritture.

Naturalmente il contesto adeguato e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia ecclesiale, in particolare l’Eucaristia, dove la Chiesa vive l’unità dei due Testamenti e celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il senso delle Scritture Sante. È in questo contesto che la comunità di fede, aperta a tutta la Tradizione viva della Chiesa, continua a nutrire il popolo di Dio nell’unica mensa della Parola e del Pane eucaristico.

Un contributo tra i più incisivi del Sinodo è stato quello di approfondire una riflessione teologica per situare con chiarezza la Scrittura nell’ambito teologico che le spetta, quello della sacramentalità, per cui il Libro sacro è totalmente relativo al mistero della Parola e ne è mediazione efficace.

Da questo ruolo sacramentale della Bibbia sono seguite alcune attuazioni pastorali:

il rapporto tra Bibbia e liturgia, dove la Scrittura trova nel contesto liturgico il proprio luogo di annuncio, di ascolto e di attuazione;

il rapporto tra Bibbia e comprensione teologica, per cui l’esegesi scientifica si deve aprire al progetto di salvezza, che trova il suo centro in Cristo sapendo valorizzare il dialogo tra esegeti, teologi e pastori;

infine, il rapporto tra Bibbia e Chiesa, in quanto la Tradizione vivente precede il Libro, gli offre l’ambiente vitale, grazie anche al magistero. B

Benedetto XVI, infatti, ha affermato:  “La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica”.

Un altro tema che ha suscitato vasto interesse tra i padri sinodali è stato quello della predicazione e specie dell’omelia, che dovrebbe essere mistagogica, cioè portare i fedeli presenti alla celebrazione ad un incontro di esperienza e di conversione con la persona del Signore e ad avvicinare ogni credente al mistero pasquale di Cristo.

In questa luce la Proposizione 15 sull’omelia recita:  “Essa conduce al mistero che si celebra, invita alla missione e condivide le gioie e i dolori, le speranze e le paure dei fedeli (…).

L’omelia deve essere nutrita di dottrina e trasmettere l’insegnamento della Chiesa per fortificare la fede, chiamare alla conversione nel quadro della celebrazione e preparare all’attuazione del mistero pasquale eucaristico”.

Per questo il Sinodo ha rivolto a tutti un caldo invito all’incontro vitale e diretto con la Scrittura perché da questa nasca “una nuova stagione di più grande amore per la Sacra Scrittura da parte di tutti i fedeli del popolo di Dio, cosicché dalla loro “lettura orante” e fedele nel tempo si approfondisca il rapporto con la persona stessa di Gesù”.

Il Sinodo, dunque, è stato un’esperienza che ha fortemente richiamato tutta la Chiesa, e in particolare le persone religiose impegnate nel campo della vita apostolica, al primato della Parola di Dio nell’annuncio e nella vita di fede, sottolineando sia la ricerca esegetico-teologica della Bibbia, che fa cogliere “il senso spirituale” del Testo sacro e permette di giungere al contenuto delle Scritture secondo il principio dell’ispirazione che anima l’intera Bibbia, sia una pastorale intimamente ancorata alla Parola di Dio e a un accesso comprensibile dei credenti al Libro sacro, accompagnato dall’azione dello Spirito Santo, che è il vero esegeta delle Scritture.

Il messaggio della Conferenza episcopale italiana per la Giornata mondiale della vita consacrata del 2 febbraio 2009 esorta le persone consacrate a un rinnovato e generoso slancio apostolico, affermando:  “Questa Giornata sia per tutti i consacrati e le consacrate l’occasione per rinnovare l’offerta totale di sé al Signore nel generoso servizio ai poveri, secondo il carisma dell’Istituto di appartenenza. Le comunità monastiche e religiose siano oasi nelle quali si vive il primato assoluto di Dio, della sua gloria e del suo amore, nella gioia della comunione fraterna e nella dedizione appassionata ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti nel corpo e nello spirito”.

Si tratta, in conclusione, di abbandonarsi alla lode silenziosa del cuore in un clima di semplicità e di preghiera adorante come ha fatto Maria, la Vergine dell’ascolto e della Parola:  “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1, 38), perché tutte le Parole di Dio si riassumono e vanno vissute nell’amore (cfr. Deuteronomio 6, 5; Giovanni 13, 34-35).

GLOBULI ROSSI: ALLE SORGENTI DELLA KOINONIA – Don Angelo – Comunità di Sant’Orsola

RADICATI NELLA CARITA’

 

ALLE SORGENTI DELLA KOINONIA

 

1 Corinzi 1:9

 

Fedele è l’Iddio dal quale siete stati chiamati alla Koinonia

(comunione) del suo Figliuolo Gesù Cristo nostro Signore

 

 DON ANGELO

Comunità di S.Orsola 


La legge di solidarietà che è nell’universo trova la sua prima spiegazione nel modo di essere di Dio stesso, il quale è comunione di tre Persone.

Tale legge assume un particolare valore rispetto alla creatura umana che, oltre ad avere un’insopprimibile esigenza di socialità con i propri simili, è stata chiamata ad un’intima comunione con Dio stesso.

La felicità dell’uomo è legata al realizzarsi di questa comunione che è propria degli esseri personali e che deve compiersi su un piano di libera iniziativa per spontanea e responsabile risposta di adesione all’Altro.

La Sacra Scrittura, mentre ci attesta che l’uomo è fatto per vivere in comunione con Dio e con i propri simili, ci rivela nello stesso tempo che dopo il peccato originale, questa fondamentale esigenza costituisce il tormento e la perenne ricerca del genere umano.

Nel Vecchio Testamento il bisogno di comunione con Dio si esprime e in certa misura si appaga per mezzo del culto, dell’Alleanza, della Legge, della preghiera e della solidarietà fraterna.

 E’ Dio stesso a fissare per tappe successive  della storia questi appuntamenti con il popolo che si è scelto come collaboratore nella preparazione del suo incontro d’amore con l’umanità.

Questo incontro si realizza nel momento dell’Incarnazione del Verbo.

E’ quindi il Nuovo Testamento a rivelarci la realtà e il significato di questo aspetto della divina economia creatrice e redentrice.

L’umanità glorificata del Cristo è il grande elemento indispensabile in cui avviene la comunione tra Dio e gli uomini e, conseguentemente, degli uomini tra loro.

Ma dato che Cristo prolunga la propria incarnazione nella Chiesa, è in questo che ora gli uomini possono trovare tale comunione sia in senso verticale con Dio sia in senso orizzontale con i fratelli.

Si entra in comunione con la Chiesa mediante il Battesimo e in tale comunione si cresce mediante l’Eucarestia, che significa e attua l’unione del cristiano con Dio e con i fratelli.

Alla Comunione sono ordinati tutti i Sacramenti. La Chiesa rimane sempre aperta a tutti gli uomini che, mossi dallo Spirito santo, cercano un contatto vitale col Cristo e, in Lui, con Dio e con i fratelli.

Questa comunione è anche di natura escatologica. C’è sempre la tensione verso la consumazione di un’intimità con Dio paragonabile all’unione sponsale.

Alla fine dei tempi la comunione dei santi costituirà la Gerusalemme celeste, sposa dell’Agnello Immacolato. E la suprema beatitudine sarà proprio l’essere per sempre insieme con Dio.

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LA COMUNIONE

(KOINONIA)

CON DIO

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 Dio è in comunione con Se Stesso. Creando Egli estende all’esterno il suo rapporto d’amore.

L’universo si mantiene in equilibrio in forza della legge d’attrazione, cioè legge di simpatia e di solidarietà, insita negli elementi che lo compongono.

Nessuna creatura può sussistere svincolata dalle altre. L’attrazione dei corpi è un aspetto di complementarietà. Questa legge di solidarietà universale, alla luce della Rivelazione, assume il suo vero significato.

Dio, infatti, è in se stesso “Comunione = Koinonia”, cioè “Relazione”. Nel suo Essere Uno e Infinito è sempre in atto un rapporto d’amore.

E’ il rapporto che costituisce il mistero della Santissima Trinità: tre Persone che in un’unica natura, si donano reciprocamente in un inesausto slancio di generosità e che comunicano in modo tale da formare una perfetta unità.

Gv. 19: 30-38 “Io e il Padre siamo una cosa sola “…”Il Padre è in Me e Io sono nel Padre”.

Dio è in comunione con Se Stesso. Creando Egli estende all’esterno il suo rapporto d’amore.

L’universo si mantiene in equilibrio in forza della legge d’attrazione, cioè legge di simpatia e di solidarietà, insita negli elementi che lo compongono.

Nessuna creatura può sussistere svincolata dalle altre. L’attrazione dei corpi è un aspetto di complementarietà. Questa legge di solidarietà universale, alla luce della Rivelazione, assume il suo vero significato.

 

Filippo gli dice: “Mostraci il Padre e ci basta”. Gli dice Gesù: “Da tanto tempo sono con voi e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha veduto me ha veduto il Padre” (Gv 14: 8-10)

“Quando verrà il Consolatore, che io manderò da Padre, lo Spirito di Verità che dal Padre procede, Egli mi darà testimonianza”. (Gv 15:26)

In questa comunione sta l’ineffabile beatitudine di Dio che, pur potendo, non volle rimanere chiuso in Se Stesso .

Creando ha voluto estendere all’esterno il suo intimo, essenziale rapporto d’amore. Ha voluto, quasi, non bastare a Se Stesso.

Così ha messo nella creazione l’impronta del proprio essere solidale. E’ per questo che guardando l’opera delle sue mani poteva dire che tutto era buono. (Gen. 1:31)

Infatti tutte le creature tendevano irresistibilmente a Lui, sorgente e potenza conservatrice del loro essere e del loro rapporto (relazione = koinonia).

Erano un riflesso della sua gloria. Gloria che è irradiazione visibile della sua comunione trinitari (Eccli 42:21-25).

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 LA COMUNIONE

(KOINONIA)

NELL’UOMO

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L’uomo è una creatura fatta per vivere in comunione. In tutte le creature Dio ha messo la legge della solidarietà.

Quindi anche e soprattutto nell’uomo per averlo fatto “anima vivente”, Dio ha voluto elevare, cioè, tale solidarietà alla comunione dello spirito; caratteristica che è propria degli esseri personali, ossia coscienti, liberi, responsabili, capaci di amare e di amarsi.

Dio ha voluto riflettere il rapporto della propria vita trinitaria (relazione = koinonia) nella creatura umana.

Espressione primordiale di questa socialità è al reciprocità complementare tra l’uomo e la donna.

Adamo solo, era una creatura smarrita, affogata in se stessa, quasi senza la possibilità di godere, in quanto gli mancava la corrispondenza di un altro essere che, appunto, gli fosse “corrispondente” e nel quale potesse espandersi e riversare la gioia della propria comunione con dio.

La gioia che non si può comunicare si muta in tristezza in se stessa; si ripiega su se stessa è si spegne.

Il simbolismo biblico (Gen 2:18) mette in evidenza che le persone che comunicano sono, l’una per l’altra, un aiuto.

Il conseguimento del completamento dell’uno è condizionato dall’apporto dell’altra.

E poiché la perfezione di completamento delle persone umane consiste nella realizzazione di una loro piena intimità con Dio, lo scopo del reciproco aiuto che esse si danno è quello di facilitarsi il conseguimento di tale intimità divina.

Ricordiamo: ogni rapporto umano, da qualsiasi motivo determinato, fosse anche il più nobile, fuori dall’idea della koinonia è destinato a spegnersi, a degenerare o a non raggiungere perfettamente il suo fine.

(Continua)

 

mercoledì, 21 gennaio 2009

RECENSIONI

DALLE PUBBLICAZIONI  

DEL CARDINAL BIFFI  

A CURA DI

FRATEL CRISTOFORO

“Comunità di S.Orsola”


 

Biffi : “intervento  a Granarolo”

  


Il cristianesimo, in sé, non è una concezione della realtà, non è un codice di precetti, non è una liturgia. Non è neppure uno slancio di solidarietà umana, né una proposta di fraternità sociale. Anzi, il cristianesimo non è neanche una religione. E’ un avvenimento, un fatto. Un fatto che si compendia in una persona. Oggi si sente dire che in fondo tutte le religioni si equivalgono, perché ciascuna ha qualcosa di buono.

Probabilmente è anche vero. Ma il cristianesimo con questo non c’entra. Perché il cristianesimo non è una religione, ma è Cristo. Cioè una persona.

Io ho puntato su di lui la mia vita, l’unica vita che ho; e quindi sento il bisogno ogni tanto di contemplarne il mistero, di rinfrescare l’identikit di Cristo. Molte volte sentiamo parlare di Gesù Cristo, ma gli unici testi che ci parlano di Cristo sono i Vangeli. Perciò o si sta ai Vangeli, oppure si rinuncia a parlare di lui. Quindi non dirò neanche una parola che non sia documentabile dai Vangeli, a differenza di chi si inventa libri, film e parole.

 

Prima domanda, la più semplice: che tipo era questo Gesù Cristo? Che uomo era? Questo il Vangelo non lo precisa. E devo dire che un po’ mi secca, perché ho puntato la mia vita su di lui e non so neppure di che colore fossero i suoi occhi.

Era bello o era brutto? Beh, secondo me era bello. C’è un episodio dell’undicesimo capitolo del Vangelo di Luca. Gesù sta parlando alla folla. All’improvviso una donna, lanciando un grido d’entusiasmo, dice: “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha nutrito”.

Ecco, questo è il primo panegirico di Cristo. Ed è fatto in termini molto… corporei. Tant’è vero che Gesù le rimprovera di trascurare la parola di Dio, per soffermarsi sulla sua bellezza: “Beati quelli che ascoltano la parola di Dio”.

Noi però ringraziamo questa donna sconosciuta, che ci ha permesso di rispondere alla nostra domanda preliminare: Gesù era davvero un bell’uomo.

E aveva anche due splendidi occhi. Lo sguardo di Gesù colpiva chi lo incontrava. I Vangeli, soprattutto quello di Marco, parlano spesso del suo sguardo: penetrante su Simone, che gli viene presentato dal fratello; affettuoso sul giovane ricco, quello che poi se ne va perché lui gli dice di “lasciare tutto e seguirlo”; di simpatia su Zaccheo, il capo degli esattori delle imposte che rubavano ( solo allora, per carità, non voglio dare giudizi ), che lo guardava stando appollaiato su un albero su un albero. E, ancora, di tristezza sull’offerta dei ricchi, di sdegno su quel che avveniva nel tempio, di dolore per chi lo tradisce… Insomma, il suo era uno sguardo che parlava.

E che faceva capire come Gesù avesse le idee chiare. Molto chiare. Quando parlava non diceva mai “ forse, secondo me, mi pare”.

E non aveva peli sulla lingua neanche con i potenti: ricordate quando dà della “volpe” al re Erode?

Ma una delle cose più belle di Gesù è che era un uomo libero. Anche dai suoi amici: Quando san Pietro fa la sua professione di fede ( ogni tanto ne azzeccava una anche san Pietro… ) Gesù gli fa un panegirico mai dedicato a un uomo, tanto che san Pietro probabilmente si ringalluzzisce, e comincia a pensare in grande.

Ma quando Gesù gli annuncia che il suo destino è quello di essere mandato a morte, Pietro, che già si sente “primo ministro del Regno di dio”, lo prende per un braccio e lo rimprovera. Gesù neanche lo guarda e lo tratta malissimo: “Va’ via da me, Satana: tu non pensi alle cose di Dio ma alle cose degli uomini”.

Niente male per un amico, no?

Con i parenti, poi, certe volte era anche peggio.

Quando Gesù abbandona la sua casa, a trent’anni, loro lo considerano pazzo: Lo dice il vangelo di Marco al capitolo terzo: “Uscirono i suoi parenti per andare a prenderlo, perché dicevano: “E’ uscito di sé”, è fuori testa.

Poi, quando la gente comincia ad andargli dietro, i parenti cercano di riavvicinarsi a lui, perché capiscono che in qualche modo sta acquistando potere. E allora chiamano Maria, per cercare di convincere Gesù a tornare da loro. E lui? Capisce tutto, al volo. E fa finta di non riconoscere nemmeno sua madre.

Ma non crediate che fosse un uomo troppo duro. Gesù amava. Anzitutto, i bambini. Sapeva capirli, dote che raramente noi adulti abbiamo: in genere , quando parliamo con loro, sappiamo solo chiedere quanti anni hanno e quale classe frequentano… Roba che a loro non interessa niente. Lui invece: “Lasciate che vengano a me”. Poi, gli amici. Aveva un forte senso dell’amicizia, Gesù. Per esempio era molto amico dei suoi discepoli: e, tra questi, era particolarmente legato a Pietro, Giovanni e Giacomo; e, ancora, tra questi soprattutto Giovanni gli era più amico. Insomma, anche lui aveva delle preferenze tra i suoi amici. Come è giusto: gli amici non sono mica tutti uguali.

Poi Gesù amava il suo popolo. Si sentiva pienamente ebreo, israelita. Tanto che il pensiero della distruzione di Gerusalemme lo fece addirittura piangere.

Ma c’è un’ altra cosa della personalità di Gesù che mi ha sempre colpito: la sua attenzione ai particolari. Gesù stava molto attento alle piccole cose della vita, anche perché sapeva che poteva farne delle parabole. Pensate a quella, quasi “emiliana”, del regno di dio che è simile a una donna di casa che prende un po’ di lievito e lo impasta con la farina finché è tutta fermentata. O quella dell’amico seccatore che deve essere accontentato pur di potersene liberare. Verissimo. Mi ricorda i nove anni in cui sono stato parroco a Legnano: c’era una donna che veniva a trovarmi ogni giorno, lamentandosi del marito. Ma che cosa potevo fare, io ? Non potevo mica ammazzarglielo !

E ce ne sarebbero tanti altri, di episodi da ricordare. Nel capitolo settimo del Vangelo di Luca si racconta che Gesù è a pranzo da un capo dei farisei: a un certo punto viene dentro una di quelle donne che non si sa come chiamarle… Diciamo una “lucciola”. Questa donna si mette vicino a lui e comincia a fargli dei complimenti, lo profuma. Era una scena gravissima: come se a un pranzo parrocchiale di Granarolo, in cui sono invitati il sindaco e il maresciallo dei carabinieri, una di queste donne entrasse e si mettesse a fare i complimenti al parroco… Eppure Gesù non si scompone. Anzi, la difende quasi con cavalleria.

Dal Vangelo, dunque, riconosciamo una figura umana eccezionale. Al punto che quando Ponzio Pilato lo presenta alla gente dice: “Ecco l’uomo”.

E invece io dico: ecco il punto. Gesù era solo un uomo? Perché anche la maggior parte delle persone che non credono lo considerano un grande uomo, da stimare.

Ma è una posizione insostenibile, se guardiamo a quel che Gesù Cristo stesso dice di sé.

Esempi? Si definisce “Figlio dell’uomo”, che era titolo usato dalle profezie di Daniele per indicare un personaggio misterioso, che sarebbe venuto dal cielo e che avrebbe posto fine alla storia. E con questo Gesù evoca la sua origine celeste e la sua definitività. Poi dice di essere “più grande di Davide”, e Davide era il re ideale, l’ideale della monarchia e della regalità per gli ebrei.

Ma la cosa più seria la dice nel Discorso della montagna. “Beati i poveri…” e via dicendo, ricordate? Beh, in quel discorso dice tra l’altro: “Avete udito che fu detto agli antichi “non uccidere”. Io invece vi dico…”.

Pensateci bene: con questa frase Gesù quasi  “corregge” la Rivelazione di Dio. E rivendica a sé anche il potere di giudicare l’uomo. E chi può farlo, se non uno che si crede Dio?

E le altre cose che raccomanda? “Chi dà la vita per me la troverà…“

Oh, dare la vita per uno non è mica uno scherzo. Una volta, in una visita pastorale, un bambino mi ha chiesto: “Ma tu saresti disposto a dare la vita per il Signore?”.

Io ci ho pensato su e gli ho risposto: “Senti, io sarei anche disposto a dare la vita per il Signore. Però mi seccherebbe parecchio”. Che era un tentativo di mettere insieme il dovere con la sincerità.

E ancora: “Da’ da mangiare al tuo fratello perché in lui vedi me. Se un mazziniano storico dicesse: “Aiutate i fratelli perché in essi dovete vedere Giuseppe Mazzini”, direbbe una cosa che non commuoverebbe nessuno, perché un uomo povero vivo è molto più importante di un Mazzini morto.

Ma Gesù? Gesù ripaga con la vita eterna. Lo dice anche san Marco, scrivendo nel suo Vangelo in maniera un po’ umoristica: “Chi avrà lasciato il padre e la madre, i campi e la casa per me, avrà il centuplo quaggiù, con le persecuzioni e la vita eterna”.

Come dire: prima un po’ di botte, va bene; ma poi la vita eterna.

Perché il fatto è che Gesù sarà pure stato un grande uomo, un uomo eccezionale. Ma soprattutto è dio. E’ il Figlio di Dio. Non come lo siamo tutti noi, come lo sono tutte le creature, come la farfalla della vispa Teresa ( anche lei è “figlia di Dio” ): lui è il Figlio, l’unigenito.

Negli ultimi giorni di vita Gesù racconta una parabola, una delle più inverosimili nella sua struttura letteraria ( a Gesù non interessa raccontare una novella verista, ma trasmettere un messaggio ): è la parabola dei vignaiuoli infedeli e omicidi, che occupano il terreno del padrone senza dargli niente in cambio.

Allora il padrone manda alcuni servi a riscuotere. I vignaiuoli li picchiano. Il padrone ne manda altri; ma i contadini li uccidono.

E fin qui, secondo me, è un racconto un po’ esagerato: come facevano a pensare di uccidere così la gente e cavarsela senza problemi? Ma a questo punto la parabola diventa addirittura una cosa da matti. Il padrone dice: “Ah, ho un figlio unico, manderò lui, perché avranno timore di mio figlio”.

Ma chi è quel padre che sapendo di avere in casa dei briganti arrischia il suo unico figlio?

E infatti i vignaiuoli decidono di uccidere anche lui, in modo da ereditare la proprietà del padrone ( chissà in quale codice sta scritto che l’eredità passa agli assassini dell’unico erede ! ).

Eppure si è verificato alla lettera: infatti Gesù verrà ucciso fuori della vigna, fuori delle mura di Gerusalemme. Ed è stato il Padre a mandarlo.

Mettete insieme tutte queste cose. Ne esce il ritratto di un uomo eccezionale, che dice di essere Dio. Una provocazione!

Ma noi dobbiamo raccogliere questa provocazione. Perché se uno si presenta in questo modo, se dice di essere Dio, c’è poco da fare: o questo qui è matto, e allora non lo si può stimare, oppure è vero quello che dice, e allora bisogna inginocchiarsi.

Non basta mica dire: è un grande uomo.

Che cosa sono andati a dire gli apostoli di lui? Il nucleo del messaggio cristiano qual è? Una parola sola: è risorto. Si è risvegliato dalla morte. Gli apostoli sono andati in giro a dire che Gesù è risorto ed è ancora vivo. Oh, vivo oggi.

Quando facevo scuola a Milano all’Istituto di Pastorale, ho fatto una lezione sulla risurrezione di Cristo. Finita la lezione, una signora si avvicina e fa: “Ma lei vuole proprio dire che Gesù è vivo…?”.

Sì, signora; che il suo cuore batte proprio come il suo e il mio e il mio”. “Ma allora bisogna proprio che vada a casa a dirlo a mio marito”. “Brava, signora, provi ad andare a dirlo a suo marito”. Il giorno dopo la signora torna da me e mi dice: “Sa, l’ho detto a mio marito”. “E lui?”. “Mi ha risposto: “Ma va’, avrai capito male”. Notate che quella era una catechista. Eppure era sconcertata. Io le faccio avere la registrazione della lezione. Lei la fa sentire a suo marito.

E lui alla fine crolla: “Ma se è così, cambia tutto!”.

Pensateci, e ditemi se non è vero: se quell’uomo, bello, buono, eccezionale, è davvero Dio, e se è ancora tra noi, allora cambia davvero tutto.

 

L’attualità delle «Omelie del tempo di Natale» di Giuseppe DossettiUno spirito arreso all’amore

Emanuela Ghini

La pubblicazione delle omelie pronunciate per anni da Giuseppe Dossetti nelle varie sedi della comunità religiosa da lui fondata a Monteveglio (Bologna) nel 1956 è un dono magnifico della Piccola famiglia dell’Annunziata non solo alla comunità cristiana. Chiunque s’imbatta in queste omelie è coinvolto dalla parola calda, spoglia e viva, che non cerca di mostrarsi in una sua presunta efficacia, ma di far spazio all’unica Parola salvifica, di divenirne trasparenza.
Chi parla non si ascolta, diviene eco della Parola che corre dalla Genesi all’Apocalisse, e non ha bisogno di parole di uomini, perché le precede. Donando un’energia, una potenza, una consolazione capaci di reggere la vita. Il prezzo è l’annullamento di espressioni umane, anche le più sapienti, l’ascolto e la pura trasmissione. Esse richiedono un cuore purificato, la morte dei “pensieri”, come li chiamano i padri del deserto, la preghiera, tuffo nello Spirito di Cristo, il grande orante volto al Padre per tutti i fratelli.
Le omelie di Giuseppe Dossetti verificano ciò che Evagrio Pontico ha detto nel IV secolo: “Se preghi, sei teologo”. Mostrano che l’apice del discorso su Dio – in Dio – è la protensione a lui e la balbettante risposta, accogliente e sopraffatta, alla sua Parola: l’unica diffondente gioia. Qui si gioca la credibilità del cristiano.
Di questo omaggio l’omiletica di Giuseppe Dossetti non ha alcun bisogno. Ma in questo periodo torna alla mente il suono della sua voce nelle omelie ascoltate per anni nella sua comunità. Se ne usciva rigenerati, quasi che la grazia del battesimo si rendesse percepibile. Si sperimentava che solo lo Spirito parlava nel celebrante: egli non esisteva più, specchio dell’altra Realtà. Era questa a coinvolgere. Ma si era grati allo specchio.
Curate dalla Piccola famiglia dell’Annunziata, le Omelie del tempo di Natale di Giuseppe Dossetti (Edizioni Paoline) riguardano un quarto di secolo (1970-1994). Una delle prime discepole del monaco di Monteveglio, Maria Gallo, vi premette un’introduzione accurata, preziosa per orientare il lettore nei filoni delle meditazioni.
Lo spirito universalistico della comunità monastica di Giuseppe Dossetti, l’esplorazione di mondi geograficamente e culturalmente lontani dall’Europa – Thailandia, Medio Oriente, Terra Santa, India, Cina e così via – l’incontro con l’Ortodossia, l’Ebraismo, l’Islam rendono urgente la risposta alla grande domanda: “Voi, chi dite che io sia?” (Matteo, 16, 15).

La fede

Dossetti è tormentato dal dramma dell’incredulità, dal desiderio della manifestazione della luce “per tutti coloro che l’economia del Padre destina alla Chiesa, specialmente per quei grandi popoli i quali, nonostante l’intensità della loro speculazione e il loro orientamento spirituale, sembrano ancora lontani dalla conoscenza della verità e della grazia che è stata fatta agli uomini”.
La fede non è frutto di volontà. Non muove da iniziativa umana. Non consegue a speculazioni, non è teologia, anche se questa, “se organizzata con senso soprannaturale di discrezione e di equilibrio, può in qualche modo aiutare”. Non dipende dai segni, che richiedono interpretazione.
La fede è dono, luce dello Spirito, percezione del mistero, al di là di ogni sostegno. “È la radice delle facoltà nuove dell’uomo nuovo in Cristo”. Ma brilla a intermittenza. Quanto più cresce, tanto più espone a rischi. Non è mai scontata.
La fede è difficile. È fatica. Lo provano i padri, i santi, i martiri.
L’insidia è oggi più grave per gli aspetti negativi, al limite dell’assurdo, della nostra civiltà: l’imperversare della violenza, della corruzione, del cinismo, il disprezzo della vita, la perdita di senso, la ricerca scomposta, spasmodica di surrogati alienanti, a volte mortiferi, il pullulare di idoli, l’avanzare di altre religioni, che impegnano a un confronto, al dialogo, alla testimonianza forte e semplice.
Tempo di fede nuda, che Giovanni della croce sintetizza in modo folgorante: “Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio e sempre la ripete in un eterno silenzio, perciò in silenzio deve essere ascoltata”. La risposta corrisponde all’ascolto: “L’amore non consiste in grandi sentimenti, ma in una grande nudità”.

Natale e battesimo

Vivere di fede è accogliere il battesimo, la sua rinascita, la sua illuminazione, lasciare emergere le energie divine donate, accedere mediante esse alla Parola e ai divini misteri.
Accoglienza della fede, il battesimo richiede apertura al dono: purezza di cuore, liberazione dalle passioni, preghiera, fiducia, frequentazione incessante della Parola, il Verbo che come sposo si offre a chi lo cerca. E mentre domanda purezza, distacco, umiltà, insieme li dona.
“Al di fuori di Cristo le cose non esistono e noi non esistiamo”.
Se, come affermano Giovanni e Paolo, ogni realtà ha senso solo in Cristo, il battesimo opera in ciascuno l’incarnazione. “Come l’iniziativa di Dio, rispetto a tutto il mondo, sta nell’incarnazione, così l’iniziativa di Dio rispetto a ciascuno di noi sta nel battesimo, il lavacro che ci rigenera”.
Natale, attualizzazione dell’incarnazione, è memoria, attualizzazione del battesimo. L’Eterno assume la fragilità della natura umana fino allo strazio della morte, per risorgere e aprire all’uomo la via del ritorno al Padre, alla sua gloria, alla deificazione.
Il Natale perciò è occasione di grazia per crescere nella fede, lungo il cammino di diminuzione, di abbassamento che segna la vita di Gesù dalla nascita alla Pasqua. È domanda di “quello che è più necessario a noi e al mondo, l’aumento della fede e l’accesso ad essa di tutti i popoli della terra”.
Mistero di piccolezza, di contraddizione, di sfida a una ragione presuntuosa, che si ritiene l’unica via di conoscenza, il Natale si apre se “noi ci facciamo piccoli interiormente”, cancellando desideri, aspirazioni, prospettive storico-mondane. “Bisogna operare questo rovesciamento, accettare che Dio sia venuto come è venuto: non in modo grande, con prepotenza, con potenza, ma piuttosto in modo piccolo, esiguo, umilissimo”. Il Dio che regna (Isaia, 52, 7) regna nell’umiltà della sua natività, nell’estremo del suo annientamento”.
Ma l’infanzia di Dio è sovranità. Cristo è unico, inconfrontabile, è il Verbo che è dal principio. “In Cristo, per mezzo di Cristo e avendo come fine Cristo, il Padre ha creato i mondi e le ere passate e future; lo spessore dello spazio, della realtà e del tempo, che dovremmo, forse meglio, chiamare i tempi”.
Natale indica la via alla gloria del Padre: una “dimensione di vuoto che può essere riempita dalla grazia di Dio per una fede attuale in lui sempre più vigorosa, alta, serena. Natale è un grande mistero di umiltà: più noi entriamo in questa veduta e ci sforziamo di annullare tutto ciò che in noi chiede cose grandiose, appariscenti, trionfanti, tanto più scopriamo, nelle vie di Dio attraverso i secoli, il verificarsi sempre più profondo e …attuale della profezia: Il Cristo è venuto così, ha fatto questa scelta e alla fine della sua vita ha fatto la scelta della croce”.
Già presente nella luce di Betlemme, la croce non offusca il gaudio della nascita: il bambino fragile è il re della gloria: una scintilla di percezione di questa realtà incendia una vita. E diviene preghiera perché la manifestazione del Signore, che si attua a Natale e culmina nell’Epifania, “mistero di dilatazione e di espansione di vita”, realizzi la comunione universale: l’umanità e il cosmo parteciperanno alla grande assemblea dei redenti. Natale qualifica la preghiera: accoglienza del Verbo che è luce, vita, splendore per tutta la realtà. Egli ha tutto in sé, non ha bisogno di testimonianza, ma di adesione: la preghiera si fa adorazione quando ci accorgiamo che non è nostra. Noi non abbiamo niente da dare, dobbiamo solo accorgerci che il Verbo è. “La stessa possibilità di dire è, di gridarlo, è il dono costitutivo della nostra personalità. Noi siano questo grido, di cui (il Verbo) non ha bisogno ma di cui ci gratifica, ci dona la ricchezza infinita”.

Povertà e gioia messianica

La povertà radicale del Natale impegna tutti i battezzati, in forza dell’illuminazione ricevuta, alla responsabilità di custodire e far crescere “questa scintilla di fede per altri, conosciuti e sconosciuti, che troveremo o non troveremo sul nostro cammino”.
L’impegno consegue al dono. Natale manifesta la fede, apertura al “mistero di Cristo Signore, che malgrado tutto si inserisce nell’intimo dell’umanità”.
Il desiderio di entrare sempre più a fondo in questo mistero “si accumula nella storia profonda della Chiesa”. Storia di fede provata, crocifissa, come tutti i santi testimoniano, da Ignazio d’Antiochia a Teresa di Lisieux, per richiamare, nella folla che nessuno può contare, due estremi per distanza di secoli e diversità di martirio. Dossetti ribadisce la necessità della morte dell’uomo vecchio, per entrare nel mistero dell’incarnazione. È di drammatico realismo la sua analisi circa il “sentirsi sempre più crocifissi da quello che noi diciamo mistero, cioè da quella presenza reale del Dio trascendente nella nostra realtà di uomini immersi nel tempo e nella storia”.
Ma l’altro volto della croce, cioè del Crocifisso, è il Risorto, pure già presente nel Piccolo adorato dai pastori, il Salvatore annunziato dagli angeli come una grande gioia. Gioia della redenzione dai limiti umani, della salvezza dall’inconsistenza del nulla, dell’incontro con l’Amore che per primo ci ha amati.
Riportando all’illuminazione battesimale, Natale è invito a passare dall’illuminazione della mente a quella del cuore, accogliendo “i piccoli bagliori” della “luce interiore che è il grande sbocco della gioia”. La luce del cuore va cercata nelle piccole cose, in ciò che è stolto, non in ciò che è sapiente. Va cercata nel combattimento spirituale contro la prepotenza dell’io. Va cercata per tutti e per tutto il mondo: è impossibile gioire se miliardi di persone soffrono, esultare nella luce e esse sono nelle tenere.
“Un grido parte dal cuore dell’umanità disperata e chiede le consolazioni di Dio”.
Dobbiamo chiederle per noi e per tutti. Dio “ci lascia nella lotta, ma mai nella disperazione”.
Così si accoglie la gioia messianica: gioia piena, pacificante e pacificatrice, che zampilla “dalla luce del cuore”.

Fortiter et suaviter

Giuseppe Dossetti è stato uomo di luce e di pace. La passione di una coscienza indomita è divenuta in lui irradiazione della mansuetudine di Cristo. Chiunque l’abbia frequentato, forse anche solo avvicinato, ha incontrato la modestia, l’umiltà, la delicatezza uniche dell’uomo di Dio, posseduto da Cristo.
Nulla di caustico, di pungente, di amaro in uno spirito arreso all’Amore. Nessun compiacimento, anche inconsapevole, per un’intelligenza ammirata di sé, esposta al rischio di farsi giudice di altri, di divenirne critica, in nome di una presunta chiarezza che ferisce e respinge.
Egli ha vissuto la nota affermazione di Newman, di non sempre facile attuazione: “Gentiluomo è chi non arreca pena ad alcuno”. Dove “gentiluomo” in questo caso sta per monaco, cioè per cristiano, perché il monaco per i padri del deserto è il comune cristiano.
È stato per tutti fonte di consolazione e “testimone della speranza, di quella grande speranza che anche nelle notti della solitudine non tramonta” (Benedetto XVI, Spe salvi, 32).
La straordinaria lucidità dell’intelligenza si è sposata in Dossetti con una tenerezza misericordiosa priva di remore ma capace, pur additando l’errore e il peccato, di avvolgere di una dolcezza soccorrevole, che riscatta e perdona. Di cogliere la persona – dono di pochi – nel suo cuore profondo, oltre parole e gesti. Un uomo abitato dallo Spirito, che la comunione con Cristo ha inondato della grazia luminosa e contagiosa dei miti e puri di cuore.
Soleva dire don Giuseppe Dossetti: “Ci sono uomini che cercano il discorso su Dio e uomini che vogliono conoscere la tua esperienza di Dio”. Sarebbero questi ultimi, a giudizio di Maria Gallo, i primi destinatari delle omelie dossettiane, “esempio di una ricerca continua di Dio, di un’esperienza con i mezzi supremi che Dio ha dato: la sua parola, attualizzata al massimo nella celebrazione eucaristica, e la vita sacramentale che nasce col battesimo”.

(©L’Osservatore Romano – 27-28 dicembre 2007)

 

Il Peccato

 

Dossetti  

 

“Un solo Signore”

Edizioni Dehoniane

 

 E’ evidente che io non posso fare tutta la dottrina del peccato nel Nuovo Testamento; posso soltanto mettere insieme alcuni elementi.

In primo luogo si deve dire che il peccato è oggetto di fede e non di ragione, perché non si identifica con nessuna delle categorie razionali di errore, di colpa, di lesione, di responsabilità…

Dicendo questo si è già detto tutto, si è già riproporzionata  tutta una serie di argomentazioni. Sarà vero o sarà falso, questo è tutt’altro discorso; ma se vogliamo affrontare il problema sul piano in cui lo pone la Scrittura, è certo che tutte le considerazioni che possiamo fare in base ad altre categorie razionali, che indebitamente o equivocamente molte volte noi accostiamo al peccato, non hanno alcun valore…

Prima di muoverci sul terreno della Scrittura possiamo considerare ancora una cosa a conferma di quello che si diceva.

E’ risaputo che è la rivelazione biblica, e particolarmente il cristianesimo, a introdurre il concetto di peccato, altrove non lo troviamo.

Nel pensiero greco, con il quale il cristianesimo adulto deve confrontarsi, troviamo invece una figura che è nettamente contrapponibile e perciò va evocato proprio perché rappresenta un termine preciso di confronto. Si può anzi dire che è uno degli elementi caratteristici del pensiero greco, cioè la concezione socratica ( successivamente di Platone e anche di Aristotele ) che non conosce il peccato ma “l’errore” o meglio “l’ignoranza” (agnoia), vista come un limite dell’esistenza umana.

L’uomo non è onnisciente e quindi necessariamente erra, in quanto ci sono in lui delle zone di inconoscenza. Non si tratta di un frammento, ma di un elemento fondamentale di tutto l’intellettualismo greco. Il rimedio perciò non può essere altro che un’espansione progressiva della conoscenza che, tuttavia, secondo il pensiero platonico, non potrà mai arrivare agli ultimi confini, proprio perché l’uomo non è onnisciente e per lui ci sono dei confini, questi confini si possono solo spostare.

E’ caratteristica di ogni razionalismo la non presenza o la perdita del peccato come rapporto negativo con Dio.

Ritroviamo invece la sua sostituzione con l’errore nel razionalismo contemporaneo e particolarmente in quella sua manifestazione oggi egemonica che è il neoilluminismo

E, sotto l’egemonia di questo neoilluminismo, noi cristiani non siamo più capaci di avere la consapevolezza biblica del peccato.

Tutta la nostra cultura ha sotteso la proposizione fondamentale che esistono solo le realtà fisiche, le altre che sembrano non essere tali sono ad esse riducibili: così le stesse realtà psicologiche o sociologiche sono in ultima istanza riducibili alla biologia…

E’ inevitabile allora giungere a una concezione della storia e della nostra esistenza – individuale e collettiva – come un progresso legato allo sviluppo della conoscenza della realtà fisica e dei mezzi di analisi della realtà naturale e umana di dominio dell’una e dell’altra.

Coerentemente, quindi il peccato non può essere più pensato come tale, ma solo come deviazione psicologica o sociologica.

E il rimedio non sarà certo costituito dalla salvezza e dai nostri sacramenti, ma solo dagli sviluppi della conoscenza, non più in un quadro platonico che avrebbe ancora delle garanzie da opporre, ma in un quadro in cui – rotti ormai tutti i limiti dell’umano – non si pone più un problema di distinzione tra onniscienza o meno dell’uomo, e in cui si può prevedere una capacità conoscitiva senza limiti. A questo punto il peccato non è più peccato, ma è solo deficienza di conoscenza e, in ultima analisi, carenza di sviluppi.

 

 

Cerchiamo di spiegare con parole più semplici.

Il peccato così com’è comunemente considerato da noi cristiani ha una dimensione e una natura spirituale. Va considerato innanzitutto in rapporto a Dio e al nostro modo di porci davanti a Dio.

Ha  un significato innanzitutto verticale, come mancata risposta delle creature ad una vocazione e ad una chiamata del loro Creatore. Benchè conoscibile e sperimentabile in rapporto al creato ed alle creature non può essere definibile dalle categorie della ragione umana. Il senso e la portata del peccato si può comprendere soltanto per rivelazione di Dio. Non può essere afferrato da una ragione naturale non illuminata da una grazia divina. Il peccato come conseguenza di un distacco dall’autore della vita e di ogni vita ha bisogno di una luce che annienti le tenebre in cui la ragione stessa si muove allorchè ha rifiutato la fonte  del proprio essere ed operare.

In questo senso può essere solo oggetto di fede, cioè di una ragione che si sottomette al Creatore, mettendo da parte il prodotto deviato ed alienato del proprio pensiero.

E’ dunque Dio che ci dice, cos’è il peccato, la sua origine, la sua portata, la sua natura, il suo esito finale per chi irretito in esso, non vuol venirne fuori e non accetta l’aiuto che è dato dal cielo.

E questo è opera della Rivelazione. Così come storicamente si è determinata in Israele. Nulla che appartenga ad una ragione naturale: siamo proiettati di colpo in una dimensione spirituale in cui opera l’eterna Ragione o Logos di Dio.

La realtà del peccato non è dimostrabile dalle categorie del pensiero umano: è semplicemente affermata e data per vera dalla Parola di Dio.

Non conosce approccio vero se non quello che passa attraverso le vie della fede. O si crede o non si crede alla Rivelazione.

Qualsiasi altra strada  porta a risultati diversi e discordanti.

Significativo per noi cristiani il confronto con la cultura greca, che è cresciuta e si è affermata in spazi e tempi molto vicini e contigui a quelli di Israele.

Il pensiero greco, quello che passa attraverso le vie segnate da Socrate e Platone non conosce il peccato, ma l’errore che è ignoranza, ossia un limite insito nella conoscenza umana, limite che la ragione cerca di superare, ma che di fatto non è mai superato del tutto, né superabile se non come tensione continua ad andare oltre ciò che impedisce. L’errore o ignoranza ha dunque un significato relativo al singolo individuo ed alle sue possibilità conoscitive.

La ragione tende ad assolvere da ogni colpa. Perché chi fa il male in definitiva lo fa non sapendo di fare il proprio male.

Quale rimedio dunque? Non in un superiore intervento dall’esterno. Non c’è bisogno di alcuna grazia di Dio, semplicemente è richiesta una maggiore volontà di applicazione volta ai fini di una maggiore conoscenza. Tutto resta rinchiuso nell’uomo e nelle sue capacità naturali.

Il razionalismo ateo moderno non è andato oltre il pensiero di Socrate se non in una accresciuta fiducia nella ragione umana di conoscere in un senso più vero e profondo ogni aspetto di una esistenza alienata, seguendo le vie del metodo scientifico. 

Ci si addentra sempre più in profondità nell’esplorazione del dato naturale, fino a dare spiegazione di ciò che appare più recondito nell’illusione di potere dominare sempre di più la realtà attraverso accresciute conoscenze.

In questa negazione del mistero divino e del soprannaturale le stesse realtà psicologiche e sociologiche sono riconducibili alla realtà fisica. Tutto si risolve nell’aggregazione o divisione di particelle materiali che appaiono come l’unico motore della storia in tutti i suoi aspetti. La dimensione spirituale dell’uomo fa tutt’uno con la sua psiche.

Ridotta a puro gioco ed aggregazione di atomi, su essa è possibile intervenire attraverso i semplici rimedi della medicina o della prevenzione.

Ogni morale non può dunque che essere relativa all’individuo ed alla sua particolare struttura biologica.

La ragione umana ha in sé i criteri operativi per un superamento di tutte le ambiguità dell’esistenza.

La stessa malvagità che l’uomo manifesta nei confronti dell’uomo, si può spiegare con categorie razionali che confinano l’uomo nell’ambito del materiale.

L’indigenza, la miseria e la povertà sono le cause di ogni guerra, violenza e rancore.

I condizionamenti sociali, culturali sono gli unici responsabili di ciò che comunemente viene definito male.

Tutto ha una sua giustificazione secondo i dettami di una ragione naturale che si rende sempre più presente a se stessa per meglio operare, per un uomo diverso e per un futuro migliore.

Non si dica che una tale mentalità è esclusiva di chi si manifesta apertamente come ateo.

Lo spirito del mondo è entrato anche nella chiesa.

Non è paradossale che nonostante l’accrescersi e l’aggravarsi del peccato, venga sempre più meno nei cristiani la consapevolezza del peccato?

Non vi è in questo lo zampino del satana, che chiude gli orecchi  all’ascolto della Parola di Dio, e  fa tutti sempre più esperti ed edotti riguardo alla parola dell’uomo?

Non c’è altro modo per uscire da questa via di morte se non recuperando la consapevolezza del peccato così come è in noi agita e creata dalla Parola rivelata.

Nel greco neotestamentario il peccato è fondamentalmente espresso con una parola sola: “amartia”, in relazione al verbo amartano ( peccatore ) e amartolos ( peccatore).

Ci sono altri termini equivalenti, ma la categoria fondamentale che troviamo nella Scrittura, nei grandi testi relativi al peccato, è precisamente questa.

Nel greco dei LXX, con questa parola si traduce una notevole varietà di parole ebraiche.

Tra le numerose parole ebraiche ce n’è una di gran lunga prevalente su tutte le altre. Nell’Antico Testamento il verbo ricorre 233 volte e il sostantivo 289 volte.

Va detto che subito che non è un verbo relativo a operazioni di conoscenza e non ha niente a che vedere con le radici che esprimono quello che noi chiamiamo “errore”, cioè una falsa o incompleta rappresentazione della verità, ma è un verbo  di moto che nel suo primo senso vuol dire”fallire il bersaglio”, poi “smarrire la via”. Così qualcuno ha avanzato l’ipotesi che sia una radice e una categoria beduina: uomini che marciano in carovana per il deserto e che a un certo momento, uscendo dalla carovana, smarriscono la via e si trovano a morire nel deserto.

Ci sono anche dei riscontri testuali: ad esempio il salmo 24, quello così bello che inizia: “A te elevo l’anima mia, Signore”.

Ai versetti 7-8 dice: “I peccati della mia gioventù e le mie trasgressioni non ricordare, ma nella tua misericordia e nella tua bontà ricordati di me, o Signore. Buono e retto è il Signore, perciò egli mostra agli erranti il cammino”.

Gli erranti sono gli “hatta’im”, coloro che escono dalla carovana e, avendo smarrito la via, rischiano di morire con le ossa calcinate al sole del deserto. E Dio, nella sua bontà e misericordia li riacchiappa e li rimette nella carovana della salvezza.

Nelle diverse stratificazioni della rivelazione biblica si può notare uno sviluppo semantico di questa radice, che progressivamente si sposta dal significato iniziale profano a un significato nettamente religioso.

E’ in rapporto alla via di Dio da cui si esce che si dà il peccato, ed è in rapporto al dio, che si rivela nell’elezione e nel patto, che si è peccatori, quando a lui si è infedeli.

Non si tratta dunque di un’operazione carente delle facoltà conoscitive, ma di un distacco voluto dalla fedeltà al patto, sia pure con diversi gradi di consapevolezza.

Quindi è una realtà che non attinge l’intelletto, ma la volontà e che opera una rottura rispetto al Dio della rivelazione…

E’ in questa prospettiva di distacco e di rottura violenta che il Signore, parlando dei peccatori che si separano dalla via di Dio, dalla carovana della salvezza, li definisce “coloro che mi odiano” ( Es. 20,5; Dt 5,9; ecc. )…

Questo ci dice fra l’altro come il peccato non possa essere una categoria razionale; “coloro che mi odiano” definisce ulteriormente il peccato come qualcosa che è in rapporto a Dio: “Contro di te, di te solo, ho peccato e quel che è male ai tuoi occhi ho commesso” ( Sal 50,6 ).

Questo versetto centrale del Miserere non sarà mai abbastanza meditato; mi permetto di suggerirvi il commento di Savonarola, scritto dal carcere negli ultimi giorni della vita: troverete due pagine vigorosissime su questo versetto.

Il peccato è quindi soltanto in rapporto a Dio, è un atto più o meno consapevole di odio al Signore.

Anche per questo è un mistero. E’ qualcosa che non corrisponde all’opinione che gli uomini possono avere circa la portata materiale dell’atto che costituisce il peccato, ma è qualcosa in rapporto alla fedeltà al Dio della rivelazione e del patto. Non è misurabile con dimensioni umane; non è dall’opinione degli uomini che dobbiamo lasciarci ammaestrare e ammaestrare gli altri su quello che è peccato, e su quello che non lo è.

Qualificare il peccato con le categorie del consenso degli uomini è a priori impossibile.

Sappiamo benissimo che ci sono molte ragioni di crisi riguardo al peccato, così come riguardo alla teologia morale come per secoli è stata impostata…

Ho avuto modo di farmi idee molto chiare sulla teologia morale: anche lì c’era la tendenza inconsapevole a far rientrare le categorie del peccato in quelle del pensiero e della cultura del mondo…

Un recupero si potrebbe avere non sul piano della teologia morale, ma sul piano della spiritualità, guardata però con disprezzo dai teologi morali, come se fosse qualcosa di vago e di generico, perché non è scienza.

Prendiamo il salmo 50:

“Contro di te, di te solo, ho peccato

E quel che è male ai tuoi occhi ho commesso,

sicchè giusto tu apparisca nella tua sentenza

e irreprensibile nel tuo giudizio.

Ecco, nella colpa fui partorito e nel peccato mi concepì mia madre.

Ecco, hai voluto che fosse la verità nel mio recondito,

e nell’intimo m’insegni la sapienza”. ( Sal 50, 6-8 ).

Parole veramente paradossali! “Contro di te solo ho peccato”.

Contro te solo si qualifica il peccato, e solo quando l’ho riconosciuto si verifica questo capovolgimento e si dichiara la giustizia e la santità di Dio. Sicchè anche il peccato, una volta però che sia rovesciato, ha la funzione positiva di far emergere e di glorificare la santità di Dio.

E’ la sapienza segreta, quella che scopre l’irriducibilità del peccato alle dottrine umane elaborate nelle varie epoche circa la colpa o la responsabilità o l’errore.

L’intima sapienza, purtroppo, molte volte non la si trova nei libri di teologia morale, semmai negli scritti di spiritualità.

Ed è precisamente per questo che oggi siamo così disarmati dal punto di vista degli strumenti culturali e rischiamo continuamente di essere sommersi, nostro malgrado, da un pensiero che è assolutamente non omogeneo alla Parola di Dio.

Gli atti che vengono a comporre la condizione di peccato non sono valutabili razionalmente secondo le categorie naturali o secondo quelle delle attuali scienze umane; questi atti si rapportano a Dio solo, al Dio che si rivela, al Dio dell’elezione e dell’alleanza.

Di conseguenza solo Dio può operare il recupero degli “sviati sulla via”, ma occorre un suo nuovo intervento, che non è qualitativamente diverso da quello della rivelazione iniziale e dell’alleanza.

In altre parole si tratta come di una nuova generazione. E’ quello che possiamo constatare nella dottrina che ci presenta il più grande dei salmi penitenziali:

“Purificami con issopo e sarò mondo,

lavami e diventerò più bianco della neve.

Parlami di gaudio e di allegrezza

E le ossa che hai infrante esulteranno.

Distogli la tua faccia dai miei peccati

e cancella tutte le mie iniquità”.

Sono tutte operazioni di Dio; ed ecco la nuova generazione:

“Un cuore puro crea per me, o Dio,

e uno spirito retto rinnova nel mio interno.

Non mi scacciare dalla tua faccia

e il tuo santo Spirito non togliere da me” ( Sal 50, 9-13 )

Allora si capisce come già il Miserere, per presentimento evangelico, ponga questa nuova creazione, questo nuovo intervento di Dio, nella sfera del miracolo e quindi della gioia che l’evento divino inevitabilmente produce.

“Parlami di gaudio e di allegrezza”, è un preannunzio di Lc 15: la gioia che si fa in cielo è più grande per un solo peccatore ritrovato che per novantanove pecorelle che sono rimaste nell’ovile ( cf Lc 15,7 ).

Si tratta anche qui non di una semplice emozione, ma di una gioia divina, escatologica.

A questo punto si dovrebbe inserire una riflessione sul capitolo terzo del Genesi. Mi limito solo a qualche considerazione metodologica rispetto a questo testo che è così fortemente attaccato dalla pubblicistica odierna, quella in vena di facili successi. Solo chi non ha capito cosa vuol dire la grande compattezza teologica di quel racconto può distinguere e tentare di separarne i membri, come oggi abitualmente si fa nella nuova esegesi, mentre si tratta di un unico enunciato in sé indivisibile, da prendere quindi nella sua totalità senza insinuare delle distinzioni. Questo mi sembra il criterio metodologico da rispettare rigorosamente.

L’unico enunciato è questo: la realtà di ciascun uomo e di tutti gli uomini, il destino di ciascun uomo e di tutti gli uomini – in quanto uomini nella loro condizione reale, storica – sono plasmati da quell’avvenimento unico, dal tentativo dell’uomo di essere come Dio…

Si può dire che questo racconto enuncia in termini di grande semplicità e forza che essere uomo nell’effettiva condizione storica significa necessariamente essere peccatore: l’uomo non può conoscere il fondo del proprio essere senza risalire a questo dato primordiale…

Il discorso sul peccato – prendendo atto dei dati che ci consentono di giungere alla conoscenza di noi stessi e del nostro porci di fronte alla realtà che sta fuori di noi, in noi e sopra di noi – è così decisivo che, se non ce ne rendiamo conto secondo verità, superando tutte le nostre incertezze e le nostre approssimazioni, non possiamo pensare di essere illuminati sul nostro cammino, e siamo invece ancora nell’oscurità…

L’esperienza dimostra che, quando si nega il significato essenziale del racconto del Genesi, l’uomo finisce col non avere più un orientamento su di sé e con l’ignorare se stesso. Si può anche dire che, quando si nega il peccato originale, inevitabilmente si è portati a dover negare i singoli peccati attuali in cui ogni uomo e anche noi personalmente cadiamo, o a non avere più le basi sicure per poter riconoscere.

Una volta individuata quella che ho chiamato la “compattezza teologica” di questo discorso, sarà facile vedere come essa si propone in termini di un’alternativa categorica che non consente smembramenti.

E’ ormai ora di passare al Nuovo Testamento.

Esso fa proprio il termine fondamentale prevalente della versione greca dei LXX e cioè “amartano” col significato che ha nel greco non biblico di “mancare il bersaglio”. C’è un altro verbo greco sinonimo di questo, “apotugcano”, il cui opposto è “tugcano” (cogliere, raggiungere).

Tutta la nostra vita è questo: da un lato siamo chiamati a centrare il bersaglio che è Cristo, dall’altro c’è il peccato, cioè il fallire il bersaglio.

Questo è molto importante perché ci conferma che nel Nuovo Testamento, come nell’Antico, il peccato ha sempre in sé, intrinseca, la sanzione.

Nell’Antico, ancor più che nel Nuovo, il peccato può avere anche delle sanzioni estrinseche: calamità, catastrofi cosmiche, sconfitte del popolo di Dio, malattie, deviazioni di ogni genere: sanzione estrinseca è la morte stessa, stipendio del peccato.

Ma nell’Antico come nel Nuovo Testamento il peccato ha in sé una sanzione intrinseca che è precisamente quella di far fallire il bersaglio, di non raggiungere Dio – il Dio dell’alleanza e del patto – e quindi di non cogliere Dio, di non cogliere Cristo…

Se una cosa è peccato – in conformità al paradigma fondamentale della Scrittura – è inutile che tentiamo di ridurne la portata e le conseguenze o di metterci in una prospettiva dalla quale si possa sperare che non tutto è perduto.

Il peccato infatti resta inevitabilmente un fallire Dio, un mancare allo scopo, un uscire dalla nostra strada cioè dalla strada di Dio verso di noi; quindi un rimanere sicuramente fuorviati, quanto a noi, se non c’è un nuovo intervento divino.

Quante volte questo è riproposto nel Nuovo Testamento!

Le parabole classiche che abbiamo ben presenti nell’anima non ci dicono altro che questo. Basterà richiamare alcuni testi che distribuisco secondo una certa classificazione.

Nel Nuovo Testamento il termine amartia ( peccato ) si presenta con tre sensi: uno che non è tipico del Nuovo Testamento, gli altri due che vi ricevono un’accentuazione tutta propria.

a ) In un primo senso il termine si riferisce a singoli atti di peccato; i testi che si potrebbero citare al riguardo sono infiniti: praticamente tutti i Sinottici, gli Atti, le Lettere pastorali ecc. In questi brani con assoluta prevalenza il peccato, o meglio i peccati al plurale, sono sempre singoli atti di peccato.

b ) In un secondo senso, molto diverso e caratteristico del Nuovo Testamento – almeno nel modo forte con cui viene proposto – il peccato non è più inteso come singolo atto, ma come dimensione dell’uomo storico e perciò come dimensione universale di tutti gli uomini. Questo si riscontra non solo nei testi in cui è più esplicito il rapporto con il peccato di Adamo, ma anche in molti altri. E’ specifica del Nuovo Testamento la trasformazione di questo senso del peccato sino alla sua universalizzazione come ostilità a Dio che è propria dell’uomo storico universale.

Potremmo dire che in genere, salvo tre o quattro testi che fanno eccezione, questo è il senso del peccato che si trova abitualmente nel quarto vangelo e negli scritti giovannei. Possiamo leggere qualche passo:

“Di nuovo dunque Gesù disse loro; Io me ne vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io voi non potete venire” ( Gv 8,21 ).

Come in altri testi di Giovanni, la parola è presa al singolare e denuncia una condizione globale – non un singolo atto – da cui l’uomo non può uscire, così come non si può mettere nella via di Dio e arrivare all’appuntamento con lui: “dove vado io voi non potete venire”.

“Gli risposero, gridandogli ( al cieco nato ): “Sei nato nei peccati da capo a piedi e ci vuoi far da maestro?”( Gv 9,34 )

Si testimonia qui, fra l’altro, una partecipazione a questa dottrina da parte del tardo giudaismo. Io non ho esaminato questo capitolo 9 come avrei dovuto, esso è però importante come ponte di passaggio dalla dottrina dell’Antico Testamento a quella del Nuovo:

“E, uditolo, alcuni farisei che erano con lui, gli domandarono: “Siamo forse ciechi anche noi”: Gesù rispose: “Se foste ciechi, non avreste colpa; invece voi dite: Noi vediamo. Il vostro peccato dunque rimane” ( Gv 9,40 ).

Prestate attenzione al fatto che anche qui si parla di peccato e non di peccati, evidentemente si considera una condizione complessiva e globale che interessa non un uomo, rispetto a una singola azione, ma tutti in ordine a tutto.

Importantissimo a questo proposito è il discorso della seconda parte di Gv 15:

“Ma tutto questo faranno contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa, ma ora non hanno scusa del loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio” ( Gv 15,21-23 ).

Il concetto di peccato qui viene ancora più esplicitamente riportato al concetto di odio a Dio, che si specifica e si personalizza nell’odio a Cristo:

“Se non avessi fatto fra loro opere che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio. Ma ciò è avvenuto affinché si adempisse la parola scritta nella legge: Mi odiarono senza ragione” ( Gv 15,24-25 ).

L’odio è sempre inspiegabile e ancor più l’odio a Dio. Per questo aspetto il peccato è puro mistero: “mi odiarono senza ragione”.

Con la ragione non potrei mai rendermi conto di quella che è la dimensione del peccato, né della sua portata oggettiva, né delle sue motivazioni profonde, né dello spirito al quale nel peccato io partecipo.

Veramente si può dire di esso che è un odio senza ragione, una partecipazione a uno spirito contrario allo spirito della verità e della vita. Se cerco di razionalizzare il discorso non potrò mai veramente cogliere la nozione biblica di peccato…

A conclusione possiamo affermare che, fuori dal Cristo e dalla sua morte e risurrezione, l’uomo vive e muore non nei peccati, ma nel peccato. Ed è per questo che Giovanni, proprio nell’esordio del suo Evangelo, dirà di Cristo che egli è colui che è venuto a togliere il peccato del mondo ( cf. Gv 1,29 )…

C ) Passiamo ora al terzo senso del termine peccato nel Nuovo Testamento.

Finora abbiamo detto: non un singolo peccato, ma condizione globale dell’uomo e dell’umanità, tanto che si può stabilire un’equazione: uomo e umanità uguale a peccatore e peccato.

Come c’è una personalità unitaria sovrannaturale dell’umanità intera nella giustizia di Dio, così nel Nuovo Testamento c’è inevitabilmente un’indicazione verso una personificazione del peccato.

A questo si riferiscono i testi nei quali si parla di peccato al singolare e con l’articolo determinativo.

La tendenza alla personificazione del peccato si fa più evidente nei capitoli 5,6 e 7 dell’Epistola ai Romani.

Potremmo esaminare gli elementi di questa personificazione: il peccato che nasce con la legge, il peccato che muore con l’avvento e la morte di Cristo, il peccato che signoreggia nelle membra del corpo di peccato, che regna nella carne dell’uomo ( l’uomo totale nella sua condizione di creatura inferma e degradata è cioè ancora soggetto al peccato) e così via.

Ora abbiamo considerato tutti questi elementi con uno sguardo fuggitivo. Mi pare particolarmente significativo un testo di Giovanni:

“Gli opposero: “Noi siamo progenie di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come dunque dici tu: sarete liberi”?. Rispose loro Gesù: “In verità vi dico: chi fa il peccato è schiavo del peccato”. ( Gv 8,33-34 ).

È un’affermazione forte, che tende a riproporre l’esistenza di due sfere, di due domini che si contendono la realtà dell’uomo, e il fatto che non si dà possibilità di sottrarsi all’uno se non accettando di essere totalmente sotto il dominio dell’altro.

Queste due sfere non sono semplicemente di carattere psicologico, ma hanno una loro realtà, un’effettiva consistenza ontologica, tale che obiettivamente si può parlare di due domini.

Quando non si è nel dominio di Dio e totalmente attaccati a lui, inevitabilmente si ricade nel dominio di queste forze di cui cominciamo a individuare la possibilità di personalizzazione. Il peccato è qualcosa di ulteriore, che sta dietro all’atto.

Se abbiamo capito cos’è il peccato e come non possiamo rapportarlo al nostro concetto di illecito o di lecito, ne deriva che lo stato oggettivo del peccato rispetto a Dio resta, nonostante l’ignoranza.

È il capovolgimento della posizione ellenistica, platonica, socratica, e mostra come il peccato sia una condizione oggettiva, globale dell’uomo, da cui egli esce solo per un contatto diretto con Dio, con Cristo, e non per effetto di una diminuzione della sua responsabilità come noi la concepiamo. Solo quando Dio mi recupera, mi rigenera, mi ricostruisce, solo quando mi comunica il suo Spirito Santo e crea in me un cuore nuovo, io esco dalla condizione di peccato…

La salvezza non è altro che il realizzarsi di un’iniziativa misericordiosa di Dio – che si chiama perdono, misericordia, riconciliazione – la quale si concreta in una spoliazione dell’uomo vecchio, ossia in un procedimento di distruzione e di morte da un lato, e in una rigenerazione e ricreazione dell’uomo nuovo nello Spirito di Dio dall’altro, quindi in un procedimento effettivo di nuova creazione e di risurrezione.

Non sono persuaso che la dimensione del peccato, nei termini auspicabili secondo una riflessione più profonda sul Nuovo Testamento, ci sia stata in secoli o in situazioni in cui si parlava del peccato in termini molto impegnati e, se volete, molto colorati.

Non possiamo considerarci viventi nella dimensione reale del cristianesimo se non affrontiamo con estrema serietà l’ argomento.

Lo stesso discorso dell’immensa gioia della pacificazione in Cristo e della riconciliazione nostra in lui nella sua morte e risurrezione, non ha senso se non è adeguatamente compresa tutta la dimensione del peccato. La dimensione della gioia è infatti correlativa e coestensiva a quella del peccato.

Solo misurando l’infinita dimensione del peccato rispetto a Dio, all’uomo e all’umanità, si può coestensivamente capire l’illimitata dimensione della gioia escatologica che il Cristo ha donato portandoci l’escaton, l’ultimo evento che è appunto la riconciliazione dal peccato.

In fondo è un medesimo discorso, con una stessa estensione, che richiede che entriamo completamente nel gioco.

Il peccato nella prospettiva biblica, e particolarmente secondo il Nuovo Testamento, investe la totalità della persona in tutte le sue espressioni, esteriori e interiori, sia che si esauriscano nella pura soggettività, sia che incidano ledendoli, sui rapporti con gli altri.

In questo senso il peccato non è solo una di queste modalità o di questi aspetti, ma peccato sono tutte queste modalità e tutti questi aspetti.

È cosa ovvia che non metterebbe conto di essere sottolineata se questo non fosse oggi troppo dimenticato, anzi addirittura contestato.

La prospettiva del peccato che va più di moda è quella che lo considera esclusivamente, o quasi, in quanto porta lesioni ad altri.

Questa concezione rientra in una mentalità che risente della visione del mondo oggi particolarmente affermata da certe posizioni dottrinali egemoniche.

Risente della necessità di recuperare una dimensione essenziale del cristianesimo, trascurata nei secoli passati, relativa al senso comunitario del piano di salvezza del Signore e della sua realizzazione nell’incarnazione e nella comunità cristiana.

Tutto questo ci rende giustamente più attenti alla dimensione comunitaria del peccato.

Nel concreto però della nostra pratica quotidiana riguardo a questo ricupero ci sono un’accentuazione delle conseguenze e un modo di esprimersi che prescindono dagli elementi più propri della visione cristiana e della sua dimensione comunitaria, e si contaminano invece con una visione eminentemente sociologica, ricavata dalla cultura dominante, la quale non conosce altra dimensione del male che quella che si manifesti concretamente lesiva della situazione altrui. In questo modo ha sempre meno rilievo quella dimensione del male che è priva di un’espressione sociale e che si presenta come mancanza di fronte a Dio, senza che si concreti nella lesione di un altro soggetto.

Sappiamo bene che di questo tipo di mancanze ce ne sono; nell’elenco  che il Nuovo Testamento ci pone sotto gli occhi troviamo peccati a una dimensione e peccati a due dimensioni.

Tutti hanno in comune l’essenza fondamentale del peccato, la separazione da Dio; alcuni la realizzano con un atto interiore o che comunque non ha ripercussioni dirette nei confronti del prossimo, altri invece la realizzano con un atto che implica lesione agli altri.

Anche se c’è un più o un meno, tutto è da presentare all’occhio di Dio e tutto può essere peccato di fronte a lui. Del resto non abbiamo bisogno di insistere perché questo è l’evangelo.

L’evangelo ci insegna che ci sono dei peccati interni che non si consumano in nessun atto, e che ci sono dei peccati i quali non implicano nessuna conseguenza per gli altri, ma sono peccati, e ci insegna soprattutto che è nell’interno che il peccato deve essere cercato.

“Ora, egli diceva: “Quello che esce dall’uomo invece è ciò che contamina l’uomo. Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uomo” ( Mc 7,20 -23 ).

È la nostra carne, nel senso della nostra personalità carnale, ad essere impregnata di peccato in tutte le sue cellule, in tutte le sue dimensioni sia individuali che collettive.

Quindi soltanto un’immersione totale, un battesimo nel sangue e nello Spirito di Cristo può restaurare l’integrità e l’unità del nostro essere e presentarci al cospetto di Dio nella pienezza delle nostre dimensioni, per le opere buone per le quali Dio ci ha creato in Cristo Gesù. Il peccato non è in rapporto alle cose o ai singoli soggetti, ma è in rapporto a Dio e all’incontro personale con lui.

Più precisamente, da quando l’evangelo è predicato, il peccato è in rapporto a Cristo, alla sua persona, alla totalità della donazione nostra al suo servizio, al nostro perfetto e totale aderire a lui, al porci completamente sotto il suo dominio.

G.Dossetti

 

Il peccato – parte 2

 

 

Scrive Dossetti:

Gli atti che vengono a comporre la condizione di peccato non sono valutabili razionalmente secondo le categorie naturali o secondo quelle delle attuali scienze umane; questi atti si rapportano a Dio solo, al Dio che si rivela, al Dio dell’elezione e dell’alleanza.

Di conseguenza solo Dio può operare il recupero degli “sviati sulla via”, ma occorre un suo nuovo intervento, che non è qualitativamente diverso da quello della rivelazione iniziale e dell’alleanza.

In altre parole si tratta come di una nuova generazione. E’ quello che possiamo constatare nella dottrina che ci presenta il più grande dei salmi penitenziali:

“Purificami con issopo e sarò mondo,

lavami e diventerò più bianco della neve.

Parlami di gaudio e di allegrezza

E le ossa che hai infrante esulteranno.

Distogli la tua faccia dai miei peccati

e cancella tutte le mie iniquità”.

Sono tutte operazioni di Dio; ed ecco la nuova generazione:

“Un cuore puro crea per me, o Dio,

e uno spirito retto rinnova nel mio interno.

Non mi scacciare dalla tua faccia

e il tuo santo Spirito non togliere da me” ( Sal 50, 9-13 )

Allora si capisce come già il Miserere, per presentimento evangelico, ponga questa nuova creazione, questo nuovo intervento di Dio, nella sfera del miracolo e quindi della gioia che l’evento divino inevitabilmente produce.

“Parlami di gaudio e di allegrezza”, è un preannunzio di Lc 15: la gioia che si fa in cielo è più grande per un solo peccatore ritrovato che per novantanove pecorelle che sono rimaste nell’ovile ( cf Lc 15,7 ).

Si tratta anche qui non di una semplice emozione, ma di una gioia divina, escatologica.

A questo punto si dovrebbe inserire una riflessione sul capitolo terzo del Genesi. Mi limito solo a qualche considerazione metodologica rispetto a questo testo che è così fortemente attaccato dalla pubblicistica odierna, quella in vena di facili successi. Solo chi non ha capito cosa vuol dire la grande compattezza teologica di quel racconto può distinguere e tentare di separarne i membri, come oggi abitualmente si fa nella nuova esegesi, mentre si tratta di un unico enunciato in sé indivisibile, da prendere quindi nella sua totalità senza insinuare delle distinzioni. Questo mi sembra il criterio metodologico da rispettare rigorosamente.

L’unico enunciato è questo: la realtà di ciascun uomo e di tutti gli uomini, il destino di ciascun uomo e di tutti gli uomini – in quanto uomini nella loro condizione reale, storica – sono plasmati da quell’avvenimento unico, dal tentativo dell’uomo di essere come Dio…

Si può dire che questo racconto enuncia in termini di grande semplicità e forza che essere uomo nell’effettiva condizione storica significa necessariamente essere peccatore: l’uomo non può conoscere il fondo del proprio essere senza risalire a questo dato primordiale…

Il discorso sul peccato – prendendo atto dei dati che ci consentono di giungere alla conoscenza di noi stessi e del nostro porci di fronte alla realtà che sta fuori di noi, in noi e sopra di noi – è così decisivo che, se non ce ne rendiamo conto secondo verità, superando tutte le nostre incertezze e le nostre approssimazioni, non possiamo pensare di essere illuminati sul nostro cammino, e siamo invece ancora nell’oscurità…

L’esperienza dimostra che, quando si nega il significato essenziale del racconto del Genesi, l’uomo finisce col non avere più un orientamento su di sé e con l’ignorare se stesso. Si può anche dire che, quando si nega il peccato originale, inevitabilmente si è portati a dover negare i singoli peccati attuali in cui ogni uomo e anche noi personalmente cadiamo, o a non avere più le basi sicure per poter riconoscere.

Una volta individuata quella che ho chiamato la “compattezza teologica” di questo discorso, sarà facile vedere come essa si propone in termini di un’alternativa categorica che non consente smembramenti.

E’ ormai ora di passare al Nuovo Testamento.

Esso fa proprio il termine fondamentale prevalente della versione greca dei LXX e cioè “amartano” col significato che ha nel greco non biblico di “mancare il bersaglio”. C’è un altro verbo greco sinonimo di questo, “apotugcano”, il cui opposto è “tugcano” (cogliere, raggiungere).

Tutta la nostra vita è questo: da un lato siamo chiamati a centrare il bersaglio che è Cristo, dall’altro c’è il peccato, cioè il fallire il bersaglio.

Questo è molto importante perché ci conferma che nel Nuovo Testamento, come nell’Antico, il peccato ha sempre in sé, intrinseca, la sanzione.

Nell’Antico, ancor più che nel Nuovo, il peccato può avere anche delle sanzioni estrinseche: calamità, catastrofi cosmiche, sconfitte del popolo di Dio, malattie, deviazioni di ogni genere: sanzione estrinseca è la morte stessa, stipendio del peccato.

Ma nell’Antico come nel Nuovo Testamento il peccato ha in sé una sanzione intrinseca che è precisamente quella di far fallire il bersaglio, di non raggiungere Dio – il Dio dell’alleanza e del patto – e quindi di non cogliere Dio, di non cogliere Cristo…

Se una cosa è peccato – in conformità al paradigma fondamentale della Scrittura – è inutile che tentiamo di ridurne la portata e le conseguenze o di metterci in una prospettiva dalla quale si possa sperare che non tutto è perduto.

Il peccato infatti resta inevitabilmente un fallire Dio, un mancare allo scopo, un uscire dalla nostra strada cioè dalla strada di Dio verso di noi; quindi un rimanere sicuramente fuorviati, quanto a noi, se non c’è un nuovo intervento divino.

Quante volte questo è riproposto nel Nuovo Testamento!

Le parabole classiche che abbiamo ben presenti nell’anima non ci dicono altro che questo. Basterà richiamare alcuni testi che distribuisco secondo una certa classificazione.

Nel Nuovo Testamento il termine amartia ( peccato ) si presenta con tre sensi: uno che non è tipico del Nuovo Testamento, gli altri due che vi ricevono un’accentuazione tutta propria.

a ) In un primo senso il termine si riferisce a singoli atti di peccato; i testi che si potrebbero citare al riguardo sono infiniti: praticamente tutti i Sinottici, gli Atti, le Lettere pastorali ecc. In questi brani con assoluta prevalenza il peccato, o meglio i peccati al plurale, sono sempre singoli atti di peccato.

b ) In un secondo senso, molto diverso e caratteristico del Nuovo Testamento – almeno nel modo forte con cui viene proposto – il peccato non è più inteso come singolo atto, ma come dimensione dell’uomo storico e perciò come dimensione universale di tutti gli uomini. Questo si riscontra non solo nei testi in cui è più esplicito il rapporto con il peccato di Adamo, ma anche in molti altri. E’ specifica del Nuovo Testamento la trasformazione di questo senso del peccato sino alla sua universalizzazione come ostilità a Dio che è propria dell’uomo storico universale.

Potremmo dire che in genere, salvo tre o quattro testi che fanno eccezione, questo è il senso del peccato che si trova abitualmente nel quarto vangelo e negli scritti giovannei. Possiamo leggere qualche passo:

“Di nuovo dunque Gesù disse loro; Io me ne vado e voi mi cercherete, ma morirete nel vostro peccato. Dove vado io voi non potete venire” ( Gv 8,21 ).

Come in altri testi di Giovanni, la parola è presa al singolare e denuncia una condizione globale – non un singolo atto – da cui l’uomo non può uscire, così come non si può mettere nella via di Dio e arrivare all’appuntamento con lui: “dove vado io voi non potete venire”.

“Gli risposero, gridandogli ( al cieco nato ): “Sei nato nei peccati da capo a piedi e ci vuoi far da maestro?”( Gv 9,34 )

Si testimonia qui, fra l’altro, una partecipazione a questa dottrina da parte del tardo giudaismo. Io non ho esaminato questo capitolo 9 come avrei dovuto, esso è però importante come ponte di passaggio dalla dottrina dell’Antico Testamento a quella del Nuovo:

“E, uditolo, alcuni farisei che erano con lui, gli domandarono: “Siamo forse ciechi anche noi”: Gesù rispose: “Se foste ciechi, non avreste colpa; invece voi dite: Noi vediamo. Il vostro peccato dunque rimane” ( Gv 9,40 ).

Prestate attenzione al fatto che anche qui si parla di peccato e non di peccati, evidentemente si considera una condizione complessiva e globale che interessa non un uomo, rispetto a una singola azione, ma tutti in ordine a tutto.

Importantissimo a questo proposito è il discorso della seconda parte di Gv 15:

“Ma tutto questo faranno contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato. Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero colpa, ma ora non hanno scusa del loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio” ( Gv 15,21-23 ).

Il concetto di peccato qui viene ancora più esplicitamente riportato al concetto di odio a Dio, che si specifica e si personalizza nell’odio a Cristo:

“Se non avessi fatto fra loro opere che nessun latro mai fece, sarebbero senza colpa; ma ora, anche dopo averle vedute, hanno odiato me e il Padre mio. Ma ciò è avvenuto affinché si adempisse la parola scritta nella legge: Mi odiarono senza ragione” ( Gv 15,24-25 ).

L’odio è sempre inspiegabile e ancor più l’odio a Dio. Per questo aspetto il peccato è puro mistero: “mi odiarono senza ragione”.

Con la ragione non potrei mai rendermi conto di quella che è la dimensione del peccato, né della sua portata oggettiva, né delle sue motivazioni profonde, né dello spirito al quale nel peccato io partecipo.

Veramente si può dire di esso che è un odio senza ragione, una partecipazione a uno spirito contrario allo spirito della verità e della vita. Se cerco di razionalizzare il discorso non potrò mai veramente cogliere la nozione biblica di peccato…

A conclusione possiamo affermare che, fuori dal Cristo e dalla sua morte e risurrezione, l’uomo vive e muore non nei peccati, ma nel peccato. Ed è per questo che Giovanni, proprio nell’esordio del suo Evangelo, dirà di Cristo che egli è colui che è venuto a togliere il peccato del mondo ( cf. Gv 1,29 )…

C ) Passiamo ora al terzo senso del termine peccato nel Nuovo Testamento.

Finora abbiamo detto: non un singolo peccato, ma condizione globale dell’uomo e dell’umanità, tanto che si può stabilire un’equazione: uomo e umanità uguale a peccatore e peccato.

Come c’è una personalità unitaria sovrannaturale dell’umanità intera nella giustizia di Dio, così nel Nuovo Testamento c’è inevitabilmente un’indicazione verso una personificazione del peccato.

A questo si riferiscono i testi nei quali si parla di peccato al singolare e con l’articolo determinativo.

La tendenza alla personificazione del peccato si fa più evidente nei capitoli 5,6 e 7 dell’Epistola ai Romani.

Potremmo esaminare gli elementi di questa personificazione: il peccato che nasce con la legge, il peccato che muore con l’avvento e la morte di Cristo, il peccato che signoreggia nelle membra del corpo di peccato, che regna nella carne dell’uomo ( l’uomo totale nella sua condizione di creatura inferma e degradata è cioè ancora soggetto al peccato) e così via.

Ora abbiamo considerato tutti questi elementi con uno sguardo fuggitivo. Mi pare particolarmente significativo un testo di Giovanni:

“Gli opposero: “Noi siamo progenie di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno; come dunque dici tu: sarete liberi”?. Rispose loro Gesù: “In verità vi dico: chi fa il peccato è schiavo del peccato”. ( Gv 8,33-34 ).

È un’affermazione forte, che tende a riproporre l’esistenza di due sfere, di due domini che si contendono la realtà dell’uomo, e il fatto che non si dà possibilità di sottrarsi all’uno se non accettando di essere totalmente sotto il dominio dell’altro.

Queste due sfere non sono semplicemente di carattere psicologico, ma hanno una loro realtà, un’effettiva consistenza ontologica, tale che obiettivamente si può parlare di due domini.

Quando non si è nel dominio di Dio e totalmente attaccati a lui, inevitabilmente si ricade nel dominio di queste forze di cui cominciamo a individuare la possibilità di personalizzazione. Il peccato è qualcosa di ulteriore, che sta dietro all’atto. 87 metà

Se abbiamo capito cos’è il peccato e come non possiamo rapportarlo al nostro concetto di illecito o di lecito ne deriva che lo stato oggettivo del peccato rispetto a Dio resta, nonostante l’ignoranza.

È il capovolgimento della posizione ellenistica, platonica, socratica, e mostra come il peccato sia una condizione oggettiva, globale dell’uomo, da cui egli esce solo per un contatto diretto con Dio, con Cristo, e non per effetto di una diminuzione della sua responsabilità come noi la concepiamo. Solo quando Dio mi recupera, mi rigenera, mi ricostruisce, solo quando mi comunica il suo Spirito Santo e crea in me un cuore nuovo, io esco dalla condizione di peccato…

La salvezza non è altro che il realizzarsi di un’iniziativa misericordiosa di Dio – che si chiama perdono, misericordia, riconciliazione – la quale si concreta in una spoliazione dell’uomo vecchio, ossia in un procedimento di distruzione e di morte da un lato, e in una rigenerazione e ricreazione dell’uomo nuovo nello Spirito di Dio dall’altro, quindi in un procedimento effettivo di nuova creazione e di risurrezione.

 

Peccato e gioia escatologica

Non sono persuaso che la dimensione del peccato, nei termini auspicabili secondo una riflessione più profonda sul Nuovo Testamento, ci sia stata in secoli o in situazioni in cui si parlava del peccato in termini molto impegnati e, se volete, molto colorati.

Non possiamo considerarci viventi nella dimensione reale del cristianesimo se non affrontiamo con estrema serietà l’ argomento.

Lo stesso discorso dell’immensa gioia della pacificazione in Cristo e della riconciliazione nostra in lui nella sua morte e risurrezione, non ha senso se non è adeguatamente compresa tutta la dimensione del peccato. La dimensione della gioia è infatti correlativa e coestensiva a quella del peccato.

Solo misurando l’infinita dimensione del peccato rispetto a Dio, all’uomo e all’umanità, si può coestensivamente capire l’illimitata dimensione della gioia escatologica che il Cristo ha donato portandoci l’escaton, l’ultimo evento che è appunto la riconciliazione dal peccato.

In fondo è un medesimo discorso, con una stessa estensione, che richiede che entriamo completamente nel gioco.

Il peccato nella prospettiva biblica, e particolarmente secondo il Nuovo Testamento, investe la totalità della persona in tutte le sue espressioni, esteriori e interiori, sia che si esauriscano nella pura soggettività, sia che incidano ledendoli, sui rapporti con gli altri.

In questo senso il peccato non è solo una di queste modalità o di questi aspetti, ma peccato sono tutte queste modalità e tutti questi aspetti.

È cosa ovvia che non metterebbe conto di essere sottolineata se questo non fosse oggi troppo dimenticato, anzi addirittura contestato.

La prospettiva del peccato che va più di moda è quella che lo considera esclusivamente, o quasi, in quanto porta lesioni ad altri.

Questa concezione rientra in una mentalità che risente della visione del mondo oggi particolarmente affermata da certe posizioni dottrinali egemoniche.

Risente della necessità di recuperare una dimensione essenziale del cristianesimo, trascurata nei secoli passati, relativa al senso comunitario del piano di salvezza del signore e della sua realizzazione nell’incarnazione e nella comunità cristiana.

Tutto questo ci rende giustamente più attenti alla dimensione comunitaria del peccato.

Nel concreto però della nostra pratica quotidiana riguardo a questo ricupero ci sono un’accentuazione delle conseguenze e un modo di esprimersi che prescindono dagli elementi più propri della visione cristiana e della sua dimensione comunitaria, e si contaminano invece con una visione eminentemente sociologica, ricavata dalla cultura dominante, la quale non conosce altra dimensione del male che quella che si manifesti concretamente lesiva della situazione altrui. In questo modo ha sempre meno rilievo quella dimensione del male che è priva di un’espressione sociale e che si presenta come mancanza di fronte a Dio, senza che si concreti nella lesione di un altro soggetto.

Sappiamo bene che di questo tipo di mancanze ce ne sono; nell’elenco  che il Nuovo Testamento ci pone sotto gli occhi troviamo peccati a una dimensione e peccati a due dimensioni.

Tutti hanno in comune l’essenza fondamentale del peccato, la separazione da Dio; alcuni la realizzano con un atto i9nteriore o che comunque non ha ripercussioni dirette nei confronti del prossimo, altri invece la realizzano con un atto che implica lesione agli altri.

Anche se c’è un più o un meno, tutto è da presentare all’occhio di Dio e tutto può essere peccato di fronte a lui. Del resto non abbiamo bisogno di insistere perché questo è l’evangelo.

L’evangelo ci insegna che ci sono dei peccati interni che non si consumano in nessun atto, e che ci sono dei peccati i quali non implicano nessuna conseguenza per gli altri, ma sono peccati, e ci insegna soprattutto che è nell’interno che il peccato deve essere cercato.

“Ora, egli diceva: “Quello che esce dall’uomo invece è ciò che contamina l’uomo. Infatti dal di dentro, dal cuore degli uomini, escono i cattivi pensieri: dissolutezze, latrocini, assassinii, adulteri, cupidigie, cattiverie, frode, impudicizia, invidia, diffamazione, orgoglio, stoltezza. Tutte queste cose malvagie vengono dal di dentro e contaminano l’uomo” ( Mc 7,20 -23 ).

È la nostra carne, nel senso della nostra personalità carnale, ad essere impregnata di peccato in tutte le sue cellule, in tutte le sue dimensioni sia individuali che collettive.

Quindi soltanto un’immersione totale, un battesimo nel sangue e nello Spirito di Cristo può restaurare l’integrità e l’unità del nostro essere e presentarci al cospetto di Dio nella pienezza delle nostre dimensioni, per le opere buone per le quali Dio ci ha creato in Cristo Gesù. Il peccato non è in rapporto alle cose o ai singoli soggetti, ma è in rapporto a Dio e all’incontro personale con lui.

Più precisamente, da quando l’evangelo è predicato, il peccato è in rapporto a Cristo, alla sua persona, alla totalità della donazione nostra al suo servizio, al nostro perfetto e totale aderire a lui, al porci completamente sotto il suo dominio.

 

Racconti di un pellegrino russo

 

“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni gran peccatore, per condizione un pellegrino senza tetto, della specie più misera, sempre in giro da paese a paese. Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco, nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta”.

 

Così inizia il libro: con un ritratto che il narratore fa di se stesso. Il racconto è tutto centrato su di un’unica figura, non per amore di protagonismo, ma per significare l’unica vita che ha valore davanti a Dio. Come è e come dovrebbe essere ogni uomo che cerca solo l’obbedienza alla volontà del Signore?

 

“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano.

 

Innanzitutto c’è la consapevolezza che è già una grazia di Dio essere venuti al mondo, non come creature qualsiasi, ma come uomini, cioè creature fatte ad immagine e somiglianza del Creatore.

Portiamo il nome di cristiani, perché morti in Adamo, siamo stati rigenerati in Cristo, non per merito nostro, ma semplicemente per suo amore.

 

“Per azioni gran peccatore.”

 

 Benché fatti nuovi, giustificati e santificati nel nome Suo, in tutto questo di nostro c’è solo il peccato.

 

“Per condizione un pellegrino senza tetto.”

 

Non è possibile rimanere nella novità di vita portata dal Cristo se non come pellegrini e viandanti su questa terra. La nostra patria è nei cieli e non ci è consentito di mettere radici su questa terra.

 

“Della specie più misera, sempre in giro da paese a paese”

 

In questo mondo ci sono anche i pellegrini di lusso che vanno in giro come turisti ricchi e sfaccendati. Noi cristiani siamo della specie più misera. Andiamo da paese a paese non perché non ci basta la nostra terra, ma perché non abbiamo alcuna terra, dove posare il capo.

 

“Per ricchezza ho sulle spalle un sacco con un po’ di pane secco”

 

La nostra ricchezza  materiale? Il minimo indispensabile per vivere: il pane quotidiano che ogni giorno chiediamo al Signore e che ci è da Lui donato.

Dove lo teniamo questo pane? Non in luogo sicuro: lo portiamo sempre sulle nostre spalle come un peso che ci costa fatica e come un bene che tutti ci possono contendere e portare via.

 

Ogni giorno siamo nella condizione di dover dire al Padre: dacci oggi il pane quotidiano.

 

“Nel mio camiciotto la santa Bibbia, e basta”.

 

La nostra ricchezza spirituale?

La Parola di Dio, che teniamo nascosta, vicino al nostro cuore, perché non cada lontano dal nostro ascolto.

 

“E basta.”

 

Non c’è altro da dire e da aggiungere: tutto qui il senso di una vita in Cristo.

Il racconto che sta per iniziare non si può intendere né vuole essere accolto all’infuori di questa breve premessa, che ne manifesta il suo fondamento ed il suo fine.

 

 “La ventiquattresima domenica dopo la Trinità sono entrato in chiesa per pregare mentre si recitava L’Ufficio; si leggeva L’Epistola dell’Apostolo ai Tessalonicesi, in quel passo dove è detto: Pregate incessantemente. Quella parola penetrò profondamente nel mio spirito, e mi chiesi come sarebbe stato possibile pregare senza posa dal momento che ognuno di noi deve occuparsi di tanti lavori per sostentare la propria vita. Ho cercato nella Bibbia ed ho letto coi miei occhi proprio quel che avevo inteso: Bisogna pregare incessantemente, pregare con lo spirito in ogni occasione, pregare in ogni luogo alzando mani pure.

 

Non siamo all’inizio di un cammino spirituale.

Cristo è già stato scelto come l’unico bene della vita: per suo amore si rinuncia a tutto quanto si possiede. La casa, la terra, la famiglia, le ricchezze sono già state gettate alle spalle e si vive come stranieri e pellegrini in questo mondo. La Parola di Dio è sempre sulle nostre labbra e vicino al nostro cuore. Se dunque si può dire “e basta” cosa manca per una fedeltà a Dio più piena e completa?

 

Uno spirito di preghiera continua.

 

Non si tratta di un qualcosa in più e di diverso rispetto alla normalità della vita cristiana, ma di una conquista dello spirito necessaria per alimentare e sostenere il tutto, per non ritornare sui passi di un tempo e per custodire con gioia i doni di Dio.

 

Avevo un bel riflettere, non sapevo proprio cosa decidere. Che fare? Pensavo. Dove trovare qualcuno che mi possa spiegare quelle parole? Andrò nelle chiese dove predicano uomini di grande fama, e forse là troverò quel che cerco. E mi misi in cammino. Ho ascoltato molte prediche magnifiche sulla preghiera. Erano però istruzioni  sulla preghiera in generale: che cosa è la preghiera, perché è necessario pregare, quali sono i frutti della preghiera. Ma come arrivare a pregare veramente, su questo, nemmeno una parola… Così frequentando le prediche non sono riuscito ad avere quel che desideravo. Allora ho smesso di andare alle prediche e ho deciso di cercare con l’aiuto di Dio un uomo sapiente ed esperto, che mi sapesse spiegare quel mistero dal quale il mio spirito era rimasto invincibilmente attratto. Quanto tempo ho camminato! Leggevo la Bibbia e chiedevo se non si potesse trovare in qualche luogo un maestro spirituale o una guida saggia e piena di esperienza…

Una volta mi fu detto che in un villaggio viveva da molti anni un signore che si occupava di salvare l’anima sua: egli ha una sua cappella, non si muove mai e senza posa prega Dio e legge libri spirituali. A queste parole non camminai più, ma mi misi addirittura a correre verso il villaggio; vi giunsi e mi diressi subito alla casa di quel signore.

-Che vuoi da me? – mi chiese.

- Ho sentito dire che siete un uomo pio e saggio; per questo vi chiedo in nome di Dio di spiegarmi che cosa vuol dire questa espressione dell’Apostolo: Pregate incessantemente, e come sia possibile pregare in questo modo. Ecco quel che voglio capire e pure non ci so arrivare da solo. Il signore rimase qualche istante in silenzio, mi guardò con attenzione e disse:

- La preghiera è lo sforzo ininterrotto dello spirito umano per giungere a Dio. Per riuscire in questo benefico esercizio, conviene chiedere spesso al Signore di insegnarci a pregare incessantemente. Prega di più e con più zelo; la preghiera ti farà capire da sé come può diventare incessante; per questo ci vuole molto tempo… Ma non aveva saputo spiegare nulla.

Ripresi la mia via; pensavo leggevo, riflettevo come meglio potevo a quel che mi aveva detto quel signore, e pure mi era impossibile comprendere; ma avevo tanta voglia di arrivarci che le mie notti passavano senza sonno.

 

Finalmente il pellegrino giunge ad un eremo dove può parlare con un vecchio starets.

 

Vedete, padre, è un anno ormai che, ascoltando leggere l’ufficio, ho inteso questo comando dell’Apostolo: Pregate incessantemente. Non sapendo come interpretare questa espressione, mi sono messo a leggere la Bibbia. E anche in essa, in molti passi, ho trovato il comando di Dio: bisogna pregare senza posa, sempre in ogni occasione, in ogni luogo, non solo durante il lavoro quotidiano, non solo quando si è svegli, ma anche nel sonno: “Io dormo, ma il mio cuore è desto”…Mi sono messo a frequentare le chiese… ho ascoltato le prediche sulla preghiera; ma ascolta ascolta non ho mai sentito dire come si fa a pregare senza posa… Ho letto spesso la Bibbia  e vi ho trovato quel che avevo sentito; ma non sono ancora riuscito a comprendere quello che vorrei sapere. Così da quel tempo io continuo ad essere incerto ed inquieto. Lo starets fece il segno di croce e si mise a parlare:

Ringrazia Dio, fratello caro, perché ti ha rivelato un’attrazione così viva verso l’incessante preghiera interiore. Vedi in questo la chiamata di Dio e calmati, pensando che così l’accordo tra la tua volontà e la volontà divina è stato pienamente provato; egli ti ha dato di comprendere che né la saggezza di questo mondo, né un desiderio vano di conoscenza possono guidare alla luce celeste – l’incessante preghiera interiore – ma la povertà di spirito e l’esperienza attiva nella semplicità del cuore. Ecco perché non fa meraviglia che tu non abbia inteso nulla di profondo sull’azione di pregare e che non abbia potuto imparare come giungere a questa attività perpetua… Molti commettono un grande errore quando pensano che i mezzi preparatori e le buone azioni generano la preghiera, mentre in realtà la fonte delle opere e di tutte le virtù è proprio la preghiera. Essi erroneamente scambiano i frutti o le conseguenze della preghiera con i mezzi per arrivarci, e così ne diminuiscono la forza. E’ un punto di vista completamente opposto alla Scrittura perché l’apostolo Paolo così parla della preghiera: “Ti raccomando prima di tutto che si facciano preghiere”. Così L’Apostolo pone la preghiera al di sopra di tutto: Ti raccomando, prima di tutto, che si facciano preghiere.

 

Al cristiano si chiede di compiere molte opere buone, ma l’opera della preghiera è al di sopra di tutte le altre, perché senza di essa non si può trovare la via che conduce al Signore, conoscere la verità, crocifiggere la carne con le sue passioni e i suoi desideri, essere illuminati nel cuore dalla luce di Cristo e unirsi a lui nella salvezza. Tutto questo non può avvenire senza il primato di una preghiera frequente. Dico “frequente”, perché la perfezione e la correzione della nostra preghiera non dipendono da noi, come ancora dice l’Apostolo: “Non sappiamo quel che bisogna domandare”. Solo la frequenza è lasciata in nostro potere come mezzo per raggiungere la purezza della preghiera, che è la madre di ogni bene spirituale. “Acquista la madre ed avrai una discendenza”, dice sant’Isacco il Siriaco, insegnando che bisogna acquisire prima la preghiera per poter mettere in pratica tutte le virtù…

 

Per non separarmi da quel saggio vecchietto e soddisfare tutto il mio desiderio, mi affrettai a dirgli:

-Vi prego, venerando padre. Spiegatemi cos’è la preghiera incessante e come la si può imparare; vedo che voi ne avete un’esperienza profonda e sicura. Lo starets accolse la mia domanda con bontà e mi invitò a rimanere con lui: – Vieni da me, ti darò un libro dei Padri che ti farà comprendere in modo chiaro che cosa sia la preghiera e te la farà imparare con l’aiuto di Dio. Entrammo nella sua cella e lo starets mi rivolse queste parole: – La preghiera di Gesù, interiore e costante, è l’invocazione continua ed ininterrotta del nome di Gesù con le labbra, con il cuore e con l’intelligenza, nella certezza della sua presenza in ogni luogo, in ogni tempo, anche durante il sonno. Si esprime con queste parole: Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!”.

 

Chi si abitua a questa invocazione ne riceve gran consolazione e prova il bisogno di dire sempre questa preghiera; dopo un po’ di tempo, non si può vivere senza, ed essa scorre in lui come da sola.

 

Comprendi ora cos’è la preghiera incessante?

 

-Lo comprendo benissimo padre! In nome di Dio, insegnatemi ora come arrivarci! – esclamai pieno di gioia. – Come s’impari la preghiera, lo vedremo in questo libro, che si chiama Filocalia, e contiene la scienza completa e particolareggiata dell’incessante preghiera interiore esposta da venticinque Padri; è così utile da essere considerato la guida essenziale della vita contemplativa e, come dice il beato Niceforo, “ conduce alla salvezza senza pena e senza dolore”…

 

Lo starets aprì la Filocalia, scelse un passo di san Simeone il Nuovo Teologo e cominciò. “Rimani assiso nel silenzio e nella solitudine, piega il capo, chiudi gli occhi; respira più dolcemente, guarda con l’immaginazione nell’intimo del tuo cuore, raccogli la tua intelligenza, ossia il tuo pensiero, dalla testa al cuore. Scandisci respirando: “ Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”, a voce bassa, o anche soltanto con la mente. Sforzati di cacciar via ogni pensiero, sii paziente e ripeti spesso questo esercizio”…

Per una settimana mi esercitai nella solitudine del mio orticello allo studio della preghiera interiore, seguendo esattamente i consigli dello starets. Da principio, tutto pareva andare bene. Ma poi sentii una gran pesantezza, pigrizia, noia, un sonno invincibile e i pensieri si abbatterono su di me come nuvole. Andai dallo starets pieno di preoccupazione e gli esposi il mio stato. Mi accolse con bontà e mi disse:

Fratello caro, è la lotta che conduce contro di te il mondo oscuro, perché non c’è nulla che esso tema tanto quanto la preghiera del cuore. Ma il nemico non agisce che secondo la volontà ed il permesso di Dio, nella misura che a noi è necessaria. E’ certamente opportuno che la tua umiltà venga ancora messa alla prova; è troppo presto per arrivare e con uno zelo eccessivo alle soglie del cuore, perché correresti il rischio di cadere nell’avarizia spirituale. Ti leggerò ora quel che dice in proposito la Filocalia.

Lo starets cercò tra gli insegnamenti del monaco Niceforo e lesse: “Se malgrado tutti gli sforzi, fratello, non puoi entrare nella regione del cuor, come io ti ho consigliato, fa’ quel che ti dico e, con l’aiuto di Dio, troverai quello che cerchi. Tu sai che la ragione di ogni uomo sta nel petto… A questa ragione leva via dunque ogni pensiero ( lo puoi se vuoi ) e ripeti “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me”. Cerca di sostituire con questa invocazione interiore ogni altro pensiero, ed alla fine questo ti aprirà certamente la soglia del cuore: l’esperienza lo garantisce”.

-Vedi quel che insegnano i Padri in questo caso- mi disse lo starets. – Perciò devi accettare questo consiglio con fiducia e recitare finchè puoi la preghiera di Gesù. Ecco qua un rosario che ti servirà per recitare tremila preghiere al giorno, per cominciare. In piedi, seduto, sdraiato o in cammino, tu dirai sempre, senza posa: “Signore Gesù Cristo, abbi pietà di me!” dolcemente e senza fretta. E recita esattamente tremila preghiere al giorno senza aggiungere o saltarne alcuna. Potrai così arrivare all’incessante attività del cuore. Accolsi con gioia le parole dello starets e tornai alla mia capanna. Mi misi a fare per filo e per segno quel che mi aveva insegnato. Per due giorni ci fu qualche difficoltà, poi questo divenne così facile che quando non dicevo la preghiera, sentivo il bisogno di riprenderla ed essa scorreva facile e leggera senza più l’applicazione costretta dell’inizio…

 

Dopo un po’ di tempo, su consiglio dello starets il pellegrino passa da tremila a seimila preghiere al giorno.

 

Per tutta una settimana rimasi nella mia capanna solitaria a recitare ogni giorno le mie seimila preghiere senza preoccuparmi di niente altro e senza dover lottare contro le distrazioni… Che avvenne? Mi abituai così bene alla preghiera che, se mi fermavo anche solo un istante, sentivo un vuoto come se avessi perduto qualcosa; non appena ricominciavo la mia preghiera, mi sentivo di nuovo leggero e felice. Se incontravo qualcuno, non avevo voglia di parlare, desideravo soltanto stare in solitudine e recitare la preghiera, tanto mi ero abituato nel giro di una settimana.

Lo starets che non mi vedeva ormai da dieci giorni venne da me egli stesso, a sentire mie notizie; gli spiegai quel che mi accadeva. Mi ascoltò, poi disse: – Eccoti abituato alla preghiera. Vedi, bisogna ora conservare quest’abitudine e rafforzarla; non perdere tempo, e con l’aiuto di Dio impegnati a recitare dodicimila preghiere al giorno; rimani in solitudine, alzati un poco prima, coricati un poco più tardi e vieni a trovarmi due volte ogni mese… Così, per cinque giorni, eseguii fedelmente le dodicimila preghiere ed insieme con l’abitudine acquistai anche la gioia ed il gusto della preghiera. Un mattino per tempo fui, si può dire, svegliato dalla preghiera.

Cominciai a dire le mie orazioni del mattino, ma la lingua mi si inceppava e non avevo altro desiderio che quello di recitare la preghiera di Gesù. Non appena cominciai, divenni tutto gioioso, le mie labbra si movevano da sole e senza sforzo. Passai tutta la giornata in letizia. Ero come tagliato fuori da tutto e mi sentivo in un altro mondo; terminai senza difficoltà le mie dodicimila orazioni prima della fine della giornata.

Andai a visitare lo starets e gli raccontai  ogni cosa nei più minuti particolari. Alla fine egli mi disse:

-Dio ti ha dato il desiderio di pregare e la possibilità di farlo senza fatica. E’ un effetto naturale, prodotto dall’esercizio e dall’applicazione costante, come una ruota che si fa girare intorno a un perno; dopo una spinta essa continua a girare su se stessa, ma per far sì che il movimento duri bisogna ungere il meccanismo e dare nuove spinte. Tu vedi ora quali facoltà meravigliose il Dio amico degli uomini ha dotato la nostra natura sensibile, e hai conosciuto le sensazioni straordinarie che possono nascere anche nell’anima peccatrice, nella natura impura che non è illuminata ancora dalla grazia. Ma quale grado di perfezione, di gioia e di rapimento non raggiunge l’uomo, quando il signore vuole rivelargli la preghiera spirituale spontanea e purificare l’anima sua dalle passioni? E’ uno stato inesprimibile e la rivelazione di questo mistero è un anticipo della dolcezza celeste. E’ il dono che ricevono coloro che cercano il Signore nella semplicità di un cuore che trabocca d’amore!…

Obbedendo a questa regola, passai tutta l’estate a recitare senza posa la preghiera di Gesù e fui veramente sereno. Durante il sonno, sognavo a volte di star recitando la preghiera. E durante la giornata, quando mi capitava di incontrare delle persone, esse mi parevano così care come se fossero state membri della mia famiglia. Le distrazioni si erano placate e io non vivevo che con la preghiera; cominciavo ad indurre il mio spirito ad ascoltarla e a volte il mio cuore ne riceveva un senso di calore e di gioia immensi. Quando mi succedeva di entrare in chiesa, il lungo servizio della solitudine mi pareva breve e non mi stancava più come un tempo. La mia solitaria capannuccia mi pareva un palazzo meraviglioso, e non sapevo come ringraziare Dio di aver mandato a me povero peccatore, uno starets dagli ammaestramenti così preziosi.

 

Una riflessione a questo punto.

 

La preghiera è dunque il risultato di un esercizio continuo, che segue regole precise, innesco di un meccanismo che una volta avviato procede da solo per forza propria, senza sforzo alcuno e volontà nostra? Non sembra proprio così.

 

La preghiera del cuore è la preghiera dei semplici, ma semplici davanti a Dio non sono  tutte le persone prive di sovrastrutture intellettuali: i semplici sono i puri di cuore, ovvero coloro che hanno libero il loro cuore da ogni altro padrone che non sia Cristo Gesù.

Vi è dunque un cammino di conversione per arrivare alla preghiera del cuore.

Innanzitutto dobbiamo essere alla sequela di Cristo, con tutto ciò che essa comporta. Soltanto allorché sono create le condizioni per essere discepoli e si cammina sulla strada segnata da Gesù si può cercare il modo perché questo cammino proceda spedito, confortato dalla gioia, che viene da un cuore visitato ogni giorno dal Signore.

 

La preghiera del cuore non dice e non può dire nulla a coloro che non sono di Cristo. Una vita nascosta in Gesù va custodita, coltivata, accresciuta, fatta bella e resa gioiosa da una adesione continua, incessante, al Sua amore.

 

Un rapporto d’amore si definisce innanzitutto in relazione alla Parola che lo fonda e alla Parola che lo sostiene. Abbiamo visto quale potenza di conversione ci sia offerta nell’ascolto della Parola di Dio. Abbiamo pure parlato di un ritorno della Parola al suo fondamento eterno per bocca dell’uomo, allorché prega con la stessa Parola.

 

Bonhoeffer ci ha illuminato riguardo all’importanza della preghiera fatta con i salmi. E’ Gesù stesso che ci ha insegnato a pregare nel Padre Nostro.

Abbiamo visto come ogni insegnamento riguardo alla preghiera non può che riguardare il suo contenuto, cioè ciò che si deve chiedere, non la sua forma.

 

Non esiste dunque un problema del come pregare che interessi il suo aspetto più propriamente tecnico- pratico ovvero quali modalità e strategie possiamo o dobbiamo mettere in atto per una preghiera vera e fruttuosa? La preghiera del cuore è forse la risposta ad una simile domanda?

 

Non sembra proprio.

Non si può far propria la preghiera del pellegrino russo, se prima non si è fatti simili a lui nella fede.

 

Il racconto comincia da e con un uomo spoglio di ogni bene, senza terra e senza dimora, che si accontenta del pane quotidiano e che non lascia spazio a nessun ascolto se non alla Parola di Dio.

Ma non è ancora tutto: non basta essere di Cristo, bisogna dimorare in Cristo.

L’ascoltare la Parola ed il dire la Parola ci pongono in Gesù; ma come rimanere ?

 

C’è bisogno per questo non della semplice preghiera, ma di una preghiera incessante che continuamente, in ogni momento della giornata ci riporti al Cristo e ci rifondi in Lui, come in un’eterna generazione al suo amore, che non è mai data una volta per tutte, ma che si rinnova continuamente in un atto perenne, senza sosta, senza tempo.

Il Cristo, che è la Parola, tutto ha fatto in noi e per noi, ma come rimanere sempre in Lui?

 

Attraverso un moto del cuore che non può conoscere la stanchezza dell’ascoltare e del dire la Parola, ma che si autofonda nella Parola in modo immediato, in virtù del suo essere perennemente presente davanti a Dio, come desiderio del Figlio suo, in ogni momento della giornata, quando si veglia, ma anche quando si dorme. Non può essere un semplice moto dell’anima, perché l’anima come psiche segna delle battute d’arresto e di stanchezza. Bisogna scendere nel più profondo del nostro cuore per trovare in esso lo Spirito di Dio, per aderire al suo moto, al suo sentimento, per lasciarlo esprimersi liberamente, senza porre i freni della nostra volontà.

 

Il problema non è formale, ma riguarda la sostanza, la nostra realtà più profonda fatta ad immagine di Dio. Allorché abbiamo pregato con Cristo ed in Cristo di liberarci dallo Spirito del Maligno, è lo Spirito santo che fa sentire in noi la sua voce e la sua potenza di rigenerazione.

 

Dopo che abbiamo pregato il Padre con le parole del Figlio dobbiamo lasciar pregare in noi lo Spirito Santo: è lo Spirito la garanzia di una preghiera che non viene mai meno, ma si pone davanti a Dio come perenne gloria al suo nome. Per noi è solo questione di volontà, di desiderio di essere ogni momento con Dio e davanti a Dio. Allorché lo spirito Santo ha avuto da noi via libera sulla nostra volontà, può agire ed operare in essa a suo piacimento: è Lui stesso che suscita in noi la preghiera del cuore. Bisogna volere ogni momento il Signore, ma allorché si vuole è lo stesso Spirito che mette in noi le sue radici, perché la volontà nostra non venga meno. La volontà genera altra volontà: più si vuole e più è fatto semplice il volere. Non siamo lasciati soli in balia dei mutamenti della nostra psiche:  veniamo rafforzati dallo Spirito.

 

Niente di meccanico dunque nella preghiera del cuore e neppure un dono dato ad arbitrio agli uni e negato agli altri, ma operazione dello Spirito Santo, che trovata la sua naturale dimora, dal profondo della creatura innalza l’inno di amore al Creatore.

Il cammino in Cristo non è agevole, ma è reso più facile dalla presenza dello Spirito, perché anche noi possiamo dire come l’Apostolo che sovrabbondiamo di gioia in ogni tribolazione.

 

Ed ora eccomi pellegrino, recitando senza posa la preghiera di Gesù che mi è più cara e più dolce di ogni altra cosa al mondo. Talvolta percorro più di settanta verste in un giorno e non mi accorgo di camminare; sento soltanto che recito la preghiera.

Quando un freddo violento mi colpisce, recito la preghiera con maggiore attenzione e ben presto mi sento caldo e confortato: Se la fame si fa troppo insistente, invoco più spesso il nome di Gesù Cristo e non mi ricordo più di aver avuto fame. Se mi sento male e la schiena o le gambe mi dolgono, mi concentro nella preghiera e non sento più dolore. Quando qualcuno mi insulta, non penso che alla benefica preghiera di Gesù; immediatamente collera o pena svaniscono e dimentico tutto. Il mio spirito è diventato semplice, veramente. Non mi do pena di nulla, nulla mi occupa, nulla di quanto è esteriore mi trattiene; vorrei essere sempre in solitudine; per abitudine, non ho che un bisogno solo: recitare senza posa la preghiera, e quando lo faccio divento allegro. Dio sa che cosa si compie in me… Aspetto l’ora di Dio sperando nella preghiera del mio starets defunto.

 

Alcune considerazioni riguardo alla preghiera del cuore.

L’invocazione incessante del nome di Gesù espresso nella formula: “Signore, Gesù abbi pietà di me” ha avuto grande fortuna nella chiesa d’Oriente, al punto che le è stato riconosciuto un valore teologico molto grande, ricco di significati e valenze, portatore di ogni grazia così come illustrato ampiamente nel testo pubblicato sul forum nicomos, fattoci pervenire da un fratello carmelitano.

Più semplicemente vorremmo sottolineare che si tratta di una preghiera che è adempimento pieno di quanto suggerito e comandato da Gesù nel Padre nostro.

“Sia santificato il tuo nome”. Viene prima di tutto il resto, come ciò che è considerato prioritario, quasi una conditio sine qua non perchè ci possa essere una autentica preghiera a Dio.

Sappiamo quale importanza fosse data dagli ebrei al nome di Dio. Il nome di Dio non è un semplice accostamento di suoni, non una parola come le altre, ma la Parola per eccellenza, la cui invocazione e pronuncia ci mette direttamente in rapporto con la Persona.

Se nelle parole si può distinguere il  significante ( lettere e suoni ) ed il significato ( ciò o colui che si vuole significare), per quel che riguarda il nome di Dio, Javè, non si può porre questa distinzione. E’ un nome unico ed esclusivo, che non si può pronunciare se non per aderire in maniera immediata e senza riserva all’Essere significato. Pronunciando il nome di Dio, noi accogliamo la sua persona così com’è, e come ci è dato conoscere. Un essere la cui invocazione comporta di per sé l’accettazione dei suoi comandi, di ogni sua volontà ed alla fine del suo eterno progetto d’amore in Cristo. Nominare invano il nome di Dio, significa innanzitutto invocarLo in maniera sbagliata e vuota, cioè senza intima adesione a quello che Egli è veramente in se stesso e a quello che vuole essere per ognuno di noi. Niente di magico dunque nell’invocazione e nella proclamazione del nome di Dio, ma rapporto diretto con la sua persona e con la sua opera redentrice. E’ il modo più semplice, più immediato non solo per entrare in contatto  con Dio, ma anche per entrare nel flusso di grazia che da Lui proviene.

Il nome divino che gli Ebrei invocavano non aveva volto alcuno. Si diceva che nessuno poteva vedere  Dio e vivere. Ciò che anticamente era considerato impossibile diviene possibile e reale in Cristo e per Cristo. In Cristo il Dio invisibile si rende visibile, nella forma della carne e del sangue. E’ superato quell’abisso che separa il Creatore dalla creatura, è abbattuta la barriera di divisione tra l’uomo e Dio.

Nello spirito della Nuova Alleanza l’invocazione del nome di Dio, non può essere che invocazione del nome di Gesù, non perché abbiamo a morire, ma perché abbiamo vita eterna.

“Signore Gesù, abbi pietà di me”.

Non si può invocare il Signore se non chiamandolo col nome di Gesù, perché in Lui e per Lui ci è data ogni conoscenza vera e fondata di Dio Padre. Qualsiasi invocazione al nome di Dio, che si metta fuori o sopra o semplicemente accanto a quella di Gesù, è sbagliata. E’ un prodotto del Maligno, è falsità ed inganno dai quali  dobbiamo essere liberati.

Riflettano coloro che mettono il Dio dei Cristiani sullo stesso piano di un qualsiasi altro Dio.

Se il nome di Dio non si può pronunciare se non in maniera unica ed esclusiva, ciò significa che vi è un solo Dio che è degno di questo nome, ed è quello che ci ha rivelato il Figlio suo.

Non si può invocare Dio se non per bocca del Figlio, non si può conoscere altro Dio all’infuori di Colui che è stato rivelato dal Cristo, non c’è salvezza e vita eterna in Dio se non quella che il Figlio ci ha guadagnato, non c’è altra via di salvezza se non quella indicata da Gesù.

Santificare il nome di Dio significa dunque invocare l’unico vero Dio, in cui il nome s’identifica tout court con il suo Essere. Si può anche invocare un Dio in cui significante e significato non si identificano in assoluto, nel senso che il nome pur avendo la stessa forma significante, porta un significato diverso: non quello rivelatoci dal Figlio, ma quello creato ad arbitrio dall’uomo.

Non dobbiamo pregare un nostro Dio, ma il nostro Dio, quello vero che sta nei cieli.

Come si possa andare a braccetto con musulmani ed ebrei, ignorando Cristo, ognuno che ha senno può ben comprendere.

Se già nell’invocazione “Signore, Gesù Cristo”, vi è una potenza redentrice, quanto segue rende la preghiera pregna di ogni vero significato, “abbi pietà di me”.

Dopo aver rivolto la nostra preghiera all’unico vero Dio, dopo aver accolto in Cristo colui che ci ha svelato il suo volto, noi poniamo nel Figlio suo Salvatore, tutta la nostra vita.

Perché Egli abbia pietà di noi peccatori.

Non ci può essere salvezza se non nel nome di Cristo: non sono salvi se non coloro che invocano il Salvatore, non nella presunzione di una ricompensa dovuta per i propri meriti, ma di un dono fatto, per la semplice confessione del proprio peccato.

 

I racconti di un pellegrino russo, se pur brevi, sono ricchi di significato.

Ci sembra doveroso sottolineare un altro aspetto di questo scritto: l’importanza da esso attribuita alla lettura della Parola di Dio. Non quella dotta ed artificiosa, frutto dello studio e dell’erudizione, riservata ai pochi, ma quella semplice ed immediata, quella che ripete il testo letterale, quella che è fatta ogni giorno con la  proclamazione, quella che non ama i commentari degli esperti, ma segue le vie del proprio ascolto.

E’ diffusa convinzione tra i cristiani d’oggi che la Bibbia sia difficile da comprendere e che non si possa leggerla da soli, senza l’aiuto di qualcuno che ne sa di più.

Si rinuncia così ad un rapporto personale con la Scrittura e si lascia la lettura ai preti ed ai frati.

Nel migliore dei casi si va alla caccia dei commentari di moda, di scritti che hanno presunzione e fama di novità e di verità. Tutto si risolve in complesse analisi storico- letterali, sinossi, studi antropologici…:  vere e proprie dorature ed infiorature del testo, con l’uso di un linguaggio aulico che tutto vuol dire, e che nulla dice della propria fede. E’ difficile trovare scritti esegetici edificanti, in cui risalti un rapporto vivo con la Parola.

 

E’ possibile venire fuori dai lacci di una lettura così compromessa e compromettente ed accostarsi in maniera diversa alla Parola di Dio?

I racconti di un pellegrino russo ci aiutano, riportando la nostra attenzione verso il concretamente vissuto, verso ciò che altri hanno conosciuto e sperimentato riguardo alla Parola.

Fino all’anno mille in tutte le case di cristiani si leggeva quotidianamente la Parola. Questa consuetudine è poi venuta meno ed ha lasciato posto ad altre forme di spiritualità.

Ciò che è tramontato presto nella chiesa d’occidente è sopravissuto più a lungo nella chiesa orientale, dove ai tempi del nostro pellegrino, in alcune famiglie ancora si leggeva la Bibbia, tutti i giorni. Certo è questione dei pochi, ma sono proprio i pochi che molto spesso portano luce ai molti.

C’è una forma di lettura accessibile a tutti ed a tutti richiesta, portatrice di grazia dal cielo? Certamente! E’ la lettura intesa come semplice proclamazione, senza nulla aggiungere e senza nulla togliere.

Lasciamo parlare il nostro pellegrino.

“Ci sedemmo a tavola. Il capitano cominciò il suo racconto: – dalla mia giovinezza in poi ho sempre servito nell’esercito e mai nella guarnigione. Conoscevo bene il servizio e i miei capi mi consideravano un soldato modello. Ma ero molto giovane ed altrettanto giovani erano i miei amici; per mia disgrazia, imparai a bere e mi abbandonai a tal punto a questo piacere che finii per ammalarmi. Quando non bevevo, ero un ottimo ufficiale, ma anche una sola goccia di alcol voleva dire sei settimane di letto. Mi sopportarono un bel po’, ma alla fine avendo io insultato un capo dopo aver bevuto, fui degradato e condannato a prestar servizio tre anni in guarnigione; mi minacciavano pene anche più severe se non avessi rinunciato a quel vizio. In quella misera situazione ebbi un bel cercare di frenarmi, di farmi curare, non potei liberarmi dalla passione del bere, e fu deciso allora di inviarmi al battaglione di disciplina. Quando ne fui informato, mi abbandonai alla disperazione. Un giorno che ero seduto nella camerata e ruminavo queste cose, ecco viene un monaco a questuare per una chiesa. Ognuno dava quel che poteva. Arrivato vicino a me, mi chiese: Perché sei così triste? Parlai un poco con lui e gli raccontai le mie disavventure. Il monaco mostrò molta comprensione per i miei guai e mi disse: “A mio fratello è successo lo stesso, e se l’è cavata in questo modo: Il suo padre spirituale gli diede un vangelo e gli ordinò di leggerne un capitolo ogni volta che avesse sentito desiderio di bere; e se il desiderio tornava, doveva leggere il capitolo successivo. Mio fratello mise in pratica il consiglio e di lì a qualche tempo la passione di bere cessò. Da quindici anni non assaggia una bevanda alcolica. Fa’ lo stesso e ne proverai il beneficio anche tu. Ho un Vangelo, se vuoi te lo porterò”. A queste parole gli dissi: “Cosa vuoi che faccia il tuo Vangelo, se i miei sforzi ed i  mezzi medici non sono serviti a nulla?”. Parlavo così perché non avevo mai letto il Vangelo.

“non parlare così, replicò il monaco. Ti assicuro che ne ricaverai un bene”.

L’indomani infatti il monaco mi portò questo vangelo che ora vedi: Lo aprii, lo guardai, lessi qualche frase e dissi: “Non lo voglio, non ci capisco nulla, non ho l’abitudine di leggere i caratteri dei libri di chiesa”. Il monaco continuò a persuadermi dicendo che nelle parole del Vangelo c’è già una forza benefica, perché sono parole che Dio stesso ha pronunciato. “ Non importa se tu non capisci nulla, basta che tu legga con attenzione. Un santo ha detto: Se tu non capisci la parola di Dio, i diavoli però capiscono quel che tu leggi e tremano, e certamente il desiderio di bere è pure l’opera dei demoni. E ti dico anche questo: Giovanni Crisostomo scrive che anche il posto in cui viene tenuto il Vangelo sgomenta gli spiriti delle tenebre e serve di ostacolo ai loro complotti”.

Ora non ricordo bene; mi pare di aver dato qualcosa a quel monaco; presi il suo Vangelo e lo ficcai in un baule con le cose mie, ma ben presto lo dimenticai completamente. Qualche tempo dopo giunse il momento di bere; morivo dalla voglia e aprii il mio baule per prendere il denaro e correre alla mescita. Mi cadde sotto l’occhio il Vangelo e mi tornò in mente immediatamente tutto quello che il monaco mi aveva detto. Lo aprii e cominciai a leggere il primo capitolo di Matteo. Lessi fino in fondo, senza capirci nulla. Ma mi ricordai di quel che aveva detto il monaco: non importa se non capisci, basta che tu legga con attenzione. Bene, dissi tra me, leggiamone un altro capitolo. La lettura mi sembrò più chiara. Ecco già il terzo; non l’avevo cominciato che squillò il segnale della ritirata. Non c’era più modo di uscire dalla caserma, e rimasi senza bere.

Il mattino dopo, mentre stavo per uscire a cercare un po’ di acquavite, mi dissi: “E se leggessi un altro capitolo del Vangelo? Stiamo un po’ a vedere”. Lessi e non mi mossi di là. Un’altra volta ancora mi venne la voglia di bere dell’alcol, ma mi misi a leggere e mi sentii rinfrancato. Ne fui tutto riconfortato, e a ogni richiamo del mio vizio, mi precipitavo su un capitolo del Vangelo. Più il tempo passava e meglio andavano le cose. Quando ebbi finito i quattro Vangeli, la mia passione per l’alcol era completamente scomparsa; ero diventato di sasso a tal riguardo. Ed ecco, da più di vent’anni non assaggio più una bevanda alcolica… Ebbene, vedi, dopo la mia guarigione, mi sono ripromesso di leggere ogni giorno, per tutta la mia vita, uno dei quattro Vangeli per intero, e non c’è ostacolo che valga…

-E che cosa vale di più, la preghiera di Gesù o il Vangelo? Chiese il capitano.

- Sono una cosa sola, risposi. Il Vangelo è come la preghiera di Gesù, perché il nome divino di Gesù Cristo racchiude in sé tutte le verità evangeliche. I padri dicono che la preghiera di Gesù è la sintesi di tutto il Vangelo…

Quasi in conclusione un ritratto per intero del nostro pellegrino.

Considerato il livello molto alto di spiritualità, la povertà assoluta che accompagna l’ esistenza di quest’uomo che nulla possiede all’infuori del Signore, si potrebbe pensare ad una figura ideale, creata apposta come modello di santità: un modello da ammirare, non imitabile e mai imitato da alcuno. Quale persona sceglierebbe di sua spontanea volontà una simile condizione di vita, dove la povertà rasenta lo stato di miseria, dove non c’è nulla che possa piacere all’uomo? Non una casa, non un lavoro, non una donna ed una famiglia qualsiasi, uno stato permanente di invalidità, nessuna speranza di  vita migliore.

Se tutto dipendesse da noi nessuno certamente si muoverebbe in questa direzione, ma è Dio stesso che ci previene con il suo amore e crea le condizioni necessarie per diventare la nostra perla preziosa in confronto alla quale tutto il resto è nulla e merita di essere perduto.

Perché il pellegrino non ha affatto scelto di essere povero di tutto, per essere ricco in Cristo, ma è il Signore stesso che lo ha spogliato di ogni bene per farne un suo peculiare possesso.

Da piccolo è un bambino che conosce presto la morte dei genitori, ma che non è abbandonato a se stesso. Il nonno , un vecchio stimato e benestante, si prende cura di lui e del fratello. Nella casa del nonno può così godere di una certa agiatezza e ricevere un’educazione ed un’istruzione religiosa. In famiglia si legge spesso la Bibbia, di cui il vecchio possiede un’edizione. Poi gli eventi cominciano a precipitare. All’età di sette anni, il fratello in stato di ubriachezza gli dà uno spintone e lo fa cadere sulla stufa. Il piccolo rimane ustionato gravemente al braccio sinistro e ne perde l’uso.

Non potrà mai fare lavori manuali. Ed è ancora il nonno che lo salva dalla disperazione, insegnandogli a leggere e a scrivere, per garantirgli in futuro una qualche possibilità di lavoro.

Ma lasciamo a lui la parola nel racconto  finale che fa della propria vita.

“Quando compii i diciassette anni, morì la nonna. Il nonno mi disse: – Eccoci qui in casa senza una donna, e come possiamo fare noi, uomini soli? Tuo fratello è un buono a nulla. Voglio trovarti una moglie. Io cercai di spiegargli che con la mia infermità non mi sentivo portato verso quella via, ma il nonno insistette e mi diede in moglie una brava ragazza. Aveva vent’anni. Passò un anno ed il nonno si ammalò seriamente. Mi chiamò, mi disse le sue ultime parole di saluto ed aggiunse:

-Ti lascio la casa e tutto quello che ho; vivi facendo il tuo dovere, non ingannare mai alcuno, e prega Dio più di tutto; è da Lui che ci viene ogni cosa. Non riporre la tua speranza che in lui, va’ in chiesa, leggi la Bibbia e ricordati di noi nelle tue preghiere. Tieni mille rubli d’argento, serbali, non spenderli per sciocchezze, ma non essere avaro, sii largo coi poveri e con le chiese di Dio…

Quali dunque le prospettive per il futuro? Quelle di una semplice e modesta vita in Cristo che, benché segnata da una menomazione, può ancora tuttavia scorrere con una certa serenità e tranquillità . Una casa, una sposa ed il proposito di un’esistenza nel timore di Dio, nell’osservanza dei suoi comandamenti e nell’amore verso i poveri e la chiesa.

Molti cristiani sono paghi di una simile salvezza: costa un po’, ma non più di tanto. Ma ciò che appaga il cuore dell’uomo non sempre è conforme al disegno d’amore che Dio ha su di noi. Se noi ci accontentiamo del minimo, Dio vuol darci il più ed il meglio, ma deve far sentire su di noi il peso della sua mano.

“Mio fratello era geloso della mia eredità, perché ora la locanda era mia; cercò di molestarmi in tutti i modi ed il diavolo lo spinse fino al punto da decidere di farmi fuori. Una  notte infatti, mentre dormivamo e non c’ erano viaggiatori di passaggio, egli entrò nella dispensa e vi appiccò il fuoco, dopo aver preso tutto il denaro che era conservato in una cassapanca. Ci svegliammo quando ormai la casa era in fiamme ed avemmo appena il tempo di saltare dalla finestra così come stavamo. Tenevamo la Bibbia sotto il guanciale e la portammo con noi. Guardavamo la nostra casa bruciare e ci dicevamo: “Sia ringraziato Dio! Abbiamo salvato la Bibbia, potremo almeno consolarci nella sventura”. Così tutto il nostro patrimonio fu bruciato e mio fratello sparì dal paese. Qualche anno dopo, egli si vantò dopo aver bevuto, e fu così che venimmo a sapere chi aveva rubato il denaro ed appiccato il fuoco alla casa.

Rimanemmo completamente spogli, senza nemmeno i vestiti, come dei mendicanti; in qualche modo, tra prestiti e buona voglia, mettemmo in piedi una capannetta e vivemmo come dei poveri diavoli. Mia moglie era imbattibile nel filare, tessere e cucire. Prendeva commissioni dai vicini e lavorava giorno e notte per darmi da mangiare. Per via del mio braccio, io non ero in grado nemmeno di intrecciare delle scarpe di corteccia. Il più delle volte, essa filava o tesseva ed io, seduto al suo fianco, leggevo la Bibbia; lei stava ad ascoltare e talvolta si metteva a piangere. Quando io le chiedevo: “Perché piangi? Grazie a Dio, ce la caviamo lo stesso , essa rispondeva: Sono commossa perché quel che è scritto nella Bibbia è scritto così bene”.

Ci ricordavamo anche delle raccomandazioni del nonno; digiunavamo spesso, leggevamo ogni mattino l’inno acatista e la sera facevamo ognuno un migliaio di inchini davanti alle icone per non cadere in tentazione. Vivemmo così tranquillamente un paio d’anni. Ma state a sentire il più strano: non sapevamo nulla della preghiera interiore fatta nel cuore, non ne avevamo nemmeno sentito parlare, pregavamo soltanto con la lingua, facevamo i nostri inchini come due grulli, e pure il desiderio di pregare stava là, quella lunga preghiera esteriore non ci pareva difficile, la compivamo anzi con piacere. Aveva certamente ragione quel maestro che una volta mi disse che all’interno dell’uomo esiste una preghiera misteriosa, e nemmeno lui sa come si produce, ma essa incita ciascuno a pregare secondo quello che può e che sa.

Dopo le sofferenze dell’infanzia, dopo una menomazione permanente, una breve pausa di pace nella casa dei nonni e finalmente la possibilità di avere una famiglia propria ed un lavoro con cui vivere dignitosamente. La storia poteva terminare qui, con una fine umanamente più lieta ed accettabile. Di sofferenze ed umiliazioni quest’uomo ne ha già passate abbastanza e la perdita di tutti i beni terreni sembra un castigo o una correzione eccessiva per un povero invalido che non è mai venuto meno alla fede in Cristo.

 

Ma ora eccolo letteralmente buttato sulla strada senza beni materiali. Gli restano soltanto la Bibbia e la sua sposa. Benché poveri e miseri i due cercano di ricostruire una vita nella comunione fraterna, condividendo ogni gioia e dolore, ma soprattutto l’amore e l’attaccamento alla Parola di Dio.

 

Due persone riunite in nome di Cristo sono già una chiesa, piccola fin che si vuole, ma  sufficiente a se stessa, dove l’uno e l’una si possono rispecchiare non semplicemente nell’amore del creatore, ma anche in quello della creatura. Molte volte la Chiesa si trova ed è trovata piccola, non per scelta dell’uomo, ma per volontà di Dio. Non sempre è possibile comunicare con i più: ci basti coloro che il Signore ci ha dato.

 

E potrebbe già essere un esempio di fede molto grande quello che è vissuto nell’amore coniugale fra i due, anche se manca la gioia dei figli, che rallegrano non solo la mensa materiale, ma anche quella spirituale. Ma la storia non è ancora finita. Dio non si accontenta di aver preso quasi tutto, alla fine vuole il tutto.

 

“Dopo due anni di una simile vita, mia moglie prese un febbrone, e il nono giorno, dopo aver fatto la comunione, morì. Rimasi solo e non ero in grado di far nulla; non mi restava che andare a mendicare per le vie del mondo. Ma avevo vergogna a chiedere l’elemosina; per di più, ero così infelice pensando a mia moglie che non sapevo più dove cacciarmi. Quando entravo nella capanna e vedevo un suo vestito o uno di quei fazzoletti che essa portava sul capo, mi mettevo a singhiozzare e cadevo quasi svenuto. Se avessi continuato a vivere così nella nostra casa, non avrei potuto più sopportare il dolore, vendetti allora la capanna per venti rubli e distribuii ai poveri le vesti di mia moglie e le mie. Per via della mia infermità, mi fu dato un passaporto valido per sempre, presi la mia cara Bibbia e me ne andai seguendo lo sguardo dei miei occhi. Giunto sulla strada mi chiesi: dove andrò ora? Andrò prima a Kiev, mi inchinerò davanti ai santi di Dio, e chiederò loro di aiutarmi nella mia sventura”. Dopo che ebbi presa tale decisione, mi sentii molto meglio e giunsi a Kiev più sereno. E ora sono tredici anni che io cammino senza posa: ho visitato molte chiese e monasteri, ma ora vado specialmente per le steppe e per i campi. Non so se il Signore mi permetterà di arrivare fino alla santa Gerusalemme. La volontà di Dio forse giudicherà venuto il tempo di seppellire le mie ossa di peccatore.- E che età hai? – Trentratre anni. – L’età di Cristo!

 

Quasi alla fine del racconto veniamo a conoscere per intero la storia di quest’uomo.

Dio lo ha arricchito di ogni dono spirituale e gli ha dato la grazia di uno spirito di preghiera continua. Ma prima c’è la spoliazione di tutto, anche delle cose che l’uomo può reputare di per sé buone e giuste come avere un lavoro ed una famiglia.

 

Non possiamo immaginare povertà più grande: nessun bene materiale, nessun affetto e sostegno umano, ma quel che è peggio una vita invalidata per cui non c’è più autonomia e garanzia per il futuro, ma si vive per l’elemosina altrui.

Può sembrare una follia chiamare beato un simile uomo. Eppure in questa situazione di povertà voluta e creata da Dio, il Signore manifesta la pienezza del suo amore.

 

Riflettano tutti coloro che si trovano ad essere poveri, senza averlo scelto. Il Signore tutto provvede per il bene dei suoi eletti. Non c’è esistenza più grande e gradita a Dio di quella che si presenta come piccola e bisognosa di tutto e di tutti. In un tempo in cui la fede si risolve nel fare, in un attivismo sterile e cieco, va recuperata, l’offerta del nostro cuore a Dio. E’ questo che il Signore innanzitutto ci chiede. “Perché il nostro cuore è fatto per Dio e non avrà pace finchè non troverà riposo in Dio”. E’ in questo spirito che, nel tempo che ci sarà ancora dato, dobbiamo camminare insieme al pellegrino russo verso la Gerusalemme celeste, per ritrovarci in quel regno dove finalmente saremo in Cristo un cuor solo ed un’anima sola.

Un fraterno abbraccio da

Cristoforo

Don Umberto Neri

La parola di Dio e l’Eucaristia

Sintesi di una corso di esercizi spirituali predicato a Marola nel 1977 da Don Umberto Neri.

 

Per capire il rapporto tra la Scrittura e l’Eucaristia occorre renderci conto che non si tratta di due realtà così eterogenee, così assolutamente diverse, su due piani diversi – la Scrittura da una parte e l’Eucaristia dall’altra – come sarebbero inevitabilmente se la Scrittura fosse un libro e l’Eucaristia fosse un sacramento. Che L’Eucaristia sia un sacramento, più o meno bene, un po’ lo sappiamo. Che la Scrittura non sia un libro, ma un sacramento, che il libro sia soltanto il segno di una realtà sacramentale, che è il suo vero significato, la sua vera portata, questo rischiamo di saperlo un pochino meno. Il libro è il segno , il luogo, attraverso il quale  Dio, ci parla. Quando?Quando noi prendiamo contatto con questo libro leggendolo o ascoltandolo.

Dio ci comunica lo Spirito, mediante il Cristo, parlandoci. Dio lo incontriamo in quanto Colui che si rivela a noi, ci dice del suo mistero, e ci assume nella comunione, nella familiarità con lui, mediante questo colloquio pieno di amore e di luce.

Questa è la realtà specifica, differenziata della Scrittura rispetto agli altri sacramenti. Questo colloquio non è soltanto una proclamazione di idee, ma è un attingerci profondamente da parte di Dio, ci tocca nell’intimo, ci comunica un’esperienza, ci trasmette anzi la sua vita attraverso la sua Parola. E la Parola comunica lo Spirito, anzi, come ogni locuzione e discorso di Dio, la Scrittura è un discorso creatore, che crea e realizza ciò che esprime. Dio non parla descrivendo la realtà come uno scrittore o un poeta, Dio parla creando la realtà. La sua Parola è prima delle cose e fa sussistere le cose. Dio dice ed il mondo è. Quindi la Scrittura è il discorso con il quale Dio, parlandoci e rivelandoci se stesso, ci comunica di sé e del nostro mistero, l’esperienza più profonda e, insieme, realizza in noi la sua volontà, ciò che ci dice. Non ci comunica soltanto delle buone idee, ma delle energie, quindi delle potenze. Costituisce in noi delle realtà che sono poste in atto dalla Parola creatrice. E questa è una cosa immensa se è così, ed è così. Altrimenti non sarebbe parola di Dio e non si potrebbe propriamente dire che la Scrittura è cristiana…

Ecco: “Non ci sentivamo forse ardere il cuore dentro di noi, quando egli ci parlava? ( Lc. 24,32 ).

Certo, spesso è così, dovrebbe essere sempre così e sempre di più così, ma anche quando non è così come un’esperienza sensibile, si compie, si realizza un mistero. Come talvolta anche il nostro ricevere la Comunione è purtroppo qualcosa che ci lascia un pochino freddi: ci sembra di essere uguali a prima, ma non siamo uguali a prima. Si è realizzato in noi qualcosa di straordinario, d’immenso, nel più profondo io, che non sempre la nostra sensibilità umana, la nostra psicologia, riesce a cogliere, a percepire.

L’uomo non è fatto soltanto di anima e corpo: è fatto anche di Spirito, secondo san Paolo, e in questa profondità dello Spirito, la sua stessa anima intelligente, la sua sensibilità, la sua stessa affettività non sempre riesce ad entrare. Siccome noi non sappiamo cosa chiedere, è lo Spirito di Dio, che in modo ineffabile e misterioso prega in noi il Padre. C’è dentro di noi una preghiera, per esempio, che noi non sentiamo. Cosa strana, ma è così. Come c’è dentro di noi una dimensione, una realtà che Dio crea, anche se tanto spesso noi perdiamo il contatto con questa realtà e ne percepiamo

soltanto qualche bagliore, qualche segno, qualche sintomo. Straordinario: la nostra vita è tutta lì dentro, è tutta nel profondo…

Importante è capire la Scrittura come un sacramento, anche perché questo ci illumina sul nostro modo di leggere, come deve essere: un atto di culto…

Cambierebbe tutto se noi ricevessimo la Scrittura con l’energia in atto della nostra fede…

L’efficacia del nostro contatto con la Scrittura dipende, dall’energia con cui, mossi dallo Spirito, mettiamo in atto la nostra fede, dall’attualità della nostra fede, dalla dimensione di questa conoscenza per dono, e non conoscenza di testa, di intelligenza, di cultura: è dalla fermezza e dall’assolutezza con cui riconosciamo il Cristo Signore e ci assoggettiamo a Lui, come salvati dal suo mistero…

Il rapporto con la Scrittura non è un’esperienza intellettualistica, ma è un’esperienza spirituale. E ciò con cui capiamo la Scrittura non è la nostra cultura, ma è la nostra fede…

Ecco, il panorama io lo vedo con gli occhi, la Scrittura la leggo con la fede; le parole io le ascolto con le orecchie, la Scrittura l’ascolto con la fede. La fede è l’organo di lettura e di ascolto della Scrittura. La fede nella sua attualità, nella sua potenza radicale e nella sua qualità.

La Scrittura è un unico libro

Se la Scrittura, per sua natura, è un sacramento, essa possiede una sua essenziale unità. E’ un dono, un dono che Dio ci fa di se stesso. Quindi non è tanto una serie di cose che Dio ci dice, quanto piuttosto è, questo libro, il luogo nel quale Dio sempre ci fa lo stesso dono. Ogni volta che la leggo, da qualsiasi parte la legga, si realizza sempre il mistero essenziale della Scrittura; se la Scrittura è questa che io dicevo, è Dio che mi parla ed io entro in comunione con lui. E’ Dio che mi illumina, è Dio che mi vivifica, è Dio che mi rigenera, è Dio che mi crea, è Dio che mi tocca, è Dio che mi risana… Allora si potrebbe dire: basta leggerne un pezzetto. Io scelgo un bel capitolo che mi interessa e leggo sempre quello. In un certo senso si potrebbe dire così, nel senso che in ogni pagina Dio mi rivela lo stesso contenuto essenziale della Scrittura che è Gesù… Cioè Cristo Gesù è il contenuto di ogni pagina, di ogni versetto della Scrittura e, al tempo stesso, è la chiave per interpretarlo, per cui a rigore non posso dire di aver capito una determinata frase della Bibbia finché non ho trovato il suo contenuto: Gesù… quindi a rigore, basterebbe una pagina della Scrittura o un versetto. Però la Scrittura è, come dicono i Padri, un libro solo, un unico libro, cioè un discorso coerente che Dio ci rivolge. Comunicazione di grazia, rivelazione del mistero, certo, ma attraverso un discorso, attraverso un parlare, una serie di parole e di frasi fra loro collegate in modo coerente. E’ un discorso unico, un unico e lungo discorso, con il quale Dio mi dice una cosa.

Un discorso in sé coerente con le parti che si richiamano una con l’altra, che si suppongono l’una con l’altra, che si connettono l’una con l’altra secondo connessioni logiche dalle quali io non posso prescindere per capire il discorso, e dunque per cogliere anche in pienezza il dono che Dio, attraverso questo discorso, mi fa…

E comunque se perdo una parola, perdo, cari miei, un tesoro straordinario… perché ogni parola ha un senso particolare, per cui, legato con le altre parole, mi rivela, mi disvela pienamente il mistero ineffabile e sublime del Cristo Gesù; per cui basta una parola, ma guai se perdo una parola! Se perdo una parola perdo qualcosa d’importante, in qualche modo essenziale per cogliere la pienezza del discorso che Dio mi rivolge e per capirlo al livello più profondo.

Ascolto integrale della Scrittura

Questa unità della Scrittura ha questa duplice implicanza: da un lato che tutta la Scrittura dice sempre la stessa cosa, quindi ogni versetto contiene tutto, dall’altro che essendo un discorso unitario non posso perdere nemmeno una battuta del discorso, se non voglio rischiare di capire parzialmente o comunque senza dubbio, se non voglio perdere qualcosa del dono connesso.

Questa unitarietà della Scrittura in questo duplice senso fa sì che sia essenziale per una vita cristiana compiuta l’ascolto integrale della Scrittura… Io non posso ritenermi esente dal compito di ascoltare una sola delle parole che Dio mi rivolge. E perché me le rivolge? Oltretutto è veramente una grandissima mancanza di riguardo. Perché Dio mi parla, se nessuno di noi lo ascolta? Sono parole sue, piene di tesori, sono parole d’oro quelle che dice e le lasciamo cadere a terra. Se non fosse un sacramento e non fosse così come ho detto, potrebbe bastare riassumere il contenuto, ma siccome è un sacramento, il sacramento lo si riceve ascoltandolo, e il sacramento di questo discorso unitario lo si accoglie in pienezza ascoltandolo tutto.

Una seconda conseguenza del discorso è questa: questa Parola è inconfondibile con le altre parole, come questo libro è inconfondibile con gli altri libri, evidentemente di natura tutta sua, tutta diversa ed io non posso ascoltare la Scrittura mettendola insieme, mescolandola, tentando di omogeneizzarla con discorsi con cui non può stare, con parole rispetto alle quali è di natura essenzialmente diversa. Non posso mettere insieme la Scrittura ed i discorsi dell’uomo per ricavarne una specie di sintesi… E’ un discorso a sé stante, inconfondibile, incomponibile con degli altri, se no facciamo dei pasticci abominevoli, veramente. Meno che mai posso confrontare la Scrittura con i discorsi ed il buon senso dell’uomo, pretendendo di sottoporla a questo giudizio dell’uomo o di dire: “questo si va bene; questo è giusto; questo qui, beh, insomma, è un pochino rozzo a dir la verità”. Non è possibile, non è possibile! Se è parola di Dio l’uomo non può giudicarla. La Scrittura ha sempre ragione, ha ragione a priori non dopo che io ho verificato che, effettivamente sì, sembrava che non avesse ragione, ma poi aveva ragione.

Non dopo che io ho verificato che effettivamente aveva ragione, ma nella percezione di fede, nel modo con cui deve ascoltarla un credente la Scrittura ha ragione a priori. Prima di qualsiasi verifica, è lei che esamina, è lei un test, è lei la pietra di paragone che non può essere quindi sottoposta a nessun paragone ulteriore, a nessun esame ulteriore. E’ lei che esamina, è lei che approva e che condanna, è la Verità: la tua parola è verità.

Basta, adesso veniamo un pochino al tema più direttamente: il rapporto fra la Scrittura e l’Eucarestia. Prima di tutto, ecco cosa voglio  dire riguardo a questo rapporto. La tesi che svolgo un pochino è molto semplice, elementare, ed è questa: questo rapporto è essenziale e non si può fare nessuna Eucarestia  senza la Scrittura – come evidentemente, non si può fare  nessuna Scrittura senza Eucaristia – forse è il caso che dica anche questo.

Non si può fare nessuna Eucarestia senza la Scrittura, perché prima di tutto l’Eucaristia non è interpretabile, comprensibile – quindi non è possibile vivere il rapporto con l’Eucaristia secondo il disegno di Dio come l’Eucaristia di Gesù e non come un pasticcio inventato dagli uomini – senza la Scrittura, senza essere fortemente e costantemente illuminati dalla Parola di Dio contenuta nelle Scritture. Se no, appena si perde il rapporto con la Scrittura, si deforma il rapporto con l’Eucaristia e l’Eucaristia si corrompe nelle nostre mani, come, come, ecco, quando togliamo certi alimenti dal frigo, dopo poco vanno a male. Tolta dal “contenitore” della Scrittura l’Eucaristia si guasta subito…

Che cos’è l’Eucaristia

L’Eucaristia è l’offerta del Cristo al Padre per la salvezza del mondo nella quale noi siamo inseriti essendo uniti al Cristo mediante lo Spirito Santo, finchè il Cristo ritorni.

L’offerta del Cristo al Padre: che cos’è questa offerta? Chi ci dice che cos’è questa offerta? Il mistero pasquale del Cristo, la sua morte e la sua resurrezione, il suo donarsi a Dio realizzandosi e portando a compimento tutti i sacrifici dell’antica legge. L’offerta del Cristo. Chi è il Cristo? Chi ci dice chi è il Cristo?… Chi ce lo dice se non la Scrittura… Se io non capisco chi è il Cristo, se non so chi è il Cristo, se non lo conosco nel suo mistero personale, come posso capire l’Eucaristia…

Chi mi dice chi è il Cristo se non chi me lo rivela e chi me lo può rivelare – “nessuno conosce il Figlio se non il Padre e colui al quale il Padre abbia voluto rivelarlo” – se non Dio che mi parla realizzando in me attraverso la sua Parola la conoscenza di questo mistero, del suo Unigenito?…

L’offerta del Cristo al Padre per la salvezza. Ma che cos’è la salvezza? Che cos’è la liberazione che il Cristo compie? Chi me lo dice, chi me lo fa toccare con mano, chi me lo spiega se non la Scrittura?… Che cos’è il mondo agli occhi di Dio? Quali potenze operano nel mondo, qual è il mistero della iniquità presente nel mondo e qual è il mistero dell’amore con cui Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito? Chi me lo dice se non la Scrittura?… Siccome non sono cose che si tocchino con la nostra esperienza umana e che si attingano con la nostra testa, con il nostro cervello, con la nostra riflessione umana, se non mi sono rivelate in un atto di grazia, di un’operazione di grazia compiuta da Dio, io le perdo subito, non le capisco, non le posso interpretare. Il mondo come mi appare è soltanto il velo che nasconde il mistero che contiene. E la salvezza del mondo non posso neppure sperarla se Dio non mi rivela in che cosa consiste. E io ho bisogno di essere continuamente rigenerato dalla banalità delle mia esperienza umana che continuamente scade, confrontandosi con le apparenze contro le quali si urta, dalla illuminazione di Dio che squarcia il velo del mistero.

La nostra offerta a Dio

A questa Eucaristia, a questa offerta noi siamo associati, essendo uniti al Cristo nello Spirito Santo e compiendo questa offerta di noi insieme con l’offerta del Cristo, fino al suo ritorno…

E’ per questo che Dio ci ha convocati, perché noi siamo una sola cosa con l’offerta che il Cristo fa di sé per la salvezza del mondo: questo è il mistero della chiesa.

Ma come posso conoscerla se non attraverso la Scrittura, se non attraverso questo discorso unitario così profondo e così intimamente illuminante che mi dà di comprendere cose del tutto al di là della mia portata, e che mi dà di vivere cose del tutto al di là della gettata del mio sguardo?

Finché egli venga

Perché se non è celebrata con questo anelito e con questo desiderio del ritorno di Cristo l’Eucaristia non è nulla. Ma chi tiene desta in noi la tensione verso il ritorno del Cristo Gesù? Chi mi fa vivere in questo mondo come straniero e pellegrino, se non la Parola di Dio che mi illumina sul senso della vita e della morte, della storia, del tempo e dell’eternità?..

E’ inevitabile, se si perde il contatto con la Scrittura, che l’Eucaristia sia deformata, perché non si reggono questi elementi senza questa illuminazione costante di Dio…

C’è una seconda cosa che vorrei dirvi. La Scrittura è necessaria non soltanto come premessa alla celebrazione dell’Eucaristia, ma come presente nella stessa celebrazione, se l’Eucaristia deve essere, vuole essere quello che il Signore ha voluto che sia. Perché è l’Eucaristia il luogo dell’annuncio. E’ nell’Eucaristia dove deve compiersi l’annuncio della salvezza, mediante la proclamazione della Parola di Dio – perché non c’è altra parola che possa annunciare la salvezza, e non c’è altro Vangelo, se non quello che Dio stesso ha pronunciato con la sua Parola – è nell’Eucaristia che deve compiersi questo annuncio alla Chiesa, al mondo, alle potenze, agli angeli.

“Ogni volta che celebrate l’Eucaristia annunciate la morte del Signore finché egli venga” ( 1 Cor. 11,26 ). Il luogo quindi della proclamazione della Parola è l’Eucaristia. Quando io svuoto l’Eucaristia di questo contenuto la deformo radicalmente, la impoverisco di un elemento essenziale e ne faccio un’altra cosa rispetto a quello che il Cristo aveva voluto che fosse: non è più l’Eucaristia del Cristo… La specificità di ogni celebrazione dell’Eucaristia deve essere data proprio dal particolare testo della Scrittura, annunciato in quella stessa celebrazione. Ed è anche per questo che l’Eucaristia deve celebrarsi continuamente, perché la Scrittura possa risuonare, nella sua totalità, alle orecchie della chiesa, del popolo, e perché l’annuncio, che è il compito della chiesa – “Andate ed annunciate” – possa compiersi in pienezza.

Per cui dovrebbe essere tutta la Scrittura ad entrare in qualche modo nella celebrazione dell’Eucaristia, perché la Chiesa possa realizzare il suo ufficio, per cui è stata costituita, al quale è stata deputata, che è quello di annunciare il vangelo a tutto il creato.

Sì, ma l’annuncio lo faccio fuori. No! Perché abbiamo detto che l’annuncio fatto a chi ancora non ha fede è solo la premessa dell’annuncio, perché la Parola risuona propriamente soltanto a colui che è la Chiesa stessa e i destinatari primari dell’annuncio sono coloro che sono battezzati, i credenti.

La proclamazione della Scrittura all’interno della celebrazione dell’Eucaristia è essenziale perché ciò che nell’Eucaristia costituisce il dono più prezioso è la comunione con Dio mediante l’unione col Cristo: diventiamo una sola cosa con lui per essere attraverso di lui e in lui una sola cosa con Dio… Il Dio nel quale noi ci immergiamo mediante l’Eucaristia non è un Dio muto – sono gli dei delle genti che sono muti, che hanno bocca e non parlano – e la comunione, la comunicazione di sé che si realizza con noi non sarebbe compiuta se non fosse anche la Parola che Dio, il nostro sposo, ci rivolge… Quindi se io faccio la Comunione senza ascoltare la Parola, la mia stessa Comunione è incompiuta, perché non è così totale, così piena, così efficace, così consolante, così rigenerante, così adeguata alla mia realtà di figlio – sono un figlio, quindi Dio mi può parlare – come è invece la Comunione che si realizza con anche l’ascolto della Parola del Signore.

L’ascolto personale della Scrittura

Il contatto personale con la Scrittura è qualcosa di insostituibile, perché è vero che è la chiesa che viene illuminata sul suo cammino attraverso l’annuncio, ma è vero anche che ciascuno di noi ha, pur condividendo con i propri fratelli la stessa direzione, la stessa meta e la stessa provenienza – ciascuno di noi ha un suo itinerario di grazia, come ciascuno ha i propri problemi, le proprie difficoltà, le proprie lotte, le proprie intenzioni ed i propri doni.

A ciascuno di noi, quindi, la Parola di Dio deve risuonare in un modo particolare, per ciascuno di noi, singolarmente, ci deve essere un ascolto personale e differenziato della Parola unica che annuncia sempre lo stesso mistero, perché in ciascuno di noi risuoni in modo particolare e perché, per ciascuno di noi sia la sorgente della luce, “lampada ai miei passi è la tua Parola” ( Sal 118/119,105 ). Lo dice Israele, ma lo dice anche ogni singolo figlio d’Israele: “ai miei passi”, e perché in ciascuno di noi si realizzi il piano di Dio secondo quella peculiarità che ci contraddistingue gli uni dagli altri, e la volontà di Dio a ciascuno di noi, in modo proprio personale, inconfondibile diventi manifesta. E le potenze che ciascuno di noi ha, siano dalla Parola di Dio suscitate e ravvivate. Abbiamo dei doni? Chi li ravviva? Chi ce li fa comprendere? Chi ce li fa amare? Chi ci consente di realizzare le potenze che abbiamo dentro di noi, se non quella Parola che Dio rivolge a ciascuno in particolare, uno per uno?

Il nostro itinerario, la nostra vocazione, certo, è la comune vocazione cristiana; ma in quanti modi infinitamente diversi si realizza questa vocazione cristiana comune, secondo la diversa collocazione nel mondo, nella storia, nell’ordine stesso dei doni di grazia ricevuti e delle stesse lotte che si devono affrontare da parte di ciascuno. Quindi un ascolto personale, da parte di ciascuno della Scrittura, è insostituibile.

Questo ascolto personale, certo, si realizza in qualche misura già nell’ascolto che noi facciamo della Scrittura, facendo parte dell’assemblea, perché poi il Signore dice, a ciascuno di noi, anche nell’annuncio comune, alcune cose particolari. Però ci deve essere anche come compito proprio, del tutto personale, del tutto particolare, nella nostra giornata e nella nostra vita, perché è l’illuminazione quotidiana della Parola, di cui ciascuno di noi ha bisogno per la realizzazione quotidiana del suo compito di vivere cristianamente.

Non possiamo fare quello che piace a Dio sempre, se non sentiamo incessantemente che cosa il Signore a ciascuno dice, e se non mettiamo la nostra vita sotto il raggio di luce della Parola di Dio e in questo modo, quindi, se non la sottoponiamo all’ubbidienza personale, quotidiana alla Parola di Dio. E’ molto comodo, in fondo, per sottrarsi all’obbedienza, chiudersi le orecchie o non ascoltare Dio che ci parla. Non possiamo dire “io obbedisco”, quando abbiamo fatto di tutto per metterci in una stanza acusticamente isolata e non sentire nessuna parola che ci indica ciò che dobbiamo fare. Vivere nell’obbedienza, – ed è la vocazione del cristiano – vivere nell’obbedienza a Dio, Signore, è possibile soltanto quando tutta la nostra vita sia dominata dalla Parola che ci guida, che ci indica  il cammino da percorrere. Come anche realizzare personalmente il nostro compito è possibile soltanto quando siamo sostenuti, incoraggiati, confortati, cioè riceviamo forza dalla Parola per percorrere il nostro cammino. L’individuazione dei rischi che noi corriamo, del nostro peccato e degli inganni che abbiamo dentro di noi, è possibile soltanto se ciascuno di noi si mette sotto la luce della Parola, anzi si sottopone al taglio della “spada a due tagli” della Parola di Dio che discerne l’intimo dell’uomo. Quindi il compito di un ascolto personale è insostituibile. L’ascolto personale si fa personalmente, incontrando la Parola di Dio con un certo spazio quotidiano: ogni giorno si riprende in nostro cammino cristiano. Non ci può essere un giorno senza la benedizione dell’ascolto della Parola di Dio, perché sarebbe come un giorno vissuto nella tenebra.

Santa Teresina di Lisieux

 

L’infanzia

 

Difficile fare un ritratto esauriente e fedele di santa Teresina.

La mole degli scritti non è indifferente e dà l’idea di una  santità molto ricca e complessa, lontana da quella semplicità naturale, ingenua, spontanea che si vorrebbe attribuirle.

Un cuore semplice, cioè puro e  senza doppiezze non è mai prodotto della natura, ma della grazia del Signore. E neppure giova insistere sul contesto familiare in cui la piccola è vissuta: padre e madre di spiritualità monastica, cinque sorelle improntate allo stesso stile di vita.

Leggendo in maniera superficiale  gli scritti di Teresina potrebbe sembrar che fin dalla nascita tutta la sua vita sia stata nelle mani del Signore, come una creatura naturalmente santa.

Se la santità è un dono è anche una conquista: quella che passa non attraverso lo sforzo dell’uomo ma attraverso l’obbedienza alla volontà di Dio. Perché la fede di Teresina fin dai primordi si può dire autenticamente fondata?

Perché nasce dall’ascolto. La fede vien dall’ascolto e l’ascolto dalla Parola di Dio. Ma come può essere tutto questo inteso da chi è ancora troppo piccolo per comprendere la Parola di Dio, così come è data attraverso le sacre Scritture?

Come può ascoltare Dio l’anima di una bambina?

Attraverso un rapporto immediato con la voce del Signore, che fin dall’inizio della vita e di ogni vita dice ad ognuno quello che si può fare e quello che non si deve fare.

E’ lo stato del primo Adamo, quando ancora non possiede una lingua, eppure è in grado di intendere la parola di Dio ed il suo comando, tramite la semplice voce.

L’ascolto della voce di Dio è nascosto nell’interiorità dell’io e in quanto tale celato agli occhi della carne. Vi sono tuttavia manifestazioni esteriori di per sé visibili e valutabili come espressione di un cuore vero.

Innanzitutto l’obbedienza a tutto e a tutti a cominciare dai genitori. Fin da piccola Teresina è saldamente fondata nella sottomissione agli adulti e pienamente consapevole e rea confessa dei propri errori e peccati.

Così la descrive la madre: “ E’ una bambina che si emoziona facilmente. Appena ha fatto un piccolo maldestro, bisogna che lo sappiano tutti. Ieri aveva fatto cadere senza volere  un pezzetto di tappezzeria, era in uno stato da far pietà, poi bisognava dirlo subito a Papà; lui arrivò quattro ore dopo, nessuno ci pensava più, ma lei corse da Maria: “svelta, dì a papà che ho strappato la carta”. Rimane lì come un criminale in attesa della sentenza, ma ha nella sua testolina l’idea che le sarà perdonato più  facilmente se lei stessa si accusa”.

Accusare se stessi già nella prima infanzia è esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Adamo nei primordi dell’esistenza. Richiamato dalla voce di Dio, invece di confessare il proprio peccato scarica su altri e su altro ogni propria colpa e responsabilità.

Il cuore insensibile alla voce di Dio è un cuore duro, non si emoziona facilmente e non è scosso dai propri peccati. Il cuore obbediente a Dio accusa se stesso di ogni colpa per prevenire il richiamo del Signore. E non si tratta affatto di una virtù o predisposizione naturale: è opera del Signore e frutto della sua grazia, che agisce sullo spirito di ribellione per renderlo docile al suo volere.

“Quanto al furicchio, non si sa come butterà. E’ un cosino tanto piccino e tanto stordito! E anche più intelligente di Celina, ma meno dolce assai, e soprattutto di un’ostinazione quasi invincibile; quando dice “no” niente da fare; la metti in cantina tutta una giornata, lei ci dorme piuttosto che dire di sì. Però ha un cuore d’oro, ed è tanto carezzevole e molto franca; è curioso vederla quando mi corre dietro per farmi le sue confessioni – Mamma ho dato una spinta a Celina, una sola, e le ho dato un colpetto, ma non lo faccio più. ( così per tutto quello che fa )… Ritorno alle lettere nelle quali Mamma le parla di Celina e di me, è il miglior modo per farle conoscere il mio carattere. Ecco un brano nel quale i miei difetti brillano di vivo splendore: “Celina si diverte con la piccina al gioco dei cubi, bisticciano di quando in quando, Celina cede per avere una perla della sua corona. Sono costretta a correggere quella povera piccolina che va in furie paurose; quando le cose non vanno secondo le sue idee, si rotola per terra come una disperata credendo tutto perduto, ci sono momenti in cui è più forte di lei, ne è come soffocata. E’ una bambina molto nervosa, eppure è deliziosa ed intelligentissima, si ricorda di tutto”… Ma Gesù vegliava sulla sua piccola fidanzata, ha voluto che tutto volgesse al bene di lei; perfino i difetti che, repressi per tempo, le sono serviti per crescere nella perfezione… Poiché avevo amor proprio ed anche amor del bene, appena cominciai a pensare seriamente ( e ho cominciato piccina piccina ), bastava che mi dicessero: questo non è bene, che io non me lo facevo ripetere due volte… Vedo con piacere dalle lettere di mamma che, crescendo, le davo più consolazione. Avevo soltanto buoni esempi intorno a me: naturalmente volevo seguirli. Ecco ciò che scriveva nel 1876: “Perfino Teresa vuol prendere parte a fare delle “pratiche”. E’ una bimba incantevole, fina come l’ombra, molto vivace; ma il cuore è sensibile”.

L’incapacità a mentire ben manifesta un cuore che si riflette in Dio per essere da Lui plasmato, senza nulla sottrarre al suo sguardo ed alla sua correzione.

“La piccina … non direbbe una bugia per tutto l’oro del mondo… Non parla che di Dio, non mancherebbe alle sue preghiere per niente al mondo. Vorrei che tu la vedessi recitare una favoletta, non ho mai visto una cosa tanto gentile, trova da sé l’espressione ed il tono, ma soprattutto quando dice. “Bimba piccina dalla testa bionda, dove credi che sia Dio?”, quando è a: Lassù nel cielo blu” volge in alto lo sguardo con una espressione di angelo. Non ci stanchiamo di farglielo dire, tanto è bello, c’è nello sguardo di lei un che di celeste che rapisce…”

Un cuore sincero è un cuore puro ed un cuore puro è tale solo perché fisso o fissato in Dio.

Coloro che poco o mai parlano di Dio, hanno il pensiero rivolto altrove: non ascoltano la sua Parola e non sentono il desiderio di parlare di Lui e con Lui.

L’interesse che molti bambini dimostrano per Gesù e le domande che fanno al riguardo  sono segni di un rapporto vivo con il Creatore, ancora aperto alle possibilità dell’ascolto.

Certamente il contesto familiare in cui vivono i fanciulli ha il suo peso, ma tra il sentire parlare di Gesù e il parlare di Gesù ci passa pur sempre una libera adesione dell’individuo.

I genitori possono dare il giusto indirizzo, ma nessun cuore viene recapitato là dove non vuole andare.

Ascoltare la voce del Signore è dunque prerogativa dei bambini e di tutti coloro che per ragioni diverse rimangono bambini nella psiche, come i disabili intellettivi. Il loro rapporto con Dio è tutto nell’immediatezza del sentire la voce: non conosce la mediazione che passa attraverso la parola. Ma a parte queste anime piccole e gradite a Dio, la maggior parte degli uomini conosce una naturale crescita in Dio da un rapporto tramite la voce ad uno tramite la Parola.

La Parola apre nuove possibilità d’ascolto, permette uno sviluppo verso l’età matura, in cui Dio non si fa semplicemente sentire, ma vuole essere cercato attraverso l’invocazione della nostra parola. La voce del Signore s’impone da sola perché il suo tono è maggiore, la Sua parola va cercata perché nascosta dietro una nostra naturale sordità, che ogni giorno deve superare se stessa ed i propri limiti per udire la parola che esce dalla bocca di Dio. Più si cresce, più è fatta grande la libertà dell’uomo. Più la libertà creata si fa grande, più Dio abbassa il tono della sua voce perché l’uomo accresca la propria volontà di ascolto, mettendo a tacere la propria parola.

Da un rapporto immediato con Dio si passa ad un’altro mediato dalla ricchezza e complessità della Parola. Ed è in questa fase di crescita dell’essere creato, che l’ascolto di Dio diviene sempre di più desiderio di conoscere la Sua parola. Perché mentre la voce di Dio si fa flebile nel cuore,  sale prepotentemente nel cuore la parola dell’uomo che è parola del Maligno. Ed allora dove trovare un ascolto di Dio fondato se non nella conoscenza della sua Parola rivelata? E’ nella Bibbia e non più semplicemente nel nostro cuore che troviamo una reale presenza di Dio. E’ nell’ascolto della Sua parola che ci è offerta la possibilità di un dialogo e di una crescita in Lui e per Lui.

 

Teresina e le Sacre Scritture

Nessuna meraviglia che Teresina dimostri un precoce amore per la Parola di Dio. E’ la naturale conseguenza di un ascolto che vuol adeguarsi ad un cammino di crescita. Si ama presto la Parola di Dio, allorchè presto il cuore si apre all’ascolto della Sua voce.

Tutti gli scritti di Teresa sono pieni di citazioni della Parola di Dio. Vi fu un periodo della sua vita segnato da una particolare predilezione per L’imitazione di Cristo ed uno assai breve in cui si interessò agli scritti di san Giovanni della Croce. Ma in seguito Teresa rivolse interamente il proprio cuore soltanto alla Sacra Scrittura.

“La mia cara Imitazione non mi lasciava mai… Quante luci ho attinto dalle opere di san Giovanni della Croce. All’età di 17 e 18 anni non avevo altro nutrimento spirituale: ma più tardi tutti i libri mi lasciarono nell’aridità… In questa impotenza mi soccorsero la santa Scrittura e L’Imitazione, ma soprattutto il Vangelo, nel quale scopro sempre luci nuove, sensi nascosti e misteriosi…

Non trovo più niente nei libri fuorchè nel Vangelo… Poiché i miei desideri mi facevano soffrire un vero martirio, aprii le lettere di san Paolo per cercare qualche risposta…

Come sono luminose, come sono profumate le tracce che Gesù ha lasciato! Basta che getti gli occhi sul Santo Vangelo e subito respiro i profumi della vita di Gesù…”

Teresina non solo comprese l’importanza di una conoscenza globale della Parola di Dio, ma anche la necessità di una lettura che penetra nella profondità più nascosta della Parola, così come è resa possibile soltanto da una conoscenza del testo originale.

“Se fossi stato prete, avrei imparato l’ebraico ed il greco, e non mi sarei accontentata del latino: così avrei conosciuto il vero testo dettato dallo Spirito Santo”.

Desiderio condiviso da noi che cerchiamo di seguire il testo letterale della Parola, ma ai tempi di Teresina, quanti camminavano sulla stessa lunghezza d’onda e potevano vantare una ricerca così profonda del vero senso delle Scritture?

In tempi di traduzioni molto approssimative ed imperfette della Parola da parte dei dotti della chiesa, quale richiamo da parte di una giovane di modesta cultura!

A diritto e giustamente Teresina va annoverata fra i dottori della chiesa, per il suo amore unico ed esclusivo alla Parola, così come è stata scritta.

 

Cristo  unico maestro e direttore spirituale

Teresa fu consapevole di aver ricevuto da Dio singolari illuminazioni per la comprensione dei misteri della vita spirituale.

“Sono inondata di luci… già il buon Dio mi istruiva in segreto sulle cose del suo amore… se degli scienziati fossero venuti ad interrogarmi, sarebbero stati senza dubbio stupiti al vedere una bambina di quattordici anni che comprendeva i segreti della perfezione… da due anni a questa parte, ho compreso tanti misteri che prima mi erano nascosti… possiamo dire, senza vantarci, che abbiamo ricevuto grazie e luci particolarissime. Siamo nella verità: vediamo le cose come stanno…”

Teresina non ebbe un direttore spirituale così come è comunemente inteso soprattutto da persone consacrate.

Altro maestro non ha avuto all’infuori di Cristo.

“Dio non si serviva di intermediari, ma agiva direttamente… ( parole rivoltelle dal p. Pichon: ) “Figlia mia, Nostro Signore sia sempre il vostro Superiore ed il vostro Maestro di noviziato”. Lo fu di fatto: e anche “mio direttore”… il mio cuore si volse ben presto al Direttore dei direttori: e fu lui a istruirmi in questa scienza nascosta agli scienziati e ai sapienti, e che si degna di rivelare ai più piccoli… il buon Dio voleva mostrarmi che egli solo era il direttore della mia anima…

Gesù non ha bisogno di libri né di dottori per istruire le anime: egli, il Dottore dei dottori, insegna senza strepito di parole… i tuoi segreti di amore, tu solo me li hai insegnati”…

Come intendere questo andare in controtendenza di Teresina rispetto alla comune mentalità monastica? Può considerarsi come l’eccezione, e come un modello da ammirare e non da imitare oppure vi è qualcosa di più e di diverso? In un tempo in cui la direzione spirituale perde il suo significato di semplice aiuto per una migliore intelligenza delle cose di Dio, la scelta di Teresina appare pienamente consapevole e responsabile.

Vi è un solo mediatore tra Dio e l’uomo ed è Gesù. La direzione spirituale come forma di mediazione porta con sé la possibilità di un equivoco e di una sovrapposizione di un mediatore umano fallibile,  all’unico vero mediatore che è mandato dal cielo.

Il direttore spirituale può essere un aiuto, ma può anche commettere in quanto uomo gravi errori e condurre su vie non illuminate e non adeguate. Meglio affidarsi all’unica guida sicura data e confermata da Dio Padre. Vi è un solo direttore spirituale per tutti ed è Cristo Gesù, così come si fa conoscere attraverso l’ascolto della sua Parola. Non si tratta di presunzione, ma di piena fiducia e di abbandono totale all’unico maestro.

 

Come si ama Dio

Quale il segreto per un amore perpetuo verso il Signore?

Restare bambini. Per la maggior parte degli uomini lo spirito della fanciullezza è presto superato e messo da parte e c’è bisogno di un ritorno che è poi un diventare. Perché solo la grazia del Signore può farci recuperare la semplicità di un piccolo, allorchè l’abbiamo perduta.

In Teresina vediamo una piccolezza preservata e custodita nell’intero arco della sua pur breve vita.

Per quale ragione il vero amore al Padre è quello dei bambini?

Il bambino non ha vita propria, non vive per sé, ma si identifica nell’Altro. In Lui pone ogni suo diletto, speranza, fiducia. Nelle braccia del Padre si sente sicuro, protetto, pienamente appagato, non teme di nulla. Il bambino non si pone tanti perché riguardo a quello che fa il Padre o gli viene da Lui comandato. E’ sereno, tranquillo, convinto che colui che gli ha dato la vita ha il potere di custodirla e portarla a buon fine.

“Le chiesi, la sera, che cosa intendesse per “restare bambino piccolo dinanzi a Dio” ( è la sorella Madre che riferisce ) , mi rispose:

E’ riconoscere il proprio nulla, sperare tutto da Dio misericordioso, come un bambinello attende tutto dal suo babbo; è non inquietarsi di alcunché, non guadagnare ricchezze. Anche i poveri danno al bambino quanto gli è necessario, ma appena egli cresce, il padre non vuole più mantenerlo, e gli dice: Lavora! Ora può bastare a se stesso. E’ per non sentirmi dire così che ho preferito non crescere; mi sentivo incapace di guadagnarmi la vita, la vita eterna del Cielo! Perciò, sono rimasta sempre piccola, senz’altra occupazione che cogliere i fiori dell’amore e del sacrificio, e offrirli al Signore, per suo piacere.

Essere piccoli vuol dire anche non attribuire affatto a noi stessi le virtù che pratichiamo, non crederci capaci di nulla, ma riconoscere che Dio misericordioso pone il tesoro della virtù in mano al suo bimbo, perché questi se ne serva quando ne ha bisogno; ma il tesoro è sempre Dio. Infine è non perdersi d’animo per le proprie mancanze, perché i bimbi cadono spesso, ma sono troppo piccini per farsi troppo male”.

Non c’è amore più pieno ed assoluto di quello di un bambino nei confronti del padre.

Ma viene anche il tempo dell’età adulta e l’amore che è rimasto bambino si arricchisce di significati e di immagini nuove. Come rappresentare un piccolo innamorato, se non stretto fra le braccia del suo genitore? E qual immagine più adeguata per l’età adulta di quella dell’amore sponsale?

Se Teresina vuol crescere è soltanto per diventare la sposa di Cristo: non per rompere con il primitivo amore, ma per viverlo nel suo naturale svolgimento ed epilogo finale. Perché la chiamata di ognuno di noi è all’eterno matrimonio con il Figlio di Dio.

L’immagine è tipica della Scrittura e rende nel migliore dei modi l’idea dell’anima innamorata, che perde se stessa nell’Amore per l’Altro, tutta intenta a riamare con l’amore di cui si sente amata. E’ un amore fedele, pieno, assoluto, esclusivo, che non ammette altri amori che possano stare sopra o semplicemente accanto. Soltanto nello sposalizio con Cristo è reso possibile l’adempimento del primo e più grande comandamento: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutte le forze.

In Cristo, l’amore impossibile diventa possibile in virtù del vincolo che ci unisce a Lui. E non si deve pensare che il problema interessi soltanto le anime consacrate: tutti siamo chiamati ad essere sposi di Cristo. Il matrimonio terreno è soltanto un’immagine di quello eterno: l’immagine tramonta, la realtà resta.

L’anima innamorata pone nell’Altro ogni propria gioia e compiacimento, non trova in sé alcuna grazia ed alcuna bellezza, vive dell’Altro e per l’Altro. Gesù è tutto e noi siamo niente, Gesù è il giusto ed il santo, noi siamo dei peccatori. Non c’è altra ricchezza all’infuori di quella che è donata.

La nostra piccolezza è beata, non dobbiamo sfuggirvi, ma acconsentire a restare poveri, perché il Signore ci doni gratuitamente e ci ami senza merito alcuno.

“Il merito non consiste nel fare né nel dare molto, ma piuttosto nel ricevere, nell’amare molto… quando Gesù vuole prendere per sé la dolcezza del dare, non sarebbe gentile rifiutare…   Bisogna acconsentire a restare povero e senza forza: ed è questo il difficile…   Basta riconoscere il proprio nulla ed abbandonarsi come un bambino nelle braccia del buon Dio…  se il Cielo mi colmava di grazie, non era perché le meritassi…  Gesù voleva far risaltare in me la sua misericordia; poiché ero piccola e debole, si abbassava verso di me…   cantare con il salmista, che la sua misericordia è eterna…   sono soltanto una piccolissima anima che il buon Dio ha colmato di grazie: ecco che cosa sono…  prega che resti sempre piccola, piccolissima…    chiedi a Gesù che sia felice di essere dovunque la  più piccola, l’ultima…  pregate perché il grano di sabbia diventi un atomo visibile solo agli occhi di Gesù… lo zero… il piccolo zero”.

Ogni gesto, ogni atto di fede, ogni scelta altro non è che risposta all’amore infinito di Cristo, a tutti donato gratuitamente. Nessun volontarismo, nessun desiderio di guadagnarsi in qualche modo il Paradiso. Gesù ha già dato ed ha già fatto tutto per noi. Dobbiamo abbandonarci al suo amore nella piena consapevolezza del nostro niente.

“Non voglio far credere che facessi delle penitenze: purtroppo non ne ho mai fatta nessuna…  sono costretta ad avere un rosario di pratiche:…  sono presa in reti che non mi piacciono…  Non voglio accumulare meriti per il cielo…  niente meriti! Fare piacere al buon Dio. Se avessi accumulato dei meriti, mi sarei disperata…  è proprio questo che fa la mia gioia: poiché non avendo nulla, riceverò tutto dal buon Dio…  nel mio piccolo niente non c’è nulla da far valere…  lo so bene: tutte le nostre giustizie non hanno ai tuoi occhi alcun valore…   non voglio dare per ricevere… L’abbandono: è Gesù che fa tutto, e io non faccio nulla…  bisogna perdere il tuo piccolo nulla nel suo infinito tutto.

 

Diventare una cosa sola con Cristo nell’abbraccio della croce

Se la nostra gioia è quella di lasciarci amare da Gesù nella piccolezza più assoluta, quale la risposta ad un amore assoluto e gratuito?

Noi non siamo capaci di amare Gesù come siamo da Lui amati, ma allorchè afferriamo il suo amore siamo da Lui stesso rapiti e trasformati a sua immagine e somiglianza.

Non si può essere sposi di Gesù, se non facendo propri i suoi sentimenti ed i suoi voleri. E’ volontà di Dio che tutti gli uomini giungano a salvezza: per questo ha mandato dal cielo sulla terra il Figlio suo. Se la sposa non può avere la bellezza e la grazia dello sposo, può tuttavia far propria la sua volontà, e diventare sua imitatrice, amando come Egli ama e desiderando ciò che Lui desidera L’amore vero è condivisione: condividere l’amore di Gesù vuol dire prendere parte alla sua opera di redenzione.

“Più mi sento bruciata dalle tue fiamme divine, più mi sento assetata di donarti delle anime… tu lo sai, o mio Dio, tutto ciò che desidero è farti amare…Vorrei illuminare le anime come i profeti, i dottori, ho la vocazione di essere apostolo. Vorrei percorrere la terra, predicare il tuo nome e piantare sul suolo infedele la tua croce gloriosa; ma, o mio Diletto, una sola missione non mi basterebbe: vorrei nello stesso tempo annunciare il Vangelo nelle cinque parti del mondo e fino alle isole più lontane. Vorrei essere missionaria non solo per qualche anno, ma vorrei esserlo stata fin dalla creazione del mondo ed esserlo fino alla fine dei secoli. “

Ci sono cose che si vorrebbe fare per la salvezza dell’umanità che non si possono attuare, se non in modo parziale. Ma al di là del fare e dell’operare c’è una dimensione dell’amore, accessibile a tutti e senza limite alcuno: la sofferenza. Abbracciando la croce del Cristo la fedeltà e l’offerta all’Amore misericordioso trovano  il loro suggello ed il loro adempimento ultimo.

“La mia vocazione è l’amore:io non sono che una bambina impotente e debole, tuttavia la mia debolezza stessa mi dà l’audacia di offrirmi come vittima al tuo amore, o Gesù. L’amore mi ha scelta come olocausto: me, debole ed imperfetta creatura. Questa scelta non è degna dell’Amore? Sì, perché l’Amore sia pienamente soddisfatto, bisogna che si abbassi fino al nulla e che trasformi in fuoco questo nulla”…  Ecco la mia preghiera: io chiedo a Gesù di attirarmi nelle fiamme del suo amore e di unirmi così strettamente a sé, che egli viva ed operi in me…  Risolsi di tenermi in spirito ai piedi della croce, per ricevere la divina rugiada che ne scorreva, comprendendo che avrei poi dovuto spargerla sulle anime…  Gesù mi fece comprendere che mediante la croce voleva donarmi delle anime…  Solo la sofferenza può generare delle anime a Gesù…  Sono in un sotterraneo molto buio chiedo che le mie tenebre servano a illuminare le anime…  Dico al Signore che sono contenta di non godere di questo bel cielo sulla terra, perché egli l’apra per l’eternità ai poveri non- credenti…  Sì, mio Amato, ecco come si consumerà la mia vita…  Non ho altro mezzo per provarti il mio amore, se non gettare fiori, cioè non lasciarmi sfuggire alcun piccolo sacrificio

Voglio soffrire per amore ed anche gioire per amore, e così getterò fiori dinanzi al tuo trono; non ne troverò uno senza sfogliarlo per te…  poi, lanciando i miei fiori, canterò, e continuerò a cantare anche quando dovrò cogliere i fiori tra le spine, ed il mio canto sarà tanto più melodioso quanto più le spine saranno lunghe e pungenti…

Ti ringrazio, mio Dio per tutte le grazie che mi hai concesso, in particolare di avermi fatto passare attraverso il crogiuolo della sofferenza. Con gioia ti contemplerò l’ultimo giorno, mentre porti lo scettro della croce; poiché ti sei degnato di farmi partecipe di  questa croce tanto preziosa, spero di somigliarti in Cielo e di vedere brillare sul mio corpo glorificato le sacre stimmate della tua Passione…  dopo l’esilio sulla terra, spero di venire a godere di te in Patria, ma non voglio accumulare meriti per il cielo, voglio operare per il tuo solo Amore, con l’unico scopo di farti piacere, di consolare il tuo sacro Cuore e di salvare anime, che ti ameranno eternamente. Al crepuscolo di questa vita, comparirò davanti a te con le mani vuote, poiché non ti domando, Signore di contare le mie opere. Tutte le nostre giustizie hanno macchie davanti ai tuoi occhi. Voglio quindi vestirmi della tua giustizia, e ricevere dal tuo Amore il possesso eterno di te stesso. Non voglio alcun altro trono e nessuna altra corona che Te, mio Diletto.

Ai tuoi occhi il tempo non è nulla, un solo giorno è come mille anni, tu puoi quindi in un istante prepararmi per comparire davanti a Te…  Affinché io possa vivere in un atto di amore perfetto, mi offro come vittima d’olocausto al tuo amore misericordioso, supplicandoti di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti di tenerezza infinita, che sono racchiusi in te, perché io diventi martire del Tuo Amore, o mio Dio…

Teresina vive in questo mondo come in una terra d’esilio: il suo cuore brama l’unione eterna con l’eterno sposo. Non è il rifiuto della vita, ma di una vita che il peccato ha portato lontano dal Cristo.

Essere per sempre con Cristo, nella gloria del Padre: non c’è altra gioia e non può esserci altra aspettativa.

E tutto questo attraverso una esistenza umile e semplice, che non cerca l’apparire ma soltanto l’essere conforme a verità.

Cosa ha fatto in definitiva santa Teresina di grande? Nulla, agli occhi del mondo: tutto davanti a Dio. Essere di Cristo vuol dire vivere in Lui e per Lui, abbracciare il suo amore fino alla consumazione totale. La vera fede ha una dimensione interiore che solo Dio può valutare e conoscere. “Come sono felice di essere per sempre prigioniera al Carmelo. Non ho nessuna voglia di andare a Lourdes per avere delle estasi. Preferisco la monotonia del sacrificio! Che felicità essere così ben nascosti che nessuno pensi a noi”.

Intendano coloro che sono alla caccia di  opere straordinarie o di manifestazioni miracolose della santità. La fede è semplice obbedienza alla volontà di Dio. E’ desiderio di una vita nascosta in Cristo.

Non c’è bisogno di andare lontano per trovare Cristo: è nel silenzio più profondo del tuo cuore. Non cercare altra fede all’infuori di quella che viene dall’ascolto della parola di Dio. Non desiderare altra sofferenza se non quella che ti è data dal Cristo. Non fare opera alcuna se non quella che è volontà di Dio.

Un fraterno abbraccio a tutti da Cristoforo e Teoforo


Ma, che senso ha

per dei laici

obbedire ad una Regola?

    Anche i nuovi movimenti ecclesiali che previlegiano l’aspetto dinamico, spontaneo, carismatico del loro associarsi, avvertono l’utilità di alcune “tracce” (regola) di comportamento e stanno sperimentandole sotto varia nomenclatura. 

   Noi abbiamo mantenuto un nome così impegnativo (la Regola) sia per segnalare la serietà dell’impegno richiesto, sia per ricordare che riceviamo dalla Chiesa uno strumento volto a liberarci dalla dipendenza dei nostri e degli altrui sbalzi di umori e progetti e valorizzare sia i doni personali che le potenzialità del carisma DELLA COMUNITA’ DI S.ORSOLA in una vita di Fraternità, posta quale segno di Chiesa. 


  

LINEE SPIRITUALI DELLA REGOLA

 


In sintesi: per poter rispondere alla vocazione di questo movimento RADICATI NELLA CARITA’ bisogna rispondere alle richieste di conversione che Pietro stesso ci rivolge come negli Atti degli Apostoli al cap. 2

 

14 Allora Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così: «Uomini di Giudea, e voi tutti che vi trovate a Gerusalemme, vi sia ben noto questo e fate attenzione alle mie parole:

 

15 Questi uomini non sono ubriachi come voi sospettate, essendo appena le nove del mattino.

 

16 Accade invece quello che predisse il profeta Gioele:

17 Negli ultimi giorni, dice il Signore,
Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona;
i vostri figli e le vostre figlie profeteranno,
i vostri giovani avranno visioni
e i vostri anziani faranno dei sogni.

18 E anche sui miei servi e sulle mie serve
in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi
profeteranno.

19 Farò prodigi in alto nel cielo
e segni in basso sulla terra,
sangue, fuoco e nuvole di fumo.

20 Il sole si muterà in tenebra e la luna in sangue,
prima che giunga il giorno del Signore,
giorno grande e splendido.

21 Allora chiunque invocherà il nome del Signore
sarà salvato.

22 Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret – uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete -,

 

23 dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso.

 

24 Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere.

.

25 Dice infatti Davide a suo riguardo:
Contemplavo sempre il Signore innanzi a me;
poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli.

26 Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza,

27 perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione.

28 Mi hai fatto conoscere le vie della vita,
mi colmerai di gioia con la tua presenza.

29 Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi.

 

30 Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente,

 

31 previde la risurrezione di Cristo e ne parlò:
questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne vide corruzione.

32 Questo Gesù Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni.

 

33 Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire.

34 Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice:
Disse il Signore al mio Signore:
siedi alla mia destra,

 

35 finché io ponga i tuoi nemici
come sgabello ai tuoi piedi.

36 Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!».

37 All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?».

 

38 E Pietro disse: «Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo.

 

39 Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro».

 

40 Con molte altre parole li scongiurava e li esortava: «Salvatevi da questa generazione perversa».

 

41 Allora coloro che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone.

42 Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.

 

43 Un senso di timore era in tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli.

 

44 Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune;

 

45 chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno.

 

46 Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore,

 

47 lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo.

 

48 Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati.

.

 


 

 BASI SCRITTURISTICHE

DELLA REGOLA

 


«Che cosa dobbiamo fare, fratelli?»

 

 

1.            PENTITEVI:  contrizione del cuore. All’udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore.

 

2.            CIASCUNO DI VOI SI FACCIA BATTEZZARE: rinnovo delle Promesse Battesimali.

 

3.            RICEVERETE IL DONO DELLO SPIRITO: camminare nello Spirito Santo attraverso una nuova effusione nello Spirito.

 

4.           SALVATEVI DA QUESTA GENERAZIONE PERVERSA: distacco dal mondo. Non amare il mondo né le cose del mondo. Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo. E il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in terno. (1 Gv 2: 15-17)

 

5.            CONFESSIONE FREQUENTE: Se diciamo che siamo in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità. 7 Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato. 8 Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 9 Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa. 10 Se diciamo che non abbiamo peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi.

 

6.            TEMPIO INTERIORE : sviluppare la dimensione contemplativa nella propria vita costruendo giorno per giorno la propria interiorità, “19 O non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi e che avete da Dio, e che non appartenete a voi stessi? 20 Infatti siete stati comprati a caro prezzo. Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (1 Cor 6: 19-20)

 

7.            CONSACRAZIONE A GESU’: 1 Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. (Rom 12: 1)

 

8.            VITA NELLO SPIRITO: 9 Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene. 10 E se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto a causa del peccato, ma lo spirito è vita a causa della giustificazione. 11 E se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. (Rom 8: 9-11)

 

9.            METANOIA: 2 Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto. (Rom 12: 2)

 

10.     VITA NELLA FEDE: camminate dunque nel Signore Gesù Cristo, come l’avete ricevuto, ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione di grazie.

 

11.     STUDIO: badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

 

12.     CONVERSIONE CONTINUA: dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici [23]e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente [24]e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. (Ef 4: 22-24)

 

13.     PENITENZA- ASCESI: [25]Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. [26]Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, [27]e non date occasione al diavolo. [28]Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. [29]Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. [30]E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. [31]Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. [32]Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.

 

14.     RESISTENZA: 10]Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. [11]Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. [12]La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. (Ef 6:10-12)

 

15.     COSTANZA-STABILITA’: [14]State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, [15]e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace.

 

16.     LECTIO DIVINA: [16]Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; [17]prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio.

 

17.     PREGHIERA CONTINUA – PREGHIERA DEL CUORE [18]Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi. (Ef 6:14-20)

 

18.    CONSACRAZIONE SOPRATTUTTO VISSUTA ALLA MADONNA: 25] Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa e Maria di Màgdala. [26]Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». [27]Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa.

 

19.     FEDELTA’ ALL’EUCARESTIA: [48]Io sono il pane della vita. [49]I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; [50]questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. [51]Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

[52]Allora i Giudei si misero a discutere tra di loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». [53]Gesù disse: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. [54]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. [55]Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. [56]Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui. [57]Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me. [58]Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i padri vostri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno». (Gv 6:52-58)

20.     FEDELTA’ ALLA CHIESA: 16]Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. [17]Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. [18]E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. [19]Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, [20]insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».  (Mt 28: 16-20)

[15]Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». [16]Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». [17]Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecorelle. [18]In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi». (Gv 21:15-18) 


 LA REGOLA

IN PRATICA 


  

1.            Sviluppare la dimensione contemplativa dell’essere umano aprendosi al dialogo con Dio.

 

2.            Trattarsi come fratelli, con piena carità e con atti concreti di fraternità.

 

3.            Meditare giorno e notte la Parola del Signore vegliando in essa.

 

4.            Pregare insieme o soli più volte al giorno.

 

5.            Celebrare ogni giorno l’Eucaristia .

 

6.            Lavorare con le proprie mani, come Paolo apostolo.

 

7.            Purificarsi da ogni traccia di male .

 

8.            Vivere da poveri, fino a sostenere i fratelli nel   bisogno con i propri  beni, secondo possibilità.

 

9.            Amare la Chiesa e tutte le Genti .

 

10.     Conformare la propria volontà con quella di Dio ricercata nella fede,  con il dialogo e con il   discernimento. 


 I CINQUE PUNTI


1.            Conversione personale.

 

2.          Siamo ancora lontani dall’incontro con Dio nel nostro cuore.

 

3.          Trascorrere più tempo possibile nella preghiera e nell’adorazione a Gesù Cristo nel Santissimo Sacramento Dell’altare.

 

4.          Il desiderio della vita eterna.

 

5.          Pensare che tutto passa e solo Dio rimane.

 


PROPOSITI


  • la preghiera del cuore

  • l’Eucarestia

  • la confessione mensile

  • la lettura della Bibbia 

  • il digiuno

 


 

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Un nuovo movimento spirituale

trasversale

a tutti gli Ordini e Movimenti ecclesiali

 

RADICATI

NELLA CARITA’

 

Collocazione del Movimento

nella

Chiesa Cattolica

 

Esso non va a collocarsi nel novero degli altri ordini, movimenti, associazioni, gruppi parrocchiali della Chiesa ma li attraversa tutti quanti, cogliendo un minimo comun denominatore di tutti, che deve essere il “proprio” del Cristianesimo, il fondamento, la sola cosa necessaria, e si assume il compito di viverlo per tutti ed a nome di tutti in profondità e radicalmente “ Vivere in profondità, nel silenzio, e nell’umiltà le radici del Cristianesimo “.

 

Per questo possono far parte del movimento tutti: sacerdoti, laici e religiosi, appartenenti anche a qualunque altro ordine, associazione o movimento. Il movimento non fa iscrizioni e quindi non è configurabile né per mezzo del numero di aderenti, né per mezzo di  tessere di iscrizione, né per mezzo di gerarchie o di cariche. Ognuno, che intende fare un percorso comune col Movimento, si impegna solamente ad assimilarne la spiritualità, che è quella della Chiesa primitiva, della Comunità del portico di Salomone, come è descritto negli Atti degli Apostoli.

 

Il fondamento è Cristo, il mezzo è Cristo, il fine è Cristo, ricercato, ascoltato, incarnato, pregato, adorato nelle profondità del proprio cuore, per viverlo come centralità là, nella situazione e nel luogo dove ciascuno è chiamato, e nella Chiesa Cattolica (1Cor 7:20 : ” Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato” ). Il movimento  rappresenta una corrente di vita interiore che attraversa tutta la Chiesa e la corrobora dall’interno ed in profondità, umilmente, silenziosamente, senza visibilità e senza pretendere di modificare le strutture esistenti, senza influenzare le varie regole o spiritualità degli ordini o dei movimenti esistenti, e senza crearne delle altre. 

La diffusa effettiva ignoranza della fede cristiana e del suo nucleo vitale, la tentazione di ridurre quel messaggio al livello di una ideologia o della mera dimensione sociologica, ci spinge a cercare una risposta che per essere intelligente non deve perdersi nelle questioni secondarie, ma saper cogliere l’essenziale ed il proprio del Cristianesimo, evidenziando coraggiosamente la differenza da ciò che è altro ( “è la differenza che porta l’idea”, aveva ammonito profondamente Aristotele ).

 

Anche noi abbiamo bisogno, e non certo in via subordinata, di una testimonianza vissuta, capace di proporre una libera e degna forma di esistenza.

 

 

 Siate radicati nella Carità

 

[7]   Ben radicati e fondati in Lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, abbondando nell’azione   di grazie.

 

[8]   Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo.

                    ( Colossesi – Capitolo 2  )

 

        Qual è la Vocazione ed il Compito Unico del movimento nella Chiesa Cattolica? Ristabilire Il primato di Dio e dell’anima nell’uomo contemporaneo e Portare Gesù a Regnare nei cuori riconsiderando la centralità dell’ “Incarnazione” del Verbo!.

 

     La cultura del consumismo vorrebbe trascinare tutti in un attivismo senza respiro e nel conseguente vortice senza fine, spesso fine a se stesso od in una pseudo gratificazione religiosa o magico-religiosa, forse avulsa dall’impegno della Conversione-a-Cristo ed al suo Vangelo.

 

      Qualche  volta si arriva al compromesso fino al sincretismo livellante, che porge all’umanità globalizzata metodi di meditazione più o meno trascendentale, filosofie orientali, religioni monoteiste, morali sociali, superstizioni antiche e nuove tese all’incontro col divino.

 

     Tutto questo però senza un Mediatore tra l’uomo e Dio e senza un vero riconoscimento del peccato e dei peccati dell’umanità, delle sue conseguenze storiche, e spesso negando il mistero dell’iniquità, del male, introdotto e propugnato dal signore della morte: Satana (il vero nemico di Dio e dell’umanità).

 

Va riconquistato lo spirito della “povertà beata”, lo spirito del silenzio, del deserto e della penitenza. Va ,dunque, operato un rovesciamento: le cose che prima contavano per il mondo e per me, ora non contano più. Le cose che prima sembravano non aver valore, ora per me valgono in assoluto.

 

La povertà beata fa scoprire all’uomo ciò che di fatto è, all’interno della storia dell’umanità e nelle profondità di se stesso: un essere limitato, incapace di farsi relmente del bene, dipendente, bisognoso, un vuoto che deve essere riempito da un altro.

 

Senza lo Spirito di Povertà, la povertà non è però una Beatitudine, ma una maledizione, un’occasione di rivolta, di odio, di invidia, di violenza e di lotta sociale. Dalla povertà reale allo Spirito di Povertà c’è di mezzo lo Spirito Santo.

 

Va fatta esplicita rinuncia all’autosalvezza ed al groviglio dei nostri sentimenti e risentimenti: odii, rancori, pregiudizi, invidie, tristezze, stanchezze, scoraggiamenti, punti di vista, presunzioni, orgogliose rivendicazioni, autosoddisfazioni, ritrosie, critiche, gelosie, discussioni, separazioni, maldicenze, chiacchiericcio dispersivo, ricerca delle cariche e dei primati, assunzione di incarichi di comando o prestigio,…al fine di ottenere da Dio una sicura semplicità di spirito, una perenne letizia, una costante imperturbabilità di sentimenti, un’umile perseveranza, nell’attenzione amorosa alla presenza continua di Gesù nel Cuore, al Centro dell’Anima e della Coscienza, dove Egli deve permanentemente Regnare, fuggendo da ogni intimismo e psicologismo, per servire Gesù nel Cuore con semplicità ma anche nella realtà di tutto il nostro essere “anima e corpo”, nella preghiera interiore continua, ma anche nella concretezza della vita quotidiana, nella continua ricerca del servizio al prossimo, nella fattiva carità fraterna,la quale rimane come condizione unica di verifica dell’autenticità della nostra preghiera) e della nostra conversione e sulla quale ogni giorno ci dobbiamo esaminare davanti a Dio ed ai fratelli.

 

[17] Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, [18] accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. [19] Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile. [20] Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, [21] se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, [22] per la quale dovete deporre l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici [23]e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente [24] e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. [25] Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. [26] Nell’ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, [27] e non date occasione al diavolo. [28] Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. [29] Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. [30] E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. [31] Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. [32] Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo.

    ( Efesini – Capitolo 4 )

 

La scure va posta alla radice dell’albero: nel senso che l’albero della mia vita che non ha dato e non dà buoni frutti va decisamente abbattuto e va posta una radice nuova; Radix: (ecco cosa significa), l’albero ha bisogno di una nuova radice.

 

La radice nuova è anche quella vecchia, quella di sempre: Gesù Cristo, solo Gesù Cristo, unicamente Gesù Cristo, e la nostra vita è vissuta in Cristo, con Cristo, per Cristo:

 

[10] Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. [11] Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. [12] E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, [13] l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. [14] Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; [15] ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco. [16] Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? [17] Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.

                                          ( Corinzi 1 – Capitolo 3  )

      

Ed ecco cosa significa

essere

“Radici nella Radice“ 

NON PIU’ IO

MA CRISTO

 

[20] Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.

 

Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me. ( Galati Capitolo 2  ).

 

Minime sono le radici dell’albero: sepolte vive, sepolte benché siano vive, vive anche se sono sepolte e nascoste, infatti se non fossero sepolte e nascoste finirebbero presto di essere vive. 

 

1] Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; [2] pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. [3] Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! [4] Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. 

                                                                                                    ( Colossesi – Capitolo 3 )

 

Se queste radici non fossero vive e sepolte, avremmo presto finito di ammirare le verdi foglie dell’albero e di gustarne i saporosi frutti.

 

Le radici sono sepolte e sembrano di nessun conto ed inutili, nessuno se ne ricorda, sembrano senza vita tanto sono prive di brillanti colori, mentre sono informi, grezze, ricoperte di terra, prive di una qualche bellezza per attrarre l’ammirazione; eppure senza di esse la vita dell’albero sarebbe una vita effimera, al massimo durevole per una stagione,…non certo vita eterna…!

 

La radice lavora umilmente e continuamente, nascosta, misteriosa, silenziosa, inappariscente, di un lavoro tutto  “interiore”.

 

Questa è la vocazione dei  minimi, vivere nell’interiorità, la vita spirituale, permanentemente in uno stato di conversione e di preghiera continua, per contribuire  a garantire un’ Abbondante e Vera Linfa all’Albero della Chiesa.

 

Questa vocazione la si può vivere ovunque, in qualunque situazione o stato. L’importante è tendere alle cose più piccole, più semplici, meno appariscenti, meno nobili, più interiori….alle cose , appunto, minime; valorizzando le cose minime, apparentemente insignificanti, ciò che gli uomini spesso scartano o reputano mezzi inutili o marginali, fino a farle diventare gli ingredienti di una profondissima vita di santità, utile per la Chiesa. Poiché, questo è lo scopo ultimo: l’Utilità per la Chiesa!

 

Si tratta di utilizzare tutto ciò che è più semplice, più piccolo, più facile, più nascosto. Le radici non hanno splendore e non hanno voce, sono silenziose, mute. Le fronde stormiscono quando il vento fa agitare le tremule e leggiadre e verdi foglie, fa dondolare i rami e scuote i fiori brulicanti di api e di pollini  e di nettare, ma le radici non hanno voce che si possa udire, né canto, né poesia.

 

Esse sono in grado di strappare ed assorbire acqua e sali anche da un terreno ostile e perfino dalla dura roccia del nostro cuore di pietra, per trasformarli in linfa; e debbono continuamente difendersi contro gli attacchi degli abitatori ostili di quel modo, buio e nascosto, dove il sole e l’aria non possono penetrare.

 

Esse sono impegnate infatti in una lotta aspra e continua contro i nemici oscuri, di un mondo di tenebra, che dentro di noi, nel terreno del nostro cuore, come tignole, erodono l’anima di chi non è preparato, abituato e temprato al rude combattimento spirituale:

 

10] Per il resto, attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. [11] Rivestitevi dell’armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. [12] La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. [13] Prendete perciò l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. [14] State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, [15] e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. [16] Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; [17] prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio. [18] Pregate inoltre incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi, [19] e anche per me, perché quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del vangelo, [20] del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere.   

(  Efesini – Capitolo 6  )

 

La nostra vita, nel Movimento , è  “dura battaglia”,  è “milizia”, è “tirocinio”. Dobbiamo imparare attraverso le “cose patite” l’obbedienza della Fede: Dobbiamo attraversare e superare numerose “tentazioni” e “prove” interiori ed esteriori.

 

Le verità di fede devono diventare per ognuno di noi “fatti di fede”, una “scelta del cuore”, un “atteggiamento dello spirito”. Imparare l’obbedienza della Fede è il compito di tutta la vita.

 

Chi partecipa al Movimento   è, dunque, un “eremita nella città”, vive una vita nel deserto, pur essendo immersi nel caos della vita moderna quotidiana; è una vita eremitica, tutta chiusa nel silenzio e nella solitudine della propria “cella interiore” ( vedi punto  194 ). Si vive nel deserto pur vivendo nel cuore del mondo, quasi una sintesi degli opposti ( vedi punto 80 ).

 

Questa “ nuova forma di vita eremitica, “ fà di tutta la vita una LITURGIA DI LODE a Dio, riducendo i bisogni allo stretto necessario.

 

Si Vive in povertà, col potere di non aver potere, sperimentando così il supremo potere: quello di poter vivere solo per Dio, (questa è l’obbedienza); non avendo altro desiderio se non quello di vivere per Cristo, con Cristo ed in Cristo quanto rimane ancora da vivere.

 

Questo “eremita nel mondo” è testimone dello Spirito, nel vuoto e nel silenzio interiore, che è l’immagine dell’immensità, e quando avrà messo a nudo anche il vuoto della ragione, Dio avrà modo di entrare nella  coscienza  per risvegliarla ed illuminarla.

 

[1] Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, [2] con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, [3] cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. [4] Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; [5] un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. [6] Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.    ( Efesini – Capitolo 4  )

Viviamo in un tempo di secolarizzazione massificata, ed anche noi ci troviamo nelle condizioni di formulare la domanda: ”Qual è il proprio del Cristiano?”.

 

 

ANGELO BERTOGLIO O.H. – DA OPZIONI ‘70 – Aprile – N.4

 TUTTI COINVOLTI

Da OPZIONI ‘70 – Aprile – N.4

 

Di Angelo Bertoglio o.h.

 

Fra Angelo Bertoglio o.h.Ho qui sul tavolo (come non dubito di ogni altro confratello) i primi tre numeri di OPZIONI ‘70.

Non ho ancora avuto il tempo di leggerli tutti. Ma lo debbo fare senz’altro in questi giorni, lo prometto, lo ritengo anzi un dovere.

Sfogliandoli, quello che ho potuto raccogliere subito, è che il lettore di questa nuova arma letteraria può diventare co-autore. Mi sono affrettato così a scrivere subito qualcosa.

La mia anima avrebbe tante cose da dire solo leggendo l’editoriale del primo numero che porta la firma di D. Nocent, amico carissimo. Ho promesso che leggerò interamente i numeri finora usciti per poter dire con cognizione di causa le mie impressioni, suggerimenti e critiche.

Per il momento, solo due parole, così, di primo acchito, come me le suggerisce l’articolo suaccennato e che mi piace trascrivere: “La Chiesa deve dare una risposta vitale ai grandi problemi del Concilio Vaticano II. Anche le nostre Fraternità dovranno fare una profonda revisione di vita per mettersi in sintonia con la storia e tradurre vitalmente i “segni dei tempi”. Senza dubbio!

 

Credo che dobbiamo cominciare con l’intenderci subito sulla parola “Fraternità”, la “nostra Fraternità”.

 

Domandiamci:

l’abbiamo noi questa entità morale, questa base di partenza, questo primo gradino di una lunghissima scala da percorrere?

Siamo disponibili noi nel nostro ambiente religioso (limitiamolo pure ai 150 membri della cosiddetta “Provincia” Religiosa – che non dovrebbe voler dire “gente di provincia”) ?

Abbiamo questa tensione, questo desiderio di potenziare ogni legame fraterno magari attraverso ad “una profonda revisione di vita” ?

In una parola: siamo uniti? “Ogni regno diviso in se stesso cadrà in rovina” (Matteo 12,25)

Beh! Capisco, non è possibile rendere omogeneo un gruppo di centocinquanta persone sul piano psicologico, dove solo la disparità di età gioca un ruolo determinante; però… C’è un punto sostanziale e unificatore ed è la Fraternità. Oggi dobbiamo trovarci tutti coinvolti nella sua realizzazione attraverso una buona (retta, sana, santa) volontà. Essa è la disposizione alla benedizione del Signore sul nostro impegnativo lavoro. “Il Signore bendice i buoni e i retti di cuore”, dice il Salmista, e ancora: “Faticano invano quelli che costruiscono senza di Lui”.

 

Questa buona volontà si traduce per noi in sincerità, chiarezza, manifestazione generosa e aperta della propria personalità. Fuori dunque dalla trincea nella quale è comodo nascondersi e avvilente rifugiarsi per sparare (colpendo e uccidendo) senza essere visti, mantenendo l’anonimato.

 

Oggi la guerra di trincea è sorpassata. Tutti dunque sono chiamati a combattere in campo coperto, disponendosi coraggiosamente (se necessario anche eroicamente) a tutti gli attacchi, che si esige di ricevere però a viso aperto o fronte a fronte.

 

E’ bello scambiarsi lealmente le proprie opinioni, contrastanti fin che si vuole, poterle dire alla luce del sole, metterle in comune per un vero dialogo, spesso solo reclamizzato fino all’usura. Assemblee, conferenze, dibattiti, convegni, giornate di studio, tavole rotonde, stampa, sono questi i metodi moderni per affrontare seriamente i problemi. Non è certo con quel vecchio e insulso metodo di critica da salotto (per noi leggi “refettorio”) che in medioevale linguaggio ascetico si chiama mormorazione, sussurro.

 

Attraverso la strada del dialogo si risponde all’angoscioso appello della Chiesa post-conciliare. E con il dialogo, più che la “democrazia” si realizza la “comunione”.

 

Guardate però, cari confratelli, ch a questa fraterna lotta costruttiva non basta più portare il solo bagaglio intellettuale dell’antico trattato di perfezione evangelica di felice memoria: il RODRIGUEZ; non regge più una critica che si basi sulla cultura fatta di soli libri d lettura spirituale, anche se fatta in Coro, davanti al SS. Sacramento. Lo stesso Gesù ci chiede oggi qualcosa di più impegnativo o forse anche di maggior sacrificio, ci chiede di rinunciare persino a un comodo pietismo sterile. Altrimenti, non riteniamoci capaci e nemmeno autorizzati a criticare, intaccando e danneggiando la buona volontà di coloro che sono seriamente impegnati e ritardando la traduzione vitale dei “segni dei tempi”.

 

Ecco come noi dobbiamo incominciare a concepire la nostra Fraternità. Ed è urgente.

 

Non si arriva subito ad un accodo sul piano ideologico, si creeranno senz’altro delle correnti, dei contrasti di gruppo, ci cozzeremo perfino, però…sarà tutto su un piano di amicizia e di carità, con un unico ideale: l’avvento del Regno di Dio.

 

Noi che siamo il Nuovo Popolo di Dio dobbiamo dare al mondo contemporaneo l’esempio di questa disponibilità.


 

Ciò che i fedeli attendono da noi è una povertà che si traduce in una libertà totale di fronte alle potenze terrene: potenza economica, politica, ecc.

Bisogna che la Chiesa sia libera, bisogna che sia povera, povera in spirito, distaccata dai beni terreni: quei beni della terra che sono il desiderio di potenza, il desiderio di dirigere tutto” (P. E. Léger)


 INDIGNAZIONE – CARITA’ – RISPETTO

 

Da OPZIONI ’70  – N. 5  Giugno 1970

 

Questa premessa s’ era resa necessaria per tentar di far passare in modo accettabile sia l’articolo “vigoroso” che Fra Angelo Bertoglio aveva spedito alla redazione per la pubblicazione,  che di altre, non meno sincere ma poco diplomatiche riflessioni. Da come sono andate le cose, evidentemente non è stata convincente

 

 

Editoriale

 

Quando noi affermiamo che certe posizioni di apertura sono tutt’altro che infrequenti, anzi costituiscono il patrimonio mentale ormai comune di una larghissima zona della Chiesa, ci si risponde, con sufficiente sufficienza, che il realtà si tratta di pochi gruppi del dissenso: “isoliti fanatici”, come ormai si dice in Vaticano, tentando di screditarli e metterli in tal modo fuori gioco.

 

Quella della forma in chi scrive è una questione nevralgica. Molti sono disposti ad accettare i contenuti critici, purché siano espressi in un modo diverso. Ma non è facile distinguere il contenuto dal linguaggio e, in genere, bel giustamente, gli scrittori contestati rifiutano di ammorbidire la forma perché sembra loro di devitalizzare la sostanza. In effetti, un sentimento vivace va espresso con vivacità, un’indignazione va espressa con forza e con violenza. Se la si esprime con dolcezza la si tradisce: non è più indignazione ma puro e semplice dissenso.

 

C’è differenza tra dissenso e indignazione ed il linguaggio deve registrarlo. Ma la realtà è che non siamo più capaci di indignazione. Forse, quando si critica un linguaggio forte. Si contesta questa legittimità di indignazione o il suo possibile convivere con la carità e con il rispetto. Ma noi non crediamo che le cose siano tra loro incompatibili, e basterebbe un richiamo al linguaggio evangelico per rendercene convinti.

 

Certo, i nostri critici avrebbero fatto al Signore le medesime obiezioni: che si potevano dire le stesse cose in modo diverso. E invece no: il modo diverso dice cose diverse.

 

Non si può esprimere tutta la carica di sdegno racchiusa nella formula “razza di vipere” con locuzioni più pacate: magari con “gente poco sincera”. “Gente poco sincera” non vuol dire “razza di vipere” ma assai meno. Insomma, la contestazione della forma non è mai solo della forma ma investe direttamente la sostanza; e l’incapacità di ammettere un linguaggio robusto forse deriva da un certo stile di dipendenza clericale che ci rende incapaci di robusto dissenso.

 

*   *   *  

 

La verità non si manda a dire per procura. Di particolare interesse è la critica diretta, semplice e franca: critica che, naturalmente, è definita “irriverenza” e peggio. E dobbiamo essere davvero “cortigianizzanti” per ritenere irriverente una diversità di opinione su problemi tanto discutibili.

 

E’ invece da queste divergenze conosciute ed espresse che nasce una coscienza ecclesiale robusta, filiale e aliena da falsi feticismi. E’ di questa coscienza che abbiamo bisogno noi e di cui più di noi ha bisogno la stessa Autorità, attorniata talvolta da un silenzio osannante che gli nasconde la verità.

 

Quest’operazione falsificatoria è il servizio peggiore che gli si possa rendere, soprattutto se è reso dai collaboratori più prossimi.

 

L’Autorità ha bisogno di essere aiutata a sostenuta. Ma per aiutarla non serve la pietosa bugia o l’adulatorio consenso; serve la parola franca e, all’occasione, anche il filiale dissenso.

 

Non si vien meno al dovuto rispetto e alla necessaria disciplina solo perché si esprime un diverso parere.

                                                                                              **

 

Fra Angelo Bertoglio o.h.“CHI METTE MANO ALL’ARATRO…”

 

Di Angelo Bertoglio

 

Una delle interpretazioni al noto testo evangelico potrebbe essere questa: chi mette mano, chi punta su un programma d’azione, lo espone, lo illustra, lo propone entusiasmando i seguaci e poi…si volta indietro, tergiversa nelle idee, cambia rotta illudendo i discepoli e abusando della obbligatorietà di sottomissione cui benevolmente si sono impegnati, costui no, non è atto…

 

Il Regno dei Cieli esige l’impegno incondizionato di uomini dalle idee chiare, coraggiose, che non ricorrono al sopruso della contraddizione sistematica ingannando se stessi e gli altri. Sì, è vero, questo vale per ogni cristiano, perché in Paradiso o all’Inferno nessuno mai ci va da solo, ma soprattutto riguarda colui che nella comunità ha una giuridica responsabilità di severissimo rendiconto.

Devo dire che troppe volte ho visto anche nel nostro ambiente religiosi miei fratelli con impressionante leggerezza accedere ai posti di comando quasi desiderandoli…

E’ incredibile! C’è da dubitare che costoro abbiano coscienza del valore, della natura delle anime che i prendono l’ impegno di guidare e di governare. Perché, si noti bene, non si tratta di cavalli o di macchine per i quali vale una tecnica umana, ma di anime…che valgono quanto vale Dio, di cui sono immagine.

 

Ebbene, senza tanti preamboli, mi sia lecito dire subito come con questo scritto io intenda entrare in aperta polemica col Padre Provinciale.

 

Così si è espresso recentemente Mons. Camàra: “ Non parlo contro il Brasile, parlo contro la tortura. Non tradisco il Brasile, lo tradirei se tacessi”. E io dico: “Non parlo contro il Provinciale, parlo contro il suo modo di agire. Non tradisco il Provinciale, lo tradirei se tacessi”.

 

 Il vescovo ha soggiunto. “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò stasera,intendo parlarne francamente”. E io ripeto con lui: “Quali che possano essere le conseguenze di ciò che dirò ora, intendo parlarne francamente”.

 

Mons. Elder Camàra è un ometto fragile, dal volto mobilissimo, che parla in modo convincente senza alzare la voce e quasi ipnotizzando l’uditorio. E appassionato, combattivo, sincero, ardente, commovente pur non trascendendo nel tono. Costui è un uomo di Dio che piace a me come piace a molti.

 

Il mio Provinciale no. Cosa devo dire? Non piace a me come non piace a molti della nostra piccola comunità religiosa provinciale. Si capisce, piacere a tutti e anche solo a molti, è impresa ardua perché, ragionando con una mentalità ecclesiale, governare le anime non è mestiere, è missione sacrosanta; non occorre un’arte, ci vuole un carisma, una personalità trasparente, tersa come cristallo, che dia prova di sincerità, di lealtà, di saggezza, di sapienza, di…coerenza. E in questo il Leader innamora, attrae, seduce, trascina, s’impone, non tanto con la forza dell’autorità che indispone, spoetizza, ma disponendo con la simpatia che piace o meglio con la carità.

 

Perché, come asserisce San Francesco di Sales, lui che ne compose anche una preghiera per ottenerla, “la carità è simpatica, è dolce, amabile”. Ed è risaputo come un tale santo si distinse proprio per questa luminosità di carattere acquisito.

 

Affermando che Padre Pierluigi non si è cattivato la simpatia dei suoi figli in questa maniera, mi affretto tuttavia a premettere il mio più alto sentimento di sudditanza a lui, con ubbidienza e rispetto. E constatando, forse anche con rassegnato stupore, come questo atteggiamento di sudditanza esista in tutti i suoi sudditi, devo tuttavia affermare che a un tale doveroso atteggiamento non è più unita purtroppo l’antica stima e fiducia che da principio godeva.

 

Soprattutto nel ceto giovanile Pierluigi poteva essere l’emblema dei giovani, il loro prototipo, la personificazione di essi. Furono i giovani a guardare a lui, a volere lui, l’unico che dava loro garanzia di idee giovani e su di lui puntarono i loro voti.

 

Oggi dobbiamo dire con tristezza, quasi con una stretta al cuore e a nostra confusione di fronte a Dio: ci ha delusi! Non fu l’uomo del tempo, dell’ora presente, come credevamo, come pensavamo, come speravamo… E purtroppo l’uomo di alte responsabilità che fallisce oggi, non può sperare di rifarsi domani; è troppa la vertiginosità con cui gli uomini mutano in un progressivismo tecnologico pari a quello filosofico, e chi si ferma è realmente…perduto !

 

E rimane travolto lui e tutta la sua compagnia se è ad un posto di responsabilità.

 

Comunque, per ora, prima che sia ormai  troppo tardi, sperando di scongiurare almeno il peggio, non posso fare altro che ripetere ancora una volta con rassegnato scoramento, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi: pazienza! E ancora una volta, piegati ma non spezzati, sperando sempre con indomito coraggio, non volendo cessare di sognare tempi migliori sempre imminenti, volgiamo il nostro sguardo ai giovani che hanno mentalità fresche, perché solo da essi si può sperare qualcosa, non certo da chi giovane non è più.

 

Anche il Provinciale ha commesso l’errore di quasi tutti gli anziani: non ha saputo capire, intuire, colpire giusto nel loro presente. Su questo punto, se ce lo permetteranno, quanto, quanto ci sarà da dire! Che il proibircelo sarà l’ultimo errore a consumarsi, poi basta, poi la catastrofe definitiva.

 

La libertà di pensiero, di parola, è la caratteristica dei tempi nuovi e con questo mezzo caratteristico si dovrà poter cambiare radicalmente le vecchie strutture che sanno di muffa, di antiquato anche nella nostra Istituzione.

 

Come ogni anno il corpo umano si rinnova biologicamente,  così anche psicologicamente l’uomo, la società, si rinnovano e quello che era dell’anno scorso nella composizione delle idee, nella problematica della vita, , della convivenza, quest’anno è già passato alla preistoria. Bisogna dunque essere capaci di camminare coi tempi, non fermarsi su un metodo acquisito cinque, dieci, vent’anni fa, altrimenti c’è da ridere!  Bisogna aggiornarsi continuamente, cambiare sempre le posizioni con agilità di spirito, agilità che in ultima analisi ci viene dal mistero pasquale. Ogni giorno ci viene proposto ed è lì che dobbiamo costantemente rifarci, In Cristo risorto ( e in coloro che sono risorti con Lui) la prima prerogativa dello  spirito è l’agilità e non la stasi d’intontimento.

 

Sopra accennai ai mezzi coercitivi usati in Brasile che il vescovo Camàra sdegnosamente condanna. Ma, al dire di P. M: Turoldo, “non esistono solamente campi di concentramento fatti di reticolati, am ci sono anche la prigionia morale e il genocidio dello spirito” (prefazione  a “Libertà dello Spirito” di G. Vannucci).

 

E nel suo giudizio espresso a riguardo della “Marcia di Parma”, il fratello Dionigi si esprimeva così: “sono uscito per un momento dai silenzi prudenti e dalle calcolate paure” (OPZIONI ’70 – n.2). Bravo Dennis e fortunato te che almeno per un momento hai potuto uscire dalla tortura morale a cui sono sottoposti i nostri poveri spiriti. Io p.e. che da trent’anni subisco in silenzio una tale tortura, questo sia pur anche breve sospirato momento di “libertà” non l’ho provata mai e ne ho il cervello liso a motivo dei continui ininterrotti lavaggi che ho subito e ai quali ho dovuto soggiacere passivamente, dietro l’esempio dei Santi (!?) che i comodi pseudo-maestri di una santità interessata, mi andavano insinuando fino alla ossessione spasmodica.

 

Il troppo che ho sofferto anch’io da giovane avrò poi occasione di dirlo un’altra volta per denunciare la mentalità ottusa degli anziani che  in ogni tempo, (da secoli, da millenni) ha sempre prevalso sulle forze esplosive fella giovinezza, carica di preziosissima energia dinamica che mai loro hanno saputo sfruttare quale ricchezza donativa di Dio Provvido all’umanità.

 

Hanno preferito usare solo  e attuare sempre il metodo di un “comodo” negativismo ispirantesi (l’abbiamo detto prima) a cervellotica santità che non vuole disturbi e fastidi. E da ciò il sistema oppressivo di giudici inappellabili a cui solo appartiene (eterni detentori) il diritto di governo assolutista rendendo nulle le nuove vite in germoglio nella fase del loro massimo rendimento, ritardandone lo sviluppo, anzi soffocandone la normale e regolare maturazione intellettiva stabilita dal Creatore a beneficio dell’umanità intera.

 

Sembra quasi che solo le guerre siano capaci di rivoluzionare questa ottusa mentalità a carattere tradizionalista impostata unicamente sulla saggia esperienza, refrattaria, ostile al rischio.

 

L’attempata esperienza che certo non è da disprezzarsi da nessuno, deve essere integrata dalla fresca intelligenza e dal genio dei giovani. Deve accettare il contributo costruttivo anche di chi esperto non è ma ha una maggiore apertura mentale ed è più informato e aggiornato. Altrimenti, il conflitto tra giovani e anziani è inevitabile e continueremo a perdere le migliori speranze.

 

Ora dunque basta. E’ l’ora della rivendicazione sacrosanta delle forze nuove, delle energie fresche, delle menti aggiornate, delle anime giovanili, agili.

 

Avanti anche a chi con ottant’anni sulle spalle ha saputo conservarsi un’anima non aggravata dalla deleteria psicosi dell’ottusità.

 

Quello che fa tanto male anche a me è il constatare come si siano persi due anni preziosissimi, o almeno non impegnati come si doveva, in questa urgente conquista di libertà, di democratica convivenza comunitaria fondata su solide basi di carità che vuole il bene temporale (prima che Eterno) di tutti e non solamente di chi comanda. Dio di nulla è più geloso che della libertà dell’uomo.  Prerogativa dell’uomo di “essere creato a sua immagine e somiglianza” sta proprio nell’essere libero e volontario nelle sue azioni deliberatamente scelte che lo rendono responsabile, cosciente e maturo.

 

Un’altra volta,(sempre se ci sarà permesso) torneremo a sviluppare questo tanto profanato, deforma pro e deturpato argomento della personalità del religioso e dell’ubbidienza. Per adesso lasciamolo lì.

 

In questo avvio di libertà il Fratello Pierluigi quale nuovo Provinciale, ce ne aveva dato ampia speranza, anzi diciamo generosa promessa, quasi iaspettato trionfo. Poi…capovolgimento completo della situazione! Alludo certo alla parte giovani: quale e quanta delusione! A parte i frequenti casi singoli il cui racconto mette tanta tristezza nell’animo, ultima amara constatazione del genere è la lettera di programmazione  “Esercizi Spirituali – Vacanze 1970”: è una cosa avvilente, scoraggiante nel constatare la marcia in dietro di quei pochi passi che  faticosamente si erano fatti in avanti.

 

fra mosè bonardi oh priore generale1 (2)Cosa devo dire io? Sì, dirò innanzitutto il mio disappunto personale per tanto errore, E dirò ancora che a questo punto mi si stringe il cuore nel dover rimpiangere la persona di Padre Mosé (nelle sue alte qualità di despota, qualcosa di buono l’aveva anche lui – Dio ce l’abbia in gloria -) che proprio qui a Solbiate  nelle parole di presentazione alla comunità religiosa dei “libri rossi” (formulario per le proposte di rinnovamento delle Costituzioni) disse, tra l’altro, proprio testuali parole di santa memoria che io, sì, mi piace dirlo, ho raccolto come suo testamento spirituale, sua ultima volontà: “Ascoltiamo i giovani (e lo ripeté quasi con insistenza), ascoltiamo i giovani, può d’arsi che abbiano ragione!”.

Può darsi…Quindi, come sempre nella vita, i casi sono due: o non hanno ragione, come dicono (come hanno sempre detto) gli anziani ora capitanati, come sembra chiaro da un certo atteggiamento politico, dal successore di P. Mosé che, a quanto pare ha cambiato bandiera, ha deluso i giovani (non uso la parola “traditi” che non mi piace), li ha lasciati, “ha volto lo sguardo dall’aratro”; Che…se per caso, a dispetto degli anziani, l’avessero, come io ne sono profondamente convinto? Se l’avessero…quale errore spaventoso e irreparabile sarà allora quello di non averli ascoltati!

 

E la fatale responsabilità cadrà ancora sugli anziani che da soli, senza i giovani hanno voluto assumersi il delicatissimo e difficile impegno del governo della Chiesa, del Popolo di Dio.

 

E allora dall’alto se ne avrà l’accusa e non certo la benedizione di P. Mosé che ben ce lo disse, ce ne avvisò, ce ne premunì del pericolo, ci mise in guardia e raccomandò.

 

E per ascoltare i giovani, certo bisogna farli parlare, o almeno “lasciarli” parlare: “Lasciate che i fanciulli vengano a me e non vogliate ad essi impedirlo” (Mt 19,14).

 

Mi si dirà subito che i giovani oggi (premesso che si allude qui a i giovani della nostra Congregazione) possono parlare fin troppo! Io invece dico e confermo se volete, che, come non possono dire ancora nulla del tanto che vorrebbero, che hanno da dire, così rimane ancora tutto da dire; al che corrisponde ed equivale il tanto che vorrebbero fare e ancora non hanno fatto perché non possono!.

 

Ho prova di come il Provinciale abbia loro chiuso la bocca o meglio non ha loro permesso di aprirla addirittura; che più di una volta abbia tagliato loro le gambe, quasi deprimendoli nel loro alto ideale di azione.

 

Il peggio è che due volte si è fatto sentire da me a parlar male dei giovani: loro atteggiamento, operato, loro presa di posizione! Da me che sento di vivere solo per loro, la cui anima giovanile è la mia passione ospedaliera, il tormento del mio apostolato nella Chiesa, nell’Ordine.

 

Ho sentito  e strasentito fino alla nausea, letto e strariletto che i giovani vanno diretti, governati, fatti studiare, giocare, pregare, mangiare, viaggiare, lavorare ecc. ecc. , ma mai che abbia avuto conferma anche una sola volta di leggere o sentir dire nell’ambiente religioso F.B.F. che il giovane va amato, mai!

E pensare che questo è nell’ordine di Dio, questo deve essere nel programma della nostra santità. Non si può avere un’insensata rivalsa sul giovane solamente perché noi giovani non siamo più, o perché il giovane non è anziano come noi, non ha i nostri anni quasi che lui nel pieno diritto alla vita usurpi la nostra. E’ una mentalità sbagliata di persone che uomini non lo saranno mai perché mai raggiungeranno la maturità, la superiorità del pensiero.

 

Puntiamo dunque il nostro impegno di doverosa santificazione, non solamente sulla fedeltà intransigente ad una pietà unicamente formale (Mt 7, 21), bensì e soprattutto nella conoscenza e nella scoperta inesauribile del Comandamento Nuovo di Gesù, impegno che coinvolge intelligenza e cuore in una infinità di sfumature e rami particolari che richiede l’amore del prossimo.

 

Nel nostro caso un ramo particolare da amare sono i giovani. E amare i giovani vuol dire entrare nella loro mentalità, capirla, assimilarla, viverla.

 

Il giovane è molto intuitivo e sensibile e percepisce immediatamente l’atmosfera di affetto che lo circonda. Trovandosi a suo agio, capirà subito di essere in un ambiente religioso bello, ove solo regna carità e amore (Deus ibi est), si guarderà bene dal lasciarlo e ripagherà amore con altrettanto amore. Si troverà bene perché qui potrà esplicare la sua personalità, trafficare i suoi preziosi talenti avuti da Dio (prestito bancario di altissimo reddito).

 

I nostri giovani religiosi si aspettano tanto dal Padre Provinciale, onde tendono a lui non una ma quattro mani se ne avessero! In lui si attendono di trovare un vero padre che li ami, che li comprende, sempre pronto ad accoglierli a braccia aperte, a incoraggiarli nei loro entusiasmi, a compatirli nei loro errori che essi per primi sanno ammettere quando ci sono, a sostenerli nelle loro debolezze.

 

Il giovane come è facile all’entusiasmo così è facile  allo scoramento, onde nei suoi sbagli ha bisogno di sentirsi non declassato con brutale drasticità, ma aiutato con amore a correggersi, a rialzarsi se caduto.

 

Se un’infinità di giovani è uscito dalle nostre file è unicamente perché nessuno li ha sostenuti nelle loro crisi giovanili, molte causate dal non poter “fare”, onde vedevano le loro persone intristirsi miseramente in un andazzo di vita metodica tipicamente conventuale di sapore tutt’ora medioevale.

 

Anziché paternamente e fraternamente intesi, si son sempre visti da tutti solo biasimati, criticati, quasi tollerati e persino disprezzati dall’arroganza dei saggi anziani.

 

Ma consolatevi o seniori (e ora lo sono già anch’io che scrivo)!  Ne andranno via ancora, ne usciranno ancora dalle nostre file, tutti forse, fin che non ci decidiamo, fin che noi non ci rendiamo capaci di renderci “giovani coi giovani” come ad esempio Don Barra, di cui io leggo sempre le numerose rubriche per i giovani.

 

Il peggio è che nessuno più è disposto ad entrarvi perché sanno (abbiamo già detto come il giovane è intuitivo e ora poi intelligente più che mai) che “dai frati c’è casino”, come ho sentito io qualche domenica fa dai ragazzi che ho avvicinato in un oratorio. Alludevano proprio al dissidio tra due mentalità: conservatrice e innovatrice che loro sanno esista anche nei conventi, e se ne guardano bene dal cascarci dentro.

 

Il nostro ambiente religioso non è atto a ricevere i giovani della società di oggi, onde è impossibile che un ragazzo dall’esterno si innamori, se ne entusiasmi, è letteralmente impossibile.

 

Portarne io qui le testimonianze, enunciarne i motivi concreti? Oppure farne le accuse, tentare una diagnosi?

 

E’ cosa audace quasi impossibile con tanta diffidenza, permalosità, personalismi, disistima nostra interna! Non sarei creduto: “nemo propheta in domo sua”.  Ma che il profeta venga dall’esterno, se ne disilluda ognuno. La situazione peggiorerà sempre più, fino allo sfacelo fino all’annullamento forse di tutta un’istituzione vecchia, oggi che fioriscono quelle nuove con nuovi concetti costituzionali, nuovi metodi formativi, nuove strutture. L’ha detto anche Gesù: “è impossibile mettere una pezza nuova su un vestito vecchio o vino nuovo in botti vecchie”. E’ lui non sbaglia mai.

 

Io speravo che queste cose bel le sapesse il Provinciale (che sarebbe stato già troppo triste il dovergliele far capire), e invece…

 

Certo questa mia polemica susciterà la reazione non solo da parte sua, ama anche da parte dei suoi sostenitori che non mancheranno di gridare allo scandalo e soprattutto di chi ha contribuito con tutte le sue forze a infangare il suo bellissimo programma iniziale di coraggiosa apertura. Comunque, sono pronto a subirle tutte e  a combattere. Però mi siano fatte con lealtà e apertamente alla luce del sole e non ancora con l’antico sistema poliziesco che perdura anche nei conventi come nella Chiesa, quella degli uomini, s’intende, non quella di Dio.

 

Del resto, noi non intendiamo litigare, scendere a dissidio, creare partiti e schierarci per la battaglia, no, ma unicamente intendiamo scendere, si noti bene: “scendere”. Quindi un po’ di umiltà anche da parte dei superiori come dei sudditi per un dialogo aperto e sincero sullo stesso piano, quale espressione di buona volontà da parte di tutti per attuare quel bene che urge l’impegno di tutti con sincerità e sacrificio.

 

Sacrificio-rinuncia all’amor proprio che non può sopportare la critica sfavorevole perché troppo farisaicamente avido di lode e plauso. Onde, quasi indicando un’ultima tavola di salvezza, voglio scongiurare in ginocchio a mani giunte il Provinciale (e consigliare i suoi collaboratori a farlo): non chiudete più la bocca a nessuno (salvo si denoti in chi parla cattiva volontà, cattiveria di mal’intenzionati che, del resto, è subito individuabile). Che se non basta un periodico =OPZIONI ’70) se ne dia vita ad un altro, purché tutti possano dire e ridire, nel tentativo di costruire e di rimuovere.

 

Su mille cose dette, anche se solo dieci risultassero apprezzabili, non sarebbe poco, basti pensare che se nessuno parlava, non ci sarebbero state neanche quelle dieci unità di contributo positivo.

 

E siccome fra coloro che oggi hanno molte cose da dire sono principalmente i giovani, io insisto ancora, quasi portavoce di Padre Mosé: fate parlare i giovani, lasciate parlare i giovani e fermatevi un momento ad ascoltarli, date peso alle loro idee, soppesatele bene, vagliate minutamente quanto dicono, non scartate così, di primo acchito quanto esprimono: “PUO’ DARSI CHE ABBIANO RAGIONE”.

                                                                               Angelo Bertoglio o.h.

SOGNANODO LA SPORTA E IL BASTONE – Angelo Nocent

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Sognando la sporta e il bastone…

 

Ieri ho approfittato della Domenica per mettere ordine in cantina. Frugando tra le carte ingiallite degl’anni ’70 che giacciono in un armadio intaccato dalla muffa,  con sorpresa, ho rinvenuto un paio di scritti dell’amico fra Angelo Bertoglio che non ricordavo più di possedere.

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Da tempo lo avevo perso di vista ed ho appreso della sua morte solo di  recente attraverso la Rivista ”Fatebenefratelli” che   da un paio d’anni ospita qualche mio scritto.

Sarei andato volentieri ai funerali dell’amico, uomo reietto, tenuto ai margini per tanti anni perché “classificato” con il marchio indelebile di psicopatico. Da quando ho avuto modo di conoscerlo, non l’ho mai sottovalutato, stimandolo invece progressivamente come uomo di Dio   che aveva delle cose da dire ai suoi, senza riuscirvi. E forse è giunto il momento che qualcosa di più si sappia del suo messaggio che c’è fra le righe, talvolta tortuose del suo dire. Da quel poco che ci è rimasto dei suoi appunti, io credo si abbia tutti da imparare.

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Da qui l’idea di riportare in luce il cartaceo di  riflessioni maturate in quegl’anni per evitare che finiscano inesorabilmente al macero.  Sono documenti storici  significativi perché riflettono un ‘epoca’, quella post Conciliare, ricca di fermenti, talvolta burrascosa ma carica di promesse.

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Prendendo d’imprestito da Mario Capanna, leader del Movimento Studentesco di allora, anch’io mi sento di affermare senza indugio: “Formidabili quegl’anni! “.

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Sono  trascorsi ormai quarant’anni anni dalla pubblicazione del primo numero di OPZIONI ’70,  un rudimentale ciclostilato di una ventina di pagine, messo insieme  dai “ragazzi” del Centro Studi FBF di Erba. Un lasso di tempo enorme, durante il quale  è successo di tutto; Uno spezzone di storia che può aiutare a capire le evoluzioni e le involuzioni. Uno specchio delle “brame” che sono quelle di sempre: Dio, la libertà, l’amore, la comunione fraterna….

 

Perché rispolverare queste pagine che senz’altro patiscono l’usura del tempo?

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Per ricordare, farne memoria. Coloro che son venuti dopo non sono partiti da zero C’è sempre un prima che non va obliato. Così è stato sempre, cosi sarà. Non esistono tempi bui, solo tempi di grazia. Sono le nostre risposte a darne il sapore acre, ad offuscarne gli orizzonti, ad avvelenarli. Così è stato. Così sarà.

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Ci sono nomi dimenticati, nomi di dispersi, nomi di caduti in battaglia, nomi ancora sulla breccia… Comunque, sempre nomi scritti nel palmo della mano di Dio.

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Nonostante le sue grandi “stonature”, le “stecche” clamorose che si colgono nel grande cantore di Dio, il re Davide, siamo qui ancora a parlarne, ad alimentarci  ogni giorno con i suoi Salmi, della sua fede e della sua speranza. Perchè? Perchè non ha dimenticato, rimosso: ” Ma tu vuoi trovare entro di me verità, nel profondo del cuore insegni la sapienza” (51,8 (50).

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La sua sapienza è in queste parole: “Sono colpevole e lo riconsco, il mio peccato è sempre davanti a me” (5) E che sia un povero di spirito lo si intuisce da queste parole: “ridonami la gioia di chi è salvato, mi sostenga il tuo spirito generoso” (14).

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Qualche volta ritornare sui propri passi fa bene. Si capiscono gli errori commessi, si vedono le omissioni, si registrano i limiti e si prende coraggio per proseguire…nonostante tutto.

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Ma chi era frate Angelo Bertoglio?

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Il più grande estimatore di OPZIONI ’70. Un “sempre giovane” passato per le strettoie dell’umiliazione e del “compatimento”. Uno che per primo avrebbe fatto entusiasticamente parte della COMPAGNIA DEI GLOBULI ROSSI- DNAoh, solo che l’avesse conosciuta. Procedendo nella lettura, se ne comprenderà il perché.

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Ora che lo abbiamo intercessore in Cielo, sono sicuro che la nostra attuale timidezza si trasformerà progressivamente in coraggio, fino all’eroismo.

Di Lui preferirei che riferisse chi l’ha conosciuto più e meglio di me: i suoi confratelli che sulla Rivista lo hanno fedelmente dipinto come mite e buono. Non so se ha posseduto la terra. Certamente possiede il Cielo.

 

62 anni di professione religiosa: una vera “schiena a disposizione di Dio”

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In silenzio e nel nascondimento, come sempre ha vissuto la sua consacrazione religiosa, fra Angelo  Bertoglio è stato chiamato dal Signore all’età di anni 82 e 62 di professione religiosa. La sua morte è avvenuta lo scorso 25 luglio, nel giorno in cui la liturgia celebrava la festa dell’apostolo san Giacomo, uno tra i primi  ad essere chiamato da Gesù alla sua sequela, … fu anche il primo degli apostoli a bere il calice” (cfr. Mt 20,23) della passione di Cristo, a diventare suo testimone con il dono della vita.

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Così leggiamo nella lettera di fra Sergio Schiavon, Superiore Provinciale, inviata ai confratelli. Possiamo affermare che pure Fra Angelo è stato unito alla passione di Cristo e, nonostante questo, ha sempre testimoniato Lui anche nell’offerta della sua sofferenza, con serenità e consapevolezza. Infatti, già da alcuni anni la salute del nostro Confratello era sempre più precaria e negli ultimi mesi si era sempre più aggravata; si era così  rivelato necessario il suo ricovero in un reparto del Centro “Sacro Cuore di Gesù” di San Colombano al Lambro.

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Qui è stato sempre accudito, curato e seguito sia dai Confratelli della Comunità, che dagli zelanti, attenti e sensibili Operatori del reparto. Già fin dai primi anni della sua formazione nell’Ordine è apparso, a detta dei Confratelli, il suo carattere “chiuso e taciturno, però – sempre essi annotavano – religioso buono, di pietà e laborioso”; tali caratteristiche l’hanno sempre accompagnato nella sua esistenza di consacrato, che ha amato, e quasi cercato, il nascondimento, il silenzio e la semplicità, quella semplicità così ben descritta dalle parole di monsignor Gianfranco Ravasi e che ben si addicono alla figura e allo stile di vita di Fra Angelo: “La semplicità è spontaneità, schiettezza, naturalezza. È sobrietà, franchezza, anche un po’ di ingenuità. Va contro la complicazione, l’ansia da carriera, l’oscurità macchinosa. Ignora l’artificiosità, l’ipocrisia, l’affettazione”.  

 

Prova di questa vera semplicità sono alcuni suoi scritti (Fra Angelo era solito comunicare molto con lettere e bigliettini) che rivelano l’acutezza delle sue vedute e la schiettezza e la lealtà nel rivelare anche le cose un po’ scomode; usava un linguaggio chiaro, a tratti anche forbito; emergeva il suo amore per la verità.

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Sapeva rivolgersi anche ai Superiori con chiarezza e profondo rispetto, senza però tacere alcune questioni delicate, offrendo opportuni suggerimenti (una sua espressione colpisce in modo particolare, quando parlava del rapporto tra i Confratelli: “Per amarci bisogna vedersi, incontrarsi, dialogare, intendersi”).

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Fra Angelo era anche cosciente dei suoi limiti e li accettava serenamente; questi però non gli hanno impedito di essere un autentico testimone dell’Ospitalità al servizio dei malati. Sappiamo, infatti, che, finché la salute glielo ha permesso, a San Colombano, soprattutto nel pomeriggio di ogni domenica, apriva il grande salone dell’animazione del Centro e accoglieva e intratteneva gli ospiti che vi si recavano, essendo per loro un vero punto di riferimento.

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Anche se la sua presenza era spesso discreta e silenziosa, quasi defilata, il nostro Confratello era pure pronto al dialogo serio e aperto con le persone che lo volevano accostare e a dare consigli a coloro che li chiedevano.

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Mi piace richiamare anche un altro aspetto della vita di questo nostro Confratello: egli fu un autentico “uomo di preghiera”; la sua era una preghiera semplice, ma convinta e costante, espressa sia negli atti di comunità, che in modo personale; quando non era impegnato in altre faccende, aveva sempre la corona tra le mani.

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Era sua abitudine affidare tutti e tutto alla preghiera, certo dell’aiuto del Signore, nella consapevolezza che Egli può elargire quelle grazie necessarie per portare a termine ogni cosa in modo positivo.

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Fra Angelo si mostrava sempre interessato al problema delle vocazioni e anche in questo la sua preghiera era intensa; ora che egli è stato chiamato dal divino Maestro potrà ancor più intercedere perché altre persone possano seguire Cristo nella vita consacrata nell’ospitalità, affinché il carisma di san Giovanni di Dio possa essere vissuto e realizzato in una continuità fruttuosa e positiva. Il ricordo della vita e dell’attività del nostro Confratello defunto aiuti tutti noi a vivere sempre più e meglio il nostro servizio di Ospitalità.

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In questa eucaristia stiamo ringraziando Dio per la vita di Fra Angelo; lo facciamo in questa chiesa di San Colombano che egli spesse volte ha frequentato, pregando con la comunità religiosa e, in modo particolare, con tutti suoi amici ammalati, così li chiamava. 

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Da questo luogo vogliamo esprimere il nostro grazie al Signore per il dono prezioso della vocazione religiosa e della chiamata all’ospitalità di Fra Angelo, vocazione vissuta nella fede e nel dono come servizio ai malati, come attento servo di Dio.  nostro grazie a te Fra Angelo per la tua presenza conciliante in ogni momento della tua vita.

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Il nostro Confratello si era definito il missionario del grazie e del sorriso come segno tipicamente evangelico. Con questa finalità e soprattutto per la sua apertura fraterna e sociale, non solo ubbidisce alla voce dello Spirito, facendosi mite strumento di incontro e di dialogo con tutte le persone, malati e collaboratori, ma si mette alla ricerca con tenacia e con purezza di cuore della verità e della giustizia, promovendo la comprensione e la solidarietà tra quanti lo hanno avvicinato. .

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Riflettendo su questa affascinante pagina evangelica delle Beatitudini non possiamo non pensare alla vita del nostro confratello defunto il quale negli ultimi anni ha rivissuto nella sua silenziosa sofferenza, a volte incompresa, la sua esistenza illuminata dal discorso della Montagna.

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Se ci lasciamo guidare nel ricordo delle varie manifestazioni e contatti che gli sono stati congeniali, sostenuti a volte da una critica costruttiva, fra Angelo ha sempre operato contante persone che spesso conosceva attraverso la corrispondenza e scritti a lui abituali, rafforzando in lui il desiderio di sentirsi parte attiva della Chiesa, in cammino verso la speranza cristiana offrendo nella sua semplicità la stima verso ogni uomo specialmente verso i più poveri, ben coscio che tutto viene da Dio.

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Anche negli ultimi anni, nonostante la malattia, alimentava sempre nella sua mente e nel cuore una sua grande aspirazione: quella di essere e di sentirsi animatore e ludopedista del nostro Centro specie attraverso lo sport. Mi pare di sentire ancora i suoi appelli … perché non si organizzano delle partite di calcio, o altro, fra collaboratori e con l’esterno; perché non sosteniamo un giornalino informativo per gli ospiti e collaboratori?

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Da qui si comprende la sua semplicità, ma nel contempo la volontà di animare e di dare il suo contributo per la giusta causa. La perseveranza in questo suo impegno gli ha dato la carica e il sostegno per superare la solitudine  e alcuni momenti di sfiducia.

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Avendo guardando nella sua vita personale e riscoprendo ancora una volta la sua semplicità, onestà d’animo e buon cuore, veramente ci rattristiamo per la sua dipartita, che diventa per tutti noi monito e sprone per una più responsabile attenzione verso la persona che accostiamo e non solo nello scorgere in essa il primo protagonista del proprio recupero, ma pure nello scorgere in essa il pensiero, lo spazio, il messaggio di Dio risuonante in noi.

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Pur addolorati, per la perdita di un amico con il quale abbiamo percorso insieme oltre trenta anni, il nostro pensiero sale a Dio perché lo accolga, ne siamo certi, accanto a sé fra le braccia di San Giovanni di Dio e di tutti gli ammalati che lo hanno conosciuto in terra. 

La fede ci conforta con il suo messaggio: non lo abbiamo perduto, egli è entrato nella vera vita e sarà accanto a noi come intercessore presso il buon Dio.   

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Fra Angelo Bertoglio era nato il 9 aprile 1924 a Casalpusterlengo, attualmente in provincia di Lodi, e battezzato alcuni giorni dopo con il nome di Giuseppe.

 

Il 23 ottobre 1941 inizia il suo cammino formativo nell’Ordine dei Fatebenefratelli, essendo accolto presso il nostro Convento – Ospedale di Varese. Da qui, dopo alcuni mesi, è trasferito a Erba, presso l’ospedale “Sacra Famiglia” per compiere il periodo di Noviziato, iniziato il 26 luglio 1942.

 

Sempre ad Erba, il 22 agosto 1943, emette la Professione temporanea. Viene poi inviato a Lodi, per prestare il suo servizio presso l’ospedale “Sant’Antonio”, quindi a Gorizia, presso l’ospedale “San Raffaele Arcangelo” e poi a Brescia, presso l’allora istituto “Sacro Cuore di Gesù”.

 

Qui, il giorno 11 aprile 1948 emette la Professione Solenne. Dopo il servizio in questo Centro Assistenziale, eserciterà il suo apostolato a Solbiate Comasco, presso la Casa di Riposo “San Carlo Borromeo” e, da ultimo, a SanColombano al Lambro, presso il Centro “Sacro Cuore di Gesù”.

 

Ma passiamo a “OPZIONI ’70″. 

 

 Cos’era? Un modestissimo ciclostilato di una ventina di facciate, scritto da alcuni ragazzi, un po’ infervorati, un  po’ ingenui, un po’ delusi…E tra costoro c’era anche lui, il non più giovane ma il “sempre giovane”,

 

Missionario del grazie e del sorriso,  questo umile uomo di Dio, dallo sguardo profetico, sognatore, poco considerato,  taciturno (per natura o per scelta?) ma presente sulla scena, preso dal fervore del rinnovamento, fu felice, felicissimo di essere stato invitato a dare un contributo di fede e di esperienza. Un sogno coltivato per anni nel cassetto e soffocato dentro l’anima perché i tempi, prima di allora, non lo avevano permnesso.

 

Sono usciti soltanto 6 numeri. Sufficienti per produrre scompiglio e  qualche sgomento.

 

Una piccola Pentecoste o un fuoco di paglia?

 

I pareri sono discordi. Certamente una turbolenza. Alcuni, come il sottoscritto, portano ancora i segni delle salutari zuccate contro il muro. 

 

Epperò il suo è un graffio sempre permeato di quella  inusitata carità fraterna che sa dire amorevolmente in faccia, senza rancore, quanto altri sanno solo mormorare dietro le spalle, giacché lanciare i sassi nascondendo la mano per non compromettersi è uno sport che paga in ogni tempo. Ed è praticato anche in convento.

 

DALL’ANGOSCIA ALLA SANTITA’: San Giovanni di Dio – Gabriele Russotto o.h.

 

SAN GIOVANNI DI DIO

DALL’ANGOSCIA ALLA SANTITA’

 

Di Gabriele Russotto o.h.

I. ORIGINE E INFANZIA DI SAN GIOVANNI DI DIO

San Giovanni di Dio nacque nel 1495 a Montemor­o-Novo, nella diocesi di Evora, in Portogallo, sotto il regno di Giovanni II, « il principe perfetto », men­tre i « re cattolici », Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, governavano la Spagna ed il Papa Ales­sandro VI occupava la cattedra di san Pietro a Roma. Tutti i suoi biografi sono d’accordo su questa data fis­sata in base alla sua morte, avvenuta l’8 marzo 1550, all’età di cinquantacinque anni. Ma le loro opinioni sul giorno ed il mese di questa nascita differiscono. Gio­vanni, ignorandoli forse lui stesso, non li ha fatti cono­scere ai suoi compagni; d’altra parte, mancano i docu­menti che avrebbero permesso di fissarli in modo sicuro.

Nel 1623, infatti, su istanza del Padre Domenico de Mendoza, giudice nella causa di beatificazione di Giovanni di Dio, don José de Melo, arcivescovo di Evora, istruì il processo nella sua diocesi ed incaricò Giovanni-Battista Viegas, notaio ecclesiastico, di cer­care l’atto di battesimo del servo di Dio a Montemor­o-Novo. Dopo un’inchiesta condotta sui luoghi, il dele­gato constatò che i più antichi libri parrocchiali risali­vano al 1542.

Il documento ricercato era dunque scomparso e non c’era alcuna speranza di ritrovarlo.

Parimenti, non si sa quasi nulla di certo sulla prima parte della vita di Giovanni di Dio, fino alla sua miste­riosa venuta in Spagna, all’età di otto anni, nel 1503. Giovanni stesso non ha dovuto ritenere un gran che di questo periodo. Cosa ha potuto dirne a coloro che gli stavano intorno?

Il suo primo biografo, Francisco de Castro, si accontenta di scrivere nella sua opera, pubblicata nel 1585: Di nazionalità portoghese, nacque nella cittadina di Montemor-o-Novo, da genitori di media condizione, né poveri né ricchi, con i quali visse fino all’età di otto anni.

E’ troppo poco, ma i suoi biografi del XVII secolo non hanno tralasciato, secondo l’usanza dell’epoca, di colmare questo vuoto con leggende e racconti mera­vigliosi.

De Castro, il fatto va notato, non cita nemmeno il nome di famiglia di Giovanni. Perché? Il seguito della biografia sembra tuttavia confermare che esso era noto.

Checché ne sia, al processo di beatificazione di Gio­vanni di Dio, che ebbe luogo, a partire dal 1622, in Portogallo ed in Spagna, un testimone, Andrès Alvarez Cidade, tessitore a Montemor-o-Novo, fece la seguen­te deposizione: Molte volte, nella sua vita, ho udito mio padre, Andrès Lorenzo Cidade, affermare di essere cugino del padre di Giovanni di Dio, Andrès Cidade. Io stesso ho ben conosciuto Blas Cidade. Quell’uomo, ri­masto celibe, era il fratello del padre del santo. Andrès

Cidade viveva lavorando la sua proprietà e non eserci­tava alcun altro mestiere. Questa testimonianza som­maria sembra probabile.

La partenza di Giovanni Cidade all’età di otto anni pone un altro problema di difficile soluzione.

All’insaputa dei suoi genitori, Giovanni fu allo­ra condotto da un giovane studioso a Oropesa, in Spagna.

A questo riguardo i biografi hanno formulato delle opinioni più o meno fantasiose.

Si trattava di un rapimento, come lo ritengono alcu­ni? La cosa sembra impossibile. Un ragazzo di otto anni non si lascia rapire senza difendersi e gridare; ciò fa supporre una connivenza fra il giovane ed il bambino.

Due ipotesi, verosimili, possono essere avanzate. Secondo la prima il giovane, buon parlatore, sarebbe riuscito a convincere il piccolo Giovanni ad accompa­gnarlo e lo avrebbe portato via. Una seconda ipotesi sembra più probabile. Affascinato dalle meravigliose storie narrate dal viaggiatore accanto al focolare, Gio­vanni avrebbe deciso di seguirlo a sua insaputa e senza avvisare i genitori. Si tratterebbe, di conseguenza, di una fuga simile a quella di Teresa de Ahumada, la futura santa Teresa d’Avila che, più tardi, all’età di sette anni, lasciò la famiglia insieme al fratello Rodri­go, alla ricerca del martirio tra i Mori. In questo caso, ad una svolta della strada, il giovane avrebbe scorto il figlio di coloro che caritatevolmente lo avevano ospi­tato e che lo seguiva senza aver attirato la sua atten­zione. Cosa avvenne allora tra il giovane ed il bambino? Perché, come più tardi lo zio di Teresa, non ricon­dusse subito il piccolo fuggiasco dai suoi genitori? Nessuna spiegazione naturale sembra imporsi. Occorre scorgervi una intenzione della Provvidenza? Essa guida talvolta attraverso vie straordinarie gli strumenti pri­vilegiati della sua opera in questo mondo.

Laggiù, a Montemor-o-Novo, i genitori angosciati cercano a lungo il piccolo Giovanni, ma ahimè! senza risultato. Non lo rivedranno più sulla terra. Sua madre è distrutta dalla prova e in capo a venti giorni muore di dolore. Suo padre, nel vedersi privato di tutto ciò che aveva di più caro al mondo, entra nel convento di S. Francesco di Enxobrigas, a Lisbona, per indos­sare l’abito religioso e terminare i propri giorni nel raccoglimento e nella preghiera.

Ecco quindi Giovanni Cidade, a otto anni, privato per sempre degli affetti e delle gioie della famiglia. Solo al mondo, egli avrà, fino a più di quaranta anni, un’esistenza assai tormentata, sia esteriormente che internamente. Le prove, di ogni genere, si moltipliche­ranno sotto i suoi passi. Ma a questa rude scuola, con la grazia di Dio, egli plasmerà un cuore misericordio­so e forte che gli permetterà di adempiere, più tardi, nonostante i molteplici ostacoli, la sua missione di carità verso i poveri, gli ammalati e gli abbandonati.

 

Il. AVVENTURE GIOVANILI

Giovanni Cidade non rivedrà più, su questa terra, né suo padre né sua madre. Troppo giovane, per esa­minare persino la possibilità di una tale disgrazia, egli crede confusamente, senza dirselo può darsi, che tor­nerà a Montemor-o-Novo per abbracciare i genitori. Tutt’al più ha dolorosamente sentito, durante i primi giorni del viaggio, la mancanza delle tenerezze e delle cure materne.

La strada è dura per i suoi piedi di bimbo. Ha un’idea della distanza che lo separa da Madrid, prima meta del viaggio? I nostri pellegrini raggiungono dap­prima Evora, poi Elvas e attraverso Badajoz arrivano in Spagna. Si dirigono quindi verso Merida, passando attraverso oliveti e campi arati. Tosto, lungo strade flancheggiate da olmi, attraverso lecceti, pascoli e lan­de, essi salgono le falde della Sierra de Maranica, volta a sud, attraversano l’Escurial, Zorita ed arrivano a Nostra Signora di Guadalupe, uno dei più famosi pel­legrinaggi spagnoli, che essi non potevano mancare di visitare. Per quanto brevi siano state le tappe, il pic­colo Giovanni era molto indebolito. Egli ha ancora il coraggio di attraversare il colle di San Vincenzo, di discendere il versante nord della Sierra e di attraversare il Tago al ponte dell’Arcivescovo; ma, ad Oropesa, è esausto e non può andare oltre. Costretto a separarsi dal piccolo Giovanni, il giovane lo abbandonò o lo affidò a qualcuno? Lo ignoriamo.

In ogni caso fu raccolto da Francesco, detto Majo­ral, intendente delle mandrie del conte di Oropesa, don Fernando di Toledo. Quell’uomo dabbene si occupò dell’educazione del bambino. Dotato di una natura do­cile e di una intelligenza sveglia, Giovanni imparò a leggere, a scrivere ed acquisì come i ragazzi della sua età, una istruzione religiosa elementare. Poi fu inca­ricato di portare le provviste ai pastori di Francesco il Majoral. Aveva quasi quindici anni quando il padro­ne gli affidò la custodia di un gregge nei pascoli irri­gati dal Tago, nei dintorni di Oropesa.

La solitudine ed il silenzio della campagna favori­scono la riflessione. Giovanni ha raggiunto l’età in cui si comincia a prendere coscienza della propria perso­nalità, in cui non ci si contenta più delle idee e delle direttive di coloro che ci stanno accanto, in cui si cer­ca persino di eludere la loro influenza, talvolta troppo invadente. Egli avverte il bisogno, come ogni giovane, di ritornare al suo passato per rispondere ai suoi que­siti spontanei, di pensare seriamente al suo avvenire allo scopo di preparano meglio. I suoi sogni di bam­bino, a cosa hanno approdato? Perché ha seguito quel giovane di cui non ha più udito parlare? Francesco il Majoral si è mostrato buono con lui, ma non era suo

padre. Da un giorno all’altro può esserne separato e sarà solo allora, straniero in quella terra di Spagna. Non dovrebbe, ora che è grande e forte, ritornare al più presto in patria, accanto ai suoi genitori, a Mon­temor-o-Novo? Molti quesiti si pongono al suo spirito inquieto. Normalmente, sembra, Giovanni avrebbe dovu­to, pur mostrandosi riconoscente a Francesco il Majoral, fargli ammettere che era suo dovere ritornare in Por­togallo. Rimase tuttavia ad Oropesa. Senza dubbio sfuggiva così alla pesante prova che sarebbe stata per lui, alla sua età, la scoperta del focolare distrutto in­volontariamente dal suo errore?

Egli svolgeva d’altronde nel miglior modo il suo lavoro.

Tali erano la sua attività e la sua precisione in tutte le cose, che egli era amato dal suo padrone e benvoluto da tutti.

Divenuto uomo, Giovanni abbandona i greggi per entrare al servizio diretto del conte di Oropesa in qua­lità di palafreniere. A questo proposito egli confiderà più tardi ai suoi compagni il seguente importante ricordo:

Quando ero al servizio del conte di Oropesa mi capitava di provare un vivo dolore nel vede­re i cavalli delle sue scuderie, grassi e lucenti, ornati di ricchi finimenti, ed i poveri magri, co­perti di stracci e privi di cure. Mi dicevo: Ve­diamo, Giovanni, non sarebbe meglio che ti preoccupassi di curare e nutrire i poveri di Gesù Cristo che queste bestie dei campi? E

aggiungeva sospirando: Che Dio mi conceda, un giorno, di realizzare questo desiderio!

Prime aspirazioni « verso la sua futura opera ».

Si può dire che Giovanni Cidade fosse già pronto a seguire l’eccezionale vocazione a cui Dio lo aveva predestinato? Non proprio! Un difetto, del quale indub­biamente non aveva coscienza, il suo difetto domi­nante, l’amor proprio, lo rendeva allora del tutto in­capace.

Avevano lodato troppo, a quanto sembra, sia a Mon­temor-o-Novo che ad Oropesa, la sua viva intelligenza, le sue attitudini e la sua precoce virtù; Giovanni gra­diva quegli elogi. Non era persino desideroso di otte­nerne? Il fatto è che, per guarirlo, Dio permise che quell’invadente amor proprio fosse per lui il principio di gravi tentazioni.

Dopo il trattato di Noyon, 13 agosto 1516, la Francia e la Spagna vivevano in pace, nonostante pro­fonde cause di dissenso; ma in seguito all’elezione all’impero germanico – 28 giugno 1519 – di Carlo Quinto, preferito al suo rivale Francesco I, le relazioni tra i due monarchi si deteriorarono e presto le ostilità si scantenarono su tre fronti, nelle Fiandre, nel Mila­nese ed in Navarra. A noi, qui, interessano soltanto le operazioni concernenti il nord della Spagna, giacché permettono di fissare con precisione l’arruolamento vo­lontario di Giovanni Cidade in una compagnia spagno­la, datandolo ad un periodo posteriore a quello rite­nuto dai suoi primi biografi e, dopo di loro, dai suoi biografi francesi.

Poiché Carlo Quinto era impegnato a calmare la Germania, allora agitata da violenti fermenti a

causa delle dottrine che Lutero iniziava a predicare, e delle gravi insurrezioni di « comuneros » si erano avute in Castiglia e a Valenza, nei primi del 1521, Francesco I ne profittò per prendere l’offensiva. Dietro suo ordine Francesco di Foix valica i Pirenei e si impe­dronisce di Pamplona, nonostante l’eroica difesa del capitano Inigo de Loyola, il futuro sant’Ignazio, ferito nel combattimento; ma il 30 giugno 1521 è sconfitto a Noain. Per compensare questa sconfitta l’ammiraglio francese Guglielmo Gouffier di Bonnivet si impadro­nisce di Behobia e della fortezza di Fontarabia, il 16 ottobre 1521.

Sul momento, Carlo Quinto, alle prese con enormi difficoltà in Germania e in Spagna, non poté reagire. Superatele, concluse un’alleanza con Enrico VIII d’In­ghilterra e decise di riconquistare Fontarabia. Per questa impresa egli convocò le Cortes a Palencia, nel gennaio 1523, ed ottenne un primo sussidio di 400.000 ducati d’oro. Poi fece delle leve di soldati in tutta la Spagna. Giovanni Cidade fu uno di quelli che s’arruo­larono sotto la bandiera dell’imperatore.

Divenuto uomo, Giovanni decise, a 22 anni, di andare in guerra. Si arruolò in una compa­gnia di fanteria, agli ordini del capitano Gio­vanni Ferrus. Quest’ultimo era stato inviato dal conte d’Oropesa, al servizio dell’imperatore, per soccorrere Fontarabia.

In realtà, nato nel 1495, Giovanni aveva allora 28 anni. Si tratta probabilmente di un errore; ma può anche darsi che de Castro ringiovanisca il suo eroe per giustificare questo arruolamento piuttosto inoppor­tuno giacché, egli dice,

Giovanni prese questa decisione poiché desi­derava vedere il mondo e godere la libertà.

Giovanni fa buon viso allo scaltro assoldatore; è un uomo troppo bello, gli assicurano, per restare palafre­niere: La sua alta statura, il suo vigore, lo rendono molto pia atto a fare il soldato (Govea).

L’imprudente cede così ad un motivo di vanagloria ed anche a quel desiderio di avventura dei giovani di tutti i tempi, ben più sentito in quell’epoca di prod­i cavalieri e di arditi « conquistadores » e abbraccia vo­lontariamente la carriera delle armi. E’ lontana Oropesa da Fontarabia, non meno di seicentoquaranta chilometri. Ma cos’è ciò, insiste Govea, per Giovanni Cidade, l’ar­dente giovane avido di gloria e di libertà che, ingannato indubbiamente dal demonio, ha abbandonato tanto vo­lentieri la vita tranquilla dei campi per la carriera peri­colosa delle armi?

Fante nella compagnia del capitano Giovanni Fer­rus, il nuovo arruolato attraversa con essa tutta la vec­chia Castiglia, probabilmente lungo le cattive strade che congiungevano allora le antiche città di Avila, di Segovia e di Burgos. Marce penose, certamente, su quegli altipiani aridi, dal clima estremo; a fianco di alcune contrade fertili si incontrano delle immense di­stese deserte, incolte, coperte di eriche e di ginestre, solcate da magri e rari fiumi, interrotte da forre pro­fonde – secche il più delle volte – ma dove talvolta scendono impetuosi torrenti devastatori.

Infine, dopo le difficili tappe, la compagnia di Gio­vanni Ferrus oltrepassa l’Ebro e giunge in territorio basco. Qui si ha il concentramento dell’armata che deve tentare di riprendere Fontarabia, una delle chiavi del regno, alle truppe francesi solidamente trincerate nella celebre fortezza, dopo la sconfitta di Navarra.

La lotta fu aspra, fin dagli inizi; la guarnigione resi­steva a tutti gli attacchi condotti dalle truppe della regione; e gli Spagnoli, giunti in aiuto, dovettero rinun­ciare ad impadronirsene altrimenti che per fame. La resa ebbe luogo il 25 marzo 1524.

Che ne era di Giovanni Cidade tra quei rozzi mer­cenari che, secondo de Castro,

avidi di godersi della libertà, si lanciavano a briglia sciolta lungo il cammino molto largo ma spinoso dei vizi?

Dio solo lo sa.

De Castro avanza discretamente che egli vi sopportò molte prove e cadde in molti pericoli.

In un ambiente in cui si mescolavano, secondo il costume dell’epoca, mercenari, predatori, vagabondi e prostitute, cosa non poteva accadergli?

In questa situazione scabrosa, il Signore permise che una duplice disgrazia colpisse l’imprudente « arruo­lato » per ricondurlo a sé.

Mentre Giovanni si trovava, dice de Castro, di fronte alla città assediata, le provviste ven­nero a mancare, sia a lui che ai suoi compagni. Allora, da uomo deciso, egli si offrì di andare a cercare dei viveri nelle vicine fattorie. Per re­carvisi e tornare più in fretta, inforcò una ca­valla presa ai Francesi. Ora, quando la bestia fu a circa due leghe dall’accampamento dal quale proveniva, riconoscendo il terreno che era so­lita calpestare, si imbizzarrì e si lanciò verso la sua scuderia, nonostante gli sforzi di Giovanni, sprovvisto di briglia, che la guidava con una semplice cavezza. Essa scendeva così in fretta il pendio della montagna che Giovanni fu su­bito gettato sulle rocce, dove rimase privo di parola, di conoscenza, come morto, perdendo sangue dalla bocca e dal naso; e in quel grande pericolo, nessuno era lì per vederlo e soccor­rerlo.

Ritornato in sé, tormentato dal dolore della caduta, si accorge del non minore pericolo che corre di essere fatto prigioniero. Allora si alza da terra come può, si getta in ginocchio e, con gli occhi volti al cielo, si mette ad invocare la Vergine Maria, suo abituale rifugio: « Madre di Dio, assistetemi, aiutatemi, e pregate il vostro divin figlio di liberarmi dal pericolo di cadere nelle mani dei miei nemici ». Dopo la preghiera raccoglie tutte le sue forze, prende un bastone da terra ed appoggiandosi ad esso si trascina pian piano verso il luogo in cui l’attendevano i compagni. Essi, vedendolo arrivare in uno stato tanto pietoso, pensano ad uno scontro con il nemico e l’interrogano in merito. Giovanni rac­conta loro l’avventura capitatagli con la cavalla. Lo fanno coricare in un letto, lo coprono per farlo sudare e, in capo a qualche giorno, egli è guarito e in forma.

Dopo quest’incidente, lo sfortunato soldato non mancò di riflettere seriamente sulla sua vita. Tuttavia, una prova ancora più crudele stava per piombare su di lui.

Il capitano gli aveva affidato da custodire alcuni armamenti sottratti ai soldati francesi: ora, per negligenza, Giovanni si dimenticò di prendere le precauzioni necessarie e glieli rubarono. Messo al corrente del furto, il capitano provò un tale sdegno che, senza ascoltare le suppliche di molti soldati in favore del loro compagno, ordinò di impiccano subito ad un albero. Per fortuna passò di lì una persona ragguardevole e molto rispettata dal capitano. Dopo aver udito ciò che era accaduto, egli pregò l’ufficiale di rinunciare all’esecuzione, ma di allontanare il colpevole dall’esercito.

Nella sua condanna a morte, Giovanni Cidade ave­va voluto vedere una manifestazione della giustizia di­vina nei suoi riguardi. Egli attribuì del pari alla infinita bontà di Dio la grazia insperata di cui fu oggetto e, subito fuori del campo, prostrato ai piedi di una croce, si mise ad implorare il perdono dei suoi peccati e della sua ingratitudine, giacché aveva riconosciuto le proprie miserie e debolezze.

In questo momento, dice Saglier, inizia per Gio­vanni una vita di espiazione e di tormenti interiori, che non durerà meno di dieci anni. Riuscirà di solito a non lasciar trapelare le lacerazioni del suo cuore e le angosce della sua coscienza; ma, talvolta, il dolore sarà cosi violento da traboccare e portarlo ad eccessi tali di penitenza, nei quali si potrà scorgere della buia. Questa ansietà persistente spiega anche quell’inquieto bisogno di cambiamento che lo perseguita nelle sue occupazioni successive anche quando vi prodiga tesori di carità e di abnegazione.

Allora, Giovanni Cidade si trovava presso Fonta­rabia, assolutamente privo di tutto e non sapendo cosa fare. De Castro riferisce:

Dopo aver riflettuto sui rischi della vita mili­tare e sul misero salario offerto dal mondo a chi lo scorta nel modo più servile, Giovanni si de­cise a ritornare dal suo padrone Francesco il Majoral, ad Oropesa.

Ci si fa un’idea della dura realtà che nascondono queste parole, veramente troppo distaccate? I seicento-quaranta chilometri percorsi con la sua compagnia, in sicurezza e ben fornito, il pover’uomo doveva ora rifarli da solo, senza denaro, lungo quelle cattive strade di Castiglia, abissi di fango in inverno, afferma, forse con un po’ di esagerazione, un cronista del XVI secolo; e dove, in estate, le bulere di polvere che solle­vano i viaggiatori e la più piccola brezza sono cosi dense che accecano gli occhi e nascondono persino il sole (Robert Gaguin, 1425-1502).

E’ a brandelli, esausto e moralmente distrutto che Giovanni arrivò ad Oropesa. Che umiliazione per lui presentarsi in quello stato dinanzi al suo benefattore e antico padrone, al quale dovette confessare le proprie spiacevoli disavventure! Egli è disorientato e pur co­sciente del proprio fallimento su tutta la linea.

Malgrado tutto, Francesco il Majoral lo accolse con comprensione, e Giovanni Cidade riprese le proprie occupazioni assolvendole come meglio poteva; ma il cuore non c’era più. Il rimorso, il turbamento e persino il desiderio di riparare non gli concedevano più riposo. Talvolta gli accadeva di pensare ancora che sarebbe stato meglio curare e nutrire i poveri che ingras­sare le bestie. In realtà, non si decide a niente. La sua decisione è in sospeso. Essa attende l’occasione. Questo uomo generoso è un impulsivo. Ora, degli avvenimenti esterni di estrema gravità stanno presentandosi: essi lo getteranno di nuovo nell’avventura.

Giovanni Cidade era tornato ad Oropesa da due anni, quando nel 1527 si apprese che Solimano Il il Magnifico, sultano dei Turchi, era penetrato in Unghe­ria. Dopo aver sconfitto Luigi Il lagellone a Mohàcs, nell’agosto 1526, si era impadronito di Buda. Più tardi, aveva posto l’assedio a Vienna. Per fortuna, la milizia della città, aiutata soltanto da quattro compagnie di veterani spagnoli di stanza sul posto, resistette vitto­riosamente ai venti assalti consecutivi delle truppe di Solimano, che dovette infine togliere l’assedio (1529).

Nonostante questa sconfitta, Solimano restava una minaccia per l’Europa cristiana, e non tardò a riunire nuovi eserciti e una flotta, con lo scopo di attaccare per terra e per mare. Per affrontare i Turchi e conte­nere la loro prossima offensiva, Carlo Quinto iniziò, nel gennaio 1532, a preparare una crociata. A tal fine, egli concluse una tregua con i protestanti tedeschi ed otten­ne il loro aiuto contro il comune nemico; si procacciò anche il concorso dei Polacchi, dei Moravi, dei Cechi e degli Stati italiani; soprattutto imparti degli ordini in Spagna, al fine di reclutare uomini in tutto il paese. La causa era bella, il cuore cavalleresco di Giovanni Cidade si infiamma per quella nuova crociata; gli sembra che Dio ve lo chiami. Senza dubbio, a giudizio di de Castro e di Govea, persone mature, egli dimenti­ca un po’ troppo le sue sventure di Fontarabia; ma è poi vero? Non vi è piuttosto nell’animo inquieto del vecchio soldato, mescolato a slanci generosi mai assopiti ed ai rimpianti lancinanti dei propri errori, il desiderio più o meno cosciente di vedersi riabilitato dall’ingiusta degradazione di cui era stato vittima? Adesso, era un uomo di trentasette anni, ben consolidato nella virtù; poteva legittimamente aver fiducia di comportarsi ormai da buon soldato.

Arruolato agli ordini del capitano don Fernando di Toledo e destinato al suo servizio personale, il nostro crociato si dirige con la compagnia verso Barcellona. La truppa è trasportata per mare a Genova, poi si avvia verso il lago di Garda, dove arriva nell’agosto 1532. E’ qui che tutta la fanteria imperiale si concen­tra, per raggiungere in successive tappe Verona, Rove­reto, Trento, Bolzano, Bressanone e da ultimo Inns­bruck, il 17 agosto. Essa discende l’Inn con battelli, passa per Braunau e sbarca a Linz sul Danubio, in settembre.

Da parte sua, venuto da Adrianopoli con un potente esercito, Solimano Il passa per Belgrado ed entra in luglio a Buda, da dove avanza lentamente fino a Meige, ad una dozzina di leghe da Vienna.

I due eserciti entrano in contatto e si hanno alcuni combattimenti; ma gli Imperiali per paura della caval­leria turca e i Turchi, per paura dell’artiglieria imperia­le e soprattutto della fanteria spagnola, nessuno prese impegni decisivi. Tuttavia, non potendo prendere in considerazione una campagna in inverno, Solimano ripiegò su Belgrado e Carlo Quinto, rimasto padrone del terreno, entrò a Vienna il 24 settembre 1532. Il giorno successivo l’imperatore, passò in rivista tutte le truppe presso le mura della città e Giovanni Cidade poté scor­gere Carlo Quinto mentre sfilava a cavallo dinanzi al­l’esercito schierato a battaglia.

In combattimento Giovanni si era fatto notare per l’audacia ed il valore; si era conquistato la stima dei suoi capi.

Nessun dubbio che in quell’occasione egli assaporò una delle rare gioie umane della sua vita. Egli aveva sfruttato il suo bisogno di prodigarsi fino all’estremo limite, ma anche fino al successo, e per quale causa! L’infamia che intaccava la sua reputazione, da quei tristi giorni di Fontarabia, era stata ben lavata; e, in mezzo all’entusiasmo generale, felice per aver com­battuto in maniera utile per Dio e la cristianità, come non avrebbe sentito allontanarsi, almeno per un certo tempo, il peso del rimorso che lo opprimeva?

L’esercito spagnolo dell’imperatore trascorse l’in­verno del 1532 in Italia e si imbarcò a Genova, nel­l’aprile 1533, sulle galere di Andrea Doria, per pren­dere terra verso il 28 d’aprile nel porto di Palamos, vicino a Barcellona.

Tuttavia, don Fernando Alvarez di Toledo, insie­me alla compagnia di cui faceva parte Giovanni Cidade, non si servì della stessa strada per il ritorno. Incaricato verosimilmente di consegnare un messaggio a Maria d’Austria, sorella dell’imperatore e reggente dei Paesi Bassi, il conte raggiunse le Fiandre attraverso la Ger­mania e, compiuta la missione, noleggiò una nave per la Spagna e sbarcò, dice de Castro, nel porto di La Coruna. Come spesso accade, il biografo non indica la data dell’avvenimento; ma secondo i calcoli del padre Raphaèl Saucedo esso avvenne verso la metà del 1533.

San Giacomo di Compostella è lì vicino. Secondo Govea, della cui testimonianza non si ha qui alcuna ragione di sospettare, la compagnia di don Alvarez di Toledo vi si recò in pellegrinaggio, poi si sciolse.

Allora Giovanni Cidade, libero da ogni obbligo mi­litare, crede di dover realizzare finalmente il desiderio che nutriva da tanto tempo di rivedere i genitori ed il paese natio.

A Montemor-o-Novo, la croce lo attende ancora in uno dei suoi aspetti più penosi, ma essa lo staccherà completamente dal mondo e lo farà consacrare per sempre al servizio di Dio.

 

III. SULLA VIA DEL DISTACCO

Al ritorno dalla sua campagna d’Austria, Giovanni Cidade ha trentotto anni. Più di un quarto di secolo è trascorso dalla sua partenza dal focolare paterno. Dei suoi, non ha mai ricevuto nemmeno la più piccola noti­zia e sembra che neppure lui abbia dato, durante que­sto lungo periodo, alcun segno di vita ai suoi genitori.

Negligenza colpevole – gli stessi suoi primi bio­grafi lo ammettono – certamente meno grave di quan­to non sarebbe ai giorni nostri in cui è cosf facile spo­starsi e inviare corrispondenze, mentre nel XVI seco­lo i viaggi erano difficili e la posta inesistente. Occor­reva essere ricco per permettersi dei corrieri privati. Quanto ai messaggeri occasionali, soprattutto tra le piccole città straniere, essi erano rari e molto incerti.

In gioventù, quando era pastore ad Oropesa, Gio­vanni aveva d’altronde pensato di ritornare a Montemor­o-Novo, suo paese natio, ma non trovò mai occasioni favorevoli per un simile viaggio. Più tardi, dopo le umilianti avventure di Fontarabia, come avrebbe osato presentarsi dinanzi ai genitori? La crociata contro i Turchi gli aveva restituito l’onore. Quali che fossero stati i suoi torti, egli poteva dunque sperare al suo arri­vo in paese, in un generoso perdono e in un accoglien­za favorevole.

Così supera, fiducioso e con passo sostenuto, i seicento chilometri che separano San Giacomo di Compo­stella da Montemor-o-Novo. Attraverso la Galizia rag­giunge la frontiera portoghese, attraversa le province di Minho, del Duero, di Beira, senza dubbio lungo la strada litoranea che unisce le antiche città di Tuy, Por­to e Coimbra alle rive del Tago e alle pianure dell’Alem­tejo. Infine, il viaggiatore raggiunge Montemor-o-Novo. Impaziente, egli affretta allora il passo e, guidato dai ricordi indelebili di gioventù, si dirige senza esitare verso la casa paterna. Era sempre la stessa. E men­tre con mano nervosa bussa alla porta di casa, il suo cuore si gonfia per l’emozione e batte a ritmo accelerato nel suo petto di figlio fuggitivo, malgrado tutto inquieto. Di botto aprono. Quale sorpresa! Il volto che gli si presenta gli è estraneo. Non sa che pensarne.

Nessuno lo riconosce, nessuno può dargli delle in­formazioni, poiché lui non conosce nemmeno il nome dei suoi parenti.

Passando di casa in casa, egli incontra finalmen­te un vecchio dignitoso, è suo zio. Dopo aver parlato al nuovo venuto, dopo aver ascoltato i ricordi conservati dei suoi genitori e dopo aver esaminato i lineamenti del suo volto, il pa­triarca lo riconosce e l’interroga su quanto gli era occorso dopo la partenza dal paese. Gio­vanni gli narra tutte le sue avventure; ma pone anche delle domande. Figlio mio, gli risponde lo zio, vostra madre, debbo confessarvelo, è morta pochi giorni dopo che vi rapirono al suo affetto. La vostra assenza le procurò un dolore ed una pena tanto più intensi in quanto igno­rava chi vi aveva tratto seco, dove eravate stato portato, voi cosi giovane, e in che modo. Così, ne siamo persuasi, il dispiacere ha abbreviato prematuramente i suoi giorni ed è stato la causa principale della sua morte. Quanto a vo­stro padre, rimasto vedovo e senza figli, entrò poco dopo in un monastero di Lisbona, dove ri­cevette l’abito di san Francesco e finì santamen­te i suoi giorni. Di conseguenza, figlio mio, se volete riposare in questo paese e rimanere a casa mia, io vi accolgo molto volentieri. Sarete per me come un figlio fin tanto che vivrete in mia compagnia. Giovanni provò un vivo dolore per la morte dei genitori, principalmente perché a suo avviso egli era stato la causa delle loro sventure. Lo manifestò col pianto e con il ram­manco, al punto da provocare le lacrime dello zio che egli ringraziò della gentilezza e dei bene­fici. Poi, vedendosi orfano e solo, sconosciuto dai suoi congiunti a causa della prolungata as­senza, esclamò: Caro zio, poiché è piaciuto a Dio di chiamare a sé i miei genitori, è mio pro­posito non rimanere in queste zone, ma cercare dove servire Nostro Signore lontano dal mio paese, secondo l’affascinante esempio di mio padre. Per di più, sono stato tanto cattivo e col­pevole che debbo occupare la mia vita, dono del Signore, a fare penitenza e a servirlo. Ho fidu­cia che il mio Signore Gesù mi accorderà la gra­zia di realizzare Irancamente questo desiderio.

Accordatemi dunque la vostra benedizione e chiedete con insistenza al buon Dio di con­durmi per mano. Che il Signore vi ricompensi per la benevolenza usatami e per la buona ac­coglienza nella vostra casa! Lo zio gli diede allora la sua benedizione. Si abbracciarono ver­sando copiose lacrime ed il buon vecchio, con gli occhi al cielo, aggiunse: Giovanni, partite in pace. Nostro Signore, lo spero, vi concederà la grazia di realizzare completamente i vostri ec­cellenti desideri e le preghiere dei vostri geni­tori vi aiuteranno molto per andare più tardi a tener loro compagnia.

E’ sembrato utile ripresentare qui per intero il testo di de Castro, che è indubbiamente una trascri­zione letterale delle confidenze fatte da Giovanni ai suoi compagni. Esso ci pone di fronte alla realtà dei fatti, delle idee e delle reazioni degli uomini del XVI secolo.

Se ne può concludere: alla rivelazione dolorosa quanto inattesa della morte dei genitori, lo sfortunato Giovanni ha provato un intenso shock emotivo. Il suo passato gli è apparso nelle tinte più cupe e la sua coscienza tormentata gli rimprovera adesso di essere un parricida. Perché non è morto, si dice, sul patibolo di Fontarabia e sotto le scimitarre dei Turchi! Sul punto di cadere nella disperazione, Giovanni si volge per fortuna verso il cielo, e il Signore si serve di que­sta nuova prova per distaccano completamente dal mondo.

Appena riposato dalle lunghe peregrinazioni, Gio­vanni riprende perciò la strada. Lasciando l’Alemtejo, attraversa la provincia dell’Algrave, oltrepassa la fron­tiera spagnola, entra in Andalusia e procede fino alla regione di Siviglia. Qui, divenuto temporaneamente più calmo, si occupa come pastore per guadagnarsi la vita e avere il tempo per riflettere, presso donna Eleo­nora di Zuniga, proprietaria di un gregge nella cam­pagna sivigliana. Una tappa molto breve, osserva de Castro:

Poiché Giovanni ignorava ancora per quale stra­da Dio doveva condurlo al suo servizio (benché gli avesse accordato la volontà di seguirlo), ri­maneva triste, senza tranquillità né riposo, non avendo più voglia di sorvegliare le pecore. Dopo aver trascorso alcuni giorni al servizio di quella dama, rifletteva dunque sul modo di abbandona­re il mondo. D’un tratto, fu preso da un vivo desiderio di raggiungere le coste africane, di vedere quel paese e di soggiornarvi. Per porre in atto senza indugio il proprio progetto, si con­gedò dalla sua padrona e si diresse verso Gi­bilterra.

Nella vita di Giovanni Cidade le situazioni diven­tano sempre meno stabili, l’inquietudine si accentua. Egli non sa bene ciò che lo orienta verso l’ignoto ma vi corre. E’ stato influenzato dai preparativi allora effet­tuati in Spagna per la spedizione d’Africa? E’ possibile. Il 30 maggio 1535, Carlo Quinto parte da Bercellona alla testa di questa spedizione, impadronendosi di Tunisi il 2 luglio dello stesso anno. E’ precisamente il periodo in cui Giovanni Cidade si reca a Ceuta.

A questo fine aveva raggiunto Gibilterra. Un pic­colo veliero della marina portoghese stava salpando.

Per salire a bordo Giovanni non esita ad offrire i pro­pri servigi ad un condannato politico, il conte d’Almei­da che viene condotto in esilio a Ceuta con la moglie e le quattro figlie per ordine del re Giovanni III. Costui, dice de Castro, prometteva di trattarlo bene e di pagar­lo lautamente.

Dopo un’ottima traversata, i proscritti, aiutati dal loro servitore, si stabiliscono come possono nella for­tezza portoghese; ma ben presto, minati dal dispiacere, dalle privazioni e dal clima, il conte, sua moglie e le figlie si ammalano. Rimasto l’unico sano, Giovanni si prodiga verso di loro e, grazie alle sue cure, tutti guariscono; ma i medici ed i farmaci hanno esaurito le risorse del gentiluomo.

Egli si vede nella peggiore miseria, al punto da essere costretto ad implorare l’aiuto di Giovanni; magro aiuto, ma tuttavia il migliore che gli si offriva in simili circostanze.

Così il conte, durante un colloquio segreto, si deci­de a svelargli tutta la sua miseria, tanto più dolorosa in quanto doveva provvedere ai bisogni delle giovani e delicate figlie, allevate nell’abbondanza. Di conseguen­za supplicava Giovanni, in mancanza di altri aiuti, di prestare la sua opera nei lavori di fortifica­zione, eseguiti allora a Ceuta per ordine del re. Con il salario che avrebbe percepito, tutti avrebbero cosi mangiato.

Dopo aver ascoltato queste ragioni, tanto commo­venti in sé stesse, ma soprattutto per un cuore già dispo­sto ad intraprendere qualsiasi cosa per servire Nostro Signore, Giovanni vi acconsentì volentieri. Non scorgeva aperta dinanzi a sé una carriera conforme ai propri desideri? Così, per tutto il tempo che rimase presso il gentiluomo, Giovanni Cidade lavorò alle fortificazioni, dando ogni sera di buon grado il salario guadagnato per assicurare il sostentamento di quelle ragazze e dei loro genitori.

Se accadeva che Giovanni, perché impedito, non andasse al lavoro, o che pur avendo lavorato non gli avessero dato il salario, quel giorno non si mangiava e si sopportava questa privazione con pazienza, senza dire niente a nessuno. Que­sta opera era così bella e gradita al Signore che lo stesso Giovanni più tardi confessava: Nostro Signore, nella sua grande misericordia, mi ha dato l’occasione di adempierla per qualche tem­po al fine di aiutarmi a meritare le grazie di cui poi mi ha colmato.

Questa citazione di de Castro, eco veritiera delle confidenze di Giovanni ai suoi compagni, ci mostra tutto ciò che vi era di nobile e generoso nella sua per­sonalità tanto complessa. Nonostante i penosi lavori e le sicure privazioni che la sua vita di abnegazione gli procurava, Giovanni provava una gioia intensa; era come un balsamo sulle sue ferite nascoste. Mai si era dedicato prima ad un’opera tanto conforme ai suoi gusti.

Il coraggioso sterratore si dedicava da molti mesi alle sue attività tanto faticose quanto confortanti, quan­do un nuovo pericolo lo assalì.

Incaricato nel 1536 di costruire delle nuove fortifi­cazioni a Ceuta, il governatore della piazza, don Nuno Alvarez Norena, non cessava di sollecitare i lavori al fine di poter resistere agli imminenti attacchi del pirata Khaìr-Ed-Din, detto Barbarossa. Per ottenere i rendi­menti richiesti, i capisquadra cominciarono a maltrattare a parole e in vie di fatto i lavoratori addetti alle fortificazioni, come se si trattasse di schiavi. Questi non potevano, essendo in zona di frontiera, servirsi della pro­pria libertà e rifugiarsi in territorio cristiano; ma alcuni di essi, non potendo sopportare più tali sevizie e peraltro predisposti, come si può supporre, si decisero a passare dalla parte dei Mori della vicina città di Tetuan e a farsi mu­sulmani.

Tra essi vi era un compagno di lavoro di Giovanni Cidade, suo compatriota ed amico. Giovanni ne provò un vivo dolore e, secondo de Castro:

non faceva altro che piangere e gemere: Oh po­vero me, gridava, quale conto renderò per que­sto fratello! Egli ha preferito allontanarsi dal grembo della nostra Santa Madre Chiesa piutto­sto che accettare un po’ di sofferenza!

Questo avvenimento riaccese le angosce del povero Giovanni. A sentirlo, solo i suoi peccati e le sue infe­deltà avevano attirato quella disgrazia. In tal modo egli era ancora una volta sulla china della disperazione e pronto a cadere nell’apostasia come il suo amico.

Per fortuna, tra i suoi terrori, non aveva cessato di invocare il Signore e, senza indugiare troppo, aprì

la sua anima ad un padre francescano. Quel sacerdote illuminato e prudente comprende il suo stato, lo con­sola facendo del suo meglio e, ritenendo troppo peri­coloso il di lui soggiorno in Marocco, gli ordina di ri­tornare al più presto in Spagna, dopo averlo rassicu­rato che avrebbe vegliato sui suoi protetti.

Per obbedire al rappresentante di Dio, Giovanni Cidade si congedò a malincuore dal conte e dai suoi, non senza aver loro promesso di offrire al cielo in loro favore il suo penoso sacrificio e preghiere ancora più insistenti.

Desolati per aver perso un tale benefattore, i proscritti non mancarono di attribuire al suo credito pres­so Dio il perdono del re Giovanni III. Sua Maestà li richiamò dall’esilio anzi tempo e li reintegrò nei loro beni.

 

IV. IL VENDITORE AMBULANTE DI LIBRI E DI IMMAGINI

Per mettersi al sicuro dalle tentazioni di apostasia, Giovanni Cidade lascia dunque il Marocco, dove ha appena compiuto nei confronti del conte d’Almeida uno dei più commoventi atti di carità di tutta la sua vita.

Quando raggiunge Gibilterra, verso la fine del 1537 e dopo aver affrontato nella traversata dello stretto una tempesta nella quale aveva rischiato di naufragare, Gio­vanni ha quarantadue anni.

Così, il suo primo pensiero allo sbarco è di recarsi in chiesa e qui, secondo de Castro, ringrazia Dio per averlo liberato dalla tentazione di apostasia e dal peri­colo corso in mare. Non sono forse i miei peccati e la mia infedeltà alla grazia le cause di tutte queste disgra­zie?, egli pensa. E dal profondo del suo cuore ferito sgorga, umile e supplichevole, questa preghiera che egli da allora non cesserà più di ripetere: Signore, concedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la – strada che debbo seguire per giungere a te.

Come è tormentata la vita di quest’uomo! Quanti paesi ha percorso dalla sua giovinezza! Su quale stato cadrà alla fine la sua scelta? La morte lo ha sfiorato più volte. La sua coscienza inquieta oscilla tra la filiale fiducia in Dio e la nera disperazione; agli atti di eroi­smo si avvicendano in lui inaspettate debolezze.

Natura ricca, cuore sensibile e pieno di generosità, ma accessibile all’amor proprio ed un po’ presuntuoso talvolta, Giovanni Cidade aveva indubbiamente biso­gno, per diventare malleabile sotto la mano di Dio e capace di adempiere la sua missione, di essere pro­fondamente lavorato dalle umiliazioni, dall’inquietudine e dalla sofferenza, nostre grandi maestre quaggiù.

Già assiduo nella preghiera, Giovanni Cidade forse non aveva che una fede assai poco illuminata e nozio­ni assai vaghe sulle condizioni e i doveri del cristiano? In quel tipo di vita errante e sempre occupata, quali po­tevano essere stati i suoi progressi al riguardo?

Tale sembra essere stato, d’altra parte, il sentimento del suo direttore francescano di Ceuta. Egli non si ac­contentò, in effetti, di farlo uscire da una situazione per lui troppo pericolosa, ma gli raccomandò la let­tura del Vangelo e dei libri spirituali allo scopo di illu­minare la sua intelligenza, di infiammare il suo cuore e armarlo per la lotta.

Con la solita foga, Giovanni si affretta a seguire quell’ottimo consiglio. Ogni giorno si reca al lavoro là dove ne trova e, siccome si accontenta di poco cibo, fa delle economie sul salario per procurarsi delle opere di spiritualità. Si immerge nella loro lettura per ore intere ed impara cosi ad apprezzare questi amici sinceri, benefici, che offrono allo spirito ed al cuore tutto l’ali­mento di cui essi hanno bisogno.

La sua anima così docile e ben preparata deriva da quella nuova occupazione un tale profitto che, stimolata dalla sua generosità, brucia per il desiderio di condividerlo con il prossimo. Come spiegare diversamente, in un uomo apparentemente poco portato ad una simile attività, il suo desiderio, appena giunto in Spagna, di dedicarsi all’apostolato tramite il buon libro?

Nel suo entusiasmo, egli crede di avere finalmente scoperto la propria vera vocazione, il mezzo tanto desi­derato per lavorare al servizio di Dio e per la salvezza dei fratelli. Con i suoi risparmi acquista delle Bib­bie, La Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, L’imita­zione di Cristo, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, abecedari e immagini di carta, per rivenderli agli uni ed agli altri, mentre percorre i villaggi vicini.

Ai bambini soprattutto e agli ignoranti, distribuisce delle belle immagini: predica viva, concreta, semplice e tanto alla loro portata. « Suvvia, gridava, che nes­suno si privi di un simile aiuto! Le immagini! Basta guar­darle pér ravvivare incessantemente la devozione; esse risvegliano l’attenzione, fissano i ricordi. E, nel vendere gli abecedari, incitava i genitori ad insegnare la dottrina cristiana ai loro figli » (de Castro).

In poco tempo, il piccolo commercio prospera. L’im­provvisato venditore ambulante ci sa fare nel racco­mandare la sua merce. Tutti i libri che pone in vendita, li legge; prima di tutto per accertarsi che siano buoni, e poi per poterne rendere conto all’acquirente. Non si scorge il vantaggio che ne trae egli stesso, con il suo spirito avido di sapere e l’anima assetata di perfe­zione?

Il cardinale Ximenes de Cisneros (1436-1517) aveva fatto tradurre in spagnolo, fin dagli inizi del XVI secolo, la Bibbia, la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia, la Legenda aurea di Giacomo da Varazze, l’Imitazione di Cristo, le Lettere di san Girolamo e di santa Caterina da Siena, ecc.

« Di proposito egli acquista alcuni romanzi caval­lereschi (le opere del marchese di Mantova, i poemi di Garciloso de la Vega, ecc.) che pone bene in vista sul banco per attirare i giovani. E quando qualcuno si av­vicina per acquistarne uno, egli coglie l’occasione per sconsigliare un simile acquisto e proporre in sua vece qualche libro utile ed edificante » (de Castro).

Se riesce a farsi ascoltare, il suo zelo lo spinge a spiegare il modo di leggere con profitto e se si accorge che « il costo elevato di un buon libro frena il desi­derio dell’acquirente, si affretta a cederlo sotto costo) non esitando, osserva de Castro, a collocare il guadagno spirituale dell’altro al di sopra del proprio guadagno temporale ». I suoi modi sono così avvincenti, umani ed affabili verso tutti, che molti acquistano volentieri delle opere poco attraenti in sé stesse, ma presentate con grazia ed amicizia.

« Cosi, in poco tempo, Giovanni poté aumentare il proprio guadagno spirituale e temporale; poiché oltre alla buona azione compiuta col piegare molte persone alla lettura di buoni libri – è noto che ne risulta un gran bene – egli accresceva il suo stock di volumi, al punto da possederne molti e di pregio. Era una gran fatica, gli sembrò allora, muoversi da un punto all’altro con quel fardello sulle spalle; così, riferisce de Castro, decise di andare a Granata e di stabitirvisi: prese domi­cilio e mise su bottega alla porta di Elvira ».

Senza saperlo, l’umile Giovanni favoriva l’opera ini­ziata dal suo contemporaneo Luigi da Granata. Dal 1534, infatti, l’illustre domenicano, dai pulpiti della città, dinanzi a giovani uditori guadagnati con l’elo­quenza, non cessava di levarsi contro le letture romanzesche e di denunziare l’ignoranza comune in materia re­ligiosa. Egli proponeva, come principale rimedio a questo male, la lettura dei Vangeli, di piccoli trattati semplici di dottrina e di pietà. Lui stesso, abbandonan­do il latino contro l’uso del tempo,, ne aveva tradotti o composti alcuni in spagnolo e si sforzava di dif~onderli tra la popolazione.

Un’uguale comprensione dei bisogni del suo tempo non è riscontrabile in Giovanni Cidade, che non posse­deva né il genio né la scienza di Luigi da Granata? In­dubbiamente il Signore lo stava chiamando alla sua vocazione di carità; ma il suo apostolato « tramite il buon libro » ne è stato la preparazione. Nel santificare, infatti, una professione che lo ha fatto onorare per molto tempo, in Italia e in Spagna, come patrono dei librai, Giovanni di Dio, convinto dell’importanza delle sane e pie letture nella formazione dell’uomo e del cristiano, non cessò si servirsi lui stesso di questo gran­de mezzo di perfezione e lavorò con tutte le sue forze per propagarlo attorno a se.

Acquisi cosi un capitale solido di conoscenze varie dal quale più tardi, quando tutto il suo tempo sarà preso dall’esercizio della carità, saprà trarre profitto non solo per sé, ma anche per l’istruzione dei suoi fra­telli, dei suoi malati, dei suoi amici e per il buon anda­mento delle sue opere. Le sei lettere di Giovanni di Dio a noi pervenute, il cui valore reale fa rimpiangere la perdita di tante altre, ne sono la testimonianza.

 

V. LA DRAMMATICA RINUNZIA

Verso la fine del 1538, Giovanni Cidade, allora quarantatreenne, si era dunque stabilito a Granata e aveva impiantato una modesta libreria accanto alla porta di Elvira. La sua ingegnosità, il suo abile richiamo e la sua bonomia sorridente, uniti alle largi­zioni sempre più ampie in favore dei bambini e dei poveri, gli attirarono ben presto, come a Gibilterra, una vasta clientela che lui orientava con zelo e suc­cesso verso le buone e sane letture. Tutto sembrava sorridere al nuovo venuto. Una onesta agiatezza pro­metteva di unirsi, in lui, ad una vita di apostolato ricca di avvenire e di merito. Era la prospettiva della felicità.

Se un tale sentimento sfiorò per qualche tempo il cuore di Giovanni, fu come un lembo di cielo sereno tra le apprensioni che, da più di dieci anni, tormenta­vano la sua coscienza quasi senza tregua. Infatti, l’in­quietudine non tardò a risvegliarsi nel profondo del suo essere, strappandogli nuovamente il grido di ango­scia: Signore, dona la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che debbo percorrere per arrivare a te. Il Signore alla fine io esaudirà, e in che modo!

Da grande peccatore l’aveva già fatto giusto! Lo farà grande penitente e provveditore dei suoi poveri.

Il 20 gennaio 1539, giorno della festa di san Seba­stiano, grandi solennità si svolgono nell’eremo « de los Martires », innalzato in cima alla città, di fronte all’Alhambra. Tutta Granata è qui per celebrare la gloria del soldato martire e implorare il « liberatore della peste » perché preservi la città dal terribile fla­gello che infierisce nel paese.

Di fronte a questo uditorio entusiasta ed aperto a gravi pensieri, l’oratore della festa, Giovanni d’Avila, l’apostolo dell’Andalusia, esalta il perfetto imitatore di Gesù in vita ed in morte; egli insegna che ciascuno deve ancorarsi nella volontà di soffrire e persino di morire piuttosto che commettere il peccato, che è il flagello più pericoloso. Nell’uditorio, l’emozione è al culmine. Il lavoro della grazia si manifesta. Molti piangono gli errori commessi e si percuotono il petto. Giovanni Cidade, qui giunto come gli altri, non può contenersi; i suoi peccati, tante volte deplorati, gli si presentano in un compendio impressionante. Sotto la violenza del pentimento e della netta convinzione della sua inde­gnità di fronte a Dio, egli prorompe in singhiozzi e grida con tutte le forze: Misericordia, mio Dio, mise­ricordia!

Questa improvvisa esplosione dei suoi tormenti di coscienza attira su lui tutti gli sguardi.

Come fuori di sé, Giovanni esce di chiesa, im­plorando sempre la misericordia divina. Disprez­zando se stesso, si getta a terra, batte la testa contro i muri, si strappa la barba e le soprac­ciglia. Tutti ritengono che ha perso la ragio­ne. Lo additano, gli inveiscono contro, i bam­bini lo trattano da pazzo; lui, senza sembrare che vi badi, scende di corsa verso la città e giunge alla sua bottega, seguito dai ragazzini e dai curiosi, attratti dal grido sinistro, lanciato ora da ogni parte: Loco! Loco! (Al pazzo! Al pazzo!).

E’ per Giovanni l’ora della grande rinunzia. Il poco denaro che possiede lo dà a chiunque viene, sen­za riservare per sé neppure un soldo. Immagini, libri ed oggetti di pietà sono distribuiti in un momento. Quanto alle opere profane, la principale attrattiva del suo commercio, colto da non so quale rimorso, le strap­pa con le mani e perfino coi denti, le calpesta e la gente se ne disputa i pezzi. Come san Francesco d’As­sisi, si privò anche dell’abito dandolo ad un mendicante.

Egli dà tutto, trattiene solo una camicia ed un paio di pantaloni, per coprire la propria nudità. Cosi spogliato, a piedi nudi e a capo scoperto, se ne va per le vie principali di Granata, gri­dando: Nudo, voglio seguire Gesa Cristo nudo, e rendermi completamente povero in suo onore.

Si trattava qui, senza dubbio, di uno shock nervo­so che accompagnava e raddoppiava, come per un risvolto patologico, la straordinaria manifestazione del­la contrizione di Giovanni di Dio. Luigi da Granata, il Bossuet della Spagna del XVI secolo, sembra ammet­terlo lui stesso quando, rivolgendosi ai detrattori di Giovanni di Dio, dichiara che essi ignorano quanto intensa sia talvolta la risonanza corporea degli shock dell’anima e non considerano quale sia, in certe circo­stanze, la forza del pentimento (Granat. oper., tomo III).

Per fortuna, chiamato o venuto da solo, Giovanni d’Avila si fa vedere in quel momento nei pressi della cattedrale. Appena lo vede, Giovanni Cidade lo rag­giunge e, gettandosi ai suoi piedi, gli fa con i segni della più viva contrizione la confessione dei propri errori ed il racconto di tutta la sua vita. Cosa accadde di poi tra il sacerdote ed il suo penitente? E’ il segreto di Dio. Si può pensare, tuttavia, che quel saggio diret­tore lo ascoltò con pazienza e simpatia, che gli accor­dò il perdono in nome del Signore e gli fece udire delle parole di conforto e di pace. Cosa poteva fare di più in quella circostanza?

Calmato momentaneamente, ma sempre turbato, Gio­vanni non tarda a seguire la sua idea di espiazione, legata al suo bisogno incoercibile di movimento. De Castro lo afferma:

Appena lasciato il Padre d’Avila, Giovanni si reca in piazza di Bibarrambla, dove c’era un pantano. Egli vi si immerge, vi si rotola e con la bocca coperta di fango comincia a confessare, a voce alta, tutti i suoi peccati: Sono stato, gri­da, un grandissimo peccatore dinanzi a Dio! L’ho offeso in questo… e in quello…

Cosa merita il traditore che ha agito cosi? Che tutti lo picchino, lo maltrattino, lo considerino

E’ chiaro che Giovanni fece allora una enumerazione pre­cisa dei suoi peccati, che de Castro non poteva ripetere.

come l’uomo piu’ vile del mondo, ed infine lo gettino nel fango, nella fogna dei rifiuti! Nel vedere quella scena gli spettatori sono persuasi che ha perso la ragione; ma lui, tutto infiamma­to di amore di Dio, desideroso di morire per Lui, di essere schernito, disprezzato, appena uscito dal pantano e tutto coperto di fango, co­mincia a percorrere le vie della città saltellan­do e gesticolando come un insensato. I ragazzi­ni ed il popolino gli corrono dietro canzonan­dolo e gettandogli addosso terra e fango. Con molta pazienza e persino con gioia, come se avesse assistito ad una festa, Giovanni soppor­ta tutto, senza far male ad alcuno, felice di ap­pagare il suo desiderio di soffrire qualcosa per Colui che egli ama tanto. Tra le mani porta una croce di legno che offre a tutti da baciare, e se qualcuno gli dice: « Giovanni, bacia la ter­ra per amor di Dio », tosto egli obbedisce, an­che se c’è molto fango e l’ordine proviene da un bambino.

Questa descrizione tanto precisa in tutti i dettagli si ispira, è certo, alle testimonianze oculari, ma l’in­terpretazione dei fatti reca il segno di un sacerdote del XVI secolo. Per il biografo, infatti, Giovanni, molto cosciente, agisce con decisione, simulando la follia. Ora, la cosa non è del tutto semplice. Che l’uomo con­servi la propria lucidità, che acconsenta anche a degli impulsi morbosi che appagano i suoi profondi desideri di espiazione, non c’è dubbio; ma sono degli impulsi che lo trascinano e, sul momento, egli è incapace di resistervi: ecco il segno dell’affezione nervosa. De Castro continua:

Egli si abbandona con ardore tale a quegli ecces­si, che cade spesso a terra sfinito, disfatto dalla stanchezza, dagli spintoni e dalle botte… Appe­na lo videro in quello stato, due notabili di Granata, mossi a compassione lo presero per mano, lo strapparono a quell’assembramento chiassoso e lo condussero all’ospedale regio, dove venivano raccolti e curati i pazzi della cit­tà. Questi notabili pregarono il direttore di accettare Giovanni, per farlo curare. Mettetelo, gli dicono, in una camera dove non possa vede­re alcuno, perché si riposi; in tal modo forse guarirà dalla follia che ha contratto.

Richiesta molto prudente da parte di queste per­sone di buon senso. Ma Giovanni Cidade era ormai consegnato ai professionisti dell’epoca, che avevano i loro metodi di trattamento. Ed ecco il quadro presen­tatoci da de Castro:

Il direttore aveva visto Giovanni mentre circo­lava per la città ed era al corrente del suo com­portamento. Lo ricevette dunque subito ed ordi­nò ad un infermiere di portarlo dentro. Nei suoi abiti a brandelli, lo sventurato, coperto di feri­te ed ecchimosi prodotte dalle botte e dalle pietre, si trovava in uno stato così pietoso che si presero cura di lui senza indugiare. Dappri­ma gli diedero un buon vitto per rimetterlo e ristorarlo; ma vennero presto al trattamento principale, offerto in quel luogo alle persone della sua specie: frustate, messa ai ferri e altri simili procedimenti dolorosi e punitivi, destinati a far perdere loro la furia e a favorire il loro ritorno al buon senso. Fu così che gli infermieri legarono Giovanni per i piedi e le mani, lo denudarono e, con una buona corda piegata in due, gli somministrarono una scarica di colpi. Ma la sua malattia consisteva nell’essere ferito d’amore per Gesù Cristo. Cosi, per incitare gli infermieri ad assestargli più colpi, a trattarlo più brutalmente e permettergli di testimoniare un maggiore amore a Nostro Signore, Giovanni li incoraggia dicendo: Fratelli miei, colpite que­sta carne traditrice nemica del bene; è stata lei la causa di tutto il mio male; poiché le ho obbe­dito è giusto che paghiamo tutti e due, giacché tutti e due abbiamo peccato!

Al contrario, quando vedeva flagellare gli altri ma­lati mentali, suoi compagni, apostrofava gli infermieri in questi termini:

O traditori, nemici della virtù! Perché trattate tanto male e con tanta crudeltà questi poveri in­felici, miei fratelli, che si trovano in questa casa di Dio in mia compagnia? Non sarebbe meglio aver compassione delle loro prove, tenerli puliti e dar loro da mangiare con maggior ca­rità ed affetto di quanto fate? I « re cattolici » hanno assegnato, infatti, per assolvere questo compito, il vitalizio necessario.

Quando gli infermieri udirono queste parole,. credettero di trovarsi in presenza di un pazzo

aggravato da malignità. Di conseguenza, deside­rosi di guarirlo da ambo i mali, gli somministra­rono colpi più crudeli e numerosi di quelli che erano soliti infliggere alle persone giudicate sem­plicemente pazze…

Appena seppe che Giovanni Cidade si trovava all’ospedale regio, il d’Avila, che conosceva la causa del suo disordine mentale, mandò subito uno dei suoi discepoli a fargli visita. Giovanni ritenne come un gran favore ed un potente conforto l’iniziativa di Giovanni d’Avila; lo faceva visitare, si ricordava di lui, dimenticato da tutti in quella prigione. Il solo che, dopo Dio, lo ricordava e lo consolava nelle sue prove. Il povero afflitto ne piangeva di gioia, giacché era cosciente della grazia che il Signore gli accor­dava.

Nel frattempo gli infermieri dell’ospedale ave­vano gran cura del loro paziente e quando lo vedevano turbato non mancavano di sommini­strargli la flagellazione come agli altri, eviden­temente nell’intento di guarirlo, e sempre Gio­vanni la accoglieva con allegria. Di fronte ad un analogo trattamento inflitto ai suoi simili, gridava: Che Gesù Cristo mi accordi la grazia di possedere un giorno un ospedale dove io possa accogliere i poveri abbandonati e gli infelici privi di ragione, per servirli come desidero!

La sua dolorosa prova, del resto, andrà a termine rapidamente; riferisce difatti de Castro:

Dopo alcuni giorni trascorsi nell’ospedale, Gio­vanni cominciò a mostrarsi tranquillo, quieto, e a dichiarare: Benedetto sia il Signore, io mi sento in buona salute e libero da ogni angoscia. Il direttore e tutta l’amministrazione provarono una grande soddisfazione nel vederlo più cal­mo e nel sentirlo affermare che stava meglio. Subito gli tolsero i ferri e gli permisero di circolare liberamente per la casa. Ed egli senza attendere che ve lo invitassero, si mise a servire i malati con dedizione, strofinando, scopando e pulendo le stanze.

Se è vero che, per meglio comprendere quelli che soffrono e circondarli di una più calda simpatia, come pure di cure più sollecite, nulla sostituisce un’esperienza personale, non si può dubitare che Giovanni Cidade abbia ricevuto in quell’ospedale la migliore preparazio­ne alle sue future attività.

Ed ecco la conclusione che dà de Castro a questa parte della vita di Giovanni di Dio. Essa è, per noi, del maggiore interesse.

Giovanni si dedicava ancora alle sue occupazio­ni quando un giorno, seduto sulla soglia del-

l’ospedale, vide passare davanti all’edificio un corteo di cavalieri, di religiosi ed un folto clero, che conducevano ed accompagnavano il corpo dell’imperatrice, sposa di Carlo Quinto deceduta in quei giorni, nella cappella reale di Granata, per dargli sepoltura. Quello spettacolo impres­sionò vivamente Giovanni e consolidò in sé la ferma risoluzione di uscire senza indugio dal­l’ospedale, per realizzare i suoi buoni desideri:

servire Nostro Signore nei suoi poveri mendi­cando per il loro mantenimento, raccogliere gli abbandonati e i viandanti; quell’anno, infatti, la terra aveva dato poco e non c’erano ancora nella città degli ospizi che accogliessero i biso­gnosi. Avendo preso tale decisione, Giovanni si reca dal direttore e gli dice: Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la beneficen­za e la carità che mi avete testimoniato in que­sta casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato! Ora, che il Signore ne sia benedetto, mi sento bene e in grado di lavorare! Per amor di Dio e se è conforme alla sua volontà, lasciatemi dunque uscire! – Avrei voluto, rispose il diret­tore, vedervi rimanere ancora qualche giorno in questa casa, per completare la vostra convale­scenza e farvi riprendere le forze, giacché siete ancora debole a causa delle passate sofferenze. Ma poiché desiderate assolutamente andarvene, ritiratevi con la benedizione di Dio. Portate però con voi questo mw scritto, al fine di potervi re­care liberamente dove volete ed anche perché le persone che vi incontreranno non vi riconduca­no qui, ritenendo che non. siate guarito dalla vostra passata malattia. Giovanni ricevette il biglietto in tutta umiltà, contento di essere con­fermato nell’opinione che tutti l’avevano ritenu­to un vero pazzo.

Una volta di più, come ben si nota, pur riferendo fedelmente i fatti, de Castro li interpreta a modo suo. Per lui, è evidente, Giovanni Cidade ha recitato la parte del folle. Ora, contro questa opinione illogica, si leva la descrizione cosi viva dello stesso de Castro, che descrive Giovanni Cidade impegnato in atteggia­menti e attività esplosive, incoercibili e non dirette e calcolate come lo sarebbero necessariamente degli at­ti simulati; inoltre, conviene prendere alla lettera le parole di Giovanni che non mentiva: « Fratello mio, che Nostro Signore vi ricompensi per la carità che mi avete testimoniato in questa casa di Dio, per tutto il tempo che sono stato malato. Ora, mi sento bene e in grado di lavorare; per amor di Dio, lasciatemi dunque uscire! ».

In breve, la Vita di Giovanni di Dio secondo il suo contemporaneo de Castro, letta attentamente ed inter­pretata secondo i criteri scientifici moderni, come an­che le testimonianze concordi dei notabili di Granata, del direttore dell’ospedale regio e del paziente stesso, ci permettono di dedurre molto verosimilmente: No, Giovanni di Dio non ha simulato la follia. Egli è stato malato come lo esprime lui stesso in termini moder­ni e dignitosi: « He estado enfermo ».

 

VI. BAEZA E NOSTRA SIGNORA DI GUADALUPE

Poco prima di essere dimesso dall’ospedale, Gio­vanni aveva ricevuto la visita di un discepolo di Gio­vanni d’Avila. Quella visita lo aveva grandemente ri­confortato, come nota de Castro. Essa dimostra anche che Giovanni d’Avila continuava a seguire da lontano quell’eccezionale penitente che la Provvidenza gli ave­va affidato. Ora, lo stesso evento che aveva spinto Giovanni Cidade a chiedere la dimissione dall’ospedale fu anche l’occasione per un nuovo incontro con il suo Padre spi­rituale. Infatti, nonostante il silenzio di de Castro su questo punto, sappiamo da un manoscritto inedito della biblioteca del duca di Gore, a Granata, pubblicato da Manuel Gomez Moreno nel 1950, che il lunedì suc­cessivo ai funerali dell’imperatrice Isabella, si celebrò ancora in Granata una messa solenne per la defunta, presieduta dall’arcivescovo del luogo, durante la quale il Padre d’Avila prese la parola.

Giovanni Cidade, libero da due giorni, si trovava certamente nell’uditono e dopo la cerimonia si intrattenne con il suo Padre spirituale. Quest’ultimo si accor­se con soddisfazione che il suo penitente, finalmente tranquillizzato, restava sempre animato dai medesimi sentimenti di contrizione. Inoltre, Giovanni gli mani­festò il suo desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amor di Gesù Cristo.

Fin lì, il ruolo del Padre d’Avila, dopo aver con­fermato Giovanni nella sua conversione a Dio, tendeva piuttosto a moderare gli ardori e l’impetuosità dei suoi sentimenti di pentimento, attendendo che il tempo ve­nisse a ristabilire progressivamente il suo equilibrio nervoso un po’ scosso.

Raggiunto questo primo scopo, bisognava assicu­rare a Giovanni Cidade un riposo occupato e corrobo­rante, poi un tempo di riflessione, di formazione e di preghiera. Questo pensò il prudente direttore, che in­vitò il suo penitente ad accompagnarlo a Baeza, dove l’organizzatore dei funerali imperiali non tardò a farli accompagnare.

Piccola città della provincia di Jaén, ad una qua­rantina di chilometri a Nord-Est di Granata, Baeza è situata al confine dell’Andalusia e della Mancia. Di aspetto tipicamente castigliano, ricca di monumenti d’arte, essa è appollaiata su una collinetta che domina la vallata del Guadalquivir.

Giovanni d’Avila vi risiedeva in modo abituale dal 1538, e vi diresse per alcuni anni il collegio dei ragaz­zi della SS. Trinità, presso la chiesa dello Spirito San­to. In quella istituzione egli poté affidare alcune occu­pazioni materiali al suo protetto, riservandogli un tem­po sufficiente per la lettura della Sacra Scrittura, di libri spirituali e per numerosi incontri, nel corso dei quali lo fortificava nell’amor di Dio, nelle credenze della nostra fede, nella pratica dell’orazione e delle virtù.

A questo riguardo, un testimone verace al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, Luca Coronado, scrittore ecclesiastico sessantenne della vicina città di Ubeda, ha riferito di aver sentito dire da Antonio de Vega, libraio a Baeza, che Giovanni Cidade aveva sog­giornato per qualche tempo al collegio della SS. Trinità, in compagnia di Giovanni d’Avila.

Lo stesso Antonio de Vega, allora insegnante di let­teratura ai ragazzi, era in contatto quotidiano con Gio­vanni ed aveva notato che il nuovo venuto non si coricava nel suo letto ed accendeva la lanterna due o tre volte nel corso della notte per pregare. Antonio de Vega aveva anche ammirato la grande pazienza di Giovanni ed il suo amore per la sofferenza. Egli trovava la sua felicità – annota ancora de Vega – nei biasimi, nelle offese e nelle prove. Era felice quando i giovani alunni lo schernivano e lo disapprovavano con fischi. Se riceveva una scarpata, un colpo sulla nuca, si affret­tava a parlarne al Padre d’Avila come di un guadagno inaspettato.

In breve, i quattro o cinque mesi che Giovanni tra­scorse presso il suo direttore furono cosi ben impiegati che quest’ultimo lo giudicò atto a realizzare finalmente il suo grande desiderio di servire i poveri e gli amma­lati per amore di Gesù Cristo. Prima di intraprendere quest’opera Giovanni volle, tuttavia, d’accordo con il suo direttore, compiere un pellegrinaggio a Nostra

Signora di Guadalupe per chiederle soccorso ed assi­stenza.

Da Baeza a Guadalupe ci sono all’incirca trecento-sessanta chilometri, una distanza moderata per il nostro uomo, buon camminatore. Uno dei suoi ultimi biografi spagnoli non ha intitolato la sua opera La Perpetua Andadura, « La marcia perpetua », proprio per sotto­lineare uno degli aspetti più salienti di quella vita?.

Sembra che Giovanni abbia intrapreso il viaggio verso la metà di ottobre 1539. Gli furono sufficienti una ventina di giorni per raggiungere Guadalupe. Il pellegrinaggio lo fece con un gran freddo, secondo de Castro, senza denaro e costretto a mendicare il nutri­mento. Tuttavia, aggiunge il biografo,

 

per non restare inoperoso, rimase sempre fedele alla seguente abitudine: quando giungeva in una località per prender cibo o fermarvisi, portava sulle spalle un fascio di legna e andava all’ospe­dale, se ce n’era uno, a lasciarvelo per i pove­ri; dopo chiedeva quanto gli bastava per nu­trirsi in modo austero.

Fin dalla giovinezza, Giovani conosceva Nostra Si­gnora di Guadalupe, la regina della montagna di Villuercas. L’aveva visitata prima del suo arrivo ad Oropesa, non lontana di lì. Può darsi che ci sia ritor­nato dopo? In ogni caso, ne aveva sentito parlare mol­to. Questo santuario, situato ai confini dell’Estrema-dura e della Castiglia, accanto ad un monastero eretto verso il 1369 ed appartenente ai Fratelli di san Girola­mo, è uno dei luoghi più celebri della Spagna.

Qui, alcuni anni prima, degli esploratori e dei « con­quistadores » famosi erano venuti a confidare i loro sogni e i loro progetti avventurosi alla Vergine di Gua­dalupe, prima di introdurre il suo nome e la sua devo­zione nelle terre del Nuovo Mondo, da loro conqui­state per la corona di Spagna. Oggi, un umile pelle­grino entra in chiesa in ginocchio, venera la Vergine miracolosa e, per suo tramite, espone i propri bisogni a Nostro Signore e lo ringrazia di tutti i suoi benefici.

Pieno di fiducia, prega Nostra Signora di benedire i suoi progetti di dedizione ai poveri, ai malati a tutti gli uomini per amore di Dio.

Il pellegrino rimase a Guadalupe alcuni giorni, vi si confessò e comunicò. Egli risiedeva nell’ospedale ret­to dai Fratelli di san Girolamo nelle dipendenze del monastero e prendeva parte ai lavori e alle cure nelle sale. Seguendo i consigli del previdente maestro d’Avila, si informò anche sull’organizzazione e sul funziona­mento dei diversi servizi, per prepararsi alla sua opera futura.

Giunse il momento del suo ritorno. Giovanni rag­giunse direttamente Baeza per rendere conto al suo direttore delle peripezie del pellegrinaggio. Il maestro d’Avila lo ricevette con gioia e gli diede, secondo de Castro, le seguenti istruzioni:

Fratello Giovanni, è necessario che ritorniate a Granata, dove siete chiamato da Dio; e Lui, che conosce le vostre intenzioni ed i vostri desi­deri, vi indicherà il modo in cui dovrete ser­virlo. Abbiatelo sempre presente, in tutte le vostre azioni; considerate che vi guarda e lavo­rate come in presenza di un si grande Signore. Arnvando a Granata prendete subito un confes­sore, come già vi avevo detto. Che egli sia il vostro Padre spirituale. Non fate nulla di im­portante senza il suo parere. Quando si presen­terà qualcosa per la quale riterrete di aver biso­gno dei miei consigli, scrivetemi là dove mi trovo. Mi comporterò verso di voi, in ogni cosa, come vi sono obbligato dalla carità, con l’aiuto di Nostro Signore.

Il lettore avrà notato quanto siano ferme e precise le direttive impartite da Giovanni d’Avila al suo diret­to. L’ascetismo dell’apostolo dell’Andalusia è impron­tato ad una nota aspra e severa, che gli ispira delle formule sorprendenti: Sottoponete il vostro corpo al dolore e fatelo vivere sulla croce! E ancora: Non desi­dero consolazioni per i miei figli, ma pene e frustate.

Queste osservazioni, suggerite dall’introduzione fatta da Jacques Cherprenet alla traduzione dell’opera Audi Filia del beato Giovanni d’Avila, ci permetteranno di interpretare con cautela le tre lettere, piuttosto severe, del maestro d’Avila a Giovanni di Dio, allorché saranno citate nelle loro parti essenziali nel corso del racconto.

Allora, munito delle istruzioni del suo direttore e dopo essersi congedato da lui, Giovanni Cidade si pose in viaggio alla volta di Granata.

 

VII.       A GRANATA AL SERVIZIO DEI POVERI

Giovanni Cidade arrivò a Granata verso la fine di novembre 1539. Aveva quarantaquattro anni. Il suo primo soggiorno in questa città, benché breve, aveva avuto su di lui un’importante ripercussione. Può rias­sumersi così: una dozzina di settimane, al massimo, nella bottega presso la porta d’Elvira; alcune ore dram­matiche di una sconvolgente conversione; un breve e mortificante periodo di malattia all’ospedale regio segui­to da tre mesi di convalescenza consacrati al servizio dei malati mentali che si trovavano nell’ospedale. Era la fine della sua lunga e mortificante vita privata, assai poco nota all’intorno. D’ora innanzi egli entrava nella vita pubblica, che durò appena undici anni, ma fu suffi­ciente a questo sconosciuto per diventare una delle glorie della Spagna del secolo d’oro, il « Padre dei poveri ».

Situata ai piedi della Sierra Nevada che raggiunge i 3.478 metri, Granata gode di un clima privilegiato, tro­vandosi a 700 metri d’altitudine. Gaia, ridente ed ani­mata, si stende nel cuore della fertile « Vega de Grana­da » (il frutteto di Granata), alla confluenza del Genil e del Darro., che diffondono la fecondità ed offrono le loro acque cristalline alle numerose fontane e canali della città. Per sette secoli Granata fu sotto il domi­nio musulmano. Con esso aveva acquisito una grande prosperità nell’agricoltura, nell’industria, nelle seterie e si era arricchita di magnifici monumenti: l’Alhambra, il Generalife, le mura d’Albaicin, ecc. Riconquistata nel 1492 dai « re cattolici », Ferdinando ed Isabella, quarantotto anni soltanto prima dell’arrivo di Giovan­ni Cidade, si trovava ancora in un periodo di transi­zione e di decadenza. L’islamismo vi era sempre pre­sente, ma soprattutto sotto l’aspetto di convertiti più o meno volontari, soprannominati moriscos. D’altra parte, cristiani, ebrei, moriscos e avventurieri vivevano fianco a fianco in mezzo a molte miserie.

Per portarvi rimedio, Giovanni si prodigherà senza misura. Gli inizi, secondo de Castro, non furono bril­lanti. Fin dal primo giorno di presenza, Giovanni, dopo aver ascoltato la messa, si diresse verso la montagna per raccogliere un fascio di legna. Ritornando con quel fascio, provò un vivo senso di vergogna ad entrare cosi in Granata. Vinto da essa, non osò oltrepassare la porta di « Los Molinos », molto distante dal mercato della città, e diede la legna ad una povera vedova in cam­bio di un po’ di cibo. Vergognandosi della propria vil­tà, il giorno successivo, dopo aver ascoltato la messa, durante la quale implorò con insistenza l’aiuto del Signore contro il rinascente amor proprio, Giovanni si recò a raccogliere un altro fascio di legna sulla monta­gna. Ora, nel ritornare in città con il carico, cominciò a provare la stessa vergogna della vigilia. Questa volta, con l’aiuto della grazia divina, passò oltre e per stimolarsi si mise ad inveire contro il proprio corpo: Cosi,signor asino, per dignità, per puntiglio d’onore, ti rifiu­ti di entrare a Granata carico di legna. Subito porterai questa legna fino alla piazza principale. Si, abbasso questa alterigia, abbasso quest’orgoglio! Di fatto, vi si reca. Subito è riconosciuto. I curiosi lo attorniano. I burloni esclamano: Come, Giovanni, eccoti ora un boscaiuolo! A cosa ti è servito il soggiorno in ospedale? E’ incredibile! Non la smetti di cambiar mestiere! Per nulla sconcertato, Giovanni sopporta tutto con gioia e con il sorriso: Ma si, continua lui; è come al gioco di « birlimbao », con la sua nave e le tre galere: più ci si lambicca il cervello, meno lo si comprende. E i giochi di parole si succedevano da ambo le parti. In breve, pieno di allegria, egli rispondeva a tutti con spi­rito; finalmente uno spettatore acquistò il fascio a buon prezzo. Col denaro ricevuto, Giovanni si procurò alcuni viveri che poi divise con i poveri che si trovavano sulla piazza.

In realtà, molte persone erano persuase che vi erano ancora in Giovanni tracce della sua vecchia malat­tia. Ma lui, senza curarsi di questi giudizi e delle beffe, continuò ogni giorno a raccogliere un carico di legna, che poi vendeva sulla piazza di Bibarrambla. Qui egli trovava sempre l’acquirente, giacché il freddo infieriva. Del denaro cosi guadagnato, riservava solo una piccola parte per i suoi bisogni ed il resto lo di­stribuiva ai poveri che erano lungo le strade, sulle piaz­ze e, di sera, sotto le logge dei palazzi, sotto i portici delle case borghesi. Egli stesso si stabiliva in mezzo a loro durante le poche ore concesse al sonno ogni not­te. Infatti, se Giovanni dedicava molte ore del giorno ai suoi poveri, una parte della notte pregava e si ab­bandonava all’orazione. Si alzava di buon mattino e non tralasciava mai la messa. Più volte, nel corso della giornata, visitava a lungo il Signore presente nel taber­nacolo delle chiese. In Giovanni Cidade era avvenuta una vera trasformazione. La grazia lo aveva rinno­vato e, appoggiato su una solida umiltà, vi corrispon­deva del suo meglio. Il crescente amore per Cristo lo spingeva, sempre più, a dedicarsi agli infermi ed ai bisognosi.

Senza dubbio, dividere il frutto del proprio lavoro con i poveri aveva il suo valore. Ma alla vista di tante miserie e sofferenze, Giovanni capiva bene che la sua generosità non era proporzionata ai bisogni. Ne aveva il « cuore infranto ». Cosi rifletteva davanti al Signore sui mezzi per apportare un aiuto più efficace a tutti quegl’infelici.

D’altra parte, la regolarità, la costanza con cui con­tinuava a confortare i poveri, il suo spirito di pietà, la sua pazienza, attirarono la benevolenza delle persone e le raccomandazioni del maestro d’Avila gli portaro­no dei nuovi benefattori. Questi ultimi, con il con­corso del Padre Portillo, che Giovanni aveva scelto come direttore spirituale, gli offrirono il denaro per acquistare un locale dove avrebbe riunito i poveri e li avrebbe cosi curati più facilmente ed in modo più assiduo. La sua fede nella Provvidenza cresceva sempre più; cosi, conformemente alla certezza datagli da Gio­vanni d’Avila, il Signore gli aprì le vie. Attraversando un giorno il mercato del pesce, vicino alla cattedrale dove si recava a pregare, scorse di fronte al mercato, sulla via Lucena, una casa disabitata. Vi entra, la visita e l’affitta subito. Per arredare le stanze dell’unico piano, egli acquista alcune stuoie, dei cuscini e delle vecchie coperte dove i suoi protetti, poveri ed infermi che egli radunava per l’addietro at­torno alla piazza di Bibarrambla, avrebbero po­tuto riposare in modo più confortevole, giac­ché non poteva ancora far meglio, né aveva altro rimedio da portar loro.

La stanza di sotto, più spaziosa, era riservata ai viandanti poveri, che vi trascorrevano la notte su dei banchi, attorno ad un grande camino dove si ac­cendeva un bel fuoco quando faceva freddo.

Più tardi, un sacerdote della cappella reale gli do­nò trecento reali. Giovanni ne approfittò per acquistare quarantasei letti modesti, composti ciascuno di una stuoia, due coperte ed un capezzale sormontato dalla croce. Impiegò il rimanente denaro per l’acquisto di una parte dei mobili e degli utensili necessari ad un piccolo ospizio e asilo notturno. Poté cosi realizzare una migliore ripartizione dei suoi protetti ed una clas­sificazione sommaria. Da notare che, contrariamente all’uso corrente, egli non ammetteva che un solo oc­cupante per letto.

Per assicurare la sussistenza ai suoi assistiti, Gio­vanni non mancava, un po’ prima della chiusura del vicino mercato, di andare a sollecitare i pescivendoli, che gli cedevano volentieri per i suoi poveri i pesci invenduti che non potevano essere conservati. Giovan­ni ne faceva delle buone zuppe e, talvolta, quando il ricavato della questua era abbondante, delle succulente « pietanze alla marinara » tanto apprezzate dagli abi­tanti delle coste. Ben presto trovò anche altri bene­fattori tra i rivenditori di generi alimentari della piazza di Bibarrambla.

Evidentemente queste collette non potevano bastare:

così Giovanni percorreva ogni sera, uno dopo l’altro fino all’una di notte, alcuni quartieri della città. Egli camminava, con una gerla sulla schiena, due grosse marmitte ai lati, sorrette da una corda passata sulle spalle, e mendicava gridando: Qualcuno vuole fare del bene a se stesso? Fratelli miei, per amor di Dio, fate del bene a voi stessi!. Questo nuovo modo di chiedere l’elemosina suscitava la sorpresa e la curiosità e gli procurò subito delle grandi risorse, tanto la sua carità era comunicativa. « La sua voce commovente, dotata dal Signore di una virtù speciale, arrivava al cuore di tutti » (De Castro). Alcuni davano denaro, altri il pane, la carne, o i legumi. Quando era carico di provviste rientrava, preparava i pasti, aiutato all’ini­zio soltanto dai più validi tra i suoi assistiti; poi distri­buiva a ciascuno il necessario, chiedendo a tutti di pregare per i loro benefattori.

L’opera di Giovanni non tardò a farsi conoscere, i poveri si presentavano da sé. Egli avrebbe desiderato non rifiutarne alcuno, ma, oltre al fatto che la casa non poteva ospitare più di un certo numero, alcuni poveri viziosi abusarono dei suoi benefici. Si udirono dei reclami. D’altra parte, delle persone prudenti non vedevano senza timore la presenza di donne e ragazze povere ospitate anch’esse da Giovanni. Sorsero delle critiche e delle lamentele, tanto che il Padre Portillo credette di dover porre delle riserve riguardo all’ac­cettazione dei soggetti scandalosi e delle donne. Da parte sua, Giovanni si allarmava per una severità ritenuta eccessiva e contraria al precetto divino della carità. Nella sua perplessità, ricorse ai consigli del Padre d’Avila, esponendogli in una lettera, in tutta semplicità, le proprie difficoltà ed i propri dubbi.

Fratello mio, gli rispose il maestro d’Avila, mi avete dato una grande consolazione eseguendo esatta­mente ciò che avevamo deciso insieme riguardo all’ob­bedienza che dovete al Padre Portillo circa la direzio­ne dei poveri. Se agite sempre cosi vi troveremo, tutti e due, un grande conforto. Al contrario, temo molto che il diavolo vi inganni, se vi comportate secondo le vostre proprie idee. In fatti, quando egli non può otte­nere che qualcuno faccia il male, si sforza di fargli fare il bene in modo disordinato; ora, senza ordine, nulla può sussistere… Così, fratello mio, abbiate cura di sotto-mettervi al parere altrui, ed il diavolo non vi inganne­rà… Passando ai consigli pratici, ecco ciò che aggiunge il Padre d’Avila: State attento che le donne che vi sforzate di attirare al servizio di Dio non vi causino dei grandi imbarazzi e delle gravi spese. Sarebbe me­glio non tenerle, ma maritarle appena possibile, o met­terle al servizio di qualche dama, altrimenti rischiereb­bero di perdersi. Non accettate pia nel vostro ospedale soggetti litigiosi, lo diffamerebbero; benché vi sembri che sia una mancanza contro la carità scacciare qual­cuno per questa ragione. Infatti, spesso il timore di far torto a qualcuno è la causa della perdita di molti. Quando una parte del corpo è in cancrena la si asporta per salvare il resto del corpo. E sarebbe crudeltà, non compassione, agire diversamente… Se voleste compor­tarvi seguendo il vostro parere, cadreste nell’errore e Dio vi punirebbe. Dio non vi ha chiamato per diri­gere, ma per essere diretto; non potete servirlo che obbedendo. E in questo caso, non avete nulla da temere, poiché Dio non vi chiederà conto di ciò che avrete fatto dietro consiglio altrui. Il maestro termina con questo augurio: Se dunque mi amate e volete obbedirmi, obbe­dite al Padre Portillo, che vi do per Padre in vece mia. Ascoltate tutto ciò che vi dirà, come se ve lo dicessi io stesso… finché Dio voglia che ci rivediamo.

Una risposta cosi piena dello spirito di Dio e così ricca di esperienza portò i suoi frutti. Giovanni rin­graziò Dio di avergli dato un tale maestro. Egli capì meglio il modo di vedere del Padre Portillo e si ripro­mise di essergli sempre più docile; in particolare, mo­strò una maggiore fermezza nei confronti dei perturba­tori e si contentò di soccorrere i poveri ed i malati che l’ospizio poteva ospitare. In breve, la sua carità, sem­pre molto attiva, divenne più prudente e sottomessa. Assiduo nel lavoro, aveva tuttavia il volto abitualmen­te allegro e la sua conversazione era tanto dolce quanto seria. I benefattori che visitavano la casa la trovavano in tanto buon ordine ed i poveri vi erano cosf ben curati, che essi si meravigliavano di un simile risultato otte­nuto da un uomo solo.

Tra i suoi primi protettori vi fu don Sebastiano Ramirez de Fuenleal, vescovo di Tuy e presidente della cancelleria di Granata dal 1538 al 1540. Quest’uomo di grande virtù apprezzava molto la dedizione ed il savoir-faire di Giovanni. Gli offrì generose elemosine e lo invito più volte alla sua tavola. Sebbene gli avesse dato anche degli abiti convenevoli, Giovanni, che li scambiava subito – secondo l’abitudine – con quelli del primo povero incontrato, si presentava da don Rami­rez in stracci. Il prelato non osava rimproverargli la grande carità, ma pensava tuttavia che il suo abito troppo dimesso potesse essere un ostacolo per l’adem­pimento dell’opera a cui Dio lo destinava. Servendosi della propria autorità e della fiducia ispiratagli, don Se­bastiano riusci a convincerlo ad abbandonare per sempre gli abiti cenciosi. Li sostitui con una tunica, dei calzoni di tela ed un cappotto di sargia color cenere, abito che, senza essere religioso, lo avrebbe distinto dal resto degli uomini. Parimenti, sapendo che si chia­mava Giovanni, il prelato gli disse che d’ora innanzi si sarebbe chiamato « Giovanni di Dio ». – « Oh si, rispose lui, se piace a Dio! ».

Questa specie di presa di abito, della quale non si può con esattezza fissare l’epoca, ebbe tuttavia luogo prima del 28 gennaio 1540, data della promozione di don Sebastiano Ramirez alla sede arcivescovile di Leon.

Né il prelato, né il servo dei poveri avevano inten­zione di istituire una nuova congregazione religiosa; così, don Ramirez non impose delle regole per coloro che volevano inserirsi nel servizio dell’ospedale. Da parte sua, Giovanni di Dio non lasciò altro fondamento alla sua opera che l’esempio della propria carità e pe­nitenza. Tuttavia, non appena videro Giovanni di Dio rivestito del nuovo abito, molte persone caritatevoli, senza abbandonare il proprio stato, vennero nei mo­menti liberi ad aiutarlo nelle cure mediche; altre si occupavano dei vestiti e della biancheria, mentre i po­veri più validi lo aiutavano nei lavori domestici. In realtà, in base agli studi cronologici del Padre Saucedo, fu solo verso la fine del 1545 che Giovanni di Dio attirò con il proprio esempio i suoi primi due discepoli permanenti.

Il lavoro abituale compiuto da Giovanni di Dio per raccogliere le elemosine, mantenere la casa e curare i poveri, costituiva una penitenza ed una mortificazione appena tollerabili, con le sole forze naturali, da un uomo robusto. Nondimeno, secondo de Castro, non si contentava di tutto quel lavoro faticoso ma, con numerosi atti di austerità, mortificava la propria carne. Mangiando poco e di una sola pietanza, egli consumava dei cibi grossolani. I giorni di precetto osservava il di­giuno prendendo un magro cibo a mezzogiorno e pri­vandosi dello spuntino la sera. I venerdf stava a pane ed acqua e si dava tremende discipline…

Coperto con un pezzo di vecchia coperta, dor­miva su una stuoia poggiata per terra con una pietra per cuscino o, altre volte, nella carretta di un paralitico deceduto, messa in uno stretto bugigattolo sotto una scala. Camminava scalzo e a capo scoperto con ogni tempo. Tuttavia, ave­va pietà delle più lievi sofferenze del suo pros­simo, come se vivesse egli stesso con grande larghezza di mezzi.

 

VIII. SVILUPPO DELL’OSPEDALE

All’inizio, la casa di carità impiantata nel dicem­bre 1539 in via Lucena, di fronte al mercato del pesce, si presentava piuttosto come un asilo notturno o un pic­colo ospizio. Giovanni di Dio, badando a ciò che gli sembrava più urgente, assicurava un ricovero ai poveri, validi o infermi leggeri, venuti da sé o raccolti nei pressi della piazza di Bibarrambla. Nella primavera suc­cessiva, un buon numero di essi si sparpagliò nelle cam­pagne granatesi; Giovanni di Dio ne approfittò per sostituire progressivamente le stuoie con dei veri letti con materassi, lenzuola e coperte, nelle stanze del pri­mo piano. Egli poté così, come negli altri due ospedali della città, ospitare i malati e gli invalidi che giacevano abbandonati sulle piazze e lungo le strade. Li portava per mano o appoggiati al suo braccio, e non esitava a prendere i più deboli sulle spalle.

A tal proposito de Castro riporta un aneddoto che possiamo cosi riassumere: una sera d’inverno, buia e tempestosa, Giovanni di Dio rientrava sul tardi al­l’ospedale, avendo in mano un cesto pieno di viveri e sulla schiena un povero trovato gemebondo sulla « Plaza Nueva ». Saliva con fatica il pendio di « los Gomeles ». All’improvviso si abbatte un acquazzone spaventoso, il rivolo si trasforma in un torrente impe­tuoso ed atterra Giovanni di Dio con il suo carico. Al rumore della caduta in acqua e alle grida del povero, un avvocato si affaccia alla finestra del suo pian ter­reno. Egli vede e sente Giovanni di Dio mentre si picchia col bastone e si castiga: Cosi, signor asino, stupido, fiacco, pigro, inetto, non hai forse mangiato oggi? Allora perché non lavori? I poveri ti attendono e questo moribondo, in che stato l’hai messo? A queste parole egli si rialza e, con un vivo sforzo, si ricarica il malato, afferra il cesto e, con l’aiuto del bastone e l’acqua a mezza gamba, si trascina fino all’ospedale do­ve giunse sfinito. Il giorno dopo l’avvocato, testimone e relatore dell’accaduto, interrogò Giovanni di Dio sulla caduta; costui rispose come se non si ricordasse di nulla.

Agiva sempre così per evitare la sufficienza.

Altri malati venivano da soli o introdotti da persone caritatevoli che si occupavano di loro.

Il primo pensiero di Giovanni di Dio, nel rice­verli, era di lavare loro i piedi e persino tutto il corpo all’occorrenza.

Poi dava loro della biancheria pulita e li metteva a letto, mettendo in una stanza i febbricitanti, i feriti nella seconda, gli invalidi nella terza. La grande sala del pian terreno rimaneva sempre a disposizione dei viandanti e dei poveri ambulanti.

Ogni giorno, su invito di Giovanni di Dio, alcuni medici visitavano i malati gratuitamente. Per l’assisten­za spirituale, alla quale rivolgeva un’attenzione par­ticolare, Giovanni aveva fatto ricorso a degli zelanti sacerdoti. Egli intendeva curare le anime mentre cura­va i corpi. E quando curava i corpi, era anche per salvare le anime. Attraverso i corpi, alle anime!, ripe­teva spesso.

Restava da distribuire le medicine ai malati e da medicare le piaghe dei feriti; Giovanni di Dio se ne incaricava per una buona parte; ma è credibile che, fino all’arrivo dei compagni di vita, egli facesse ricorso per un aiuto non soltanto a delle persone di buona volontà, ma anche ad ausiliari retribuiti. In tal modo, i compiti di Giovanni di Dio non cessavano di aumen­tare. Le solite questue di porta in porta non potevano più bastare. Fu allora che egli si preoccupò di ottenere dei soccorsi più importanti, necessari per il buon an­damento della casa di carità, rivolgendosi alle persone ragguardevoli di Granata, che lo avevano finalmente notato e capito, tanto apparivano evidenti la sua perse­veranza, l’ordine delle sue imprese ed i loro costanti progressi. Fece, inoltre, appello a dei nobili ricchi del­l’Andalusia e delle province circostanti, quasi tutti figli spirituali del maestro d’Avila, in occasione dei loro pas­saggi o soggiorni a Granata.

Fu così, particolarmente, che approfittò della pre­ senza in città del marchese di Tarifa, don Pedro Enri­quez, per chiedergli l’elemosina. Quando Giovanni di Dio si presentò alla sua residenza, il     marchese stava giocando con degli altri si­gnori, e gli consegnarono venticinque ducati.

Per il questuante era veramente un guadagno ina­spettato e, nel ringraziare Dio, pensava a come avreb­be potuto impiegare questa forte somma. Ora, continua de Castro, mentre Giovanni di Dio camminava con questi pensieri, il marchese di Tarifa, che aveva sentito parlare tanto della sua grande carità, volle – per scher­zo – metterlo alla prova. Dopo essersi rapida­mente travestito, con passo rapido raggiunse Gio­vanni e, fermandoglisi dinanzi, gridò: Fratello Giovanni, io sono un cavaliere di alto grado, straniero e povero, qui in causa; provo immense difficoltà a mantenere il mio onore. In formato della vostra carità, vi prego di aiutarmi, affinché non offenda Dio. Avendo considerato il suo atteggiamento, Giovanni gli rispose: Io mi do a Dio, tutto ciò che ho è vostro. E portando la mano alla borsa, consegna, senza esitazione, i venticinque ducati in questione. Il marchese li prende, ringrazia e, tutto meravigliato, va a rag­giungere gli altri signori per raccontare loro il fatto. E tutti, ammirando una simile carità, cele­brarono l’avvenimento come meritava. Allorché c’erano tanti poveri da soccorrere, egli si mostra­va così prodigo verso uno solo! Che fiducia nella Provvidenza! Questa fiducia non fu delusa. Il marchese, infatti commosso da tale prodigio, mandò a dire a Giovanni, il mattino seguente, di non assentarsi poiché voleva recarsi a visitare l’ospedale.

Appena giunto, il marchese comincia a scher­zare con il sant’uomo e a dirgli: Eh dunque, fratello Giovanni! mi hanno detto che vi hanno derubato ieri sera. – Io mi do a Dio, ma no! Non mi hanno derubato! Poi, dopo uno scambio di parole amabili e divertenti, il marchese ripren­de: Ora, fratello mio, perché non possiate negare il furto, Dio mi ha permesso di ritrovare la som­ma derubata: eccoli, i vostri venticinque ducati e, inoltre, centocin quanta scudi d’oro che vi do come elemosina. Un’altra volta, state attento a ciò che fate! Infine, ordinò di portargli cen­tocinquanta pani, quattro montoni e otto polla­stri e di fornirgli ogni giorno lo stesso quanti­tativo, per tutto il tempo che sarebbe rimasto a Granata.

Talvolta, le sue migliori collette avvenivano in mo­do sorprendente. Un giorno, di buon’ora, racconta in sostanza de Castro, allo scopo di cercare da mangiare per i suoi poveri, Giovanni scendeva lungo la strada de « los Gomeles », mentre un cavaliere la risaliva. Senza volere, il questuante urta col suo cesto la cappa del cavaliere e gliela fa cadere dalle spalle. Questi, molto irritato, si volta e grida: Ah! Furfante, briccone! Non potreste guardare dove camminate? – Scusatemi, fratello mio, rispose Giovanni con molta pazienza, non sono stato attento. Il marchese, nel sentire quel « voi », quel « fratello », diventò ancora più furioso e, voltandosi, gli dà uno schiaffo sul viso. – Ho sbagliato, l’ho ben meritato, datemene un altro!, replica Giovan­ni. Ma siccome gli parla ancora in seconda persona, il cavaliere grida ai suoi domestici: Correggete questo vil­lano maleducato! Essi eseguivano l’ordine davanti alle persone che si raggruppavano, quando uscì un vici­no, Giovanni della Torre. Cosa accade, fratello Gio­vanni di Dio?, egli grida. A questo appello l’aggressore, prostrato, si getta ai piedi della sua vittima ed afferma che non si rialzerà prima di averglieli baciati. Giovan­ni di Dio si affretta a rialzarlo e, tutto commosso, si abbracciano l’un l’altro. In compenso, il questuante ri­cevette cinquanta ducati d’oro per i suoi poveri.

In un’altra circostanza, sempre secondo de Ca­stro, Giovanni di Dio andava al palazzo della vecchia Inquisizione per chiedere l’elemosina; ora, mentre cam­minava lungo una vasca piena d’acqua, un arzillo pag­gio gli si avvicinò e’ con un colpo secco, lo fece cadere nell’acqua. Senza il minimo lamento usci dall’acqua e, tutto allegro, ringraziò il giovane bricconcello. Numero­si in quel momento, i testimoni che, pieni di ammirazio­ne, gli distribuirono grandi offerte e furono poi anno­verati fra i benefattori della sua opera.

Cosi trascorsero gli anni in cui Giovanni non ave­va ancora dei compagni che lo seguissero. Nel frat­tempo, oppresso com’era dai lavori e dai pensieri, attra­versò un periodo di difficoltà non solo di carattere mate­riale, ma anche morale, e si decise a consultare il mae­stro d’Avila.

Ho ricevuto la vostra lettera, gli risponde il suo direttore, e non desidero che mi diciate di non meritare che vi riconosca come figlio, perché siete cattivo, poiché per la stessa ragione io non meriterei d’essere vostro Padre, in quanto sono pia cattivo di voi e quindi pia degno d’essere disprezzato. Pure, il Signore ci tiene per suoi, benché siamo tanto deboli; ecco perché dob­biamo imparare ad essere misericordiosi gli uni verso gli altri ed a sopportarci con carità, come egli fa con noi. Fratello mio, ci tengo molto: rendete un conto esatto a Nostro Signore di tutto ciò che vi ha dato, poiché il servo buono e leale deve guadagnare cinque talenti con gli altri cinque che gli sono stati consegnati… Fate ciò che vi ordineranno, senza dimenticare voi stesso. Vi servirebbe poco l’aver tratto tutti gli altri dal fango, se ci rimaneste voi stesso. E’ per questo che vi esorto di nuovo a riservarvi un po’ di tempo per pre­gare il Signore, per ascoltare tutti i giorni la messa e, la domenica, la predica; in ogni caso astenetevi dal trat­tare molto con le donne: sapete bene che esse servono al diavolo come trappola per far cadere i servi di Dio. Voi sapete come David peccò per averne guardata una. Suo figlio Salomone peccò per amore di molte e perse talmente il buon senso che collocò degli idoli nel tem­pio del Signore. E poiché noi siamo molto pia deboli di loro, guardiamoci dal cadere. Profittiamo della lezio­ne. Non dobbiamo ingannarci, dicendo che desideria­mo loro essere utili, poiché, sotto i buoni desideri, si trovano i pericoli quando manchiamo di prudenza, e Dio non vuole che io procuri il bene altrui a spese della mia anima.

A proposito delle necessità di cui mi parlate, ve l’ho già scritto: ce ne sono ovunque, e quando ci mettiamo a chiedere ci viene risposto: « E’ già un grave compito provvedere alle necessità del vicinato ».

Pensavo che il duca di Sesa vi avesse mandato un regalo, giacché dicevano che l’avevate pregato. Se non vi ha mandato niente, chiedeteglielo nuovamente e ve lo mander& giacché vi ama molto a causa della vostra dedizione ai poveri… Mi rallegro della carità che avete trovato nella casa di cui mi parlate… Abbiate sempre una ferma fiducia in Gesa Cristo, affinché Egli vi col­mi delle sue grazie, e vigilate per non concedere al de­monio la gioia di farvi cadere nel peccato e che Dio, vedendo la vostra penitenza per il passato ed il desi­derio di comportarvi sempre meglio per il futuro, vi conduca per mezzo del suo Spirito Santo! Amen.

Questa lettera è stimolante sotto molti aspetti; ma non si può far a meno di constatare la sua fermezza ed insistenza. A giudizio del’ maestro d’Avila, Giovanni di Dio, nonostante tutte le sue virtù, aveva indubbia­mente bisogno di queste rigorose raccomandazioni. Qua­le lezione per noi, che non possediamo né la viva cari­tà di Giovanni di Dio, né il suo coraggio, né la sua generosità.

 

IX.        I PRIMI COMPAGNI DI GIOVANNI DI DIO

Verso la fine del 1545, Giovanni di Dio annoverava tra i benefattori della sua opera un certo Antonio Martin. Nato il 25 marzo 1500 a Mira, presso Cuenca, nella Nuova Castiglia, da coltivatori agiati, Antonio ed il suo giovane fratello Pedro ricevettero un’educazione cristiana. Ma la madre, rimasta vedova ancor giovane, li allevò con una indulgenza e una debolezza eccessive, poi si risposò. Ciò non piacque ai giovani che, chiesta la loro parte di eredità, abbandonarono la casa paterna. Antonio, dallo spirito altero e audace, divenne guarda­coste, poi doganiere a Valenza. Suo fratello Pedro, più equilibrato ma anche più ostinato, si mise al servizio di ricchi proprietari a Guadafortuna, nella provincia di Granata. Col suo savoir-faire si guadagnò la stima dei padroni che, nel giro di alcuni anni, ritennero di col­mario di favori proponendogli la loro figlia in matri­monio. Ora, con loro profonda delusione, egli, che nutriva altri progetti, rifiutò l’offerta con disprezzo. Tale comportamento, in quel paese e a quell’epoca, era reputato come un affronto che doveva essere lavato con il sangue. L’unico figlio della famiglia, Pietro Velasco, incaricato di salvare l’onore, assassinò freddamente Pedro Martin.

Messo al corrente dell’accaduto, Antonio Martin, pieno di collera ed assetato di vendetta, si dimette dall’incarico di doganiere e, con i suoi risparmi, acquista senza scrupoli la gerenza di una casa di prostituzione a Granata, allo scopo di perseguire più facilmente l’omicida. Ottiene dapprima la sua incarcerazione, poi raddoppia gli sforzi per strappare al giudice la con­danna a morte di Pietro Velasco. Il fatto faceva scal­pore a Granata. Giovanni di Dio seguiva con dolore le peripezie del processo, tanto più che Antonio Martin continuava a mostrarsi generoso verso i poveri. Una sola via d’uscita a questo dramma, egli si diceva: la conversione di questo battezzato. Egli si ripromette di pagarne il prezzo. Ogni volta che sollecitava un dono da Antonio, non mancava di aggiungere, con insistenza, che era per amor di Dio e che in cambio avrebbe pregato e fatto pregare i suoi poveri per il loro benefattore. Antonio Martin accettava volentieri; Giovan­ni ne concludeva con ragione che le sue elemosine costituivano degli atti di misericordia aventi il valore di preghiere. Accompagnate da quelle dei poveri avreb­bero ottenuto dal Signore delle grazie di conversione.

Con fiducia quindi Giovanni di Dio, dopo aver tra­scorso una parte della notte in suppliche, unite a cruente flagellazioni, se ne va il mattino seguente alla ricerca di Antonio Martin. Lo trova in via Colcha. Im­mantinente si getta in ginocchio ai. suoi piedi e, tiran­do dalla veste il crocefisso che portava sempre con sé: Ecco, fratello Antonio, gli dice, Colui che vi perdonerà, se voi perdonate; ma se voi vendicate il sangue di vostro fratello su colui che lo ha versato, il Signore ven­dicherà su voi il proprio sangue che versate ogni giorno con i vostri peccati. Penetrato da una grazia straordina­ria, mentre ascoltava il patetico appello di Giovanni di Dio, Antonio Martin cade a sua volta in ginocchio e grida: Fratello Giovanni, non soltanto io perdono, ma per amor di Dio mi do a voi ed ai vostri poveri.

Rimaneva da passare ai fatti. Senza indugiare An­tonio Martin, accompagnato da Giovanni di Dio, si reca alla prigione dove era detenuto Pietro Velasco e, non appena si trova in, sua presenza, gli si butta al collo, lo assicura del suo perdono e i due mortali nemici si abbracciano benedicendo la bontà del Signo­re. Poi, volgendosi verso Giovanni di Dio, si impegnano tutti e due a servire i poveri in sua compagnia per amore di Gesù Cristo.

Il cancelliere, chiamato appositamente, prende nota della riconciliazione e il giorno dopo il tribunale resti­tui la libertà a Pietro Velasco che, dalla prigione, passò subito alla casa di carità di via Lucena. Giovanni di Dio si affrettò a far confezionare un abito simile al suo per i suoi nuovi compagni e, fin dal giorno dopo, li condusse con sé a raccogliere i doni in natura e le elemosine per i poveri.

La consacrazione di questi due uomini a Dio ed al servizio dei poveri fu totale e definitiva. Antonio Mar­tin successe a Giovanni di Dio, fondò a Madrid l’ospe­dale di « Nostra Signora dell’amore di Dio » e morì venerato da tutti in quella città, all’età di cinquantatré anni. Da parte sua; Pietro Velasco morì santamente, dopo ventidue anni di vita ospedaliera.

Giovanni di Dio ricevette inoltre tra i suoi compa­gni: Simone d’Avila, un borghese di Granata per molto tempo suo detrattore, e Domenico Piola, un banchiere avaro, entrambi suoi convertiti. Infine Juan Garcia, un uomo serio e senza storia, offrì spontanea­mente i propri servigi all’ospedale. Tutti rimasero fer­venti e fedeli.

Si presentarono altri postulanti? E’ possibile; ma Giovanni di Dio poneva delle condizioni severe per l’ammissione dei nuovi compagni. Ne abbiamo, quale prova, una lettera indirizzata a Luigi Battista, un gio­vane che aveva una qualche intenzione di andare a vivere con lui nell’ospedale. Eccola nelle sue parti es­senziali.

In nome di Nostro Signore Gesu Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima e sopra ogni cosa che è al mondo! Dio vi guardi, fratel­lo mio in Gesù Cristo e figlio amatissimo, Luigi Batti­sta. Ho ricevuto la vostra lettera inviata da Jaen; essa mi ha procurato una grande gioia… Tuttavia, i vostri mal di denti mi hanno molto afflitto, poiché ogni vo­stro dolore mi rattrista ed il vostro benessere, al con­trario, mi rallegra… Cosa rispondervi in questa lettera scritta alla sprovvista?… Non lo so. Tale è la mia fretta che non ho quasi il tempo di pregare Dio di illuminarmi su questa questione. Sarebbe necessario raccomandarla molto a Nostro Signore Gesù Cristo… Nel vedervi spesso tanto debole, in particolare per ciò che riguarda la castità, non so cosa dirvi… Se fossi sicuro che la vostra presenza in questa casa gioverebbe alla vostra anima ed al bene del prossimo, vi ordinerei di venire subito; ma temo che sia altrimenti. Sareb­be meglio per voi trascorrere ancora un po’ di tempo nella prova, finché siate ben disposto, avvezzo a sof­frire ed a fare del bene, nonostante le contrarietà dei giorni più cattivi… Voi errate qua e là come una barca senza remi; spesso, da parte mia, sono soggetto al dub­bio, come un uomo senza giudizio. Siamo quindi in due a non sapere che fare, ma Dio, che conosce ogni cosa, può venire in nostro aiuto. Che ci faccia la grazia di illuminarci tutti e due! Voi mi sembrate essere anco­ra come la pietra che rotola. Sarebbe bene, invece, che iniziaste a mortificare la vostra carne, a sopportare le miserie della vita: fame, sete, disonori, obbrobri, di­spiaceri, pene, noie, il tutto per Dio poiché se veniste qui dovreste sopportare tutto ciò per suo amore.

Per tutto ciò che vi accade, in bene o in male, dovete rendere grazie a Dio. Ricordatevi di Nostro Si­gnore Gesù Cristo e della sua santa Passione. Egli ha reso il bene per il male… Venendo qui, dovreste obbe­dire e lavorare molto più di quanto abbiate fatto; dedicarvi tutto alle cose di Dio, prodigarvi senza sosta per il servizio dei poveri… Deciso a venire qui, dovre­ste lavorare con profitto per Dio e, per ciò, spendere bene la vostra « pelle » e le vostre forze. Rammentate san Bartolomeo: scorticato vivo, portò la sua pelle stille spalle. Non venite dunque qui con l’intenzione di con­durre una vita tranquilla, ma per lavorare: i lavori più penosi sono il retaggio del figliolo più amato. Venite se pensate che è qui ciò che avete di meglio da fare e se Dio ve lo ispira. Se, al contrario, vi sembra vantag­gioso vagabondare ancora per il mondo e cercare qual­che situazione in cui possiate servir Dio, fate in tutto come vi piacerà sull’esempio di coloro che vanno nelle Indie a cercar fortuna…

Ogni giorno della vostra vita, abbiate lo sguardo rivolto a Dio ed ascoltate la messa sempre per intero. Con fessatevi spesso; e se è possibile, non vi addormen­tate mai la sera nella coscienza del peccato mortale. Amate Nostro Signore Gesù Cristo sopra tutto ciò che è al mondo, poiché qualunque sia il vostro amore per lui, Egli vi ama di più. Abbiate sempre la carità: dove non c’è carità non c’è Dio, benché egli sia in ogni luo­go… Non ho più nulla da dirvi, tranne che augurarvi che Dio vi guardi, vi salvi e vi ponga come tutti, sulla via del suo santo servizio. Termino, ma non cesso di pregare per voi e per tutti gli uomini. Il rosario, posso affermarvelo, mi ha sempre fatto un gran bene. Spero che Dio mi accorderà la grazia di recitarlo più spesso che potrò e ch’Egli desidera.

Fratello Giovanni di Dio, il più piccolo di tutti, pronto a morire se Dio lo vuole, ma che attende in si­lenzio, spera in Dio e desidera servire Nostro Signore Gesù Cristo, di cui è lo schiavo. Amen Gesù! Uno schiavo meno bravo degli altri uomini, sono molte volte furfante e traditore. Me ne pento indubbiamente mol­to, ma dovrei pentirmene di più. Che Dio abbia la bontà di perdonarmi e di salvare tutti!

Si vede da questa lettera che, pur lasciando quel­l’indeciso perfettamente libero della sua scelta, Giovan­ni di Dio, alternativamente affettuoso e leggermente ironico, si sforza tramite consigli pieni di saggezza di istradarlo sulla retta via e lo ragguaglia in modo chiaro sui suoi compiti presenti e persino futuri, nel caso succedesse di raggiungerlo; e qui, in verità, le esigenze sono molto pesanti! Contemporaneamente, leggendolo, ci si può render conto delle sue solide virtù e del suo co­stante pensiero di salvezza di tutti gli uomini. Fatto curioso e che si riscontra in tutte le sue lettere: quando desidera dare un consiglio che riguardi una devozio­ne utile ma non obbligatoria, preferisce darlo in modo indiretto. come qui: Il rosario mi ha fatto un gran bene…

Con l’arrivo di nuovi compagni, la casa di carità di via Lucena prosperò sempre più; le elemosine au­mentarono e permisero di procurarsi tutti i mobili e le comodità desiderabili. Disgraziatamente, l’inverno del 1545-1546 danneggiò gravemente il tetto e l’edi­ficio dell’ospedale. Ne abbiamo un’eco nella lettera scritta da Giovanni di Dio alla duchessa di Sesa, ver­so la fine del 1546.

Sorella mia in Gesù Cristo, le dice, ho delle grosse preoccupazioni. Occupato a rimettere a nuovo tutta la casa rovinata ed aperta alla pioggia, mi mancano i mezzi per pagare questi lavori; cosi mi sono deciso a scrivere al conte di Feria e al duca d’Arcos, a Zafra. Il maestro d’Avila si trova li attualmente; sarà per me un buon mediatore presso di loro e spero che quei signori mi invieranno dei soccorsi per liberarmi dei debiti… Questa lettera menzionava un viaggio circolare effettuato, verso la primavera dello stesso anno, nella bassa Andalusia. Così, egli scrive, virtuosa du­chessa, non appena vi ho lasciata (a Cabra) mi sono recato ad Alcaudeta a far visita a donna Francesca; da lì ho raggiunto Alcala dove, per quattro giorni, sono stato molto stanco. Mi sono anche indebitato di tre ducati per venire in aiuto di alcuni poveri molto indigenti. Tutte le persone ragguardevoli della città erano in rivolta contro il corregidor (primo magistrato); ri­messomi sono dunque partito per Granata, senza fare la questua ad Alcala. Dio sa in che miseria i poveri mi attendevano!

Sorella mia in Gesù Cristo, buona duchessa di Sesa, l’elemosina che mi avete fatto gli angeli l’hanno già registrata in cielo, nel libro della vita. L’anello è stato così ben impiegato che con il denaro ricevuto ho fatto vestire due poveri coperti di piaghe ed ho acquistato una coperta. Si, quell’elemosina è alla presenza di Dio ed intercede per voi. Quanto al camice ed ai candelie­ri, li ho posti subito sull’altare a nome vostro. Sarete quindi ricordata in tutte le messe e preghiere che qui si diranno. Nostro Signore abbia la bontà di ricom­pensarvi in cielo di tutti questi benefici!

In sostanza, se si eccettuano i doni in natura, que­sto primo viaggio gli aveva fruttato ben poco per i suoi poveri di Granata. Nella stessa lettera Giovanni di Dio fa allusione ad un viaggio più recente. L’altro giorno, di passaggio per Cordova, ho trovato, nel per­correre la città, una casa in cui regnava la più pro­fonda miseria. Vi erano qui due ragazze i cui genitori, paralitici da dieci anni e malati, dovevano stare a letto.

A vederli cosi poveri e mal curati, mi si è spezzato il cuore: mal vestiti e pieni di insetti, avevano per letto alcuni fastelli di paglia. Li ho soccorsi come ho potuto, ma non secondo il mio desiderio, poiché avevo fretta di andare a trovare il maestro d’Avila per affari. Egli mi ordinò allora di partire subito e di tornare a Gra­nata.

Nella fretta, raccomandai quegli infelici ad alcune persone; ma esse li hanno dimenticati, o non hanno voluto o potuto aiutarli. I miei protetti mi hanno scrit­to una lettera ed ho il cuore infranto per quanto mi dicono… Cosi, buona duchessa, il mio desiderio, se piace a Dio, è di vedervi approfittare di questa occa­sione per fare l’elemosina, che quelle persone hanno persa. Occorrerebbero quattro ducati: tre per quelle poverette, allo scopo di permettere loro l’acquisto di due coperte e due gonne. Un’anima, infatti, vale più di tutti i tesori del mondo; e non è necessario che quel­le ragazze pecchino per cosi poco. L’altro ducato ser­virebbe ad Angulo, il mio compagno, per il suo viag­gio di andata e ritorno a Zafra. Mi aspetto che ritorni con qualche soccorso.

L’intralcio di tutte queste pratiche, viaggi e suc­cessive domande ci svela un uomo che si prodiga sen­za misura, che ottiene molto, ma è sempre tentato di distribuire sul posto, a dei nuovi bisognosi, le somme primitivamente destinate alla casa di carità di Granata.

Si comprende meglio, allora, perché il Padre d’Avi­la, al corrente delle sue generosità incoercibili, gli ordinava di ritornare a Granata al più presto.

 

X. L’OSPEDALE DI VIA DE « LOS GOMELES »

Giovanni di Dio si dedicava da sei anni al servizio dei poveri allorché don Pedro Guerrero fu promosso alla sede arcivescovile di Granata, il 23 novembre 1546. Amico intimo del Padre Giovanni d’Avila, que­sto prelato, grande teologo ed abile controversista, si fece notare nel concilio di Trento. A Granata si mostrò pastore zelante e pio: riformò l’università della città, fece prosperare le istituzioni religiose e, dopo trenta anni di un vescovato pieno di buone opere, morì come un santo, il 2 aprile 1576.

Poco dopo la sua entrata in carica, don Pedro Guer­rero sentì parlare dell’ospedale di Giovanni di Dio e del bene che procurava alla città. Così, appena si pre­sentò un ‘occasione favorevole, vi si recò per una visita approfondita. Non si limitò a considerare lo stato ma­teriale dell’edificio e l’ordine interno del suo funzio­namento; ma volle intrattenersi a lungo con il suo fon­datore. Già informato sul suo spirito e sulla sua condotta, si rese conto da sé che si trattava di un uomo straordinario animato dallo spirito di Dio ed infiamma­to d’amore per i malati e per i poveri. Gli assicurò la sua protezione e, non contento di lodare la sua opera, gli rimise una forte elemosina per il mantenimento ed il miglioramento dell’ospedale.

La visita e l’approvazione del nuovo arcivescovo accrebbero ancora la reputazione della casa di carità di via Lucena. Vi portavano malati da ogni parte. Era un favore esservi ammessi; disgraziatamente, il nume­ro dei posti disponibili era troppo ridotto. I benefat­tori di Giovanni di Dio lo incoraggiavano a procu­rarsi un locale più ampio. Ora che un maggior nume­ro di compagni lo aiutava nei compiti ospedalieri, il progetto diventava realizzabile, ed egli si mise alla ricerca di una casa più ampia.

Ora, verso la fine del 1546, i Carmelitani lasciarono il loro convento situato ai margini di una foresta presso l’Alhambra e all’inizio de « los Gomeles » che scende verso la città, per stabilirsi nelle vicinanze del santua­rio di Nostra Signora de la Cabeza. Giovanni di Dio venne ad esaminare questo convento sconsacrato, in compagnia di Antonio Martin, e lo trovò adatto per l’uso che voleva farne; così iniziò le pratiche neces­sarie per acquistano. Secondo il Padre Saucedo, l’ac­quisto ebbe luogo nei primi giorni del 1547. Giovanni poté realizzarlo grazie al concorso dei suoi benefattori ed in particolare di don Pedro Guerrero, che gli accordò in quell’occasione la somma di 1.500 ducati.

In possesso del nuovo immobile, Giovanni di Dio vi fece effettuare le riparazioni più urgenti ed i lavori necessari per adattare i locali alla loro nuova destina­zione. Al piano terra collocò un’ampia stanza riserva­ta ai viaggiatori ed ai mendicanti, che potevano trascorrervi la notte. Essa aveva nel mezzo un focolare per riscaldarli e, tutt’intorno, dei grandi banchi dispo­sti in modo tale che vi si potessero coricare e dormire. V’erano anche delle stuoie per i meno validi. Al primo piano molte sale furono disposte, destinate ciascuna ad un genere di malati. Senza dubbio Giovanni di Dio fa allusione a questa organizzazione nella sua seconda lettera alla duchessa di Sesa: Del lavoro che ho inizia­to, non posso venire a capo, poiché occupato a rimettere a nuovo tutta la casa, ho ancora molti poveri. Grandi sono le spese che si fanno qui e bisogna provvedere a tutto senza proventi, ma Gesù Cristo vi provvede ed io, io non faccio niente. Vorrei – andare a Zafra ed a Siviglia, ma non posso prima della fine di questo lavo­ro, per paura che venga fatto male…

Disponendo presso la sua corrispondente di un depo­sito di grano ricevuto in elemosina, egli l’avvisa circa l’invio di Angulo, per vendere il grano, poiché, egli dice: ho grande bisogno di denaro per il lavoro in corso e per pagare alcuni debiti che mi cavano gli occhi. Poi, ricordandosi delle nuove elargizioni otte­nute dalla duchessa, in seguito alla sua lettera prece­dente, aggiunge: Sorella mia in Gesù Cristo, che Nostro Signore vi renda in cielo l’elemosina dei quattro duca­ti che avete rimesso ad Angulo, per quelle poverette e le spese del viaggio…

Mia amatissima sorella, buona duchessa di Sesa, inviatemi un altro anello o qualche altra cosa che io pos­sa impegnare. Il primo anello è stato cosi bene impie­gato che voi lo possedete già in cielo. Se l’umilissima governante e tutte le signore e signorine della vostra casa hanno qualche piccolo oggetto d’oro o d’argento, che me li mandino. Io mi ricorderò di loro. Buona duchessa, mi rammento spesso dei regali che mi avete fatto a Cabra e di quei buoni panini senza crosta che mi davate da distribuire. Che Dio vi accordi il cielo e vi faccia partecipe di tutti i suoi beni! Amen Gesù.

Quando i lavori di restauro e di adattamento nel nuovo ospedale di via de « los Gomeles » furono ter­minati, i malati della casa di carità di via Lucena vi furono condotti o trasportati. Molti testimoni al proces­so di beatificazione di Giovanni di Dio, specialmente Alonso Lopez Pocasangre, falegname ottantenne, at­testarono che Giovanni di Dio, Antonio Martin e Pie­tro Velasco vi trasportarono sulle spalle i poveri malati invalidi, fino ai letti preparati in precedenza. Vi tra­sportarono anche, allo stesso modo, i letti, i materassi, i mobili, gli utensili e gli efletti.

Essendo aumentato il numero dei posti, arrivò un maggior numero di malati e di poveri. Cosi Giovanni di Dio può scrivere alla duchessa di Sesa: Più pesanti da un giorno all’altro sono i miei debiti e più numero­si i miei poveri, dei quali molti si presentano mal vesti­ti, mal calzati, coperti di piaghe e di pidocchi. Ho bisogno di uno o due uomini, soltanto per scottare questi insetti in un catino d’acqua bollente. E questo lavoro durerà tutto l’inverno, fino al mese di maggio. Voi lo vedete, sorella mia in Gesù Cristo, le mie diffi­coltà aumentano ogni giorno e sempre più.

Ecco come Giovanni di Dio descrive il suo nuovo ospedale in una lettera indirizzata, un po’ più tardi, a Gutierre Lasso de la Vega:

La città è grande e, siccome fa molto freddo in questi periodi invernali, i poveri affluiscono in questa casa di Dio. Tra malati, sani, persone di servizio e viaggiatori, vi sono più di centodieci persone. E’ un ospedale generale; cosi, vi si riceve di solito ogni spe­cie di malati e di persone. Vi sono paralitici, monchi, eczematosi, muti, alienati, tignosi, vecchi e molti bam­bini, senza parlare dei molti viaggiatori e passanti che qui si fermano ed ai quali si dà il fuoco, l’acqua, il sale e gli ùtensili necessari per preparare il cibo. E per tutto questo non vi sono entrate, ma Gesù Cristo prov­vede a tutto. Ogni giorno occorrono quattro ducati e mezzo e talvolta cinque, per fornire la casa di pane, carne, pollame e legna, senza contare le spese extra per medicine ed abiti. Quando le elemosine non sono suffi­cienti per provvedere a tutte queste necessità, io pren­do a credito. Talvolta, ci capita anche di digiunare.

Ecco come mi trovo qui indebitato e prigioniero per Gesù Cristo solo. Devo più di duecento ducati per camicie, mantelli, scarpe, lenzuola, coperte e molte altre cose necessarie in questa casa di Dio, e per il cibo dei bambini che vi vengono abbandonati.

Così, mio carissimo ed amatissimo fratello in Gesù Cristo, al pensiero dei miei pesantissimi debiti, mi capta spesso di non osare di uscire dalla casa. Ed alla vista delle sofferenze di tanti poveri, miei fratelli e miei simi­li, ai cosi grandi bisogni corporali e spirituali, mi sento tanto triste di non poterli soccorrere. Però ripon­go la mia fiducia in Gesù Cristo soltanto; egli mi libererà dai debiti, poiché conosce il mio cuore… Cono­sco il vostro grande amore per Nostro Signore e la vostra pietà per i suoi figli poveri, il che mi spinge ad esporvi i loro ed i miei bisogni…

E dopo alcune considerazioni personali di caratte­re religioso, espone in questi termini il servizio che attende da don Gutierre Lasso:

Fratello mio in Gesù Cristo, io mando per portar­vi questa lettera questo giovane messaggero. Ecco il perché: un giovane nativo di Malaga è deceduto in questo ospedale e gli ha lasciato in eredità alcuni beni, presi da un’eredità consistente in vigneti ed in rendite… Desidero che questi beni vengano venduti, poiché ho bisogno di denaro ed il reddito annuo è minimo. Per amore di Nostro Signore, se conoscete qualcuno che voglia acquistarli, vendeteli subito, a patto che nes­suno vi perda, né l’acquirente né i poveri, e che tutto avvenga rapidamente. Il latore della presente se ne tornerebbe subito con il denaro. E’ un uomo che gode della mia fiducia. Egli ha con sé la mia procura ed i documenti riportati da quel paese… Per amore di nostro Signore, vi raccomando quest’affare.

Con il denaro chc esso renderà, dobbiamo acqui­stare degli abiti per i poveri, che pregheranno Dio per l’anima del loro bene fattore. Dovrò, inoltre, pagare la carne e l’olio; i fornitori non intendono più farmi cre­dito, poiché devo loro molto. Io li faccio pazientare dicendo che quanto prima mi porteranno un po’ di denaro da Malaga… Scusatemi se vi causo tante fatiche; esse, un giorno, saranno la vostra gloria in cielo.

 

XI. LE OPERE SOCIALI DI GIOVANNI DI DIO

Nostro Signore aveva dotato il suo servo di un’abbondante ed intensa carità, da cui scaturi­vano delle opere meravigliose, tanto che alcuni spiriti superficiali lo consideravano come un prodigo ed un dissipatore. Essi non capivano che Il Signore l’aveva introdotto nella cella del vino. Qui, lo aveva colmato di carità e l’ave­va inebriato del suo amore tanto da non poter rifiutare nulla à chi gli chiedeva in nome di questo amore, ritenendosi come debitore di ben altro.

Così viveva nella tensione, propria dei santi, di donarsi in mille modi, per amore di Colui che si era mostrato tanto magnanimQ e largo nei suoi confronti. Gli esseri spirituali sono cosi’ fatti: arricchiti dei beni del cielo, si ritengono tanto fortunati e ricchi che, se­condo loro, sono sempre obbligati a dare a tutti, illu­strando cosf il detto della Scrittura: V’è più gioia nel dare che nel ricevere (Atti, ’20, 35).

Dopo aver accordato alcune ore al sonno, Giovan­ni di Dio iniziava la sua giornata con la preghiera e l’assistenza alla prima messa del mattino.

 

Poi, allo spuntar del giorno, da un angolo dal quale tutti quelli dell’ospedale potessero sentir­lo, gridava: Fratelli miei, rendiamo grazie a Nostro Signore! Anche gli uccellini lo fanno, e recitava le quattro preghiere prescritte da no­stra Santa Madre Chiesa (il Credo, il Pater, l’Ave Maria e la Salve Regina). Subito dopo, il cappellano si avvicinava ad una finestra, in modo che tutti potessero udirlo, ed esponeva i principi della dottrina cristiana, poi poneva del­le domande. Vi rispondeva chi poteva. Nella sala comune del piano terra, un altro sacerdote faceva la stessa cosa, rivolgendosi ai viandanti. Giovanni di Dio veniva poi a salutarli, prima della loro partenza. A coloro che erano inai vestiti, egli distribuiva degli abiti. Alle persone giovani, in buona salute, egli diceva: Corag­gio, fratelli miei! Andiamo a servire i poveri di Gesù Cristo! Con loro si recava nella vicina foresta, lungo il Darro, a raccogliere della legna; e ciascuno ritornava con un fascio per i poveri. Per molto tempo egli ebbe cosi’ dei giovani che, con entusiasmo e buona volontà, portavano ogni giorno della legna.

Ritornando dalla foresta, Giovanni trovava molte persone ad attenderlo. Seduto in mezzo a loro, ascol­tava ognuno con pazienza mentre esponevano le pro­prie necessità e non mandava via nessuno senza averlo confortato con un dono o una parola. Egli faceva l’ele­mosina a chiunque lo implorasse in nome di Gesù Cri­sto. Talvolta, alcuni gli dicevano: Fate attenzione, co­stui chiede senza necessità. – Egli non m’inganna, ri­spondeva, la cosa riguarda lui; io gli do per amor di Dio.

Tutti i poveri e i bisognosi venivano da lui, ed egli li soccorreva tutti: vedove, orfani, liti­ganti, soldati licenziati, poveri contadini. Nes­suno veniva a lui senza che il Signore gli ac­cordasse poco o molto, per rimediare a quella nuova necessità. Quando non gli rimaneva più nulla, scriveva dei biglietti di raccomandazione ai benefattori dei quali conosceva la generosità.

Non contento di essere il buon Samaritano per co­loro che gli si presentavano spontaneamente, Giovanni di Dio cercava i poveri nascosti e ritrosi, le ragazze poste negli orfanotrofi, le donne sposate che soffrivano in segreto, le religiose e le « beate » povere e, con molta attenzione e carità, procurava loro il necessario.

In favore di queste ultime, intercedeva presso le signore ricche ed influenti. Egli stesso acqui­stava loro le derrate indispensabili, per evitar loro di uscire e permettere di conservare il rac­coglimento nella solitudine. Dopo aver dato loro il necessario, si sforzava di sottrarle all’ozio, cercando presso i negozianti, per le une della seta da lavorare, per le altre della lana, del lino, della stoffa da filare. Assicuravano cosf il loro mantenimento. Sedendosi poi un poco, le inco­raggiava al lavoro e rivolgeva loro una breve esortazione spirituale per persuaderle ad amare Dio e la virtù, adducendo in merito delle ragio ni tanto convincenti, quanto semplici, che vivo­no ancor oggi nel ricordo di coloro che le han­no sentite. Inculcava loro anche la speranza che agendo così, non soltanto avrebbero ottenuto la grazia del Signore, ma il necessario non sarebbe mancato loro mai, tanta era la fede che aveva in questo detto del Vangelo: « Cercate prima di tutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù » (Mt. 6, 33).

Beninteso, contro queste iniziative non mancarono i critici.

Alcuni di essi « urlavano » e « mormoravano »:

tutto questo è un briciolo di follia che gli è rimasto dal tempo in cui percorreva le strade come demente. Senza indugio, queste opere ca­dranno: esse non possiedono delle basi! Nello stesso tempo essi lo tenevano d’occhio, lo spiavano nelle case in cui entrava, si informavano circa le sue parole ed i suoi atti. Essi lo osser­vavano anche di nascosto. Ma considerando la sua condotta esemplare, le sue conversazioni edi­ficanti e le sue azioni lodevoli, essi rimanevano sorpresi, confusi e condannati al silenzio. Alcu­ni si dimenticavano del loro progetto, lo glori­ficavano e gli offrivano l’elemosina. Inoltre, uno di essi, Simone d’Avila, divenne ‘suo degno disce­polo, come è già stato detto.

Nella sua attività sociale, come in quella ospedalie­ra, Giovanni di Dio aveva quale scopo principale la gloria e l’onore di Nostro Signore.

Mai procurò un bene temporale a qualcuno senza fornirgli allo stesso tempo un rimedio per l’anima, servendosi – per questo – di sante e calde raccomandazioni. Egli avviava, d’altion­de, tutti sulla via della salvezza, insegnando più con l’esempio che con le parole il dovere di prendere la propria croce e di seguire Gesù Cristo.

E a questo proposito, il biografo riporta un aned­doto riferitogli da una persona degna di fede. Eccolo, riassunto in poche parole.

Una giovane signora, molto bella, era venuta a Gra­nata per un processo di famiglia, che minacciava di toglierle ogni bene. Giovanni di Dio la incontrò pres­so un avvocato, in occasione di una consultazione. Dopo aver considerato il suo atteggiamento e il suo comportamento, gli sembrò che fosse in grande peri­colo di offendere Dio. Prendendola in disparte, la in­terrogò. Costei lo mise al corrente della propria situa­zione e miseria. Giovanni di Dio le propose una solu­zione vantaggiosa sotto tutti i punti di vista. Vi farò ammettere, le disse, in una casa dove vi sono molte signore; vivrete in loro compagnia, pur avendo un ap­partamento a parte, dove vi installerete a vostro gusto e secondo la vostra condizione. Io mi incarico di assi­curare il vostro mantenimento e di seguire il vostro processo con sollecitudine. Vi chiedo soltanto di aver cura del vostro onore e di non offendere Dio. La signora acconsentf di buon grado. Giovanni di Dio mantenne le sue promesse. Di tanto in tanto andava a trovarla per tenerla al corrente delle sue cose. Ora, una sera, un po’ tardi, mentre girava nei dintorni per la questua, entrò nell’appartamento della signora. Qua­le non fu la sua sorpresa vedendola vestita con una ri­cercatezza insolita! Senza nutrire alcun sospetto, ap­profittò dell’occasione per parlarle dei pericoli del mon­do e del conto da rendere al giudizio divino. La sua parola fu tanto avvincente e persuasiva, che strappò le lacrime a quella forestiera. Dopo la partenza di Giovanni di Dio, un giovane gentiluomo – che si era nascosto al suo arrivo ed aveva udito tutto -chiese perdono alla signora per l’appuntamento propo­stole. Da quel giorno il gentiluomo cambiò completa­mente condotta e divenne un modello di onestà per tutta la città. E’ da lui indubbiamente – o da uno dei suoi congiunti – che de Castro apprese questa con­versione, dovuta all’influenza di Giovanni di Dio.

Giovanni dedicava i suoi pomeriggi a diverse opere di carità e di misericordia e, la sera, quando ritornava molto tardi in ospedale con il ricavato della questua, per quanto grande fosse la sua stanchezza, non andava mai a coricarsi senza aver visitato tutti i malati – ia­scuno in particolare. Egli chiedeva loro come avevano trascorso la giornata, come stavano, di che cosa ave­vano bisogno. Li consolava e testimoniava a tutti il più vivo interesse. In breve, i suoi modi affabili sol­levavano i corpi e al tempo stesso ricreavano gli spi­riti. Per terminare, faceva un giro nelle vicinanze della casa e nei dintorni e prodigava soccorso e conforto ai poveri timidi che l’attendevano nell’ombra.

 

XII. UN APOSTOLATO DIFFICILE MA FRUTTUOSO

Chiamato particolarmente da Dio a praticare le opere di Marta (occupazione tipica della maggior parte del suo tempo), Giovanni di Dio non di­menticava quelle di Maria. Tutto il tempo che gli restava, lo dedicava all’orazione ed alla me­ditazione… chiedendo a Nostro Signore il per­dono e la capacità di rimediare ai bisogni che scorgeva… Egli sapeva che l’orazione è il fonda­mento, l’ancora di ogni vita spirituale, il mezzo per condurre a buon fine tutti i nostri affari con Dio e senza il quale tutto il resto apporta poco appoggio.

Giovanni di Dio era, in particolare, molto devoto alla passione di Gesù Cristo, fonte della nostra reden­zione. Egli voleva che ciò che aveva recato profitto a lui, recasse profitto anche al suo prossimo. Ecco perché il venerdì, giorno in cui concedeva al suo corpo soltanto un po’ di pane ed acqua, al punto da esserne estenuato, aveva l’abitudine di recarsi alla casa pub­blica delle donne per cercare di strapparne qualcuna agli artigli del demonio.

Entrando, egli seguiva la donna che gli sembrava la più perduta, la meno ben disposta ad uscire da lì, e le diceva: Figlia mia, tutto ciò che ti darebbe un altro, te lo darò io ed ancor più. Ti prego soltanto di ascoltare due parole, qui nel tuo appartamento. Entrandovi con lei, le ordi­nava di sedersi, mentre egli si gettava in ginoc­chio per terra davanti al suo crocifisso. Comin­ciava allora ad accusarsi dei suoi peccati e pian­gendo amaramente, ne implorava il perdono di Nostro Signore con tali accenti che provocava di solito anche in lei contrizione e dolore dei propri peccati. La disponeva in tal modo all’at­tenzione. Iniziava allora, per commuoverla, a recitare la Passione di Gesù Cristo, poi le diceva:

Considera, sorella mia, quanto sei costata a No­stro Signore ed osserva ciò ch’egli ha sofferto per te. Non vorrai essere la causa della tua persona­le perdizione. Considera che vi è una ricompensa eterna per i buoni ed un castigo eterno per co­loro che vivono nel peccato come te… Non pro­vocare più il Signore per timore che Egli ti abbandoni completamente come lo meritano i tuoi peccati, e ti lasci cadere come una pietra dura e pesante nel più profondo dell’inferno. Il Signore gli ispirava tali parole ed altre ancora. Sebbene alcune, ostinate nei loro vizi, non lo prendevano in alcuna considerazione, altre, con l’aiuto di Dio, si pentivano, si piegavano alla penitenza e gli dicevano: Fratello mio, Dio sa che uscirei volentieri da qui per servire i poveri nell’ospedale, ma sono indebitata e non mi lasceranno uscire. Giovanni rispondeva con gio­vialità: Figlia mia, abbi fiducia nel Signore. Egli che ha illuminato la tua anima, ti darà il rime­dio per il corpo. Coni prendi bene che dovrai servirlo e non più offenderlo e formula un fer­mo proposito di morire piuttosto che tornare al peccato. Attendimi qui, giacché tornerò senza indugio.

Subito, si affrettava ad andare alla ricerca di signore di alto ceto, sulle quali sapeva di poter contare, e diceva loro: Sorelle mie in Gesù Cri­sto, sappiatelo: c’è una prigioniera del demonio, aiutatemi, per l’amore di Dio, a redimerla e strappiamola a quella miserabile schiavitù. Mes­se al corrente di queste miserie, quelle persone erano così caritatevoli, che raramente egli se ne andava senza aver ottenuto da loro la som­ma necessaria. Quando, però, non la trovava o vi era urgenza, si impegnava per iscritto a pa­gare il debito della donna nei confronti del me­diatore…

Egli conduceva subito queste donne all’ospedale dove venivano curate le altre persone, abban­onatesi in precedenza allo stesso traffico, e mostrava loro le conseguenze infelici della loro perseveranza in quel vile mestiere… Poi, si sfor­zava di conoscere le loro intenzioni. Alcune, più illuminate dal Signore sul valore della vita, volevano riflettere e far penitenza. Egli le con­duceva al monastero delle « pentite » e dava loro il necessario. Per altre, meno decise a « raddrizzare il timone » e piuttosto inclini al matrimonio, cercava la dote e le maritava. Ne maritò molte. Così, soltanto con le elemosine riportate allora dal suo viaggio a Corte, fece celebrare le nozze di sedici convertite alla fede, come lo testimoniano oggi alcune di esse ancora in vita, rimaste vedove ed oneste.

Esercitando questa delicata opera di carità, Giovan­ni di Dio subì molte mortificazioni e dolori e mani­festò l’eroica pazienza che Nostro Signore gli aveva ac­cordato. Così, secondo la testimonianza di de Castro, quando Giovanni strappava una donna a quell’am­biente, le ostinate, le indurite protestavano, lo diffa­mavano, l’ingiuriavano, l’accusavano di agire con cat­tive intenzioni. Egli non rispondeva, e sopportava tut­to con pazienza. Inoltre, se qualcuno riprendeva que­ste donne, rimproverava loro la cattiveria, la scortesia, Giovanni replicava: « Lasciatele stare, non dite loro niente; esse mi conoscono, sanno chi sono e mi trat­tano come merito ».

Un aneddoto molto curioso, per altro più da am­mirare che da imitare, raccontato prolissamente da de Castro e qui compendiato, ci mostra il suo zelo ardente per la salvezza di queste anime riscattate, egli lo sapeva, ad un prezzo inestimabile.

Un venerdì, egli era entrato in una casa pubblica. Subito quattro donne, che si erano messe d’accordo, gli si avvicinarono spontaneamente per farlo partecipe della loro decisione di correggersi in questi termini:

Siamo di Toledo. Se ci conducete là potremo sistemare le nostre cose, e vi promettiamo di abbandonare allora la nostra vita cattiva. Giovanni di Dio accettò subito, preparò la cavalcatura per queste persone e tutto ciò che era necessario al viaggio poi, insieme a loro, si pose in cammino, andando a piedi, accompagnato da Angulo, un servo dell’ospedale, uomo saggio e di buo­na condotta, morto da poco, commenta de Castro, e dal quale aveva avuto questo racconto.

Ora, mentre camminavano, le persone ed i vian­danti, alla vista di quei due uomini in simile compagnia, li schernivano, li fischiavano… Di fronte a tali insulti, Giovanni di Dio taceva e soffriva con molta pazienza. Angulo, al contrario, si irritava e diceva a Giovanni:

A che pro questo viaggio in simile compagnia, causa di tanti oltraggi? Ma quando, passando da Almagro, una di esse fugge ed arrivando a Toledo altre due scappano, il servo, con maggior veemenza, comincia ad interrogarlo con asprezza: Che follia, questo viaggio! Non ve l’avevo detto? Non ci si può fidare di questa razza depravata. Il santo uomo rispondeva con dol­cezza: Fratello Angulo, tu non rifletti. Vediamo. Se vai a Motril a cercare quattro panieri di pesce e per via tre si guastano, tu li gétti indubbiamente, ma getti for­se quello buono? Siccome delle quattro donne ce ne rimane una che persevera nelle sue buone intenzioni, abbi pazienza e torniamo con lei a Granata. La mia speranza è in Dio; se costei rimane, non avremo fatto un viaggio inutile ed il nostro guadagno non sarà me­schino. E fu così; grazie a Giovanni di Dio quella donna sposò un uomo dabbene e visse in modo esemplare.

Se normalmente le donne così strappate alla casa pubblica e sposate, testimoniavano la loro riconoscenza a Giovanni di Dio, una di loro si mostrava molto indi­screta ed esigente. Non appena aveva bisogno di qual­cosa, veniva a chiederla e, per appagare il suo deside­rio, Giovanni di Dio si sforzava di darle soddisfazione. Il fatto si ripeteva spesso. Ora, una volta che lei chie­deva ancora, egli dovette confessare la propria comple­ta miseria, pregandola di ritornare un altro giorno. Ma lei, impaziente, si irrita e comincia ad insultarlo dicen­do: Uomo cattivo! Santo ipocrita! – Avrai due reali se vai in piazza a divulgare ciò ad alta voce – si affrettò lui a risponderle. E siccome quella continuava con alte grida a diffamano, egli disse: Presto o tardi bisogna che ti perdoni; perciò ti perdono subito.

Questa pazienza produsse un buon frutto, per­ché la stessa donna, il giorno dei funerali del santo, camminava in mezzo alle altre che egli aveva strappato alla cattiva vita, e alzando la voce lungo le strade, si lamentava, confessava i propri grandi torti ed errori, ed esaltava gli immensi favori di Giovanni di Dio.

Infine, questo apostolo della carità era cosi umile che amava confessare e raccontare i pro­pri errori e non parlava mai delle buone azioni e delle lodi ricevute. Egli si serviva anche del­l’astuzia per volgere le conversazioni a propria confusione. Ne risultava una grande edificazione per il prossimo; ma fuggiva ogni vanagloria, come tigna avvelenata della vita spirituale.

 

XIII. LA OUESTUA ALLA CORTE DI SPAGNA

Le spese richieste per tutte le opere intraprese da Giovanni di Dio erano considerevoli e, non bastandovi più le elemosine raccolte in città, egli aveva fatto ri­corso ai signori dell’Andalusia. Costoro lo aiutarono facendo del loro meglio. Fin da giovane, il duca di Sesa si occupò dei poveri del suo ospedale e a più ri­prese rimborsò tutti i suoi debiti. Inoltre, in occasione di tutte le grandi feste nel corso dell’anno, gli faceva pervenire camicie, abiti e scarpe per vestire e calzare i bisognosi. La duchessa sua moglie agiva allo stesso modo, come abbiamo notato nelle lettere citate. Il ca­valiere Guttierre Lasso, Rodrigo Diaz de Vivar, il duca di Cabra e molti altri si mostravano altrettanto generosi nei suoi confronti. Nondimeno, tutti questi soccorsi si rivelarono inferiori ai bisogni sempre cre­scenti.

Ora, secondo de Castro, Giovanni di Dio viveva nell’angoscia, da un lato per non poter venire in aiuto ai postulanti, ai poveri, e dall’altro, per essere incapace di pagare i suoi debiti. A suo avviso, lo stato di tor­mento e di imbarazzo sembrava fosse inerente alla sua amministrazione. Da qui a dedurre l’incapacità a con­tinuare la sua opera e la necessità di rinunziarvi, ci correva poco. Questa tentazione insinuante sembra peraltro sia stata favorita da uno strano individuo che gli aveva proposto di assumersi il peso del suo ospe­dale e di soddisfare i suoi creditori, per permettergli di impegnarsi in un’altra impresa, più alla sua portata. E’ anche vero che dei benefattori competenti, e in par­ticolare l’arcivescovo don Pedro Guerrero, molto con­vinti del valore e del saper fare di Giovanni di Dio, gli consigliavano un viaggio a Corte, per ottenere l’ap­poggio del principe Filippo, reggente di Spagna in as­senza del padre Carlo Quinto, ed avere dai grandi che gli erano accanto importanti elargizioni.

Di fronte a questa alternativa, non sapendo che decisione prendere, ricorse ancora una volta al maestro Giovanni d’Avila, esponendogli in modo dettagliato le sue preoccupazioni. La sua lettera, come le precedenti, ci è nota solo in base alla risposta di Giovanni d’Avila.

Eccola:

Ho ricevuto la vostra lettera. Non crediate che la sua lunghezza mi irriti; per chi ama molto, nessuna let­tera può sembrare lunga. Rendetevi intanto tale che io sia soddisfatto delle vostre notizie e se volete non affliggermi, sforzatevi di operare bene. E’ con gli atti e non con le parole che si testimonia l’affetto. Consi­derate, fratello mio, quanto sono costate a Nostro Signore le grazie che vi ha accordato e quale cura do­vete avere di una gemma acquistata a prezzo del suo sangue. Cosa sarebbe dunque se lasciaste calpestare dai porci questa perla che Lui vi ha dato per ren­dervi simile agli angeli? Cosa sarebbe se perdeste questa bellezza di cui ha ornato la vostra anima per renderla più piacevole e più bella del sole stesso? Piut­tosto morire che essere sleale verso Nostro Signore! Ma per restare fedele, bisogna mostrarsi prudente, co­me ha detto Nostro Signore perché, per mancanza di prudenza, l’uomo commette mille infrazioni che di­spiacciono a Nostro Signore e Lo obbligano a casti­garlo. Cosi, un solo errore deve servire da lezione per la vita. Un cane bastonato non ci ritorna due volte, né un uccello nella gabbia da cui è scappato. I saggi traggono vantaggio dagli errori degli altri e gli stolti dai propri. Che diremo di coloro che non si correggono dopo averne commessi molti? Essi meritano l’abbandono del Signore e la propria perdizione. Chi ha ricevuto dei doni da Dio è tenuto a stare attento ed a lavo­rare per la Sua gloria, perché Egli l’ha strappato all’in­ferno e gli ha dato la sicurezza del cielo. Più andiamo avanti nella vita e più dobbiamo sforzarci di diventare migliori; perché poco ci servirebbe aver bene iniziato, se finiamo male. Che serve ad un cacciatore l’aver preso un uccello con molta fatica, se poi lo lascia fuggire per ‘non più rivederlo?

Nostro Signore è più offeso nel vedere che un’ani­ma, acquistata e purificata da Lui, lo abbandona per darsi al demonio, che degli errori di tante altre, che non gli appartengono. Del pari, il demonio si rallegra maggiormente di guadagnare delle anime ferventi, che di dominare sulle cattive di sempre. Così, fratello mio, dobbiamo avere gli occhi volti verso lo stendardo del­la Croce, per non dare questo dispiacere a Nostro Si­gnore e questo piacere al demonio di abbandonare la strada che abbiamo cominciato a seguire e della quale ci resta tanto poco da percorrere.

Implorate di tutto cuore Nostro Signore, non dimen­ticate di pregare e di ascoltare la messa; ve ne troverete bene. Osservate dove mettete i piedi per assistere gli altri senza danneggiarvi. Che la vostra anima non ces­si di nutrirsi, perché se camminate affamato, scorag­giato e malato, a che vi servirà tutto il bene prodigato agli altri? Nostro Signore ci ha detto infatti: « Che serve all’uomo guadagnare l’universo se perde la sua anima?)? (Mt. 16, 26). Non piacerete mai tanto a Dio quanto conservando la vostra anima pura in sua pre­senza, e la più grande opera di misericordia da com­piere è di conservare la vostra anima benaccetta a sua Maestà. Così, vegliate e pregate secondo la parola di Gesù Cristo, per eludere le sorprese del demonio: egli ci tende mille tranelli per farci cadere.

Il progetto di recarvi a Corte per chiedere l’elemosi­na ai signori di Castiglia, allo scopo di non indebitarvi qui, mi sembra eccellente. Ma state attento, là e al­trove, a servire Nostro Signore al fine di possedere un giorno la gloria, per la quale vi ha creato. Che Egli sia sempre il vostro sostegno e la vostra forza! Amen.

Quel personaggio disposto a pagare i vostri debiti ed a rendervi cosi libero per un altro compito, doveva essere il demonio sotto forma umana. Cercava di in­gannarvi e di persuadervi che potevate, senza offendere Dio, abbandonare la strada per la quale egli vi ha chia­mato. Non per nulla san Paolo ha detto: « Che cia­scuno resti fedele alla chiamata che ha ricevuto da Dio! » (Ef. 4, 1). Se Dio vuole che lo serva come ca­meriere, il voler guardare i maiali sarebbe un peccare contro di lui. Dovrei renderGli conto di tutto ciò che avrei potuto guadagnare in quell’altra occupazione. Cosi, fratello mio, se un essere risplendente, che si defi­nisce angelo di Dio, vi apparisse ed ordinasse di rinun­ciare alla vostra abituale occupazione, ritorcetegli che è un demonio e che non volete per nessun conto abban­donare la strada su cui Dio vi ha posto, poiché il Van­gelo ce lo insegna: « Chi persevererà fino alla fine sarà salvo » (Mt. 24, 13). Leggete e rileggete questo versetto e che Dio vi guardi da ogni male. Amen.

Per il momento non ho abiti da inviarvi, ma dirò delle messe per voi: esse vi copriranno meglio.

A prima vista, ci si potrebbe meravigliare che il maestro Giovanni d’Avila si dilunghi tanto sulle esi­genze di una vita spirituale vera e sulle precauzioni da prendere per preservarla da ogni insidia, mentre risponde assai brevemente a due angosciosi quesiti di Giovanni di Dio. Non vuole egli, una volta di più, rammentargli in cosa consiste l’essenziale della vita cristiana, la condizione assolutamente necessaria di tut­te le altre attività, fossero pure molto importanti? La fiducia e la fedeltà date da Giovanni di Dio al suo caro maestro erano degne di questo schietto linguaggio. Egli non aveva esposto i propri dubbi e le proprie ten­tazioni per essere adulato, ma per conoscere la volon­tà di Dio e camminare nell’obbedienza. Fornito di di­rettive tanto nette e tanto chiare, Giovanni di Dio senti un nuovo vigore e decise di dedicarsi al servizio dei po­veri con la più viva determinazione fino alla morte.

Un fatto, ad un tempo doloroso e confortante, ven­ne a rinforzare l’impressione prodotta da questa lettera su Giovanni di Dio: la morte del suo confessore del­l’epoca, il Padre Domenico de Alvarado, dell’Ordine di N.S. della Mercede (Mercedari), amico ed emulo di Giovanni d’Avila. Seguendo le sue esequie, il 6 aprile 1548, Giovanni di Dio esclamava testimoniando le sue buone opere: Padre Domenico, voi godete già della visione di Dio, in possesso della ricompensa alle vostre fatiche. Queste sono terminate, ma la vostra gloria non avrà fine. Come siete felice per aver si bene impiegato la vostra vita! Ricordatevi di questo poveretto che vi deve tanto.

Subito dopo questo 6 aprile 1548, Giovanni di Dio prese i provvedimenti per questo lungo viaggio a Corte, che allora era a Valladolid. De Castro precisa:

Lasciò nell’ospedale il suo amico e compagno Antonio Martin, per vegliare sui poveri fino al suo ritorno.

Poi si mise in viaggio a piedi, come di consueto, a capo nudo e scalzo.

In linea d’aria, 500 Km. separano Granata da Val­ladolid; ma l’itinerario scelto da Giovanni di Dio dove­va, secondo José Cruset, superare i 700 Km.

De Castro non ci dice nulla circa il viaggio d’andata. Sappiamo però che Giovanni di Dio passò per Toledo e vi si fermò alcuni giorni. Durante questo periodo sa­rebbe stato ospite di donna Leonor de Mendoza, paren­te prossima della sua benefattrice, la duchessa di Sesa. Questa dama gli fece grandi elemosine che, uni­te al frutto delle sue questue, gli permisero di fon­dare un piccolo asilo notturno di cui ci parla il p. Gabriele Russotto nell’opera L’Ordine ospedaliero di Giovanni di Dio, Roma, p. 18 3. Da Toledo, anziché raggiungere Valladolid passan­do per Madrid, che è la strada più breve, Giovanni di Dio si dirige verso Salamanca, dove la sua presenza si protrae per alcuni giorni. Infatti, al processo di beati­ficazione di Giovanni di Dio, un testimone, Pedro Her­nandez di Salamanca, afferma di averlo conosciuto in quella città, 70 anni or sono: Egli percorreva le strade e chiedeva l’elemosina dicendo: « Fate del bene a voi stessi! ». Ciò che raccoglieva lo dava ai poveri dell’ospe­dale San Bernardo. Vi si recava lui stesso per curare i malati, per pulirli e carezzarli, col volto sorridente ed allegro. Molte persone ed il testimone stesso accorreva­no all’ospedale, soltanto per vedere l’affetto con ciii Giovanni curava i sofferenti. Altri due testimoni della città, Jeronimo Hernandez Franco e Juan de Prado for­nirono delle testimonianze analoghe, e quest’ultimo ag­giunge che alla partenza di Giovanni di Dio per Valla­dolid, molti ne soffrirono, ed i poveri gli assegnarono il nome di « Padre dei Poveri ».

Da Salamanca a Valladolid ci sono poco più di 100 Km. De Castro non ci dice nulla su questa terza parte del viaggio; ma si può affermare con verosimiglianza che Giovanni arrivò a Corte verso la fine di maggio, o i primi di giugno 1548. A quell’epoca, Carlo Quinto si trovava in Germania, e continuava le trattative con i principi protestanti, sforzandosi di riconciliarli con la Chiesa cattolica e di consolidare l’impero. Restavano a Corte il principe, presunto erede e reggente di Spa­gna, di 21 anni, sua sorella, l’infante Maria, promessa all’arciduca Massimiliano d’Austria, e la più giovane, l’infante Giovanna, futura sposa del principe reale del Portogallo.

Avvisata da sua figlia, la duchessa di Sesa, benefat­trice e corrispondente di Giovanni di Dio, dell’arrivo di quest’ultimo a Valladolid, donna Maria de Mendoza considerò come un grande favore l’alloggiano in casa sua e provvedere ai suoi bisogni. Questa dama, vedo­va del grande commendatore Francisco de los Cobos, godeva di una grossa fortuna, ma si faceva notare per le sue virtù e la sua carità verso i bisognosi. Ella fon­dò ospedali, dotò conventi bisognosi e distribuì, nel corso di tutta la sua vita, elemosine quotidiane propor­zionate alla propria ricchezza. Giovanni di Dio rice­vette delle elargizioni, tanto da questa signora che da altre persone della città, e si mise subito a soccorrere i poveri del posto. Immediatamente, si trovò tanto occu­pato come a Granata.

Da parte sua, il conte di Tendilla, don Luis Hurtado de Mendoza, figlio di donna Maria de Mendoza, giova­ne signore intelligente e virtuoso, in grazia a Corte, si affrettò a introdurre Giovanni di Dio a palazzo e a presentarlo al principe reggente Filippo. Il postulante, rivolgendosi al principe con tutta semplicità, gli disse -       secondo de Castro:

Signore, ho l’abitudine di chiamare tutti gli uomini « fratelli miei in Gesù Cristo », ma voi siete mio re e mio signore ed io sono tenuto ad obbedirvi. Come volete che vi chiami? – « Co­me vorrete! » – Vi chiamerò dunque « buon principe ». Dio voglia accordarvi un regno pro­spero, la gràzia di vivere e di morire bene, af­finché possiate – un giorno – godere della vita eterna!

Queste parole, sgorgate dal fondo del cuore, furo­no tanto gradite al principe che si abbassò per rialzar­lo, lo prese per mano e l’introdusse nel suo studio. Gio­vanni espose allora in modo semplice lo scopo del suo viaggio e lo stato del suo ospedale. Molto interessato, il principe Filippo gli pose diversi quesiti e, soddisfatto delle risposte, gli fece rimettere un’offerta degna del suo nome.

Giovanni di Dio visitò, quasi ogni giorno, anche le infanti, sorelle del principe reggente, e ricevette da loro e dalle loro dame d’onore molti doni e gioielli. Ora, tutte queste elemosine egli le distribuiva ai biso­gnosi di Valladolid, con sorpresa di coloro che erano al corrente dello scopo del suo viaggio. Perciò gli dice­vano: Fratello Giovanni di Dio, perché non conservate il denaro per i vostri poveri di Granata? – Fratelli miei, rispondeva lui, dare qui o dare a Granata, è sempre fare del bene per Dio, che si trova in ogni luogo.

Per fortuna, donna Maria de Mendoza, il conte di Tendilla e gli altri suoi benefattori, persuasi che non vi erano altri mezzi per impedirgli di distribuire sul posto le elemosine ricevute e tornare a Granata a mani vuote, decisero di comune accordo di offrirgli, a titolo di dono, delle lettere di cambio pagabili soltanto a Granata. Queste lettere gli avrebbero permesso di soddisfare i creditori e di assistere i poveri del suo ospedale.

Giovanni di Dio trascorse cosi alcuni mesi a Valla­dolid, fino al periodo in cui si iniziarono a preparare i festeggiamenti a Corte ed in tutta la città, in occasio­ne delle prossime nozze dell’infanta Maria con l’arci­duca Massimiliano d’Austria.

Si rimise quindi in viaggio ai primi di settembre del 1548. Durante il viaggio di ritorno, più diretto e di circa 500 Km., de Castro riferisce che Giovanni di Dio sopportò grandi sofferenze. Camminando infatti scalzo, lungo strade piene di sassi ed accidentate, aveva i piedi screpolati ed aperti in più parti in seguito alle cadute. Pro­vava anche una forte sensazione di scottature su tutto il corpo, poiché non portava la camicia ed i suoi abiti ruvidi e spessi erano placcati su di lui come pece. Inoltre, aveva la pelle del vol­to, del capo e del collo spellata dal sole, soffer­to a capo scoperto.

Pur in questo stato, camminava con passo svelto, animato dal desiderio di rivedere al più presto i suoi malati ed i suoi poveri e di portare sollievo ai loro affanni. Spossato dalle fatiche e dalle sofferenze, arri­vò finalmente, con gioia degli abitanti di Granata e della contrada, con allegrezza soprattutto dei suoi assi­stiti, che attendevano con impazienza il loro padre e consolatore.

Giovanni di Dio si affrettò a riscuotere i mandati, pagò una parte dei suoi debiti e provvide ai nuovi bisogni, specialmente in favore delle sedici donne da lui convertite, alle quali diede le doti attese.

Infine, rimase ancora debitore di più di 400 ducati e, per soddisfare i propri impegni, rinnovò i prestiti.

Il suo cuore non sopportava di veder soffrire i poveri senza soccorrerli e provava fino all’angoscia il vivo desiderio di pagare i debiti. Conciliare questi due desideri sembrava impossibile, poiché egli dava senza esi­tare ogni suo avere, quando gli si presentava qualche indigenza.

 

XIV. L’INCENDIO ALL’OSPEDALE REGIO

C’era a Granata un grande ospedale, fondato 50 anni prima dai « re cattolici » Ferdinando ed Isabella, dopo la conquista della città, fino allora in possesso degli Arabi. Vi si curava ogni genere di malati pove­ri, compresi quelli mentali, « i più poveri tra i pove­ri ». Costruito con magnificenza in una vasta pianura chiamata « el campo », esso esiste ancor oggi. Si nota, al primo piano, nella parte rimasta intatta, una came­retta con al centro una finestra di un metro quadrato, munita all’esterno di sbarre verticali che non nascon­dono né il sole né il panorama. Qui alloggiò Giovan­ni di Dio durante il suo breve shock nervoso. Appena guarito, egli aveva esercitato nell’ospedale, per un perio­do di tre mesi, un lavoro come aiuto infermiere. Ne conosceva dunque le sale, le scale e tutti i passaggi.

Ora, il 3 luglio 1549, alle il del mattino, in piena estate, mentre il sole inondava di luce e di calore la città in festa, un incendio scoppiò in questo ospedale – ed ecco in quale circostanza. Un certo Rojas, am­ministratore principale dell’ospedale, offriva quel gior­no uno splendido banchetto in onore di donna Magda­iena, figlia di don Pedro de Bobadilla.

Per arrostire allo spiedo un’intera giovenca farcita di porcellini, pernici, fagiani e diverse spezie, i cuo­chi allestirono un enorme fuoco nel camino più gran­de. Disgraziatamente, una scintilla accese una trave co­stituita da un intero pino, facilmente combustibile, ed il fuoco si propagò. Subito vengono suonate le campane a martello, ci dice Anton Rodriguez, e si fa richiamo ai muratori, ai falegnami ed ai carpentieri, in partico­lare a Giovanni de Ratia, che accompagno come appren­dista sui luoghi del sinistro.

Da parte sua, Giovanni di Dio arriva al più presto.

Il suo zelo, stimolato dalla grandezza del peri­colo intravisto, si mostra cosi efficace che, quasi da solo, salva portandoli sulle spalle gli amma­lati che non sono potuti fuggire con i propri mezzi. Poi getta dalle finestre, con un’agilità so­vrumana, tutti i letti e gli abiti che può afferra­re. Infine, dopo aver posto tutti i malati al sicu­ro, raggiunge, con una scure, la sommità dell’e­dificio, lì dove il pericolo è maggiore, per aiu­tare a tagliare l’armatura in legno del tetto ed impedire cosi al fuoco di propagarsi. Vi si trova, quando un’enorme fiamma uscita da un lato ed una seconda dall’altro lo prendono in mezzo. Nello stesso tempo gli spettatori vedono alzarsi un denso fumo. Tutti pensano, senza pos­sibile dubbio, che le fiamme hanno incendiato e consumato il salvatore. « E subito la voce della sua morte eroica corre tra la folla con la stes­sa rapidità con cui il vento ravviva le fiamme. Da ogni parte si levano lamenti e grida ». Ora, nel momento in cui uno meno se lo aspetta, lo si vede venir fuori dalle fiamme, scendere rapi­damente una scala rimasta intatta ed uscire sano e salvo, senza alcuna lesione. Però le sue sopracciglia e ciglia erano state bruciacchate dalle fiamme, segno evidente del miracolo ope­rato in suo favore da Nostro Signore.

Presenti all’incendio dell’ospedale, il marchese di Mondejar, capitano generale, il marchese di Ceraldo « corregidor » della città, il consiglio dei ventiquattro e molte altre autorità, hanno reso testimonianza di que­gli avvenimenti tragici e prodigiosi.

Anton ‘Rodriguez, l’apprendista citato più sopra, conferma i fatti con semplicità ingenua:

Arrivato di corsa, ho visto Giovanni di Dio che en­trava ed usciva in mezzo alle fiamme, portando sulle spalle i malati impotenti, poi gettare dei letti dalle fine­stre. Faceva delle cose prodigiose e volevo raggiungerlo per aiutarlo, ma la paura di diventare preda delle fiamme mi inchiodava sul posto. Mentre Giovanni di Dio circolava cosi nell’interno, si alzarono – tutt’ad un tratto – delle fiamme cosi vive, che lo circondarono da tutte le parti. Tutti credemmo, con grande dolore, che era stato bruciato. Ma subito Giovanni di Dio usci di tra le fiamme, indenne e senza ferite. Eravamo tutti contenti. Il fuoco, persa la sua forza, fini con lo spe­gnersi.

Donna Luisa de Ribera, 47° testimone, dà una versione analoga, ma aggiunge: nel momento in cui Giovanni di Dio era scomparso agli sguardi, il marche­se di Ceraldo aveva alzato la voce, chiedendo di cer­care il benedetto padre Giovanni di Dio, poiché la sua persona e la sua salute erano più importanti di dieci ospedali. Ma il fuoco era cosi intenso che nessuno osava avventurarvisi. In capo ad una mezz’ora, quando tutti lo credevano ridotto in cenere, Giovanni di Dio usci indenne, con l’abito intatto e senza bruciature; soltanto le sopracciglia e le ciglia erano bruciac­chiate.

Questo fatto prodigioso, attestato da molti testi­moni, da specialisti del fuoco e da autorità di altissimo rango, può essere considerato come un vero miracolo. E’ a giusto titolo che la Chiesa perpetua il ricordo di questa azione eroica nell’ufficio divino della festa di san Giovanni di Dio. Dapprima, nella lettura del secon­do notturno: Giovanni di Dio si gettò nel fuoco, per salvare i malati, rimase in mezzo alle fiamme divenute gigantesche e ne uscì finalmente indenne per la prote­zione divina e con ammirazione di tutti gli abitanti… insegnando la carità, mostrò cosi che il fuoco esterno aveva minor forza su di lui del fuoco che lo bruciava internamente. Poi, nell’orazione del giorno: Signore Dio nostro, a Giovanni che bruciava del tuo amore, tu permettesti di passare senza danno attraverso le fiam­me e con lui facesti nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la stia preghiera e per suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua cari­tà e degnati per sempre di guarirci…

Sotto il baldacchino del Bernini, una grandiosa tela raffigurante questo prodigio ornava l’altare principale di San Pietro in Roma, in occasipne della cànonizza­zione di Giovanni di Dio, il 19 ottobre 1690.

 

XV. GLI ULTIMI ANNI DI GIOVANNI DI DIO

La dedizione instancabile di Giovanni di Dio verso i poveri e i sofferenti, le sue virtù palesi a tutti, la sua condotta eroica in occasione dell’incendio dell’Ospe­dale Regio, produssero una viva impressione sui suoi contemporanei. Nonostante le sue proteste, ormai tutti lo chiamavano « il santo ».

Molte persone non si contentavano più di ammi­rare, esse volevano imitare. Accorrevano all’ospedale per prendere parte ai lavori di Giovanni di Dio e dei suoi compagni, esercitaavano con essi la carità e la misericordia. Da parte loro, religiosi ed ecclesiastici cooperavano con zelo alla sua opera ospedaliera, por­tando ogni giorno ai poveri ed ai malati i soccorsi e le consolazioni del loro ministero. Parimenti, i laici rag­guardevoli e le grandi dame della città non attendeva­no più le visite del questuante; andavano loro stessi in ospedale a portare le elemosine e a prestare aiuto in qualche modo.

In questo periodo, la nascente compagnia dei Gesui­ti si diffondeva rapidamente in Spagna. Chiamati dal maestro d’Avila e dall’arcivescovo don Pedro Guer­rero, molti di essi si stabilirono a Granata, dove fu loro affidato il primo collegio dell’Università e la cura degli esercizi spirituali. Secondo il Padre Antonio Astrain, s.j., questi religiosi si stabilirono nella città solo dopo il 1551. Al contrario, se ci riferiamo al Padre Orlandini s.j., alcuni di essi vi soggiornarono già dal 1548, se non altro temporaneamente. Nella sua storia della Compagnia, questo Padre scrive:

Vi era allora a Granata, tra gli altri, un celebre ospedale diretto da uno chiamato Giovanni di Dio, uomo pio e devoto; dei membri della nostra compagnia si premurarono di recarvisi per offrire la loro assisten­za spirituale ai malati, ma anche per prestare loro delle cure corporali, La loro carità, egli prosegue, non rifiutava alcun gene­re di servizio, per quanto sudicio e ripugnante sem­brasse. Seguendo il loro esempio, dei nobili e dei bor­ghesi si misero a servire i poveri. Qui si vedevano, sia il governatore della città, i membri del consiglio dei ventiquattro, i nobili cavalieri di san Giacomo o del Toson d’oro con i loro brillanti costumi, sia i canoni­ci ed i maggiori prelati ed altre importanti personalità del clero; talvolta dei celebri dottori in teologia o in diritto canonico e civile, e molti altri cittadini di alto ceto. Essi si avvicinavano ai letti ed ai giacigli; e, a capo scoperto, servivano i malati. Molti si inginocchia­vano e baciavano il bordo del piatto che porgevano, altri mettevano con affetto materno il cibo in bocca ai più sofferenti, altri sventolavano un fazzoletto al capezzale dei malati per allontanare le mosche… Spazzavano il pavimento, vuotavano i vasi da notte, scavavano le fosse per i morti, trasportavano i cadaveri e li depo­nevano in terra. Niente costava loro troppo: in questi lavori di carità trovavano la loro gioia e la loro felicità…

I Padri gesuiti non tralasciavano alcuna occasione per incoraggiare questo movimento di carità con le loro esortazioni ed i loro esempi. Il Padre Giovanni Battista Sancio, in particolare, amava raggruppare i visitatori nel cortile dell’ospedale e, negli eloquenti sermoni di carità, era tanto più persuasivo in quanto l’esempio era li davanti agli occhi e l’occasione a por­tata di mano. Un giorno, nella festa di san Martino, dopo aver rilevato il merito delle opere di misericordia, esaltò la carità di questo santo taumaturgo. Non aveva egli, nel cuore dell’inverno, tagliato una parte del suo mantello per rivestirne un povero incontrato sul suo cammino? Poi, facendo un quadro toccante dei bisogni dell’ospedale, esclamò: «Poco tempo fa, in questo luo­go in cui vi parlo, spiegavo la miseria e le privazioni dei poveri malati; tutt’ad un tratto uno slancio di carità colse l’assemblea! Tutti offrirono a gara non soltanto il denaro e l’oro, ma anche gli abiti, di cui si spogliavano per darli. Una carità tanto generosa e sol­lecita è dunque impossibile al giorno d’oggi, e non potrò trovare qui un cuore abbastanza cristiano da imi­tare un si nobile esempio, per insegnare a tutti che, a Granata e nel nostro tempo, la carità è abbastanza viva ed eroica, da presentare un altro san Martino? ». A queste parole, un sacerdote si porta in mezzo all’as­semblea e depone ai piedi del predicatore un bellissi­mo mantello; costituiva tutta la sua ricchezza, poiché valeva più di tutto il resto del suo abbigliamento. Que­sto gesto fu il segnale di una gara straordinaria: i doni si accumularono, li gettavano da vicino, da lontano; li facevano passare di mano in mano, si pigiavano in­torno al predicatore. In poco tempo si ammucchiarono davanti a lui: monete d’oro e d’argento, anelli preziosi, mantelli, mantiglie di ogni genere di stoffa, giacche e casacche ornate di galloni o di trine, budrieri e monili pieni d’oro, abiti di ogni genere, di cui ciascuno si spo­gliava con una sollecitudine sorprendente. Non cessa­vano di dare. L’oratore, vedendo aumentare a dismisura la quantità di oggetti offerti, pensò bene di por fine alla riunione.

In occasione del Natale, la sua parola non ebbe minor effetto. Quell’uomo apostolico vi faceva ammi­rare la bontà di Dio che, per amore degli uomini, ave­va voluto nascere sulla terra e mostrarsi a noi. Da qui colse l’occasione per chiedere ai suoi uditori se, nel vedere il bimbo Gesù che si offriva a loro, non pen­sassero che fosse giusto dargli anche qualche cosa in cambio. Ebbene!, aggiunse, si vedrebbe quale è il vostro cuore verso Gesù che nasce se, avendoLo sotto gli occhi nella mangiatoia, lo lasciaste con indifferen­za nudo, tremante per il freddo, o se, toccati da quanto egli soffre, vi affrettaste a coprirlo e riscaldarlo. E come! egli prosegui, il luogo in cui siamo, nel cuore dell’in­verno, è diverso dalla stalla in cui Gesù, nei suoi poveri, non ha nulla per coprirsi, né per riscaldarsi? Non lo sentite mentre grida ad ognuno di noi: « In verità vi dico che quanto avete fatto a uno dei più piccoli tra questi miei fratelli, l’avete fatto a me » (Mt. 25, 40)?

Questi sentimenti, sviluppati in modo grave e toc­cante, infiammarono i numerosi uditori. Sacrificavano senza difficoltà gli oggetti più preziosi. Nessuno volle andarsene senza aver dato abbondantemente. Inoltre, le verità udite fecero un’impressione profonda nell’ani­mo di molti. Essi vollero da quel momento riconoscere ed onorare pubblicamente Gesù Cristo nella persona dei poveri. Si videro alcuni di questi cristiani pieni di fede che, dopo aver fatto l’elemosina a qualche men­dicante incontrato per strada, si mettevano in ginocchio a baciargli i piedi in mezzo alle strade ed alle piazze più frequentate.

Questo illustre Padre Sancio, nota ancora il Padre Orlandini, predicando un’altra volta nello stesso ospe­dale, segnalò tra parentesi, e senza troppo insistere, la mancanza di lenzuola per seppellire i morti. Subito alcuni buoni cittadini abbandonarono il luogo senza far rumore, corsero a casa a raccogliere un grosso carico di lenzuola, per poi deporli ai piedi del Padre pre­dicatore.

I Padri gesuiti apportarono dunque un prezioso aiu­to a Giovanni di Dio, ed egli ne fu loro molto ricono­scente. C’era, anche qui, una testimonianza della stima della sua opera caritatevole ed una giusta ricompensa del suo zelo ospedaliero, ora da tutti apprezzato.

Tuttavia, i suoi lavori eccessivi e senza posa, pur avendo prematuramente rovinato le sue forze, non potevano fermarlo. Egli ebbe ancora il coraggio, agli inizi del 1550, di fare una questua nella regione di Malaga, a 100 Km. da Granata, come dimostra l’ulti­ma lettera da lui scritta al cavaliere Guttierre Lasso.

La presente è per informarvi del mio arrivo qui in perfetta salute, grazie a Dio, con più di 50 ducati. Ag­giunti a quelli che voi avete laggia, ammontano, io credo, quasi a cento. Dopo il mio ritorno, mi sono indebitato di 50 ducati o più. Né questa somma che ho portato, né quella che ho presso di voi basteranno, poiché ho pia di 150 persone da mantenere e, ogni gior­no, Dio provvede a tutto. Se quindi ai 25 ducati che avete laggia, poteste aggiungere qualche cosa in pia, il tutto sarebbe necessario… Questi 25 ducati, fatemeli pervenire subito, poiché ce li ho di debito e ben più: perciò resto in attesa. Come sapete ve li ho rimessi una sera nel vostro giardino degli aranci, in un sacchetto di tela, mentre passeggiavamo tutt’e due. Verrà un giorno, lo spero nel Signore, in cui passeggerete nel giar­dino celeste! Il mulattiere ha molta fretta, non posso quindi scrivervi a lungo; d’altra parte ho tanto lavo­ro qui, che non ho il tempo di un « Credo » di respiro.

Inviatemi subito quel denaro, per carità; ne ho ur­gente bisogno. Per amore di Nostro Signore, raccoman­datemi alla tanto nobile, virtuosa e generosa schiava di Òesa Cristo, vostra sposa… Saluterete anche da parte mia il vostro figlio l’arcidiacono, che è stato con me a chiedere la santa elemosina… Porgete i miei salu­ti alle vostre figlie e figli ed a tutti quelli che vorrete… A Malaga, raccomandatemi al vescovo e presentategli i miei omaggi, come pure a tutti quelli che vorrete e vedrete, obbligato come sono di pregare per tutti…

Questo viaggio a Malaga fu l’ultimo che egli fece all’esterno. Ma a dispetto della propria magrezza e debolezza, egli andava sempre, la sera, ad implorare l’de­osina in città e si sforzava di essere tutto a tutti durante il giorno.

Per soprappiù, ci rivela de Castro, in seguito ad un grosso sforzo, contrasse una grave ernia. Questa infer­mità troppo trascurata gli causava dei dolori fortissi­mi. Egli peraltro faceva di tutto per dissimularli, per evitare un dolore ai suoi poveri.

Ora accadde, in quel periodo, che il Genil si ingrossasse moltissimo in seguito a piogge tor­renziali. Dissero a Giovanni di Dio che il fiu­me in piena trascinava molta legna e tronchi d’albero. Immediatamente decise di andare a raccoglierli insieme ai validi dell’ospedale, per permettere ai poveri di accendere il fuoco e riscaldarsi, poiché l’inverno era molto rigido: nevicava e gelava. Tra gli indigenti venuti a prendere della legna, c’era un ragazzo. Questi si avventurò con impru­denza nel fiume, fu trasportato dalla corrente e annegò nonostante gli sforzi di Giovanni di Dio per soccorrerlo: portato molto lontano dai flutti, egli non poté afferrano. Il buon Padre ne provò un grande dolore; prese freddo, cadde ammalato e dovette mettersi a letto.

Ora, in quel frattempo, alcune persone dallo zelo indiscreto, poco illuminate e sottovalutando il modo elevato di agire di Giovanni di Dio, si recarono dal­l’arcivescovo don Pedro Guerrero e lo informarono che all’ospedale si trovavano persone di ogni sorta. Alcune, capaci di lavorare, potrebbero certamente lavorare per guadagnarsi da vivere, se non fossero ospitate. Parimenti, vi si scorgevano delle donne sconvenienti: esse disonoravano Giovanni di Dio e si mostravano prive di riguardo per il bene che prodigava loro. Queste per­sone pregarono dunque l’arcivesco di porre rimedio a quei disordini, dal momento che ne aveva il potere.

Dopo aver ascoltato le loro lagnanze, l’arcivescovo, da buon pastore, fece chiamare Giovanni di Dio, di cui ignorava la malattia, per chiedergli spiegazioni.

Non appena ricevuto l’ordine, il malato si alza e si reca come può, ed al più presto, dal suo superiore.

Giunto davanti all ‘arcivescovo, gli bacia la mano, riceve la sua benedizione e dice: « Cosa ordi­na mio buon Padre, mio Prelato? » – « Fratello Giovanni, gli notifica l’arcivesco, ho appreso che nel vostro ospedale si trovano uomini e donne che danno il cattivo esempio, perniciosi: essi vi causano molto dolore per via della loro cat­tiva educazione. Cacciateli quindi subito e ripu­lite l’ospedale da simili persone affinché i po­veri dimorino in pace e tranquillità e voi stes­so non siate afflitto e maltrattato da quelle persone ».

Dopo aver ascoltato attentamente le parole del suo arcivescovo, Giovanni di Dio gli risponde con umiltà e dolcezza: Padre mio e buon Prelato, io solo sono cat­tivo, incorreggibile, inutile; merito di essere buttato fuo­ri dalla casa di Dio. Quanto ai poveri dell’ospedale, essi sono tutti buoni e non conosco vizi in alcuno di loro. Dio non sopporta d’altra parte i buoni e i cattivi? Non fa risplendere il suo sole su tutti, ogni giorno? Non c’è quindi motivo di allontanare dalla sua casa gli abban­donati e gli afflitti.

La risposta di Giovanni di Dio piacque molto all’ar­civescovo. Egli constatava l’amore paterno e tenero che Giovanni nutriva per i suoi poveri. Per difenderli non rigettava su di sé gli errori che venivano loro imputa­ti? Di conseguenza don Pedro Guerrero, nella sua sag­gezza, giudicò che si poteva – senza timore – aver fiducia in quell’uomo dabbene. Lo benedisse e, nel con­gedarlo, aggiunse: Fratello Giovanni, andate in pace, benedetto da Dio e comportatevi nell’ospedale come a casa vostra; ve lo permetto.

Confortato da queste parole, Giovanni di Dio tornò all’ospedale; ma di giorno in giorno il suo male si aggravò. A brevi intervalli sentiva i brividi e la feb­bre. Capì che la sua vita era in pericolo.

Con l’aiuto di Nostro Signore, Giovanni di D’io compi un ultimo sforzo. Prendendo con sé un segretario, un registro in bianco e l’occorrente per scrivere, si recò in città, e andando da colo­ro ai quali doveva qualcosa, fece registrare la somma dovuta ed il nominativo del creditore. Poi, al ritorno, fece copiare il tutto sopra un secondo registro. Uno se lo pose sul petto, e or­dinò che l’altro fosse custodito nell’ospedale. Se Dio lo chiamava a sé, in caso di perdita del pri­mo registro, il secondo sarebbe sempre rimasto in deposito. Si potrebbero pagare i debiti, noti cosf chiaramente.

Terminato questo lavoro, Giovanni di Dio ritornò nella sua cella e si coricò molto stanco. A partire da quel momento, incapace di uscire, egli si sforzava di portar soccorso ai poveri che facevano ricorso a lui, in­viando biglietti di raccomandazioni. E’ in questo perio­do, febbraio 1550, che egli scrisse o dettò la sua ulti­ma e lunga lettera alla duchessa di Sesa. Citata qui in parte, essa costituisce una specie di testamento partico­lare, che ben rivela le idee ed i sentimenti del santo.

Che questa lettera sia rimessa all’umile e generosa donna Maria de los Cobos y Mendoza, sposa del nobile e virtuoso signore don Gonzalo Fernandez di Cordova, duca di Sesa, mio fratello in Nostro Signore Gesù Cri­sto. In nome di Nostro Signore Gesù Cristo e di Nostra Signora la Vergine Maria sempre pura. Dio prima di tutto e al di sopra di tutto ciò che è al mondo! Amen Gesù!

Il mio grande e costante afletto per voi ed il vo­stro umile marito, il buon duca, fa si che non posso dimenticarvi; ancor pia che vi sono obbligato, vostro debitore. Non mi avete sempre aiutato e soccorso nelle mie difficoltà e necessità? La vostra carità, le vostre elemosine benedette, hanno nutrito e vestito i poveri di questa casa di Dio e molti altri all’esterno. Voi avete sempre bene agito come buoni mandatari e cavalieri di Gesù Cristo. E’ ciò che mi spinge a scrivervi questa lettera, poiché non so se vi rivedrò e parlerò ancora. Che Gesù Cristo vi visiti e vi parli!

Il grande dolore che accuso mi impedisce di pro­nunziare la minima parola, e non so se potrò terminare questa mia lettera. Vorrei tanto vedervi; pregate dun­que Nostro Signore di concedermi la salute, se è suo volere. Egli sa che ne ho bisogno per salvarmi e fare penitenza dei miei peccati. Se vuole accordarmi que­sta grazia, appena rimesso verrò a trovarvi…

Mia cara sorella in Gesa Cristo, pensavo di farvi una visita, durante le feste natalizie, ma il Signore ha disposto molto meglio di ciò che meritavo. O buona duchessa, Gesù Cristo vi ricompensi in cielo delle ele­mosine che mi avete fatto e della carità che mi avete sempre testimoniato! Possa egli ricondurvi sano e salvo il buon duca, vostro generosissimo ed umilissimo spo­so, e concedervi dei figli di benedizione; spero in Gesù Cristo che sarà cosi.

Ricordatevi bene di ciò che vi ho detto un giorno a Cabra. Riponete la vostra fiducia in Gesa Cristo solo e da Lui sarete consolata, benché ora sopportiate gran­di dolori; perché alla fine avrete maggior felicità e gloria, se li sopportate per amor suo.

O buon duca, o buona duchessa, siate benedetti da Dio, voi e tutti i vostri posteri! Poiché non posso ve­dervi, vi mando da qui la mia benedizione, indegno peccatore come sono. Dio, che vi ha creati, vi accordi anche la grazia della salvezza! Amen Gesa! La bene­dizione di Dio Padre, l’amore del Figlio e la grazia dello Spirito Santo siano sempre in voi, in tutti gli uomini ed anche in me! Amen Gesù!

Gesù Cristo vi consoli e vi assista! Poiché per amor suo, voi mi avete aiutato e soccorso, sorella mia in Gesù Cristo, buona ed umile duchessa! Se piace a Nostro Signqre di togliermi dalla vita presente, ho la­sciato qui. degli ordini perché al suo ritorno da Corte, dove è andato, il mio compagno Angulo (io ve lo rac­comando, giacché lui e sua moglie sono molto poveri) vi rimetta le mie armi: sono tre lettere in filo d’oro su raso rosso. Le conservo dacché sono entrato in lotta con il mondo; custoditele bene unitamente a questa croce, per darle al buon duca, quando Dio ve lo ricon­durrà sano e salvo.

Esse sono su raso rosso, per rammentarvi sempre il sangue prezioso che Nostro Signore ha sparso in favo­re di tutto il genere umano e la sua santissima Pas­sione. In fatti, non v’è contemplazione più sublime di quella della Passione di Gesù Cristo; e chiunque è fede­le a questa devozione non si perderà, con l’aiuto divino.

Le lettere sono tre, poiché ci sono tre virta che ci conducono al cielo. La prima è la fede: per essa, noi crediamo in ciò che crede e stima la nostra santa Madre Chiesa, osserviamo i suoi comandamenti e li mettia­mo in pratica. La seconda è la carità: carità nei riguardi della nostra anima anzitutto, puri ficandola con la con­fessione e la penitenza; poi carità verso i nostri simili, volendo per loro tutto ciò che desideriamo per noi stes­si. La terza è la speranza in Gesù Cristo solo, perché per le difficoltà e le infermità sopportate in questa vita per amor suo, ci conceda la gloria eterna, considerando i meriti della sua santa Passione e la sua grande mise­ricordia.

Le lettere sono in oro: l’oro, questo metallo cosi prezioso da risplendere ed aver il colore che lo rende pregiato, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga d’origine, poi immerso nel fuoco, dove finisce di decantarsi e purificarsi. Cosi conviene che l’anima, gio­iello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, non si attacchi che a Gesù Cristo, riceva la sua ultima purificazione nel fuoco della carità, in mezzo alle tribolazioni, ai digiuni, alle auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendere davanti, alla maestà divina.

Questa stoffa ha quattro angoli, simboli di altre quattro virta, compagne fedeli delle tre precedenti e che sono: la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La prudenza ci spinge a pensare ed operare in tutto con circospezione, saggezza e secondo i consi­gli delle persone pia anziane e con maggior esperienza. Con la giustizia ci regoliamo secondo l’equità e diamo a ciascuno ciò che gli appartiene: a Dio ciò che è di Dio, al mondo ciò che è del mondo. La temperanza ci insegna ad essere moderati nel mangiare, nel bere, nel vestire e in tutto ciò che è necessario per il sosten­tamento del nostro corpo. In fine, sotto il dominio della fortezza, siamo fermi e felici nel servizio di Dio, mo­striamo un volto giovale nelle difficoltà, nelle fatiche, nelle malattie, come nella prosperità e nelle consola­zioni, e rendiamo grazie a Gesù Cristo in ambo i casi.

Sulla parte posteriore di questa stoffa, una croce a forma di X rammenta che chiunque desidera salvarsi deve portare la sua croce secondo la volontà divina e la grazia ricevuta. Tutti, infatti, mirano allo stesso scopo, ma ciascuno procede per la strada su cui il Si­gnore lo conduce.

Tutto questo, buona duchessa, voi lo sapete meglio di me e nondimeno provo piacere a parlarne con qual­cuno che mi comprende…

Cara sorella in Gesù Cristo, il male mi fa soffrire molto e non mi permette pia di scrivere; desidero ripo­sarmi un po’, per potervi scrivere in seguito pia a lun­go, perché non so se ci rivedremo ancora. Gesù Cristo sia con voi e la vostra famiglia…

Questa frase, rimasta incompiuta, è probabilmen­te l’ultima scritta da Giovanni di Dio, poco prima di morire.

 

XVI. MORTE DI GIOVANNI DI DIO

Gli abitanti di Granata non vedevano più Giovanni di Dio percorrere le strade per la questua. Meravigliati, essi si informarono e quando seppero che era malato al punto di non poter lasciare il letto, si affrettarono a procurargli il necessario e a dare ai poveri ed agli ammalati i loro doni abituali. Da parte loro, le persone ipiù ragguardevoli della città gli testimoniarono il più vivo interesse, gli prodigarono dei soccorsi e si preoc­icuparono a buon diritto della continuità della sua ope­ra. Essi impegnarono in particolare il fratello Martin, primo compagno del santo, ad assicurargli la tranquil­lità ed il riposo richiesti dalla malattia ed a sostituirlo provvisoriamente nella direzione dell’ospedale.

Messa al corrente della malattia di Giovanni di Dio, donna Ossorio, sposa di Garcia de Pisa, membro del gran consiglio dei ventiquattro, venne anche a visitarlo. Questa cristiana tanto esemplare, benefattrice abituale dell’ospedale, constatò la gravità del suo stato e lo scarso sollievo che egli riceveva in quel luogo. Circon­i Questo capitolo si ispira al racconto di de Castro, sem­plificandolo. Sono testuali soltanto la frasi in corsivo. dato da poveri, ai quali non sapeva rifiutare nulla, egli non poteva riposarsi. Ella lo pregò dunque caldamente di accettare il trasferimento nella sua casa; lo avrebbe curato, sarebbe rimasto a letto in una camera riscaldata e silenziosa. Fino allora dormiva sulle tavole, col suo cesto come cuscino, e si era in febbraio.

Egli ebbe un bello scusarsi, supplicare che non lo separassero dai suoi poveri,, in mezzo ai quali voleva morire ed essere sepolto. Infine, tuttavia, donna Ana Ossorio, munita di un ordine preciso dell’arcivescovo, riuscì a convincerlo dicendo: « Avete predicato a tutti l’obbedienza, dovete obbedire ora che vi si chiede di farvi curare per delle serie ragioni e per amore di Gesù Cristo ».

Donna Ana Ossorio fece dunque venire una portan­tina, per condurlo via. Ve lo misero, ma i poveri, sen­tendo che volevano portar via il loro Padre, la circon­darono per opporvisi, tanto lo amavano. Di fronte alla sventura, queste povere persone brandivano le loro uniche armi: gemiti e singhiozzi cosi strazianti che nessun cuore avrebbe potuto rimanervi insensibile. Scon­volto, Giovanni di Dio esclama: « Dio lo sa, fratelli miei, io desideravo morire in mezzo a voi; ma poiché egli vuole che io muoia senza vedervi, che sia fatta la sua volontà! ». Ed impartendo a tutti la sua benedizio­ne, aggiunge:«Fratelli miei, rimanete in pace e, se non ci rivedremo più, pregate per me Nostro Signore».

A queste parole, le grida di desolazione aumentano e provocano in Giovanni di Dio un’emozione così vio­lenta che egli sviene sulla portantina.

Ritornato in sé, lo portano subito dalla dama, per non causargli ulteriore dolore. La casa dei « Pisas »

si trova al numero 22 (oggi 16) di via « Convalecen­cia », sotto la « Torre de la Vela ». I vicini assistono all’arrivo del povero uomo allo stremo delle forze. Mol­to in fretta, dunque, la notizia si diffonde a Granata.

Donna Ana Ossorio lo riceve personalmente. E’ un onore per lei averlo nella sua casa. I suoi domestici si affrettano attorno a Giovanni di Dio che è sfinito. Lo trasportano con precauzione in una camera spaziosa del primo piano. Il copriletto di seta verde è stato tolto, il letto è pronto per accogliere il malato. Delicatamente gli tolgono l’abito ruvido e povero e gli fanno indossa­re un’ampia camicia da notte, nella quale le sue mem­bra indolenzite saranno a loro agio. Per la prima volta indubbiamente, da oltre dieci anni, egli può riposare e dormire tranquillo, troppo debole d’altronde per pro­vare il minimo affanno. I medici verranno; essi som­ministreranno i loro farmaci più o meno efficaci. A nulla servirà questo riposo; esso procurerà solo una tregua. Infatti la malattia è molto grave, e a quell’epo­ca – a quanto sembra – senza rimedio. Tutta l’élite di Granata si preoccupa per la salute di quest’uomo senza titoli, senza dignità, senza pretese, ma la cui carità eroica ha conquistato il cuore di tutti. Alla cat­tedrale, nelle chiese, ma soprattutto nei monasteri e nei conventi, incessanti preghiere si alzano al cielo in favore di questo oscuro straniero, dal cuore magnani­mo, inviato da Dio per galvanizzare la cristianità anda­lusa e castigliana e, quanto prima, per edificare tutta la Chiesa.

Riposatosi un po’, molte persone importanti venne­ro a visitarlo, riempiendolo di leccornie, in una gara di cortesia. Egli non le assaggiava, ma ringraziava ed apprezzava la carità che li spingeva a fargli del bene. Contemporaneamente, del resto, gli impedivano di ve­dere i poveri; c’era là un portiere che proibiva loro di entrare poiché, nel vederli, egli piangeva e soffriva. Egli otteneva, se non altro, di far distribuire loro le lec­cornie ricevute.

Nonostante tutte le cure, il male si aggravava di giorno in giorno. Quando l’arcivescovo apprese che Gio­vanni di Dio si avvicinava alla fine venne a visitarlo, a consolarlo con sante parole ed incoraggiarlo per il grande viaggio. Prima di lasciarlo, gli disse queste paro­le: « Se c’è qualcosa che vi addolora, fatemene parte­cipe; se posso vi porterò rimedio ». – « Padre mio e buon pastore, rispose lui, tre cose mi danno pensiero. La prima: aver servito così poco Nostro Signore, men­tre ho ricevuto tanto. La seconda: i bisognosi, le per­sone uscite dal peccato, dalla via cattiva ed i poveri ritrosi che ho preso a mio carico. L’ultima: questi debi­ti che ho contratto per Gesù Cristo ». E gli rimette il registro sul quale erano annotati. Il prelato riprese:

« Fratello mio, mi dite che non avete servito Nostro Signore. Ebbene! abbiate fiducia nella sua misericordia. Egli supplirà con i meriti della sua Passione a ciò che vi è mancato. Per quanto concerne i poveri, io li rice­vo e prendo a carico mio, com e mio dovere. Quanto ai vostri debiti, fin d’ora li assumo e vi prometto di pa­garli, come avreste fatto voi. Di conseguenza, rimanete in pace e non vi preoccupate di nulla. Pensate soltan­to alla vostra salvezza e raccomandatevi a Nostro Signore ». Giovanni di Dio trasse un grande conforto dalla visita e dalle promesse del suo prelato. Gli baciò la mano di nuovo e ricevette la benedizione. Poi, dopo aver rivolto al malato qualche parola di consolazione, l’arcivescovo se ne andò e, strada facendo, si recò a visitare l’ospedale.

Molto indebolito, Giovanni di Dio, nel corso della serata di venerdf 7 marzo, ricevette in piena conoscen­za il sacramento della penitenza (cosa che faceva d’al­tronde molto spesso), e gli fu portato Nostro Signore che lui adorò, poiché il suo stato non gli permetteva pia di comunicarsi. Chiamando allora il suo compagno, Antonio Martin, gli affidò i malati, i bisognosi ed i pove­ri ritrosi e gli comunicò le sue ultime raccomandazioni, poi chiese di rimanere solo per dormire un po’: il suo ultimo riposo su questa terra!

Il sabato 8 marzo, infatti, una mezz’ora dopo il mat­tutino, arrivato alla fine e rattristato di morire così in quel letto, a suo parere troppo confortevole, Giovanni di Dio, stimolato dalla sua ardente carità, concentra le rimanenti energie, si alza, si trascina come può e sor­reggendosi al tavolino rettangolare, si inginocchia per terra. Stringe il crocifisso al petto ansante e; dopo un piccolo momento di silenzio, pronuncia con voce chiara e intelligibile: « Gesù, Gesù, mi rimetto nelle vostre mani! » e rende l’anima al suo Creatore, all’età di 55 anni, l’8 marzo 1550, dopo aver servito i poveri per undici anni nel suo ospedale.

Accadde allora, continua de Castro, una cosa degna d’ammirazione, non riferita di alcun altro santo, tranne di san Paolo, primo eremita: dopo la morte il suo corpo restò fermamente in ginocchio, senza cadere, per la durata di un quarto d’ora. E sarebbe rimasto in quel­la posizione fino ad ora, se non fosse stato per la sem­plicità dei presenti. Vedendolo così, essi pensarono che era disdicevole che il corpo si irrigidisse in ginocchio. Per seppellirlo gli fecero perdere quella forma, non senza difficoltà. Molte dame di alto rango e quattro sa­cerdoti assistettero alla sua morte e tutti rimasero am­mirati, rendendo grazie a Nostro Signore per aver concesso al suo servo un genere di morte in completa armonia con la vita.

Secondo una persona che gli fu molto devota, rife­risce ancora de Castro, Giovanni di Dio diceva talvolta che sarebbe morto tra il venerdi ed il sabato. Fu così: morì una mezz’ora dopo la mezzanotte. Egli diceva an­che che molti avrebbero portato il suo abito a servizio dei poveri, attraverso il mondo intero, e ciò sta per aver inizio, conclude de Castro.

Nella nostra epoca, quella predizione si è piena­mente realizzata, giacché san Giovanni di Dio è il pa­triarca dei figli e delle figlie che continuano la sua opera nelle cinque parti del mondo.

 

XVII. LE ESEOUIE DI GIOVANNI DI DIO

Fin dal sabato mattina, 8 marzo, donna Ana Ossorio si premurò di annunciare all’arcivescovo, don Pedro Guerrero, la morte di Giovanni di Dio e di consul­tarlo riguardo le disposizioni da prendere per le ese­quie.

Questa nobile dama, convinta di avere sotto il pro­prio tetto il corpo di un santo, volle onorarlo, dopo la sua morte, con sollecitudine maggiore di quella pro­digatagli durante la malattia. Ella fece esporre il cor­po sopra un letto meraviglioso, ornato con quanto ave­va di più sontuoso, in una grande sala. Furono alle­stiti tre altari, dove sacerdoti secolari e regolari, venu­ti spontaneamente da tutti i punti della città, celebraro­no la messa, senza interruzione, dal sabato mattina fino al mattino di lunedì dieci, giorno fissato per le esequie. Da parte loro, dei fedeli pregavano, senza posa, dinanzi al corpo.

Alla morte di Giovanni di Dio si compì con esat­tezza ciò che Cristo nostro Redentore ha detto nel suo Vangelo: « Chiunque si abbasserà sarà innalzato » (Mt. 23, 12).

Per tutto il tempo che servì Nostro Signore, egli si sforzò di umiliarsi, di disprezzarsi, di tenersi all’ultimo posto con tutti i mezzi possibili. Da parte sua, Nostro Signore, realizzando pienamente la sua parola, innalzò ed onorò Giovanni di Dio in vita ed in morte: Infatti fecero al suo corpo il pia sontuoso seppellimento che sia mai stato fatto per quello di un principe, di un impe­ratore o di un monarca di questo mondo.

Se alle esequie di certi principi hanno assistito tan­te persone altrettanto ragguardevoli e persino di più, i sentimenti che animavano gli uni e gli altri differivano molto. Ora, sono i sentimenti quelli che misurano il vero onore reso. Coloro che assistono alle esequie dei principi lo fanno spesso per adulare i loro successori e piacer loro o anche, talvolta, perché vi sono costretti (i complimenti del mondo non sono di solito di questo tipo?). Per le esequie di Giovanni di Dio fu tutt’altra cosa. Egli era così povero, così’ umile! Non possedeva niente sulla terra. Le persone accorse per onorarlo non potevano dunque essere sospettate di nessuna di quel­le tre concupiscenze che, secondo san Giovanni, sedu­cono gli uomini del mondo.

Nondimeno, il giorno in cui si apprese della morte e delle esequie di Giovanni di Dio, una folla di per­sone di ogni condizione venne in fretta, senza esservi convocata.

Di primo mattino, il lunedì, le strade e le piazze vicine alla casa mortuaria potevano a stento contenere la folla in continuo aumento. La partenza ha luogo alle nove. Si depone la bara aperta sopra una barella ric­camente ornata. Quattro gentiluomini della più alta no­biltà: don Enriquez de Ribera, marchese di Tarifa, don Rodrigue Pacheco, marchese di Ceraldo, don Pedro Bobadilla e don Juan de Guevara, la mettono in spalla e si portano fino alla strada. Qui sorse una contestazione per sapere chi doveva allora prenderlo in carico. Il venerabile Padre Carcamo, dei frati mino­ri, ed altri Padri del suo Ordine, si presentano subito:

è a noi, essi dicono, che spetta di portare questo corpo giacché, da vivo, egli ha imitato completamente il nostro Padre san Francesco in povertà, penitenza e ri­nunzia. Viene quindi lasciato loro per un buon tragit­to poi, di quando in quando, gli altri religiosi di tutti gli Ordini si danno il cambio in quel servizio, fino all’arrivo a Nostra Signora della Vittoria.

A causa della moltitudine che si accalca lungo il passaggio, il Corregidor e le guardie civili sono costret­ti a fare largo ed a canalizzare la folla.

Ecco l’ordine del corteo. In testa, i poveri dell’ospe­dale di Giovanni di Dio, le donne da lui maritate, le ragazze povere e le vedpve, sue protette: tutti con una candela in mano. « Essi piangono e gridano i bene­fici e le elemosine da lui ricevuti ». Vengono poi le nu­merosissime confraternite della città, secondo il loro Ordine, con le loro fiaccole, le loro croci e i loro sten­dardi. Poi, mescolati insieme e portando dei ceri, i chierici ed i religiosi di tutti gli Ordini. Seguono la croce della parrocchia ed il suo clero, il capitolo dei canonici e i dignitari della Chiesa con la loro croce; infine l’arcivescovo ed i cappellani della cappella reale. Viene poi il corpo e appresso, il Corregidor, il gran consiglio dei ventiquattro i giurati della città, i cava­lieri ed i signori, tutti gli ufficiali ed avvocati della cancelleria reale ed un’infinità di persone: esse espri­mono il loro dolore. Non solo i vecchi cristiani, ma anche i moriscos piangono, narrano nella loro lingua araba il bene, le elemosine ed il buon esempio di Gio­vanni di Dio e, con grandi grida, ripetono mille bene­dizioni.

Le campane della Chiesa maggiore, di tutte le par­rocchie e di tutti i monasteri della città suonano a morto. Esse sembrano, quasi fossero dotate di ragione voler esprimere un sentimento diverso da quello solito.

Quando il corteo raggiunge la piazzetta davanti all’entrata di Nostra Signora della Vittoria, la bara vie­ne fermata. Vi è ressa, infatti, per entrare’ in chiesa e la folla spinge; non si può più avanzare; si rimane fermi per molto tempo… Allora la massa, nella sua ardente devozione verso Giovanni di Dio, che essa non rive­drà mai più, si sforza di guardare, di toccare il corpo, di prenderne qualche reliquia: alcuni fanno toccare i grani del rosario, altri dei libri di preghiere e diversi oggetti per loro consolazione. Quegli appassionati si serrano tanto fitti attorno al corpo, i loro pianti e le loro grida sono così veementi, che non li si può allon­tanare in alcun modo, né con la preghiera né con la forza. Se Dio non avesse badato a farli allontanare, avrebbero ridotto a pezzi anche la bara, per prenderli come ricordi.

Finalmente, i portatori possono introdurre il corpo in chiesa; i religiosi Minimi rimasti in convento con a capo il loro superiore generale, allora a Granata, lo ricevono, io portano e io pongono ‘sopra un ricco catafal­co innalzato nel coro.  Questo Padre generale presiede All’ospedale dei compagni di Giovanni di Dio, non vi era chiesa in cui poteva essere sepolto; costoro ac­cettarono dunque l’offerta della famiglia Pisa: si inumò Giovanni di Dio nella tomba di quella famiglia, situata in una cappella laterale della chiesa di Nostra Signora della Vittoria.

Nei due giorni successivi si cantò ancora la messa con la stessa solennità; vi fu la predica alla presenza di una grande folla e si celebrarono molte altre messe. A Granata non si predicò per pia di un anno senza fare allusione a Giovanni di Dio ed alla sua vita, sia per addurre una prova alla tesi avanzata, sia per for­nire un esempio al popolo.

Venti anni dopo quel giorno, scrive de Castro, alcu­ni cavalieri, desiderosi di vedere il corpo di Giovanni di Dio, entrarono nella tomba e lo trovarono intatto. Senza traccia di corruzione, tranne sull’estremità del naso. Ne rimasero meravigliati, poiché non ci si era preoccupati di imbalsamarlo.

Su quella tomba appena chiusa, i numerosi amici di Giovanni di Dio, certi della sua autorità presso il Signore, vennero ad implorare la sua intercessione ed a sollecitare delle grazie spirituali e temporali. Ben presto, vi furono molti miracoli e la reputazione di santità del defunto si diffuse sempre più.

Questi eventi portarono i discepoli diretti di Gio­vanni di Dio a tendere verso due obiettivi: ottenere che il corpo del servo di Dio fosse loro restituito ed iniziare le pratiche per ottenere la sua beatificazione.

Qui ci interessa solo il primo obiettivo. Esso fu rag­giunto gradualmente. Il 6 settembre 1625, il nunzio apostolico ordinò di estrarre il corpo di Giovanni di Dio dalla tomba della famiglia Pisa-Ossorio e di collo­carlo da solo sotto l’altare della stessa cappella.

Poi, dopo molte pratiche presso i superiori generali dei Minimi ed un intervento della Santa Sede, il padre Ferdinando d’Estrella, priore generale dei fratelli ospe­dalieri di Spagna, il 28 novembre 1664, ottenne la traslazione del corpo di Giovanni di Dio nella modesta chiesa ad una sola navata, acquistata da Antonio Martin nel 1552, annessa al nuovo ospedale che si intitola a Giovanni di Dio.

Un secolo più tardi, essendo stato ingrandito l’ospe­dale di Giovanni di Dio, il padre Alfonso di Gesù Ortega, priore generale dei fratelli ospedalieri di Spa­gna, iniziò la costruzione di una nuova e magnifica chiesa di stile corinzio. Iniziata nel 1735, essa fu ulti­mata nel 1741. Un « camarin », situato dietro e al di sopra dell’altare principale, ospita un’urna in argen­to massiccio contenente i resti di Giovanni di Dio.

Il 20 dicembre 1920, il papa Benedetto XV con­cesse a questa chiesa il titolo di basilica minore.

 

XVIII.        L’UOMO – IL SANTO

All’epoca in cui de Castro iniziò la biografia di Giovanni di Dio, verso il 1580, trent’anni dopo la mor­te del suo eroe, v’erano ancora a Granata molte perso­ne che l’avevano conosciuto. L’autore avrebbe quindi potuto darcene un autentico ritratto fisico. Egli non ne sentì il bisogno. Leggendolo si apprende, senz’altro, che Giovanni di Dio, all’inizio della sua opera ospeda­liera e sociale, era un uomo solido e vigoroso.

Al contrario, verso il 1620, quando Govea, suo se­condo biografo, abbozzò la sua opera, i testimoni diret­ti della vita di Giovanni di Dio erano diventati molto rari ed anziani. Tuttavia Govea, più sensibile di de Castro all’aspetto esteriore del santo ospedaliero, si sforzò di descriverlo facendo del suo meglio: Era, egli dice, un uomo grande, dalla barba e dai capelli neri, dalla corporatura atletica e atto a diventare un soldato.

Checché ne sia dell’esattezza di questa descrizione, essa ha ispirato, è un dato incontestabile, tutti gli scul­tori e pittori del XVII secolo incaricati di raffigurare Giovanni di Dio. Gli scultori: Augustin Ruiz, Diego de Mora, Pedro de Mena (1620-1693) e José Risueno (1665-1732), come i pittori dello stesso periodo: Her­rera el Viejo (1576-1656), José de Ribera (1588-1656), Francisco Zurbaran (1598-1662), Murillo (1617-1682) pongono dinnanzi ai nostri occhi un Giovanni di Dio molto grande, reso ancor più alto da un abito religioso che gli arriva fino ai piedi. Ora, Giovanni di Dio non portò mai un simile abito. Esso fu dato ai suoi disce­poli dal papa san Pio V il 1° gennaio 1572, 22 anni dopo la morte del santo. Tuttavia, Govea non poteva ignorare la deposizione di Antonio Rodriguez, 17° te­stimone al processo di beatificazione di Giovanni di Dio, nel 1622, tre anni prima della pubblicazione della sua opera. Ora, cosa dichiara Antonio Rodriguez, un tempo portinaio presso l’arcivescovado di Granata, abi­tuato quindi a causa delle sue mansioni a squadrare le persone? « Antonio Martin era un uomo grande, ave­va in capo un berretto rosso, e Giovanni di Dio un uomo pia piccolo, vigoroso, magro e minuto di volto. Egli andava scalzo, portava soltanto calzoni di tela ed un mantello di stoffa grossolana, stretto da una cintura e che arrivava sopra il ginocchio. Aveva la barba e i capelli corti e camminava a capo scoperto. Entrambi soccorrevano i poveri con grande carità ».

Questa descrizione è del tutto conforme ad una scul­tura in legno anteriore al 1579. In base a questa opera, Giovanni di Dio in ginocchio appare di una statura appena sopra la media e indossa un abito corto un po’ speciale ma non religioso, che gli era stato imposto da don Sebastiano Ramirez di Fuenleal, prima del 20 gennaio 1540.

Ecco perché anche il busto di Giovanni di Dio (ec­cezion fatta dell’abito) attribuito a Pedro Raxis (1580-1616), e soprattutto la testa di Giovanni di Dio scolpita policroma da Alonso Cano (1601-1667), ci sembrano avvicinarsi maggiormente alla realtà.

Sintetizzando i dati precedenti, si può, a quanto pare, figurarsi così Giovanni di Dio all’inizio della sua vita ospedaliera: di statura leggermente superiore alla media, egli è agile, ben fatto, il volto magro e bruno, la barba e i capelli bruno scuri, la fronte ampia e libera, gli occhi neri e penetranti; l’insieme del volto, dal­l’aspetto meditativo, riflette una certa tristezza com­passionevole e, a tratti, un’angoscia difficilmente con­tenuta.

Del resto, i diversi episodi della vita di Giovanni di Dio ci hanno già permesso di cogliere da vicino molti aspetti del suo temperamento, del suo carattere, della sua vita psicologica e morale. Uno studio sistema­tico, fatto con obiettività dal Padre Vincente Parra Sanchez s.j., secondo il metodo rigoroso di Sheldon, arricchisce ulteriormente la nostra documentazione

Tenendo conto di tutti questi dati, Giovanni Cida­de, in gioventù, sembra dotato di un temperamento emotivo, estroso, talvolta persino impulsivo. Di una viva sensibilità, egli è naturalmente affabile con tutti. Pronto nel decidersi, egli ama il rischio, l’avventura, la vita libera e fugge la costrizione. E’ accessibile all’amor proprio, alla vanagloria, che lo portano ad iniziative rischiose e persino ad eccessi sanciti da gravi prove fisiche e morali. Queste prove, considerate sempre più da Giovanni come conseguenze dei suoi errori, deter­mineranno in lui dei rimorsi cocenti, mantenendolo a lungo in uno stato di contrizione e di pentimento gra­datamente accentuato. Una tale disposizione porterà, lo si è constatato, ad un passeggero crollo nervoso, ma emergerà a più riprese sotto forma di angosce, più o meno vive, nel corso della sua vita ospedaliera.

Giovanni Cidade prenderà così peraltro coscienza della propria debolezza e miseria. Con la grazia del Signore, esse lo porteranno verso un’umiltà profonda, radicale, che gli permette ben presto di sopportare tutte le vessazioni, senza strappargli il minimo lamento, il più piccolo gesto di impazienza. Ancor più, essa gli farà ricercare e persino comprare gli insulti: Se dici ciò in piazza, avrai due reali! (p. 116).

Questa umiltà gli diverrà connaturale; essa consu­merà le tracce del suo amor proprio, della sua vanaglo­ria di gioventù, la sorgente di tutte le sue disgrazie di altri tempi. Di qui anche quel bisogno costante di rivol­gersi ad una direzione spirituale fissa, quella ricerca perseverante del meglio, nell’unione con Dio, la pre­ghiera, il sacrificio, la penitenza, il digiuno e, in partico lare, con quel grido ripetuto senza posa: Signore, con­cedi la pace alla mia anima e fammi conoscere la strada che devo seguire per arrivare a te.

In fondo, egli realizza in anticipo quanto scriveva più tardi alla duchessa di Sesa. L’oro, questo metallo tanto prezioso, da risplendere ed avere lo splendore che lo fa ammirare, viene dapprima separato dalla terra e dalla ganga originale, poi immerso nel fuoco, dove termina di decantarsi, di purificarsi. Così conviene che l’anima, gioiello di grandissimo valore, si distacchi dalle gioie e dai piaceri carnali della terra, si attacchi a Gesù Cristo solo, riceva la propria purificazione nel fuoco della carità, tra le tribolazioni, i digiuni, le auste­re penitenze, per diventare preziosa agli occhi di No­stro Signore e risplendente dinnanzi alla maestà divina.

D’ora in poi, basterà che la grazia lo inviti a segui­re una strada perché egli vi si inoltri con ardore. Nulla lo ferma. Rimarrà sempre libero in tutte le sue opere ma, spontaneamente, porrà la propria libertà sotto il dominio della grazia. Gli atti realizzati avranno la duplice caratteristica di essere soprannaturali ed umani, di dipendere da Dio e dalla libera volontà dell’uomo.

Questa vita di unione con Dio si manifesterà con orazioni mentali sempre più prolungate e giaculatorie sempre più frequenti. Il Padre Parra Sanchez osserva che, nelle sue sei lettere, Giovanni di Dio cita il nome di Gesù o del Signore 175 volte!

Così ravvivato, il suo amore per Dio si proietterà naturalmente sul suo prossimo e, in particolare, sui poveri ed i sofferenti. Fedele discepolo ed imitatore di Gesù Cristo, egli bruciava dall’unico desiderio di amar­lo sopra ogni cosa e di servirlo nella persona di tutti gli uomini, senza eccezione. In breve, è stato detto di Giovanni di Dio in una formula spagnola molto espres­siva: Egli aveva un cuore di pietra per se stesso, un cuore quasi materno per il prossimo ed un cuore di fuoco vivo per Dio.

Non si tratta qui di sviluppare la sua concezione della spiritualità. Questo lavoro è già stato fatto in

modo notevole. Sembra tuttavia interessante citare alcuni estratti delle sue lettere, in cui espone ai suoi corrispondenti, in tutta semplicità, ciò che ritiene ne­cessario per ogni cristiano. Queste citazioni avranno inoltre il vantaggio di rivelarci i punti principali delle sue preoccupazioni e del suo apostolato diretto.

Noi abbiamo tre doveri verso Dio, egli scrive alla duchessa di Sesa. Amarlo, servirlo, adorarlo. Amarlo sopra ogni cosa che è al mondo, poiché egli è il nostro Padre celeste; servirlo, egli è Nostro Signore, non per desiderio di gloria con la quale deve gratificare i suoi fedeli, ma per la sua sola bontà; infine adorarlo, perché è il nostro creatore e dobbiamo avere sulle labbra il suo santo nome solo per rendergli grazie e benedirlo.

Buona duchessa, tre occupazioni devono riempire le vostre giornate: la preghiera, il lavoro e le cure da prodigare al vostro corpo.

La preghiera. – Rendete grazie a Gesù Cristo appena vi alzate, al mattino, per i suoi continui favori e bene­fici nei vostri confronti. Egli vi ha creato a sua imma­gine e somiglianza. Ci ha fatto la grazia di essere cristia­ni. Implorate anche la sua misericordia, il suo perdono e pregate Dio per tutti.

Il lavoro. Dobbiamo dedicarci a qualche occupazio­ne corporale onesta per meritare il pane che mangiamo ed anche per imitare Gesa Cristo, che ha lavorato fino alla morte. Niente, del resto, genera pia peccati del­l’ozio.

Le cure del corpo. – Come il mulattiere cura e man­tiene la propria bestia per servirsene, così conviene che diamo al nostro corpo ciò che è necessario, affinché non ci vengano meno le forze per servire Nostro Si­gnore.

Mia amatissima e carissima sorella, vi prego per amor di Gesù Cristo, abbiate sempre dinnanzi allo Spi­rito queste tre verità: l’ora della morte, a cui nessuno può sfuggire, le pene dell’inferno, la gloria e l’infinita felicità del paradiso.

La morte, infatti, pensateci bene, distrugge tutto, ci spoglia di tutto ciò che ci ha dato questo miserabile mondo, ci lascia portar solo un pezzo di tela usata e mal cucita. Se moriamo in stato di peccato, i piaceri di breve durata, i divertimenti tanto passeggeri, dovran­no essere espiati nel fuoco dell’inferno. La gloria e la felicità, al contrario, Nostro Signore li riserva ai propri servitori. Sono felicità che l’occhio non ha mai visto, che l’orecchio non ha mai udito e che il cuore dell’uomo non ha mai provato.

Rivolgendosi a persone sposate, Giovanni di Dio non dimentica di rammentare loro la dignità del loro stato, e prodiga eccellenti consigli.

Noi tutti tendiamo allo stesso scopo, ciascuno, èvero, seguendo la strada scelta da Dio… Alcuni sono religiosi, altri chierici, altri eremiti, ed altri infine sono sposati. Così, in ogni stato, ci si può salvare se lo si vuole… è una ragione per incoraggiare gli uni e gli altri… Ciascuno deve abbracciare lo stato in cui Dio lo chiama.

Quanto ai padri e alle madri, essi non devono preoccuparsi e tormentarsi troppo a questo proposito, ma pregare Dio di concedere a tutti i loro figliuoli lo stato di grazia. Quando Dio vorrà, uno si sposerà e l’altro canterà messa, e di tutto questo io non so nulla, Dio sa tutto… E’ Lui che conosce meglio ciò che occorre fare dei vostri figli e figlie e, qualunque cosa Egli decida, voi dovete ritenerla per fatta e ben fatta.

Non può tuttavia tacere con loro’ ciò che gli stava maggiormente a cuore e, in modo indiretto, termina con una lezione di fede e di carità fraterna: « Che il Signore mi faccia la grazia di professare e di credere tutto ciò che crede la nostra santa Madre Chiesa) io lo professo e credo fermamente. Come lei lo professa e crede, così io lo professo e credo: da ciò non voglio allontanarmi, vi ho posto il mio sigillo, lo chiudo con La mia chiave… Se considerassimo la grandezza della misericordia divina, mai cesseremmo di fare il bene quando lo possiamo; poiché, dando ai poveri per amor suo ciò che egli stesso ci ha dato, è il centuplo ciò che egli ci promette nella sua beata eternità. O beato be­neficio, o beati interessi! Chi non darebbe tutto ciò che possiede a questo benedetto creditore che, con noi, fa un così buon affare e ci prega a braccia aperte di convertirci, di piangere i nostri peccati, di fare la carità alle nostre anime e poi ai nostri simili; poiché come l’acqua estingue il fuoco, cosE la carità soffoca il pec­cato ».

Non si può dare una conclusione più sicura a que­sto esposto di queste righe di Pio XII indirizzate al

Padre Ephrem Blandeau, allora priore generale dell’Ordine di san Giovanni di Dio, in occasione del IV centenario della morte del santo. « Voi conoscete per­fettamente i grandi ostacoli e le molteplici difficoltà che egli ha dovuto superare nella sua natura per giungerè alla pratica delle virta cristiane. Egli le acquistava solo al prezzo di uno sforzo quotidiano e di una lotta senza pietà. Guidato e sostenuto in questa via dalla grazia, sotto l’impulso di una volontà che non ammetteva cedi­menti, egli sali sempre con passo pia rapido fino alla vetta della pia alta santità. Egli si è trasformato a! punto da suscitare l’ammirazione generale e diventare l’angelo tutelare dei malati e dei poveri. Voi sapete anche con quale soavità si sforzò di porre rimedio con tutti i mezzi ad ogni sorta di miserie, di infermità e di ango­sce. Stimolato dall’amore divino, non si accontentava di guarire le malattie del corpo, di dare, in base ai suoi mezzi, il pane agli affamati, gli abiti ai poveri in stracci, un ospedale ai vecchi ed agli abbandonati; ma dispensava anche alle loro anime la luce celeste ed i divini conforti, per innalzarli alla speranzà della beati­tudine eterna. Ecco la sacra eredità che egli vi ha lasciato ».

 

XIX. GLORIFICAZIONE DI GIOVANNI DI DIO

La morte di Giovanni di Dio ebbe una risonanza straordinaria in Spagna e in Portogallo. All’unanimità fu lodata la sua azione. Il popolo lo chiamò « Padre dei poveri », i grandi di Spagna la « meraviglia di Gra­ta » e l’opinione pubblica « l’onore del suo tempo ».

Sulla sua tomba e in diverse regioni si moltiplica­rono i miracoli dovuti alla sua intercessione. Il proces­so di beatificazione, iniziato fin dal 1622, fu attivamen­te seguito, poi esaminato e discusso dai membri della Congregazione dei Riti, su domanda del relatore, il cardinale Pietro Maria Borghese, proponente la causa. Costoro decisero all’unanimità, il 28 giugno 1630, che si poteva con tutta certezza, col consenso di Sua San­tità, concedergli il titolo di beato.

Messi al corrente di questa importante decisione, Ferdinando Il, imperatore di Germania, Filippo IV, re di Spagna, Isabella di Francia, sua sposa, la regina madre Maria dei Medici, che aveva introdotto in Fran­cia i fratelli di Giovanni di Dio (1601), numerosi altri principi ed i superiori dei religiosi ospedalieri, si affret­tarono a pregare il pontefice di procedere alla beatifi­cazione.

Consentendo a tutte queste domande, Urbano VIII, con lettera apostolica del 21 settembre 1630, dichiarò beato l’umile fratello Giovanni di Dio.

La beatificazione fu celebrata tanto a Roma e in Italia che a Granata, a Montemor-o-Novo e in tutta la penisola iberica con grande magnificenza. In nessun luogo, tuttavia, queste feste furono tanto brillanti come a Parigi. Messer Giovanni di Loyac, sacerdote, pro­tonotario della Santa Sede, consigliere, elemosiniere e predicatore ordinario del Re e abate di Nostra Signora di Gondon, nella sua opera « Il trionfo della Carità nella vita del Beato Giovanni di Dio », apparso a Parigi, presso Antonio Chrétien, nel 1661, ce le riporta con dovizia di dettagli, con compiacenza e candore deli­ziosi. Li riassumiamo qui; tuttavia i testi più significativi saranno riportati senza alcuna modifica.

La bolla di beatificazione di Giovanni di Dio fu pubblicata a Parigi nel gennaio 1631, ma la solennità fu differita all’8 marzo successivo.

Maria dei Medici, reggente e madre del re Luigi XIII, prima di partire per la Piccardia, incaricò l’abate di Loyac e il Padre Priore della Charité de Paris di pre­parare le solennità per quel giorno.

Le decorazioni della chiesa della Carità, scrive l’aba­te di Loyac, furono cosi ricche e belle che non si sapeva ciò che si doveva maggiormente ammirare, se i preziosi addobbi che l’ornavano, o la loro inge­gnosa disposizione. Tutte le pareti erano ricoperte da tappezzerie d’oro e di seta. In mezzo alla navata, un candeliere alto dodici piedi (3 m. e 90) e una circon­ferenza di trenta quattro (11 m. e 20) serviva da base all’immagine del beato, cosi naturale da farlo sembrare pia un uomo vivo che non il suo ritratto. Questo deliere era pieno di cosi tante candele, che la loro luce offuscava la luce del giorno. Esso era sorretto dalle sette opere di misericordia corporale, raffigurate in atteg­giamenti cosi devoti e magnifici che non vi era niente da desiderare. Una balaustrata di colonne di marmo, di diaspro, d’oro, di lapislazzoli divideva la navata dal­l’altare principale e sosteneva un’arcata in cui erano raffigurate le principali azioni del santo uomo…

Questa augusta pompa iniziò il venerdi, 7 marzo, con l’esposizione del SS. Sacramento, fatta dal vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…

Diversi cori cantarono i vespri e l’abate Berthier, divenuto dopo vescovo di Montauban, fece un’eloquen­te omelia. Il sabato, giorno della festa, la « celebrità »ricominciò con un melodioso concerto di campane…

La chiesa era piena fin dall’alba. Il Padre Bernardo, detto il sacerdote povero, celebrò la messa del mattino e comunicò tutti i religiosi ed i poveri che dovevano assistere alla processione…

I cento svizzeri del Re erano venuti per impedire la confusione, il disordine in chiesa, nell’ospedale e lungo le vie per le quali doveva passare la processione… La processione usci di chiesa verso le nove e percorse tutte le strade principali di questo grande sobborgo òcittà di Saint-Germain-des-Prés, in questo ordine.

Un ufficiale delle Guardie e dodici svizzeri del re precedevano la croce, portata da un religioso che in­dossava un camice, con due accoliti a lato che porta­vano le candele. Veniva poi l’abate di Rostaing, figlio del marchese di Rostaing, che indossava un rocchetto e portava uno stendardo sul quale erano scritte, a carat­teri d’oro, le seguenti parole « Domine salvum fac regem ». Venti poveri vestiti a nuovo, in grigio, ed aventi ciascuno ‘una candela nella mano sinistra ed un rosario nella destra, seguivano lo stendardo con molta modestia. Dietro a loro c’erano sei bambini di bell’aspetto, vestiti da angeli, che portavano delle can­dele accese, con emblemi composti in onore del beato.

Avanzavano poi con un accompagnamento identico, che Giovanni di Loyac non si stanca di enumerare al punto da suscitare l’ilarità, altri otto stendardi…. Poi, per ultimo, lo stendardo del beato Giovanni di Dio portato dall’abate Bernardo, il sacerdote povero, cir­condato dai religiosi.

Venivano poi cinquanta cantori, divisi in diversi cori, che riempivano l’aria di una melodia così piace­vole e devota, che si restava ugualmente sorpresi del fascino delle loro voci e della loro modestia. Ottanta ecclesiastici, tutti con ricchi piviali, seguivano a due a due, poi quattordici diaconi con tuniche ed infine il vescovo di Mende, assistito dai vescovi di Betlemme e di Dardania…, seguito da una folla innumerevole.

Dopo questa processione, il pio prelato celebrò pontificalmente la Messa cantata. Il pomeriggio furono cantati i vespri alla presenza della regina Anna d’Au­stria e delle principesse della Corte. Verso sera, si fece una processione nelle infermerie…

Il giorno dopo, domenica, il re Luigi XIII venne di buon mattino ad ascoltare la messa, adorò a lungo il SS. Sacramento, con la solita devozione, e tornò attra­verso le infermerie… Il vescovo di Mende celebrò pontificalmente la Messa cantata verso le dieci…

Alle tredici, i cardinali di Richelieu e de la Valette, accompagnati dal nunzio del Papa, dagli arcivescovi di Parigi, di Bordeaux, di Rouen e da circa altri qua­ranta prelati, vennero ad ascoltare i vespri e la nostra predica – la predica di Loyac, abate di Gondon -, che ebbe tanto successo per bontà divina che dopo due giorni il re ci onorò dell’incarico di suo predica­tore ordinario… Sua Eminenza de Richelieu, protettore ed insigne benefattore di questo Ordine, condusse, do­po la predica, la sua compagnia nelle infermerie e si occupò a lungo a consolare ed esortare i malati, offren­do a tutti i prelati del suo seguito l’esempio di una singolare pietà..2.

La sera ci furono i fuochi artificiali nel cortile dell’ospedale. Erano cosi belli che i parigini dicevano di non averne mai visti di tanto ingegnosi.

Queste solennità della beatificazione di Giovanni di Dio ebbero in Francia un prolungamento storico

troppo poco conosciuto. In occasione della pace dei Pirenei, firmata dal Cardinale Mazarino, ministro di Luigi XIV, e da don Luigi de Haro, ministro di Filip­po IV, il 7 novembre 1659, nell’isola dei Fagiani sulla Bidassoa, Filippo IV, quale pegno prezioso di quella pace appena giurata e conclusa, offri’ ad Anna d’Au­stria, la regina madre, sua sorella, una preziosa reli­quia del beato Giovanni di Dio.

La nostra piissima regina, scrive l’abate di Loyac, la trovò racchiusa in un magnifico reliquiario d’argento dorato e cesellato… Non appena Sua Maestà ebbe rice­vuto la cassa che conteneva il prezioso pegno della conclusione e della stabilità della pace, andò nel suo oratorio per renderne grazie a Dio, e mandò a dire ai superiori della « Carità di Parigi » di venire a tro­varla al castello del Louvre. Quando il fratello Dauphin Ville, vicario generale e provinciale di Francia, accom­pagnato dal fratello Angelo Papillon, priore del « con­vento-ospedale della Carità » furono arrivati, Sua Mae­stà volle aprire la cassa in lòro presenza… Mentre apri­vano quella cassa, a forma di piramide e chiusa a chia­ve, il re (Luigi XIV) entrò nella stanza, accompagnato dal fratello, dal principe duca d’Enghien e dal conte d’Harcourt. La regina disse al vescovo di Amiens di prendere il reliquiario racchiuso in un ricco astuccio di marocchino rosso cremisi, tutto tempestato di chio­dini d’oro. Quel degno vescovo, avendolo aperto, vi trovò una reliquia tratta dal braccio destro del beato Giovanni di Dio e che è l’osso che i medici ed i chirurghi chiamano radio. Avendola presa con riverenza, le loro Maestà si prostrarono e la venerarono profondamente. Poi la regina consegna ai suddetti fratelli Dauphin Ville ed Angelo Papillon la dichiarazione autentica che il re cattolico, suo fratello, aveva allegato al suo di­spaccio, perché la facessero tradurre dallo spagnolo in francese: il che facemmo (de Loyac). Quando questi buoni religiosi riportarono l’originale spagnolo a Sua Maestà, ella donò loro il reliquiario e la reliquia… l’incomparabile regina desiderava che i religiosi e i poveri di quest’ospedale avessero la consolazione e il vantaggio di conservare nella loro chiesa il prezioso pegno della conferma pubblica della stabilità della pace.

Dopo la beatificazione di Giovanni di Dio, la de­vozione del popolo nei suoi confronti, lungi dal dimi­nuire, aumentò di giorno in giorno e il Signore operò nuovi miracoli per intercessione del suo servo. E’ per questo che lo studio della sua causa fu ripreso nel 1667, sotto il pontificato di Clemente IX. Nel mese di ottobre di quell’anno, il papa in persona presiedette la Sacra Congregazione dei Riti, dove udì la relazione di molti miracoli attribuiti all’intercessione del beato. Questi fatti, in seguito esaminati più da vicino, furono tutti riconosciuti e dichiarati autentici. Tuttavia, sotto il pontificato successivo, il relatore della causa, il cardi­nale Gaspare Carpini, ne ammise soltanto due. Uno era avvenuto a Napoli e riguardava la pronta guarigione di Giovanni Marino, paralizzato alle cosce ed alle gambe da sette anni… Il secondo era accaduto a Roma e concerneva Isabella Arcelli, guarita istantaneamente da « pustole maligne e da tumori pestilenziali sulle spalle », senza alcuna traccia di cicatrici. Dopo aver sentito il rapporto del cardinale Gaspare Carpini, sui due processi verbali redatti a Napoli e a Roma, e dopo aver ascoltato le osservazioni dei consultori ed il parere dei cardinali preposti alla Sacra Congregazione dei Ri­ti, il papa Innocenzo XI, il 13 giugno 1679, dichiarò, che si poteva – con tutta certezza – procedere alla canonizzazione del beato Giovanni di Dio, secondo l’ordine della santa romana Chiesa e la disposizione dei sacri canoni. Innocenzo XI morì prima di aver cele­brato tale canonizzazione. Essa subi di conseguenza un certo ritardo.

Il nuovo papa Alessandro VIII si trovò di fronte ad una causa istruita e pienamente giustificata e, do­po aver sentito il parere dei cardinali, cedette alle solle­citazioni di Leopoldo I, imperatore di Germania, di Carlo Il, re di Spagna, di Pietro Il, re del Portogallo, di Giovanni Sobieski, re di Polonia e dell’intero Ordine dei fratelli del beato Giovanni di Dio.

Circondato da cardinali, patriarchi, arcivescovi e vescovi presenti in san Pietro, dalla Corte romana e da un popolo entusiasta, il Papa procedette, il 16 ot­tobre 1690, alla canonizzazione di Giovanni di Dio, cantò il Te Deum, celebrò solennemente la messa e benedisse i presenti.

In quello stesso giorno furono canonizzati i beati Lorenzo Giustiniani, Giovanni da Capestrano, Giovan­ni di San Facondo e Pasquale Baylon.

Alessandro VIII mori il 1° ebbraio 1691, dopo aver preparato la bolla di canonizzazione di Giovanni di Dio, ma senza averla spedita. Il suo successore Innocen­zo XII la pubblicò il 15 luglio 1691, quarto giorno dalla sua elezione al supremo pontificato.

In base a questa bolla, il questuante di Granata fu iscritto nel catalogo dei santi e menzionato nel marti­rologio romano nei seguenti termini: Granata, in Spa­gna, san Giovanni di Dio, fondatore dell’Ordine dei fratelli ospedalieri che servono i malati; egli si è distinto per la compassione verso i poveri e il disprezzo di se stesso.

In occasione della canonizzazione di Giovanni di Dio, grandi solennità furono celebrate in tutte le case dell’Ordine. Alla « Carità di Parigi », esse ebbero luo­go il 16 agosto 1691: L’illustrissimo signor Carlo Le­goux de la Berchère, vescovo di Lavaur e nominato arcivescovo d’Albi, vestito dei suoi paramenti ponti­ficali ed assistito dai suoi ufficiali, iniziò con la let­tura della bolla d’Innocenzo XII e del permesso del­l’arcivescovo di Parigi. Poi benedisse lo stendardo del santo, i cui quattro lati erano sorretti dai Reverendi Padri Mathias Godé, provinciale e vicario generale, Blaise Chappus, priore della « Carità di Parigi », Bar­nabé Lancelot, priore della « Carità di Senlis » e La­zare Richer, priore della « Carità di Charenton ». Infine furono cantati i vespri e la benedizione ed il prelato officiò pontificalmente. Questa solennità si protrasse per otto giorni e si concluse con la benedizione, dopo di che si innalzò lo stendardo sulla volta della chiesa.

Leone XIII, col breve « Dives in misericordia » del 22 giugno 1886, dichiarò san Giovanni di Dio e san Camillo de Lellis patroni dei malati e degli ospedali.

Infine, il 28 agosto 1930, il papa Pio XI, con il breve « Expedit piane », nominò solennemente san Gio­vanni di Dio e san Camillo de Lellis celesti patroni delle associazioni cattoliche degli infermieri, come an­che degli infermieri ed infermiere di tutti i tempi e di tutti i luoghi.

Così termina questa biografia compilata in base a documenti irrefutabili, tuttavia scarsi ed insufficien­temente utilizzati per far rivivere, come converrebbe, la personalità cosi ricca ed interessante di san Giovanni di Dio.

Ci resta solo da esprimere una preghiera ed un augurio.

Una preghiera: quella che la Chiesa pone sulle nostre labbra nel giorno onomastico del santo. Signore, Dio nostro, a san Giovanni di Dio che ardeva del tuo amore, hai permesso di attraversare senza danno le fiamme e, da lui hai fatto nascere nella tua Chiesa una nuova famiglia religiosa; per la sua preghiera e per i suoi meriti, brucia i nostri vizi col fuoco della tua carità e degnati per sempre di guarirci, per  Gesù Cristo tuo Figlio…

Un augurio: quello del nostro Ordine, delle con­gregazioni e confraternite ospedaliere, delle associa­zioni di infermieri ed infermiere. Che seguendo l’esem­pio di san Giovanni di Dio, molti giovani continuino a mettersi al servizio di Dio nella persona dei malati e dei poveri!

 

 

 

OPZIONI ’70 N.5 – Giugno 1970 – OSPITALITA’ E PROSPETTIVE FUTURE

OSPITALITA’ E PROSPETTIVE FUTURE

OPZIONI ‘70 – N. 5 – Giugno 1970

Abbiamo riletto con crescente interesse a pag.452 del “librone rosso”  [sintesi consultazione Provincia per  il rinnovo delle Costituzioni n.d.r.] l’articolo classificato col n. 51 e lo proponiamo all’attenzione dei lettori. L’autore anonimo [volutamente non nominato per opportunità ma identificato in fra Pancrazio Ghezzi, sac. o.h. - n.d.r.] affronta il tema dell’Ospitalità, così esistenziale per noi, con competente chiarezza.

*  *  *

La prima cosa interessante da vedere sarebbe la considerazione del termine: la chiesa riconosce alla parola “Ospitalità” il significato biblico in senso lato di colui che riceve “l’Ospes” e nello stesso tempo compie un ufficio di ospitalità nei riguardi dell’ospite, o se  invece, (come sembra più certo, dalla tradizione, dagli usi ecc. ) la Chiesa intenda “Ospitalità” in senso restrittivo di “spedalità”: ossia coloro che si prendono cura degli infermi come è appunto detto nelle attuali Costituzioni.

Certamente corrisponde più a verità il secondo significato (che per altro è sempre una specificazione del termine biblico, anche perché san Giovanni di Dio, pur ritenendo per “carità” l’applicazione del Vangelo in una forma più ampia dell’attuale (era un Santo), dal pochissimo che ha lasciato del suo pensiero, è abbastanza evidente che intendeva mettersi al servizio della cura degli ammalati secondo  una precisa necessità dei suoi tempi.

Ora, ritenendo valido il secondo significato [attualmente ospitalità viene genericamente tradotto con accoglienza – n.d.r.], cosa pensare della “Ospitalità” realizzata in senso quasi esclusivamente infermieristico?

Il valore infermieristico, come oggi è praticato, corrisponde ancora alle esigenze grandemente sociali e apostoliche con cui questo Istituto è sorto?

Porre simili interrogativi, qualche volta vuol dire provocare lo scandalo di persone sincere ma indubbiamente limitate. Mentre un sereno esame di ciò che ci è specifico, non vuol dire distruggere, bensì ricercare la genuinità iniziale, sforzandosi di capire alcuni segni dei tempi. [siamo nel 1970]

E per altro, anche la Chiesa non è mai stata rivolta su se stessa per scoprirsi integralmente come adesso; e tutti gli Istituti di antica formazione stanno ripensando alla loro funzione attuale nel nella Chiesa, riconoscendo senza timori quello che il tempo e la società hanno consumato perché si possa scoprire ancora quale, fra le varie testimonianze, sia la più valida.

Certe resistenze poi, servono, quando sono sincere, a precisare meglio il pensiero di chi crede giusto dover cambiare o rivedere.

Quello che io mi chiedo circa l’ospitalità, è di vedere se la sua natura, che finora si è fissata nel lavoro infermieristico, sia totalmente valida. Non discuto l’oggetto dell’ospitalità (anche se potrei ritenerlo limitato): ciò che invece mi chiedo è se sia possibile realizzare una vita religiosa-apostolica-sociale limitando la funzione del religioso. Ma poi, è ancora possibile realizzare un carattere ascetico, una vitalità negli impegni dei consigli evangelici, se l’intera vita di un uomo è bloccata, per mancanza di sviluppo professionale, alla monotonia di una vita infermieristica?

Quante volte l’esperienza di uomini maturi non potrebbe dire che è proprio stato il limite posto alla dimensione umana che ha reso dure e difficili tante vite religiose?

E non sarà forse da ricercare in questo complesso di argomenti che tocca vivamente il nucleo del nostro problema ospitaliero la causa fondamentale per cui le vocazioni, inizialmente promettenti, vanno poi perdendosi?

La prima riflessione che pongo per vedere il significato di una vita religioso-ospedaliera rinnovata, è la riscoperta del valore “apostolico”: e questo valore riporta a parlare nuovamente di tutto il capitolo della formazione sia umana sia professionale, sia religiosa.

La presenza del religioso in un reparto come è attualmente per la maggior parte, non riesce ad avere quella pienezza di testimonianza e di efficacia che le forze di un uomo, che è anche apostolo, dovrebbero riuscire a dare.

Questo valore apostolico perché sia compreso e vissuto, deve avere due precise dimensioni che vanno dalla formazione del soggetto a quelle nuove esigenze di una moderna pastorale che non ha solo di fronte l’ammalato, ma tutto il mondo che entra a far parte dell’ammalato.

Perciò, dopo il primo valore apostolico della carità-ospitaliera intesa nel senso di viva testimonianza di persone grandemente responsabili, il secondo punto dell’ospitalità tova l’oggetto vero cui è rivolta la carità del religioso.

Si tende – fino a questo momento – a mettere un religioso, per la direzione di un reparto, dietro la scorta dei medici. Invece io ritengo che, se se sviluppata nei suoi giusti valori la personalità del religioso, basterebbero metà dei religiosi ora presenti per l’attuale numero di Case: infatti  deve cadere questa abituale visione meccanica del religioso, una volta che fosse acquisita quella formazione di cui si parlava. Infatti la sua presenza in ospedale non deve ridursi a rincorrere il medico per la puntura o la pastiglia: la presenza del religioso, specie nella società moderna, deve svilupparsi ad una apertura verso forme di testimonianza morale che si diriga all’accostamento del singolo ammalato per dimostrargli il conforto, l’amore, e se è possibile, il valore del dolore.

Questo tipo di assistenza (che non si pensi debba toccare solo al prete?), deve sviluppare la nuova apertura pastorale che è una delle esigenze teologiche più auspicate dal Concilio, ed arrivare alla testimonianza religiosa della carità verso l’intero mondo del personale, del complesso dei medici che frequentano le nostre case, promovendo per essi anche incontri di un certo rilievo religioso; questa carità pastorale inoltre, deve rivolgersi alla vasta porzione dei parenti dei nostri ammalati.

Ora ritengo, la presenza del religioso non deve essere tanto quella materiale verso un reparto, ma deve diventare una presenza morale direzionale che gli permetta di guidare interi e più reparti con una profonda umanità ricca di di carità e di amore cristiano.

Evidentemente una simile presenza non può essere realizzata senza quella trasformazione di tutto il complesso educativo di cui sopra ho fatto cenno. E inoltre, una impostazione di questo genere (che credo inevitabile per la sopravivenza di organizzazioni come la nostra) non ha bisogno di un gran numero di religiosi, quanto invece della loro qualità. Da qui perciò si vede io creda opportuna la revisione radicale, anche se equilibrata e paziente delle strutture su cui poggia la nostra vita religiosa.

Un altro aspetto che mi interessa trattare nei riguardi dell’ospitalità, sono le forme. Non si tratta di uscire dal campo di un apostolato caritativo, ma si vorrebbe riflettere sull’ampiezza che l’orizzonte caritativo potrebbe assumere nella civiltà moderna, qualora si considerasse la portata della carità a cui era dedito san Giovanni di Dio. Tutto questo, oggi si fa più acuto se si pensa  che gran parte dell’antica carità ospedaliera è oggi assunta [egregiamente] dallo Stato o da Enti Mutualistici: solo da questa ormai nota osservazione, si manifesta, tra l’altro,  a quali nuove forme di vita si debba dirigere la carità ospedaliera, ma soprattutto farebbe pensare se non sia possibile, restando nella tradizione della sostanziale carità, esprimersi con nuove forme che la società attuale richiede: specializzazioni con centri di rieducazione, ambulatori (pur dipendenti dallo Stato) nelle periferie delle grandi città e alle altre forme che possono essere suggerite da una più approfondita riflessione.

Un altro modo che ritengo possibile realizzare, sarebbe quello di vedere avviato qualcuno dei più dotati a delle ricerche di ordine scientifico in campo medico; come ancora importante sarebbe realizzare nuclei di medici dediti alla scienza della psicologia-psichiatria, che tanta parte va assumendo nelle più recenti valutazioni.

Come si vede, si tratta di studiare la maniera di rendere moderna la testimonianza  di un Istituto totalmente dedito alla carità.

MEDICI E FARMACISTI dal ceppo di San Giovanni di Dio – Angelo Nocent

MEDICI E FARMACISTI

dal ceppo di San Giovanni di Dio.

Dalla storia un’esaltante spiritualità da recuperare.

Nell’ 800 non sono poche le figure di grande rilievo. PADRE GIOVANNI MARIA ALFIERI, sacerdote e generale dell’Ordine per lunghi anni, in grande confidenza con Papa Pio IX, colui che ha mandato in Spagna  San Benedetto Menni a restaurare l’Ordine soppresso, pur non essendo farmacista, è stato il grande sostenitore del progetto giovani da inviare agli studi universitari della chimica-farmaceutica. Tale sensibilità l’ha respirata in famiglia. Figlio di farmacista  e cresciuto in una casa dove suo fratello studiava scienze farmaceutiche per prendere, dopo la morte del genitore, la farmacia sita dietro il Duomo di Milano, egli si è reso conto che un ospedale per poter curare bene gli ammalati, doveva avere la propria “spezieria”, come si diceva allora, con uno “Spetiale”, cioè un farmacista.

Nomi entrati nella storia

PADRE INNOCENZO MONGUZZI, chimico farmacista, distinto ed insigne botanico (+ 1843). Giovane frate, si era laureato all’Università di Pavia. Accanto a questo religioso “dottissimo nell’arte delle erbe” viveva pure a Milano PADRE OTTAVIO FERRARIO (1787-1867) che ebbe per 28 anni la direzione della farmacia dell’Ospedale S.Maria Aracolei, dove insegnava clinica-farmaceutica ai giovani confratelli. Anch’egli, laureatosi in clinica, farmaceutica e scienze naturali all’Università di Pavia (nel 1811) pubblicò diverse opere di valore . Fu lui che nel 1821 scoprì lo iodoformio da lui descritto sotto il nome di “dentoioduro e per-ioduro di carbonio”. Per i suoi meriti scientifici venne decorato dall’ Imperatore d’Austria della Croce di Cavaliere dell’Ordine di Francesco Giuseppe.

Di questo religioso, nativo di Busto Arsizio, così ha scritto F. Molinari “Quest’uomo di alto rigore scientifico e di solerte operosità pratica, non trascurava la preghiera , convinto com’era che chi sa perdere tempo con Dio sa impiegarlo meglio in favore degli altri. Grazie alle sue ore di meditazione, egli acquistava ogni giorno più, la capacità di trasformare la scienza in opere di misericordia”.

Dopo il Padre Ferrario, la direzione della farmacia dei Fatebenefratelli di Milano passò a PADRE GALLICANO BERTAZZI (1803-1869), che si era laureato all’età di 49 anni in clinica e farmacia a Padova. A Cremona lavorava il clinico farmacista PADRE FRANCESCO ATANASIO FROVA (1808-1894) e a Venezia, Cremona,Milano, PADRE ANTONIO MARIA DELL’ORTO (1824-1898), chimico farmacista, oltre che botanico e uomo di scienza, che condusse diligenti ricerche per la terapia delle afflizioni psichiatriche. Similmente a Roma  il clinico farmacista PADRE ANTONIO PELLICCIA (1813-1875), direttore della farmacia di San Giovanni Calibita e anche di altri ospedali. Morì in fama di santità, assistito dal Padre Alfieri, in seguito ad un  improvviso malore che lo aveva colpito a Frascati. Nell’antico Necrologio della Provincia Romana viene detto di lui: “Bravo chimico, valente in varie lingue straniere,  e in arti belle, ma ancor più religioso di somma pietà, Ospitaliere di grande carità, lascia morale ed edificante ricordanza di sé”.

Negli ospedali dell’Ordine occorrevano, però, anche medici-chirurghi, e ve ne furono molti, nei paesi d’Europa ed anche extra europei, ricordati dalla storiografia per la loro assistenza offerta ai militari o durante le epidemie o nelle scuole, ecc…Tra le figure più note va ricordato il Provinciale di Vienna PADRE CELESTINO OPITZ, che fu il primo in Austria a praticare l’anestesia generale, scoperta in America nel 1848 dal dentista Morton e usata per primo dal chirurgo Warren.  E’ doveroso citare  l’ultimo Generale della Congregazione spagnola, PADRE JOSE’ BUENO VILLAGRÀN, ed il Generale di Roma PADRE VERNO’. Essi seguirono le orme del chirurgo PADRE GABRIELE FERRARA (1543-1627), discendente dalla famiglia dei conti Ferrara, che entrò nell’Ordine nel 1591, a quasi cinquant’anni, già esperto chirurgo, famoso per il suo libro “Nuova selva Cirugia per servire in tempo di peste”.

Padre Alfieri, quando entrò nell’Ordine, ebbe come superiore il PADRE GIOVANNI LUIGI PORTALUPI (1775-1851) che si era laureato in medicina e chirurgia nell’Università di Padova nel 1803, esercitando la sua attività professionale in vari ospedali della Provincia. Della sua abilità chirurgica ce ne relaziona la Gazzetta di Verona del 14 luglio 1823. Trattasi della “asportazione , da lui felicemente eseguita a Verona nel 1823, nella persona del nobile Luigi Tedeschi di un  “mostruoso tumore cistico-adiposo”, che tormentava il paziente fin dal 1796. Lo spaventoso lipoma, operato “dal chiarissimo Professore Padre Giovanni Portalupi, era pendente di sotto alla clavicola sinistra , lungo cm 57; grosso, verso la regione mammillare, cm 57, nella parte terminale cm 77; e pesava Kg 15,625. L’infermo che aveva 64 anni di età, dopo pochissimi giorni poté abbandonare il letto e passeggiare per la camera.

Altro contemporaneo a padre Alfieri, e milanese come lui, fu il PADRE BENEDETTO NAPPI (1808-1878). Ottimo medico-chirurgo. Quando il Governo Austriaco ordinò la chiusura temporanea delle Università di Padova e Pavia, P:Nappi, per porvi rimedio, istituì a Milano una Scuola medico-chirurgico-farmaceutica che in sèguito, col decreto imperiale  del 19 settembre 1854, fu riconosciuta coma tale per i Membri dell’Ordine. P.Nappi, durante la guerra d’Indipendenza, ebbe la nomina a “Dirigente dell’Ospedale Militare del Collegio Longone” di Milano. Nel 1867, il re Vittorio Emanuele gli conferì l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, perché si era distinto “nella direzione dell’Ordine dei Fatebenefratelli, che con marcata diligenza ha prodigato ogni possibile cura  ai feriti della guerra del 1866”.

Una particolare amicizia legava il P:alfieri  a un altro confratello milanese: il PADRE PROSDOCIMO SALERIO, distintosi per lunghi anni come direttore del manicomio di Venezia, praticando “Metodi di cura all’ora all’avanguardia e oggi vere priorità nel campo della psichiatria”, tanto che è “per suo merito se l’ospedale di San Servolo…può essere ricordato con onore nella storia di questa disciplina”(A.Pazzini) Una fitta corrispondenza  attesta la fiducia nella sua attività e competenza medica, nonché del sincero affetto reciproco.

Il terzo contemporaneo milanese di P:Alfieri è il medico chirurgo PADRE CELSO BROGLIO (1820-1884) laureatosi in  medicina e chirurgia a Padova nel 1849 e nello stesso anno abilitato all’insegnamento.

Non si può tralasciare la figura del PADRE GIOVANNI BATTISTA ORSENIGO (1837-1904), la cui figura di celebre dentista è nella storia e nella leggenda della Roma ottocentesca. Si dice che  fossero 2.000.744 i denti estratti e messi in tre enormi casse. Frate originale, ma anche “religioso pio e molto osservante, di ottimo criterio, di gran cuore e carità”, un religioso semplice e buono che “…nutriva una devozione specialissima alla Madonna del Buon Consiglio di cui promosse la festa liturgica. Moriva piamente a Nettuno, “… dove aveva impiegato tutte le sue energie e sostanze in beneficio dei sofferenti, il 14 luglio 1904 nell’età di 67 anni”. Non pochi lo tenevano in concetto di santità.

Se i tempi sono mutati, lo spirito dei padri, può essere ereditato. Il nostro intent0 è proprio quello di tornare alle radici e suscitare l’unità d’intenti nella molteplicità delle espressioni, suonatori diversi per un’unica Musica nell’orchestra di Dio.

Ultimo della catena: SAN RICCARDO PAMPURI, medico chirurgo

ICI E FARMACISTI dal ceppo di San Giovanni di Dio

COMMENTO ALLA REGOLA DI SANT’AGOSTINO – Agostino Trapè

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Tomba di Sant’Agostino, vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa  nella Basilica di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia.

PARTE SECONDA LA REGOLA:

CONTENUTO DOTTRINALE

PREMESSA

La Regola agostiniana è breve – appena poche pagine – ma ricca di contenuto. I suoi precetti, non molti ma essenziali, danno alla vita religiosa un orientamento forte, sicuro, moderno. Non fissa un regolamento della giornata, ma lo suppone e ne impone l’osservanza; non descrive la lectio divina e lo studio, ma ne enuncia il principio; non parla del ministero sacerdotale, ma ne prepara e ne arricchisce l’azione attraverso l’organizzazione della vita in comune. Rivela una conoscenza profonda del cuore umano, e un’intuizione sicura delle esigenze più vere della vita consacrata. Moderazione e austerità, interiorità e ricerca del bene comune, amicizia schietta e ascesa costante verso Dio, autorità umile ed efficiente e fraternità sincera si fondono in essa per creare un equilibrio mirabile, quell’equilibrio sapienziale che è proprio, per dono di natura e di grazia, del Vescovo d’Ippona. Ne risulta un quadro spirituale che è insieme profondamente umano e autenticamente evangelico. L’idea-madre della Regola è la carità presentata come fine, mezzo e centro della vita religiosa. Il fine è indicato in quelle parole iniziali: Prima di tutto si ami Dio e quindi il prossimo (n. 1); il mezzo in quelle altre che vengono subito dopo: abbiate un’anima sola e un sol cuore protesi verso Dio (n. 3); il centro in quelle altre ancora: su tutte le cose di cui si serve la passeggera necessità, si elevi l’unica che permane: la carità (n. 31). Tutto il resto è considerato un presupposto o alimento o un motivo d’ispirazione. Presupposto sono i consigli evangelici che spianano la via al cammino della carità; alimento: la preghiera, la mortificazione, lo studio, il lavoro; motivo d’ispirazione: la bellezza eterna alla cui contemplazione il religioso si consacra, la fragranza della virtù di Cristo che il religioso vuol diffondere nel mondo, la libertà interiore che sente come fonte perenne di gaudio e di speranza. Vediamo un po’ più da vicino alcuni particolari di questo quadro meraviglioso, cominciando dai motivi che ne raccomandano l’osservanza.

 

Capitolo primo

I GRANDI MOTIVI D’ISPIRAZIONE

Per avere in mano la chiave che apra i segreti della Regola agostiniana, del suo grande equilibrio sapienziale, dei suoi alti ideali, della sua incomparabile fortuna, bisogna cominciare a leggerla dal fondo. Non è una battuta: è l’indicazione di chi l’ha scritta. Raccomandandone, infatti, verso la fine, la fedele osservanza, lo fa con parole altissime che svelano all’attento lettore i motivi universali e profondi del suo pensiero filosofico, teologico e mistico. Scrive: “Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore, come innamorati della bellezza spirituale ed esalanti dalla vostra santa convivenza il buon odore di Cristo, non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia” (n. 48). Da questa sintesi emergono quattro motivi, tutti fondamentali, o, se si vuole, quattro dimensioni della vita dello spirito nella comunità monastica:

1) il motivo dell’amore o dimensione affettiva. È infatti l’amore, forza segreta dell’animo, che rende possibile e gioiosa l’osservanza delle prescrizioni della Regola. Per esporre subito un profondo pensiero agostiniano riguardante l’amore, si può dire così: la vita consacrata e, molto più, la vita monastica si abbraccia per un più grande amore, esige l’esercizio d’un più grande amore, attende come premio un più grande amore.

2) il motivo della bellezza spirituale o dimensione contemplativa. La bellezza spirituale o è Dio o è il riflesso di Dio nelle creature. Agostino fu innamorato di questa bellezza, l’amò con tutte le fibre dell’animo, la cercò senza stancarsi, la pose nella Regola come meta della preghiera contemplativa, come risorsa delle ascensioni interiori, come sostegno del monaco nell’impegno ascetico.

3) il motivo del profumo di Cristo o dimensione apostolica. Se quello precedente poteva essere considerato un motivo prevalentemente filosofico – si sa quanto i filosofi neoplatonici, specialmente Plotino, abbiano scritto su la bellezza -, questo è nettamente cristologico e dipende da quel grande innamorato di Cristo che fu S. Paolo. Dio, dice l’Apostolo, … diffonde per mezzo nostro il profumo della sua conoscenza nel mondo intero. Noi siamo infatti dinanzi a Dio il profumo di Cristo… (2 Cor 2, 14-15). Agostino, che ereditò da S. Paolo l’amore appassionato a Cristo, ne riprende il tema e lo propone ai suoi religiosi perché diffondano dovunque nel mondo l’amore e l’imitazione di Cristo.

4) il motivo della libertà cristiana o dimensione carismatica. Questo motivo è proprio di colui che la tradizione ha chiamato dottore della grazia e perciò della libertà; dico della libertà cristiana che abbraccia tutta la vita e si estende nell’eternità. Anche questo motivo non poteva mancare nella Regola agostiniana. Pertanto, occorre leggerla e meditarla alla luce di questi grandi principi per scoprirne la ricchezza e la modernità che ne fanno una norma spirituale ammirata, amata, ricercata, ieri e oggi. Qui vorrei invitare il lettore, che si avvicina ad essa per la prima volta, ad approfondire un poco questi quattro motivi che gli permettono di entrare nel vivo della spiritualità monastica o più semplicemente religiosa quale la concepì, l’amò, la visse, l’organizzò e la difese il Vescovo d’Ippona.

1. …con amore

Il primo motivo è l’amore. Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore. Una sola parola; ma ricca di significati profondi e rivelatrice d’un panorama che abbraccia tutti i precetti della Regola. Questa parola infatti ha una portata metafisica, psicologica e spirituale immensa, che il Vescovo d’Ippona ha contribuito ad approfondire e a chiarire con grande intuito e passione. Si sa che egli ha scavato molto a fondo nell’anima umana per scoprire non solo la verità; ma, insieme alla verità e in conseguenza di essa, l’amore; l’amore che è la radice di ogni attività, il rapporto che ci lega inseparabilmente a Dio, la tensione profonda e la ricerca continua, insaziabile dell’eterno. Sarebbe veramente bello potersi soffermare su questi aspetti della filosofia dell’amore. Sarebbe bello, dico, parlare dell’amore che muove l’anima come il peso i corpi e la porta ovunque si porti 1; parlare delle passioni umane e delle virtù come modulazioni di un unico movimento, che è il movimento dell’amore 2; parlare della ricerca inconsapevole di Dio per cui ogni creatura capace d’amore, lo sappia o non lo sappia, ama Dio e lo cerca e lo invoca 3. Ma il discorso porterebbe lontano. Lasciando dunque da parte questi aspetti profondissimi ed altri ancora, della filosofia agostiniana dell’amore, accennerò a due proprietà singolari che l’amore possiede: 1) La prima è questa: l’amore rende leggere le cose pesanti e facili le cose difficili. S. Agostino lo ripete spesso con ricchezza di particolari. “Non sono affatto gravosi – scrive nel De bono viduitatis – i lavori degli amanti, ma sono anch’essi motivo di diletto; come appunto i lavori dei cacciatoti, degli uccellatori, dei pescatori, dei vendemmiatori, dei negozianti, degli sportivi. Quel che importa dunque è sapere ciò che si ama, perché quando una cosa la si fa per amore o non si sente la fatica o si ama di sentirla” 4. Ciò vale non solo per le cose buone o indifferenti, ma anche per le cose cattive. “Sappiamo – dice S. Agostino in un discorso al popolo – sappiamo quante cose faccia l’amore… quante asprezze gli uomini hanno sofferto, quante indegne e intollerabili cose hanno sopportato per ottenere ciò che amavano; sia che si tratti di amatori del denaro, cioè degli avari, o degli amatori di onori, che sono gli ambiziosi, o degli amatori dei corpi, che sono i lascivi. Ma chi può enumerare tutti gli amori? Considerate tuttavia quante fatiche fanno gli amanti, né sentono la fatica, anzi faticano di più quando qualcuno impedisce loro di faticare” 5. L’amore infatti è una forza che non può stare oziosa: deve agire, scuotere, trascinare 6. Quando perciò S. Agostino chiede a Dio che conceda ai suoi religiosi di osservare la Regola con amore, indica loro qual è il segreto dell’osservanza regolare, quel segreto che la rende possibile e gioiosa. Se poi prendiamo la parola amore come sinonimo di carità, tutto quello che abbiamo detto sulla sua forza travolgente non solo non viene meno, ma diventa più vero. La carità, quand’è vera, possiede tutte le risorse psicologiche dell’amore e possiede, inoltre, tutte le ricchezze dei doni di Dio tra i quali è il più prezioso e il più grande. La carità perciò è un amore più forte, più profondo, più invincibile di ogni altro amore, perché è opera dello Spirito Santo che la diffonde nei cuori. S. Paolo parla di larghezza, lunghezza, altezza e profondità della carità 7, e S. Agostino commenta: “larghezza, perché la carità si esercita in tutte le opere buone e la sua benevolenza si estende fino all’amore dei nemici; lunghezza perché in questo esercizio è longanime e sopporta tutte le molestie; altezza, perché per queste opere non spera un premio temporale, ma il premio eterno; profondità, perché è un dono della grazia che ci viene secondo il segreto, misterioso proposito del divino volere” 8. Dotata di queste dimensioni, la carità trasforma necessariamente in gioia tutto ciò che tocca, e imprime all’anima un dinamismo che non conosce ostacoli. 2) La seconda proprietà dell’amore, che qui voglio ricordare, è quest’altra: l’amore rende sempre nuove, e perciò sempre affascinanti, le cose abituali, le cose di ogni giorno. Quanto questa proprietà sia preziosa non occorre dirlo; particolarmente per chi, come il religioso, è portato dall’osservanza regolare a ripetere spesso e per tutta la vita gli stessi atti, le stesse formule, gli stessi esercizi. Si sa che l’abitudine, la noia, la stanchezza sono i nemici più insidiosi della vita religiosa, soprattutto della vita comune. S. Agostino mette in rilievo questa proprietà dell’amore proprio contro la noia; la noia da cui può essere mortalmente preso il catechista costretto a ripetere ai neofiti sempre le stesse verità elementari. Dice il Santo in sostanza: facciamo nostri con l’amore – un amore fraterno, paterno, materno – i sentimenti di questi neofiti, e sembreranno nuove anche a noi le cose che andiamo dicendo. “Non avviene di solito – continua – che, percorrendo spaziose e incantevoli località cittadine o campestri non proviamo più alcun lascino, perché già le abbiamo contemplate spesso? Eppure, mostrandole a chi non le ha mai viste, nel fascino nuovo che essi provano non si rinnova forse anche il nostro? E tanto più fortemente quanto più essi sono nostri amici, perché a misura che attraverso il vincolo dell’amore noi siamo in loro, quelle cose, che erano vecchie, diventano nuove anche per noi” 9. Pensiamo che questo possa e debba dirsi anche della vita in comune, e non solo per quelli che in essa esercitano l’ufficio di educatori. Comunicare agli altri le proprie esperienze, ascoltare le esperienze degli altri, costatare il progresso nella virtù di quelli che amiamo, osservare lo stupore e la gioia che provocano nell’animo di tanti giovani pratiche e dottrine per noi abituali, aiutarli con il consiglio e l’esempio a scoprire le ricchezze della vita interiore, sono mezzi efficacissimi per rendere sempre nuove, e perciò affascinanti, le cose che per la forza dell’abitudine tendono a non esserlo più. Pensiamo che sia proprio questo uno dei frutti migliori della vita comune. Ma a consolazione di chi questi mezzi nella comunità in cui vive o non li trova o non sa usarli – le due ipotesi sono ambedue possibili – dirò che v’è un’altra ragione che spiega la proprietà dell’amore di cui stiamo parlando, che è questa: l’amore è fonte perenne di conoscenza, sia perché spinge l’intelligenza a fissarsi nelle cose amate, sia perché dà alla conoscenza un valore e un sapore sperimentale che la conoscenza puramente nozionale non ha. “Non si può infatti amare ciò che s’ignora del tutto. Ma quando si ama ciò che in qualche modo si conosce, in virtù di questo amore si riesce a conoscerlo e più profondamente” 10. Ora è proprio questa progressiva scoperta delle ricchezze delle cose spirituali – il significato, il valore, l’importanza – che le rende sempre nuove al nostro sguardo, e perciò oggetto perenne di stupore, di contemplazione, di gioia.

2. …innamorati della bellezza spirituale

Al motivo metafisico e psicologico dell’amore si aggiunge quello mistico della contemplazione. Non poteva mancare nella Regola una visibile traccia di quella che fu la passione più profonda e più costante dell’animo agostiniano: la contemplazione della divina bellezza. “Il Signore vi conceda di osservare queste norme… come innamorati della bellezza spirituale”. La bellezza spirituale è la bellezza della sapienza, la bellezza di Dio. S. Agostino ne fu perdutamente invaghito fin dall’età di 19 anni. L’amore della sapienza divenne spontaneamente amore della bellezza. La prima questione infatti che lo occupò come scrittore, a 25 anni, fu proprio questa: la bellezza. Noi non amiamo che il bello, diceva ai suoi amici, e nulla ci attrae e ci avvince agli oggetti del nostro amore se non la convenienza e la bellezza, perché se ne fossero privi non ci attirerebbero affatto 11. Quando poi a 32 anni scoperse il volto autentico della sapienza, cioè la natura di Dio, che è luce intellettuale piena d’amore, la passione per la bellezza divenne amore di Dio. “… mi si mostrò – scrive all’amico Romaniano – il volto della filosofia con piena evidenza. Magari avessi potuto mostrarlo, non dico a te che ne hai avuto sempre fame, ma a quel tuo avversario… Anch’egli subito disprezzando e abbandonando le piscine circondate di palme e gli ameni frutteti e i delicati e sontuosi banchetti e i buffoni domestici ed infine quanto suscita in lui l’acre desiderio del piacere, convertitosi in amante tenero e rispettoso, volerebbe ammirato, bramoso e appassionato verso la bellezza di quel volto” 12. Da quel momento Dio fu per Agostino non solo Verità, Eternità, Amore, ma anche Bellezza, anzi il “Padre della Bellezza” 13, “la bellezza di ogni bellezza” 14, “fondamento, principio e ordinatore per cui sono belle tutte le cose che sono belle” 15. Da quel momento il rimpianto cocente di aver amato troppo tardi questa bellezza ineffabile, rimpianto espresso nelle Confessioni con le note commoventi parole: “Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai” 16. Da quel momento l’abitudine di salire a Dio attraverso la bellezza delle cose: sia delle cose corporee – la bellezza dell’universo proclama infatti Dio creatore, e lo loda e a lui richiama il nostro pensiero 17-; sia delle cose artistiche, poiché “tutte le cose belle, che attraverso l’anima passano nelle mani dell’artista, provengono da quella bellezza che sovrasta le anime e a cui giorno e notte l’anima mia sospira” 18, sia dalla storia umana, che scorre come un amplissimo carme modulato da una mano ineffabile che ci richiama alla contemplazione della bellezza di Dio 19, sia dell’anima nostra, in cui risiede la vera bellezza 20, che consiste nella natura stessa dell’anima fatta ad immagine di Dio 21, e nella virtù che essa coltiva, poiché la vera e la somma bellezza è la giustizia 22 o, come dice altrove lo stesso Dottore, la fede e la carità. L’anima diventa bella, amando Dio, che è bello; e quanto più cresce nell’amore tanto più cresce nella bellezza; poiché l’amore stesso, cioè la carità, è la bellezza dell’anima 23. Da questa abitudine nasce quell’insistente richiamo di S. Agostino a non fermarsi all’universo sensibile, né all’arte, né alla storia, né all’animo umano; ma a trascendere tutto per salire alla fonte stessa della bellezza, per salire a Dio. Molti purtroppo sanno trarre da questa bellezza la misura per approvare le cose belle – infatti le approvano e le amano, mentre non potrebbero farlo se non avessero in sé la norma per giudicarle – ma non vi traggono la misura per goderne, perché nessuno può godere rettamente delle cose belle, se non ama prima di tutto la Bellezza e non si serve di loro per salire ad essa e possederla 24. Quante volte S. Agostino abbia percorso questo itinerario non è possibile dirlo. Possiamo dire però che questo era il suo più profondo desiderio 25, che si applicava ad esso ogni volta che glielo consentivano gli obblighi del ministero pastorale 26, che il Signore premiava spesso questo suo impegno e questa sua fedeltà con i doni straordinari della contemplazione infusa. “Spesso faccio questo, leggiamo nelle Confessioni, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi dalla stretta delle occupazioni. Ma fra tutte le cose che passo in rassegna consultando te, non trovo un luogo sicuro per la mia anima, se non in te. Soltanto lì si raccolgono tutte le mie dissipazioni, e nulla di mio si stacca da te. Talvolta m’introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita” 27. Bisogna dunque concludere che l’estasi di Ostia, così mirabilmente descritta nel libro 9° delle Confessioni, non è un caso isolato 28. Del resto l’insistenza di S. Agostino sul tema dell’interiorità è anche un richiamo alla contemplazione. Si sa che l’interiorità agostiniana è una dottrina profonda e vastissima che comprende almeno quattro aspetti essenziali: filosofico, pedagogico, ascetico e mistico. La Regola, richiamandoci al desiderio della bellezza spirituale, ci richiama a questi ultimi due. Occorre infatti abituarsi a vivere gioiosamente in se stessi – ciò che non si ottiene se non attraverso un impegnativo sforzo ascetico – per salire, poi, attraverso la meditazione contemplativa, dall’anima nostra a Dio e fissare in lui lo sguardo della mente. La vita religiosa impegnandoci in questo sforzo ascetico ci prepara, per sua natura, alla contemplazione, che rappresenta, anche nei suoi gradi iniziali, un frutto e un nutrimento preziosis-simo nella carità. Nelle sue forme più alte essa è un dono tanto straordinario, che possiamo umilmente chie-dere, anche se non possiamo meritare. Fortificata da questo dono, l’anima “seguendo una certa dolcezza, una non so quale nascosta ed interiore delizia, come se dalla casa di Dio risuonasse soavemente un organo… astraendosi da ogni rumore della carne e del sangue, giunge fino alla casa di Dio… dove eterna è la festa, dove ciò che si celebra non passa” 29. Dobbiamo aggiungere infine che S. Agostino era abituato a salire a Dio dalle bellezze di un’altra creatura, che, per essere unita ipostaticamente al Verbo, è piena di grazia e di verità, e perciò di bellezza inenarrabile: l’umanità sacrosanta di Cristo. Per gli occhi della fede tutto è bello in Cristo uomo: la nascita, la passione, la morte. Perché tutto è opera dell’amore. “Cristo ha trovato in noi molte cose brutte, dice S. Agostino ai fedeli di Cartagine, eppure ci ha amati: se noi troveremo qualcosa di brutto in lui, facciamo a meno di amarlo… Ma per chi capisce, anche il Verbo fatto carne è tutto bellezza… Bello come Dio… bello nel seno della Vergine… Dunque, bello nel cielo, bello qui in terra, bello nel seno (di sua madre), bello nelle mani dei parenti, bello mentre fa miracoli, bello mentre subisce i flagelli, bello quando invita alla vita, bello quando disprezza la morte, bello quando depone l’anima, bello quando la riprende, bello nella croce, bello nel sepolcro, bello in cielo… L’infermità della sua carne non distolga i vostri occhi dallo splendore della sua bellezza” 30. Abbiamo ricordato sopra che S. Agostino esorta esplicitamente le vergini a contemplare la bellezza di Cristo, loro sposo. Vale la pena di riportare qui il testo intero. “Considerate la bellezza di colui che amate. Pensatelo uguale al Padre e obbediente anche alla madre; Signore del cielo e servo qui in terra; Creatore di tutte le cose e creato come una di esse. Contemplate quanto sia bello in lui anche quello che i superbi scherniscono. Con occhio interiore mirate le piaghe del crocifisso, le cicatrici del risorto, il sangue del morente, il prezzo versato per il credente, lo scambio effettuato dal redentore. Pensate al valore di tutte queste cose e ponetelo sulla bilancia dell’amore” 31.

3. …esalanti il buon odore di Cristo

Al motivo della contemplazione, a cui la vita religiosa ci prepara e ci sprona, S. Agostino aggiunge il motivo, che non poteva mancare, dell’apostolato. Lo esprime con le parole di S. Paolo: siamo il buon odore di Cristo in ogni luogo 32, parole che valgono per tutti i fedeli – e S. Agostino lo sa 33 – ma che la Regola applica opportunamente alla vita religiosa. “Il Signore vi conceda di osservare queste norme… come… esalanti dalla vostra santa convivenza il buon odore di Cristo” 34. È il motivo cristologico della spiritualità della Regola, un motivo profondo, essenziale, che nasce in S. Agostino dall’esperienza e dalla lunga meditazione del Vangelo. Penso che il lettore non ignori quale posto occupasse la sacra persona di Cristo nella vita e nel pensiero del Vescovo d’Ippona. Se ha letto le pagine delle Confessioni sul nome di Gesù bevuto col latte materno 35, nella scoperta di Cristo Redentore degli uomini e Mediatore di salvezza 36, sul comando di S. Paolo di rivestirsi di Gesù Cristo 37, sull’adesione a Lui, sacerdote e sacrificio, e perciò fonte della nostra fiducia 38, non potrà dimenticarle facilmente, tanto è grande la carica di affetto che egli vi ha infuso. In quanto al pensiero divino, che la teologia, la pietà e la storia trovano per S. Agostino una sola spiegazione, un solo nome che le illumini: il nome di Cristo. L’accenno dunque della Regola non è occasionale, non è indifferente: è invece l’espressione, sia pure brevissima, d’una pietà profonda, d’una dottrina vastissima, d’una spiritualità che ha in Cristo l’alfa e l’omega. Occorre osservare poi che l’accenno della Regola si riferisce direttamente all’apostolato e, cosa non meno significativa, all’apostolato comunitario. Vuole cioè che la comunità religiosa sia tale che renda testimonianza a Cristo, ne diffonda la fragranza delle virtù, ne confermi con opere la dottrina, ne glorifichi il nome. Si tratta, come si vede, dell’apostolato cristiano più importante, quello della santità, che è apostolato di carità, di sofferenza, di gioia, e poi ancora, come risultanza di questo, apostolato di parola e di azione. La Regola vuole perciò che la comunità, vivendo in mezzo al popolo di Dio e con il popolo di Dio, sia un centro di alta spiritualità cristiana, e sia conosciuta come tale. Ricordiamo la posizione dei monaci di Cartagine: “Così, dicevano, ci comportiamo anche noi: attendiamo alla lettura in compagnia dei fratelli che vengono a noi stanchi delle agitazioni della vita mondana, per trovare, fra noi, la quiete nello studio della parola di Dio, nella preghiera, nel canto dei salmi, inni o cantici spirituali. Ci apriamo con loro, li consoliamo, li esortiamo al bene, costruendo in essi, cioè nella loro condotta, quanto a nostro avviso ancora vi manca, avuta considerazione dello stato in cui si trovano” 39. Questa posizione non era sbagliata per ciò che affermava, ma per ciò che escludeva. Escludeva infatti dalle occupazioni del monachesimo il lavoro manuale. Contro questo esclusivismo, che costituiva una disobbedienza al Vangelo e una causa d’inganno e di scandalo per i fedeli, si rivolse S. Agostino. È dunque necessario che ogni comunità, se in essa Cristo è veramente amato, sia una comunità “esemplare”. Questa esemplarità nasce, come si sa, dalla carità, dall’osservanza regolare, dalla disponibilità al servizio della Chiesa, che è il Corpo di Cristo. Dalla carità, poi, nasce l’imitazione. “Se amiamo veramente, imitiamo: non possiamo rendere un frutto migliore dell’amore che mostrando l’esempio dell’imitazione” 40. Per questo S. Agostino esorta particolarmente le vergini consacrate a salire su su per i gradi delle beatitudini, imitando in ciascuno di essi le corrispondenti virtù di Cristo. “Beati i poveri di spirito! Imitate colui che, essendo ricco, si è fatto povero per voi 41. Beati i miti! Imitate colui che disse: Imparate da me, perché sono mite ed umile di cuore 42. Beati coloro che piango-no! 43 Imitate colui che pianse sopra Gerusalemme. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia! Imitate colui che disse: Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato 44. Beati i misericordiosi! Imitate colui che prestò soccorso all’uomo ferito dai briganti e abbandonato ai margini della strada mezzo morto, in condizioni disperate 45. Beati i puri di cuore! Imitate colui che non commise peccato e sulla cui bocca non si è trovato inganno 46. Beati i pacifici! Imitate colui che pregò per i suoi carnefici: Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno 47. Beati i perseguitati per amore della giustizia! Imitate colui che patì per voi, lasciandovi un esempio affinche ne seguiate le orme 48. Coloro che imitano l’Agnello in queste virtù, in queste stesse ne seguono le orme” 49. Le vergini consacrate, inoltre, seguono, cioè imitano l’Agnello nello splendore della verginità. “Voi dunque – dice loro S. Agostino – seguite l’Agnello conservando con perseveranza ciò che avete consacrato a Lui con ardore” 50. Come frutto di questa assidua e perseverante imitazione di Cristo, si sprigiona dalla comunità religiosa quella fragranza spirituale che, diffondendosi nella Chiesa e nel mondo, ne manifesta la presenza e la divinità. Questo è il primo e principale apostolato di ogni comunità religiosa, sia essa consacrata esclusivamente alla contemplazione, come le Monache di clausura, sia essa consacrata, anche, all’attività ministeriale o caritativa. E non si tratta di un apostolato di comodo, ma di rottura. S. Paolo lo ricorda nelle parole alle quali la Regola si riferisce – siamo il buon odore di Cristo tra coloro che si salvano e tra coloro che si perdono: per gli uni odore di morte… per gli altri odore di vita… 51 e S. Agostino lo commenta spesso, mostrandone il misterioso significato 52. “La parola della croce infatti è stoltezza per coloro che se ne vanno in perdizione, ma per noi, che siamo nella via della salvezza, è la forza di Dio” 53. Per questo S. Paolo non cessava di predicare Cristo crocifisso, anche se la sua predicazione era “uno scandalo per i Giudei, una stoltezza per i Gentili” 54. Lo stesso fece S. Agostino. La lunga e sofferta polemica contro i Pelagiani non ebbe altro scopo che questo: impedire che la forza della croce di Cristo fosse svuotata della sua sostanza e della sua efficacia; ut non evacuetur crux Christi 55. Per questo le sue parole destarono scandalo, e qua e là lo destano ancora. Inutile mettere in luce il carattere decisamente moderno delle brevi parole della Regola che abbiamo brevemente commentato: il lettore se ne è accorto da sé. Oggi si parla molto, e giustamente, di testimonianza, ma è proprio la testimonianza in favore di Cristo che S. Agostino chiede alle sue comunità, una testimonianza individuale e collettiva. Oggi si parla molto e, ripetiamo ancora, giustamente, di autenticità, ma è proprio l’autenticità un’esigenza fondamentale della dottrina agostiniana in genere e della Regola in particolare. Il cristiano non è autentico se non è santo, ed è santo solo se è autentico. Autentico vuol dire sincero, convinto, conseguente, vero. Soprattutto vero. Autenticità e verità coincidono. Che cos’è infatti la verità se non l’armonia tra ciò che una cosa è e ciò che deve essere, cioè tra il nome e la realtà? Non per nulla S. Agostino ripete a ciascuno dei suoi religiosi, se non con queste parole, certo in questo senso: sii uomo; sii cristiano; sii servo di Dio; sii, se lo sei, sacerdote; sii te stesso. Sii te stesso; ma nell’ambito della dignità cristiana, perché la nostra personalità non può essere altro che la personalità di Cristo, né altra può essere la nostra libertà, se non quella che ci viene da Cristo. Con questa conclusione il discorso si riannoda al quarto motivo che S. Agostino mette in campo per indurre i suoi figli spirituali ad osservare con diligenza e amore le prescrizioni della Regola.

4. …uomini liberi sotto la grazia

“Il Signore vi conceda di osservare queste norme con amore… non come servi sotto la legge, ma come uomini liberi sotto la grazia” 56. Con queste parole la Regola riprende un tema caro a S. Paolo, caro più tardi a S. Agostino, caro in ogni tempo ad ogni anima nobile e generosa, che sente l’anelito per la libertà. Libertà va cercando, ch’è sì cara (Dante, Purg. 1, 71). È un tema eminentemente moderno. Lo sentono particolarmente i giovani, anche se qualche volta lo interpretano male. Non fa meraviglia: il tema della libertà è il più sentito, ma è anche quello che si presta più facilmente alla confusione e all’inganno. I termini sostanzialmente sono quelli antichi: libertà e dovere, ma la soluzione non è sempre la stessa. Spesso per difendere la libertà si crede necessario negare la legge, o almeno negare che la legge costituisca una norma obbligante. S. Paolo invece ha proclamato con grande forza la vocazione cristiana alla libertà 57, ma non per togliere di mezzo la legge – intendiamo la legge evangelica – bensì per rivelare il segreto che ci fa sentire la legge come un bisogno, non come un peso; come aiuto, non come un ostacolo; come una spinta, non come un freno. Questo segreto è la fede che opera per mezzo dell’amore 58, è la carità che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori 59. Infatti non abbiamo ricevuto lo spirito di schiavitù per ricadere ancora nel timore, ma abbiamo ricevuto lo spirito di adozione filiale per il quale esclamiamo: Abba, o Padre! 60. Da questa grande verità nascono due luminose conclusioni, una sulla libertà, l’altra sulla legge, che l’Apostolo esprime così: dove è lo spirito del Signore ivi è la libertà 61, … la legge non è fatta per l’uomo giusto 62. S. Agostino ha sviluppato questa dottrina di S. Paolo particolarmente nel suo libro De spiritu et littera, un libro utilissimo, indispensabile per intendere la dottrina agostiniana sulla grazia. Vi si parla dell’osservanza servile della legge, e dell’osservanza liberale: la prima nasce dal timore che sente la legge come un’imposizione e come un freno, e quindi come minaccia di castigo; la seconda invece nasce dall’amore ed è fonte di gioia e di libertà 63. Ecco un commento alle parole della Lettera ai Romani: Siamo stati giustificati gratuitamente per mezzo della grazia di Cristo 64. “Non già – dice il Santo – che ciò avvenga senza la nostra volontà, ma la legge dimostra che la nostra volontà è debole, affinché la grazia la guarisca; e la volontà, guarita dalla grazia, osservi la legge, non più costituita sotto la legge, né più bisognosa della legge” 65. Non più costituita sotto la legge, perché l’uomo giusto non è sotto la legge, ma nel cuore stesso della legge, in quanto la porta scolpita nel cuore e la osserva con amore; non più bisognosa della legge, perché l’uomo giusto ha raggiunto la santità e la dirittura morale, ed è diventato perciò norma a se stesso. Non si sente più servo, anche se serve, perché non è servo della legge, ma è servo di Dio. E Dio è amore. Coloro dunque che sentono il peso della legge – ammonisce S. Agostino – imparino a sentir la fame e la sete della giustizia e da servi si trasformeranno in figli. Con questo non cesseranno di essere servi: serviranno ancora, ma come figli; serviranno il Signore e il Padre liberamente 66. Ne segue che saremo liberi solo a condizione di essere servi: liberi dal peccato, servi della giustizia 67. È l’amore della giustizia o, come dice S. Agostino, la soave liberalità dell’amore per la giustizia che ci rende cristianamente liberi. Di questa inestimabile libertà il Vescovo d’Ippona fu difensore e cantore insieme. La libertà vera, quella che Cristo ci ha promesso e ci ha procurato – Se il Figlio vi libererà sarete veramente liberi 68 – consiste nell’essere spiritualmente sani 69. L’uomo perciò è tanto più libero quanto più è sano spiritualmente, ed è tanto più sano quanto più è soggetto alla grazia 70. Vale la pena di citare un altro testo agostiniano che dimostra quale vasta e profonda dottrina si nasconda nelle brevi parole della Regola che abbiamo citato. Dice dunque S. Agostino: “Forse rendiamo vano il libero arbitrio predicando la grazia? Niente affatto. Ma piuttosto lo rafforziamo. Come non si rende vana la legge per mezzo della fede, ma si rafforza, così è del libero arbitrio per mezzo della grazia. Infatti la legge si osserva solo col libero arbitrio, ma, per mezzo della legge si ha la cognizione del peccato, per mezzo della fede s’impetra la grazia contro il peccato, per mezzo della grazia la sanità dell’anima dalla malattia del peccato, per mezzo della sanità dell’anima la libertà della volontà, per mezzo della libera volontà l’amore della giustizia, per mezzo dell’amore della giustizia il compimento della legge. Perciò come la legge non è resa vana ma rafforzata dalla fede, perché la fede impetra la grazia con cui si adempie la legge, così il libero arbitrio non è reso vano, ma è rafforzato dalla grazia, perché la grazia sana la volontà e la volontà sanata ami liberamente la giustizia” 71. Verso questa méta sublime della libertà cristiana, che dà tanto valore all’osservanza della vita comune, e la rende facile e gioiosa, la Regola vuol sospingere ciascun religioso. Per questo gli ricorda l’opposizione che corre tra la schiavitù della legge e la libertà della grazia.

Capitolo secondo

CARITÀ E AMICIZIA

Sono i due pilastri della concezione spirituale, ecclesiale e monastica del Vescovo d’Ippona. Per scoprire la portata, la bellezza e la fecondità di questa concezione occorre studiarli insieme. Un errore sulla loro valutazione e sulle relazioni mutue potrebbe essere gravemente dannoso. Occorre evitarlo. 1. Carità Quanto il Vescovo d’Ippona abbia parlato dell’amore e con quale acume psicologico si è detto sopra sia pure per sommi capi. Più lungamente e più profondamente ha parlato dell’amore che lo Spirito Santo diffonde nei nostri cuori, cioè della carità. Per riassumere il suo vasto pensiero vorrei servirmi delle parole con cui l’ho fatto altrove 72. “La carità di Dio e del prossimo è il contenuto di tutte le Scritture 73, la sintesi della filosofia 74, il fine della teologia 75, l’anima della pedagogia 76, il segreto della politica 77, l’essenza e la misura della perfezione cristiana 78, la somma di ogni virtù, l’ispirazione della grazia 79, il dono da cui derivano tutti i doni dello Spirito Santo 80, la regola che distingue le opere buone da quelle cattive 81, la realtà con la quale nessuno può essere cattivo 82, il bene in cui si possiedono tutti i beni e senza il quale gli altri non giovano a nulla (Abbi la carità e avrai tutto, perché senza di essa a nulla giova tutto ciò che potrai avere) 83, la caparra o il principio della vita eterna 84. È in questo contesto che si deve intendere il celebre aforisma agostiniano: Ama e fa’ ciò che vuoi 85″. Se si volesse continuare, si potrebbe; soprattutto rilevando le proprietà di questo dono divino che il nostro dottore non cessa di approfondire. Eccole in sintesi: “l’inesauribile dinamismo, l’intransigente radicalità, il totale disinteresse, la forza progressiva dell’assimilazione, l’inseparabile compagnia dell’umiltà e in ultimo, ma non meno importante, la soprannaturalità” 86. Ma non è un trattato sulla carità che voglio scrivere, anche se sarebbe bello, utile e consolante scriverlo. Mi limito pertanto a riportare qualche brano di un discorso di S. Agostino sulla carità. “La carità – dice al suo popolo – con la quale amiamo Dio e il prossimo, possiede sicura tutta la grandezza e tutta l’ampiezza degli eloqui divini… se dunque non hai tempo di scrutare tutte le pagine sante, di svolgere tutti gli involucri della (divina) parola, di penetrare tutti i segreti della Scrittura, abbi la carità da cui tutto dipende; così possederai ciò che hai imparato nella Scrittura e ciò che ancora non hai imparato… In ciò che intendi della Scrittura, è la carità che ti si manifesta, in ciò che non intendi è la carità che resta occulta. Dunque chi possiede la carità nei costumi, questi possiede ciò che è aperto e ciò che è occulto nella parola divina. Perciò, fratelli, seguite sempre la carità, dolce e salutare vincolo delle anime, senza la quale il ricco è povero e con la quale il povero è ricco. La carità nelle avversità è tollerante, nella prosperità è temperante, nelle dure sofferenze è forte, nelle opere buone è ilare, nella tentazione è sicura, nell’ospitalità è larga, tra i veri fratelli è lieta, tra i falsi è paziente … “. Ricorda poi S. Agostino l’esempio dei santi del Vecchio e del Nuovo Testamento, le cui virtù, tanto diverse tra loro, non furono che modulazione dell’unica virtù della carità, cita le parole di S. Paolo nella lettera ai Corinti, della quale egli, Agostino, non potrebbe dire nulla di meglio, e continua: “Ma questa carità quanto è grande? Anima delle Scritture, forza delle profezie, salute dei sacramenti, base solida della scienza, frutto della fede, ricchezza dei poveri, vita dei morenti. Che c’è di tanto magnanime quanto il morire per gli empi? Che di tanto benigno quanto l’amare i nemici? Solo la carità non si duole della felicità altrui, perché non è invidiosa; solo la carità non si esalta per la felicità propria, perché non è gonfia dell’orgoglio; solo la carità non sente il rimorso della cattiva coscienza, perché non opera il male. Tra le ingiurie è sicura, tra gli odi benefica, tra le ire placida, tra le insidie difesa dalla sua innocenza, tra le iniquità geme, nella verità respira. Che cosa di più forte della carità non per ripagare, ma per curare le ingiurie? Che cosa di più fedele non verso le vanità (della terra), ma verso le cose eterne (del cielo)?” 87. La citazione è lunga, ma meritava d’essere riportata come premessa del posto che occupa la carità nella concezione monastica del Vescovo d’Ippona. Questa sublime virtù, la sola che sia eterna con Dio, essendo l’anima e il cuore della vita cristiana, diventa per sua natura nel pensiero agostiniano – l’ho già accennato -, il fine, il mezzo e il centro della vita comune. La Regola v’insiste in tutte le sue pagine. Comanda fin dall’inizio: “La prima cosa per la quale vi siete insieme riuniti è che viviate unanimi nella casa e che abbiate un sol cuore e un’anima sola protesi verso Dio” (n. 3). Vediamo di scandagliarne il pensiero. 1) Carità e unità Questo primo precetto contiene in nuce tutte le prescrizioni che seguono. In esso S. Agostino ha espresso la sua persuasione più profonda e la sua esperienza più cara. In realtà, egli era innamorato di queste parole degli Atti degli Apostoli, e quindi del santo proposito che porta i fratelli ad unirsi insieme per viverle con pienezza. Il Dottore della carità, sapeva molto bene che il proposito di abitare insieme in santa concordia ha per sorgente la carità, per fine la carità, per esercizio quotidiano la carità. È interessante infatti notare che quando cita questo testo degli Atti – e lo cita molto spesso – vi aggiunge sempre il richiamo alla carità, cioè alla virtù che unisce ciò che la natura divide, che raccoglie ciò che il peccato disperde, che fa di molti individui, diversi e lontani, un sol corpo e una sola persona. Sarebbe troppo citarne tutti i passi. Eccone alcuni. ” … vivendo concordemente nella carità cristiana… avevano un sol cuore ed un’anima sola in Dio” 88. ” … avevano una sola anima e un sol cuore fusi nel fuoco della carità” 89. ” … erano come legni secchi che ardevano nella chiesa di Gerusalemme per il fuoco dello Spirito Santo quando avevano un solo cuore ed un’anima sola protesi verso Dio” 90. Proprio così. La concordia fraterna non è frutto di coincidenza di interessi o di uguaglianza di sentimenti o di simpatia naturale, ma è frutto della carità con cui amiamo Dio e, per amore di Dio, il prossimo. “Non abitano insieme, afferma categoricamente S. Agostino, non abitano insieme (nella concordia) se non coloro nei quali la carità di Cristo è perfetta. Quelli invece nei quali la carità di Cristo non è perfetta, anche quando stanno insieme, sono odiosi, molesti, turbolenti; e con la loro inquietudine disturbano gli altri… simili a un giumento inquieto sotto il giogo, il quale non solo non tira, ma tormenta anche, con calci, il compagno” 91. Così è: mentre il dissenso produce le divisioni “la carità produce l’accordo, l’accordo genera l’unità, l’unità mantiene la carità, la carità conduce alla gloria” 92. Da questo accordo, che genera l’unità, proviene il nome di monaco. “Monos, spiega S. Agostino, vuol dire uno, ma non uno in qualsiasi modo; poiché anche nella massa uno è uno, ma, essendo egli insieme a molti, si può dire che è uno, ma non si può dire che è solo, cioè monos: monos infatti significa uno solo. Dunque coloro che vivono insieme in modo da formare un solo uomo, in modo che di loro si possa dire ciò che è scritto: avevano un’anima sola e un cuore solo; che sono cioè molti corpi, ma non molte anime, molti corpi, ma non molti cuori, giustamente si possono dire monos, cioè uno solo” 93. Frutto dunque della carità è la concordia, frutto della concordia l’unità, frutto dell’unità la gioia. Ecce quam bonum et quam iucundum, esclama il salmista, habitare fratres in unum. S. Agostino osserva che questa voce di esultanza ha riempito i monasteri. “Queste parole del salterio, dice al suo popolo, questo dolce suono, questa soave melodia – è soave nel canto ed è soave nell’intelligenza – ha generato anche i monasteri. Risuonò per tutta la terra, e quelli che erano divisi si sono riuniti”. “Per primi abitarono insieme quelli che (a Gerusalemme) vendevano tutto ciò che avevano e ne davano il Prezzo agli Apostoli, come si legge negli Atti degli Apostoli”. “Dunque loro furono i primi ad ascoltare (queste parole): Ecco com’è bello, come giocondo, il convivere di tanti fratelli insieme: i primi ma non i soli. Infatti non giunse solo a loro quest’amore e questa unità dei fratelli: questa carità esultante giunse anche ai posteri … ” 94. Ma per gustare la gioia di vivere insieme e di sentirsi fratelli, occorre prima di tutto che l’amore possegga tre prerogative essenziali: una spinta costante verso Dio, una coscienza viva della presenza di Dio nella comunità, un senso profondo della Chiesa. 2) In Deum Abbiate un’anima sola e un cuore solo in Dio, o più precisamente, protesi verso Dio, in Deum. Quest’aggiunta al testo biblico, è propria di S. Agostino: non c’è nella Scrittura, non c’è nei santi Padri prima di lui. Ed è molto significativa. Essa esprime il dinamismo profondo della carità, la ragione ultima della vita comune. Cuori protesi verso la ricerca di Dio e perciò uniti fra loro in una santa comunione di vita che è unità nella varietà. L’agostiniano quaerere Deum trova qui la sua applicazione più piena. “Perché, si chiede S. Agostino nei Soliloqui, desideri che le persone a te care vivano insieme a te?”. Ecco la risposta: “Affinché possiamo occuparci insieme, concordemente, nella ricerca di ciò che riguarda le nostre anime e Dio. Di tal maniera che colui che avrà trovato per primo potrà condurre gli altri, senza fatica, allo stesso risultato” 95. L’anima e Dio: le due sole cose che S. Agostino desiderava sommamente di conoscere 96, per scoprire sempre più ciò che Dio è per l’anima e ciò che l’anima è per Iddio e orientare così, di conseguenza, la vita. La ricerca di Dio significa dunque per il Vescovo d’Ippona molto di più della fredda indagine filosofica; significa fede, amore, culto, servizio di Dio; desiderio, tensione, ascesa, contemplazione; progressivo avanzamento nella somiglianza della SS. Trinità. Si capisce allora che coloro i quali sentono nel cuore questo fuoco di carità, che è dono dello Spirito Santo, imprimono alla vita un movimento che li porta ad unirsi e li solleva in alto. “Il tuo dono – scrive S. Agostino in un celebre passo delle Confessioni – il tuo dono (Signore) ci accende e ci porta verso l’alto. Noi ardiamo e ci muoviamo. Saliamo la salita del cuore cantando il cantico dei gradini. Del tuo fuoco, del tuo buon fuoco ardiamo e ci muoviamo, salendo verso la pace di Gerusalemme” 97. Si attua così nel monastero in modo eminente quel che dice lo stesso Santo in un altro luogo: “Se amate Dio, trascinate all’amore di Dio i vostri congiunti e tutti coloro che sono nella vostra casa… rapiteli a godere di Dio; dite loro: magnificate il Signore con me… Rapitene quanti più ne potete, esortando, sospingendo, pregando, discutendo, dando spiegazioni, con mansuetudine, con dolcezza; rapiteli all’amore, affinché se magnificano il Signore, lo magnifichino insieme nell’unità” 98. Quell’in Deum non è dunque un’aggiunta al testo biblico messa lì per caso, ma è, invece, sommamente ricco di significato: contiene infatti tutte le ricchezze dell’amore di S. Agostino per la sapienza e rivela la prima grande sorgente da cui scaturisce l’unitas caritatis. 3) La presenza di Dio nei fratelli La prima sorgente, non l’unica. Insieme alla dimensione verticale che va verso Dio, la carità deve possedere la dimensione orizzontale che investe e abbraccia i fratelli. S. Agostino portò nella vita comune tutta la carica umana dell’amicizia. Sappiamo quale eco avesse nel suo animo questa cara e soave parola. Amicizia vuoi dire comunione, gioia, arricchimento: comunione di vita, gioia di dare e di ricevere, arricchimento di sapienza e di grazia. Nasce infatti dall’amore di un bene superiore e comune, che è la Verità – nessuno può essere amico di un altro se prima di tutto non lo è della Verità, sentenzia Agostino 99 -; suppone la stima, la fiducia, la benevolenza, il rispetto, la fedeltà; e richiede per mantenersi e crescere, molte cose: la presenza dell’amico, l’assenza dell’invidia, i frequenti colloqui, l’unità degli intenti, la cooperazione generosa, la scienza del chiedere e del concedere il perdono, ecc. Agostino ne descrive le manifestazioni con queste memorande parole: “I colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi, i dissensi occasionali, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo, la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose di chi ritorna. Questi e altri simili segni di cuori innamorati l’uno dell’altro, espressi dalla bocca, dalla lingua, dagli occhi e da mille gesti gradevolissimi, sono l’esca, direi, della fiamma che fonde insieme le anime e di molte ne fa una sola” 100. Ma nel monastero l’amicizia non è solo questo, perché non ha solo, o non ha affatto, fonti naturali, com’era l’amicizia di cui parla S. Agostino nel passo citato. Su questo punto il Santo è perentorio: non sia carnale, ma spirituale il vostro amore 101, il che vuol dire: non sia umano – nel senso deteriore della parola – ma divino; non naturale, ma soprannaturale. Nel monastero dunque l’amicizia deve avere fonti soprannaturali; deve scaturire cioè dalla carità, la virtù che ama, rispetta e venera nell’altro il tempio di Dio. Vivete dunque, così il Vescovo d’Ippona conclude il primo capitolo della Regola, vivete dunque unanimi e concordi e onorate mutuamente in voi stessi Dio, di cui siete templi. Con questo precetto egli dà il tono dell’amicizia cristiana e religiosa, inserendola nel mistero del soprannaturale. In questo modo l’amicizia, senza essere privata del calore umano che le è proprio, si arricchisce dei doni divini della grazia che purifica ed eleva la natura. Le parole della Regola, che abbiamo ricordate, contengono, riuniti insieme, due precetti paolini; quello di onorare Dio d’un sol cuore e d’una sola voce 102 e quello di prendere coscienza della nostra condizione di templi di Dio 103. S. Agostino ha scritto molto su questi argomenti. L’inabitazione dello Spirito Santo nell’anima del giusto è, per esempio, uno dei temi più belli e più fecondi della sua teologia della grazia. Il religioso che è entrato in monastero per vivere questa verità in tutta la sua stupenda ricchezza deve conoscerla profondamente. Tra le opere agostiniane si legga almeno la Lettera 187, che è un trattato sulla presenza di Dio, un trattato la cui struttura essenziale si può riassumere in queste tre grandi affermazioni: 1. benché Dio sia dovunque e sia dovunque tutto, non abita in tutti, poiché è bensì dovunque con la presenza della divinità, ma non è dovunque con la grazia dell’inabitazione; 2. anche in coloro nei quali Dio abita, non ci abita nella stessa misura; 3. intanto si dice che Dio abita nell’uomo in quanto lo rende con la sua grazia “dilettissimo” o “beatissimo” tempio suo. Di questa mirabile e consolante dottrina vogliamo rilevare qui un solo particolare; cioè l’affermazione agostiniana che non solo i singoli religiosi sono templi di Dio, ma che la comunità in se stessa, dove i membri vivono in santa concordia, è un tempio di Dio: “Son diventati – scrive il Santo – templi di Dio; non soltanto templi di Dio i singoli, ma tempio di Dio tutti insieme” 104. A nessuno può sfuggire l’immensa portata di questa affermazione: la comunità tempio di Dio. Compito della carità fraterna edificare a Dio, giorno per giorno, questo tempio: frutto della carità sentire ed amare Dio in esso. A questa affermazione se ne aggiunge un’altra non meno sorprendente. I fratelli uniti fra loro in quella carità che lo Spirito Santo diffonde nei cuori sono talmente uniti a Cristo da formare con Lui un’unica anima, l’anima, appunto, di Cristo. “La tua anima – scrive arditamente S. Agostino – non è più tua, ma di tutti i fratelli e le loro anime sono tue, o meglio, le loro anime insieme alla tua non sono più che un’anima sola, Christi unica” 105. Tradurre in pratica attraverso la perfetta unione d’amore la realtà divina del Corpo mistico di Cristo, è la prerogativa che S. Agostino volle imprimere ai suoi monasteri. Da questa prerogativa proviene l’ascetismo della carità. Ma prima di parlarne dobbiamo fare un accenno alla terza sorgente da cui scaturisce l’unione dei cuori, che fonda e ricapitola la vita monastica agostiniana. 4) Il senso ecclesiale Questa terza sorgente è il sensus Ecclesiae. Senso della Chiesa vuol dire, in questo caso, la persuasione profonda che la vita comune è inserita nella compagine ecclesiale e vi è inserita in tal modo che ne ricorda una manifestazione iniziale, ne esprime una realtà essenziale, ne annunzia la fase finale. Un senso ecclesiale dunque che ha le dimensioni del tempo e si proietta nell’eternità. a) Ricordo. – Prima di tutto la comunità religiosa costituisce un ricordo, che è insieme una continuazione; il ricordo della prima comunità di Gerusalemme. Abbiamo detto ripetutamente che S. Agostino nel fondare i suoi monasteri guardò a quella comunità e la prese per esempio. Da essa la comunità agostiniana deve attingere perennemente la fermezza della fede apostolica, la freschezza spirituale dell’amore, l’ardore della preghiera, l’assiduità nella celebrazione dell’Eucaristia, la gioia della speranza cristiana, che sono, appunto, le prerogative di quella prima comunità. Leggiamo negli Atti queste parole che dipingono un quadro di mirabile bellezza: “Quelli adunque che accolsero la parola (di Pietro) furono battezzati e quel giorno furono aggregate alla Chiesa circa tremila persone. E tutti perseveravano nel farsi istruire dagli Apostoli, nella comunanza fraterna, nell’eucaristia, nella preghiera… I fedeli intanto si tenevano uniti e avevano tutto in comune. E man mano che se ne sentiva il bisogno vendevano beni mobili e immobili e ne facevano distribuire fra tutti il ricavato. Ed ogni giorno frequentavano unanimi il tempio e spezzavano il pane di casa in casa, nutrendosene in esultanza e semplicità di cuore, lodando Iddio” 106. b) Realtà. – A questo ricordo, da cui la comunità religiosa attinge una vena perenne di freschezza e di vigore, si aggiunge la coscienza che la vita comune, vissuta secondo l’ideale degli Atti degli Apostoli, è un segno di quell’unità che Cristo ha voluto che fosse una nota essenziale della sua Chiesa. Si sa che S. Agostino fu l’apostolo infaticabile dell’unità della Chiesa lacerata dai donatisti; ciò si riflette nella concezione dell’ideale monastico: la concordia fraterna dei religiosi è e dev’essere un segno, una manifestazione concreta di quell’omnes unum sint di cui ogni discepolo di Cristo deve sentire la forza e la gioia. Non fa dunque meraviglia che non amino questo sublime ideale di fraternità coloro che hanno spezzato l’unità della Chiesa separandosi dai fratelli. “Non a torto, dice S. Agostino contro i donatisti, non a torto deridono il nome di unità coloro che si staccano dall’unità della Chiesa; non a torto dispiace loro il nome di monaco, perché essi non vogliono abitare insieme con i fratelli ma, per seguire Donato, hanno abbandonato Cristo” 107. La comunità religiosa è e dev’essere una piccola chiesa, la quale, unita non dalla carne e dal sangue, ma dalla carità di Cristo, dà testimonianza a favore dell’unità della Chiesa universale e ne offre un valido esempio. In essa infatti si compiono in modo eminente le parole: da questo appunto tutti riconosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri 108. Nasce da qui il valore apologetico del segno, che si aggiunge a quello storico del ricordo, proprio di ogni comunità religiosa che viva sinceramente il suo ideale di unione. c) Annuncio. – Ma occorre menzionare subito un terzo valore, che completa gli altri due e dà il pieno significato al senso ecclesiale d’una comunità religiosa agostiniana: il valore profetico di annuncio. L’unione che fa dei fratelli un solo cuore e un’anima sola sarà sempre qui in terra un abbozzo, un inizio, vorremmo dire un tentativo. La perfezione è altrove, là dove le conseguenze del peccato, che è essenzialmente divisione, saranno superate e vinte per intero e la carità avrà soggiogato a sé ogni pensiero ed ogni sentimento umano: nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione di S. Agostino, “la ordinatissima e concordissima comunità di coloro che godono di Dio e mutuamente di se stessi in Dio” 109. Solo in quella città Dio sarà pienamente tutto in tutti. E poiché Dio è carità, per mezzo della carità avverrà una cosa stupenda, inenarrabile: quello che avranno i singoli sarà comune a tutti, ut quod habent singuli commune sit omnibus. “In tal modo ognuno avrà anche ciò che non ha, perché (pur non avendolo egli stesso) lo ama nell’altro (e, amandolo, lo possiede). La diversità dello splendore non susciterà dunque invidia, perché regnerà in tutti l’unità dell’amore, l’unitas caritatis” 110. A questo ideale s’ispira la vita comune e, ispirandovisi, lo preannuncia con crescente dinamismo, che è tensione, invocazione, speranza. E si badi che il senso profetico non sta solo nell’osservanza dei consigli evangelici, ognuno dei quali possiede, come è noto, un significato escatologico, ma sta anche nella vita comune come tale, in quanto essa, esigendo un esercizio quotidiano di carità, costituisce una comunione di vita che è l’inizio di quella consors differentia che sarà perfetta e beata nei cieli. La comunità religiosa, dunque, non vuole soltanto fare la Chiesa, cioè estenderne col suo apostolato l’azione, ma è Chiesa e si sente Chiesa, in quanto della Chiesa ricorda gli inizi, ricorda la perenne efficacia e annuncia gli eterni destini. Vivendo l’ideale dell’amore vive nel mistero della Chiesa, ed è essa stessa espressione di questo mistero: dell’amore, che è l’unica cosa eterna tra le cose temporali e sa compiere il miracolo di moltiplicare i beni dei singoli comunicandoli a tutti. Questo il significato ampio e profondo del senso ecclesiale che S. Agostino volle infondere nelle sue comunità religiose. Non v’è chi non veda di quanta freschezza spirituale e di quante energie interiori esso sia portatore. 5) Su tutte le cose si elevi la carità che permane Ma non basta il precetto iniziale per richiamarci al tema centrale e inesauribile della carità. Nel cuore stesso della Regola il legislatore ne propone il programma con queste parole: in tutte le cose di cui si serve la transitura necessità, si elevi l’unica che permane: la carità 111. Programma solenne, ma difficile; si sa che la carità è la più ardua e la più vulnerabile di tutte le virtù. Per aiutare i suoi discepoli a metterlo in pratica S. Agostino enuncia alcuni principi, destinati a creare solide convinzioni, dai quali poi nasce quel deciso orientamento che permette il trionfo della carità. a) … meglio aver meno bisogni che aver più cose – Il primo principio lo abbiamo ricordato sopra: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Possiamo chiamarlo il principio della libertà dal bisogno, non nel senso corrente dell’espressione, ma in un altro molto diverso, anzi opposto. La libertà dal bisogno può significare, e significa correntemente, libertà di soddisfare il bisogno; suppone perciò l’impegno di promuovere l’aumento dei beni per poterlo soddisfare. È il principio della società del benessere; utile, anzi, dentro certi limiti, necessario, soprattutto se si pensa di soddisfare i bisogni dei più disagiati, dei meno abbienti o, come oggi si dice, dei sotto sviluppati; ma principio anche pericoloso, perché può entrare, ed entra molto spesso, in quella terribile spirale, che è l’aspirazione alla libertà dal bisogno che promuove l’aumento del benessere, e l’aumentato benessere che provoca l’aumento dal bisogno. Nella Regola invece, libertà dal bisogno significa non soddisfazione, ma limitazione del bisogno stesso, nei limiti, s’intende, che il dovere consente. Ora, questa limitazione è fonte autentica di libertà. È risaputo, infatti, che ogni bisogno di cose temporali e caduche per chi, come l’uomo, è destinato alle cose imperiture ed eterne, costituisce una servitù. La servitù, poi, genera la necessità, e la necessità, quando non sia soddisfatta, genera indigenza, inquietudine, tormento. Ma anche quando sia possibile soddisfarla, la necessità è sempre necessità, mai libertà. “Tu fabbrichi la casa – dice S. Agostino al suo popolo – perché, se non la fabbricassi, resteresti senza abitazione: la necessità ti costringe a fabbricare la casa, non la libera volontà” 112. Lo stesso vale per le vesti e i cibi: tutto ciò che si fa per procurarseli, si fa per necessità non per libertà. Il religioso quindi, il quale, attraverso la temperanza, la parsimonia e l’austerità evangelica, limita, per quanto gli è possibile, i suoi bisogni, conquista progressivamente la libertà interiore e s’immerge nell’amore delle cose celesti. Si stima perciò felice non di avere più cose – in realtà, chi entrava nel monastero da bassa condizione trovava in esso più cose di quelle che avesse – ma si stima felice di aver meno bisogni. Senza dire che, limitando i propri bisogni, il religioso mette la comunità in grado di venire incontro ai bisogni altrui. Il principio agostiniano non ha dunque solo un valore comunitario, in quanto crea nella comunità quel clima spirituale e soprannaturale che facilita il trionfo della carità, ma possiede anche un valore sociale di stimolo e di aiuto. b) … la carità… antepone le cose comuni alle proprie – Il secondo principio, non meno luminoso del primo, viene enunciato dalla Regola con queste parole: nessuno mai lavori per se stesso ma tutti i vostri lavori tendano al bene comune e con maggiore impegno e più fervida alacrità che se ciascuno li facesse per sé. Infatti, la carità di cui è scritto che non cerca il proprio tornaconto, va intesa nel senso che antepone le cose comuni alle proprie, non le proprie alle comuni. Per cui vi accorgerete di aver tanto più progredito nella perfezione quanto più avrete curato il bene comune anteponendolo al vostro 113. Parole d’oro, che indicano nell’amore del bene comune – o bene sociale – il progressivo svuotamento dell’egoismo, e perciò la misura del progresso nella carità. La distinzione tra amore privato e amore sociale è fondamentale nella dottrina agostiniana: sta alla base delle due città in cui è diviso il genere umano, ed è più ampia e più profonda di quella notissima tra l’amore di sé e l’amore di Dio 114. Ecco un testo importante: “Due amori… dei quali uno sociale e un altro privato… distinsero le due città sorte nel genere umano… una dei giusti e un’altra degli iniqui” 115. Amore privato vuol dire amore di cose proprie. È considerata ed è cosa propria, in questo caso, tutto ciò che si possiede o si desidera in opposizione agli altri o con esclusione degli altri; quindi le ricchezze, la gloria, il potere. L’amore privato nasce dalla cupidigia, dall’egoismo, dalla superbia e conduce al peccato, che è, essenzialmente, una rinuncia, e perciò una privazione, del bene totale, comune a tutti, e un’adesione al bene parziale, che è il bene proprio. Il peccato degli Angeli, spiega S. Agostino, consiste proprio in questo, cioè nella volontà di separarsi da un bene superiore comune a tutti e di aderire a un bene inferiore, proprio di ognuno, e quindi parziale e privato. Con quali conseguenze? Disastrose. Ebbero il fasto dell’orgoglio, ma perdettero l’eternità, che è eccelsa; ebbero l’astuzia della vanità, ma perdettero la verità, che è certissima; ebbero la parzialità, ma perdettero la carità, che è indivisibile, che abbraccia cioè il tutto e non può ridursi mai ad una parte. In altre parole, privati della partecipazione dell’eternità, della verità, della carità, che è Dio, bene di tutti, divennero superbi, fallaci, invidiosi, e perciò soli, poveri e miseri 116. Invece l’amore sociale è l’amore del bene comune. Per comune s’intende quel bene che può essere tutto di tutti in modo da escludere tra gli amanti ogni ombra d’invidia e ogni possibilità di opposizione, come il bene della sapienza, come ogni altro bene spirituale, universale ed eterno. In definitiva l’amore sociale è l’amore di Dio e l’amore di se stessi e del prossimo in Dio. C’è dunque tra l’amore sociale e l’amore privato la stessa opposizione che corre tra l’umiltà e la superbia, tra la carità e la cupidigia. Ecco come S. Agostino esprime questa opposizione: “Uno provvede all’utilità comune in vista della società celeste, l’altro per un arrogante desiderio di dominio fa servire a sé anche il bene comune; uno è suddito a Dio, l’altro emulo di Dio; uno tranquillo, l’altro turbolento; uno pacifico, l’altro sedizioso; uno preferisce la verità alle lodi degli adulatori, l’altro preferisce in qualunque modo le lodi alla verità; uno amichevole, l’altro invidioso; uno che vuole al prossimo il bene che vuole a sé, l’altro che vuole assoggettare a sé il prossimo; uno che regge il prossimo per l’utilità del prossimo, l’altro che lo regge per la sua utilità” 117. La Regola ammonisce il religioso a frenare l’amore privato, che è causa di tanti mali, anteponendo sempre le cose comuni alle proprie. In questo modo si svuoterà a poco a poco dall’egoismo e dilaterà il cuore in quella carità che non cerca il proprio tornaconto 118 ma cerca in tutte le cose e sempre il bene del Vangelo, imparando a vivere non più per sé, ma per Gesù Cristo, che è morto per tutti 119. A condizione, ovviamente, che non sostituisca all’egoismo individuale un egoismo collettivo che è, anch’esso, una triste forma di amore privato. Il primo infatti antepone le cose proprie a quelle comuni, il secondo le cose di un gruppo a quelle di tutti. Questa pericolosa e non infrequente sostituzione avverrebbe, per esempio, se il religioso anteponesse il bene del proprio monastero al bene dell’Ordine o il bene dell’Ordine al bene della Chiesa. Per evitare questo pericolo è necessario spingere fino in fondo l’amore sociale, amare cioè nel proprio monastero l’Ordine, nell’Ordine la Chiesa, nella Chiesa Cristo, che è Dio benedetto nei secoli 120 che dobbiamo amare, perciò, in tutti e sopra tutto. È naturale allora che S. Agostino indichi come misura del progresso spirituale l’amore delle cose comuni. Primo frutto di questo amore è la concordia fraterna: “una cosa molto grande e pur molto rara tra le cose umane; una cosa lodata da tutti e conservata da pochi”. “Ma perché è tanto difficile che i fratelli vivano in concordia? Perché litigano di cose terrene, perché vogliono essere terra… I fratelli dunque se vogliono vivere concordi non amino la terra. Ma se non vogliono amare la terra, non siano terra. Cerchino una possessione che non si può dividere, e saranno sempre concordi” 121. Questa possessione è l’eredità celeste. “Per questa eredità non si litiga. Altre eredità si acquistano litigando, questa litigando si perde” 122. Il secondo frutto dell’amore sociale è l’orientamento costante dell’animo verso la celeste città e la preparazione ad essa. “Quella gloriosissima città, infatti,… non avrà cittadini dei quali ognuno goda delle cose proprie (come di cose private), perché Dio sarà tutto in tutti. Chiunque in questo terreno pellegrinaggio desidera fedelmente e ardentemente questa società con Dio, si abitua a preferire le cose comuni alle proprie, cercando non ciò che è suo, ma ciò che è di Gesù Cristo” 123. c) “Uti” e “frui” – V’è finalmente un terzo principio, la cui meditazione può educare l’animo al trionfo della carità. La Regola lo accenna con quelle parole: su tutte le cose di cui si serve la transitura necessità… Si tratta dunque dell’uso delle cose, d’un uso che nasce dalla necessità, d’una necessità destinata a sparire. Sotto queste parole v’è la celebre distinzione agostiniana tra usare (uti) e godere (frui). Usare vuol dire amare una cosa come mezzo, e quindi non per se stessa, ma in ordine al fine e nella misura che conduce ad esso; godere significa, invece, amare una cosa per se stessa, come il termine in cui il cuore si riposi, come il fine. Da queste nozioni nasce il principio: la legge suprema dell’ordine vuole che si usi delle cose di cui si deve usare e si goda delle cose di cui si deve godere: il contrario è perversione e peccato. Ma quali sono le cose di cui ci si deve solo servire? Tutte quelle legate alla condizione della vita presente, destinate quindi a passare con la vita stessa: quelle che riguardano il sostentamento del corpo – vitto, vestiario, riposo, lavoro – che riguardano la formazione della mente – educazione, scuola, scienza, arte – che riguardano l’organizzazione sociale – diversità di compiti e molteplicità d’uffici che riguardano la vita spirituale nella fase presente: sacerdozio ed opere di misericordia. È noto infatti che nel regno di Dio non ci sarà più, come funzione, il sacerdozio, perché non vi saranno più uomini da salvare, né vi saranno più le opere di misericordia, perché non ci saranno più uomini miseri. Tutte queste cose devono essere stimate per quel che sono e, di conseguenza, amate per quel che sono. L’amore retto richiede un giudizio retto. “Giustamente e santamente vive solo chi è un imparziale stimatore delle cose, cioè chi ama ordinatamente” 124. Ma l’amore non è ordinato se non si conforma all’ordine stesso delle cose. Ora le cose di cui stiamo parlando sono mezzi a nostra disposizione in vista del fine da raggiungere, mezzi necessari, sì, ma sempre e soltanto mezzi. Sarebbe dunque deplorevole, oltre che stolto, trasformarli in fine, arrestarsi ad essi, o anche lasciarsi solo frenare da loro nel movimento verso la patria. In questo caso saremmo simili a quel viandante che, avendo a disposizione una carrozza per raggiungere più presto e più comodamente la meta, si lascia attrarre tanto dall’interesse per quello strumento che rallenta il passo o, peggio, dimentica la meta e si ferma. Le cose invece di cui possiamo e dobbiamo godere sono quelle eterne, cioè Dio e coloro che insieme a noi possono essere partecipi di Dio: il prossimo. Ma del prossimo possiamo goderne a condizione che lo amiamo in Dio e che in esso amiamo Dio, a somiglianza di ciò che avviene nella città celeste, che è, secondo la celebre definizione agostiniana, “la società ordinatissima e concordissima di coloro che godono di Dio e godono l’uno dell’altro in Dio” 125. Ideale più sublime, più umano, più pieno non ci poteva presentare: vi brilla la carità in tutte le sue forme, la carità una e molteplice, contemplante ed operante, che abbraccia Dio, noi stessi, gli uomini, gli Angeli. Abbiamo ricordato rapidamente tre fecondi principi, la cui meditazione può aiutare il religioso a mettere in pratica l’arduo programma della Regola, quello di far trionfare in tutte le cose che passano la luce divina della carità, che permane. Il primo lo aiuta a restringere i propri bisogni, il secondo a svuotarsi dall’innato, inguaribile egoismo, il terzo a sentire la strumentalità delle cose temporali e ad immergersi sempre più nell’eterno. 2. Amicizia Ho detto non certo molto, ma almeno qualcosa della carità. Non dispiaccia al lettore se mi trattengo un poco sull’amicizia che, insieme alla carità, fu la grande passione del cuore del Vescovo d’Ippona. All’amicizia secondo S. Agostino sono stati dedicati non pochi studi che non è il caso ora di recensire. Qui, per riassumere, si può dire che tre cose sono certe: 1. che S. Agostino sentì profondamente il bisogno dell’amicizia e ne ebbe il culto; 2. che contribuì decisamente a trascrivere l’ideale classico dell’amicizia nella concezione della vita cristiana, dimostrando che in essa, nella vita cristiana, quell’ideale trova il perfezionamento e l’inveramento; 3. che introdusse questo ideale così inverato nell’organizzazione della vita monastica. Per chiarire queste affermazioni basteranno pochi accenni. 1) Il bisogno e il culto dell’amicizia. S. Agostino non sa concepire la vita senza amicizia. Una vita simile gli sarebbe sembrata vuota, insipida, tenebrosa. Nella pienezza degli anni, dopo una bella pagina sulle consolazioni dell’amicizia, scrive questo celebre aforisma che rivela il suo animo e quello degli uomini: “in quibuslibet rebus humanis nihil est bomini amicum sine homine amico”; in tutte le cose umane nulla è caro all’uomo che non abbia un amico 126. Difatti, l’amicizia fiorì spontanea intorno a lui, e non fu mai solo. Dall’innominato amico della gioventù la cui improvvisa morte gli suggerì pagine memorabili nelle Confessioni 127 all’amicizia “dolcissima” con Alipio, Nebridio, Evodio, Severo, Profuturo, Possidio e tanti altri in Africa e oltre il mare, fino alla morte, quando intorno al suo letto si raccolsero tanti vescovi suoi colleghi ed ammiratori, fu sempre circondato da amici che amò e dai quali fu riamato. Per portare qualche testimonianza, scrive di Nebridio: “Anche Nebridio aveva lasciato il paese natio, nei pressi di Cartagine, e poi Cartagine stessa, ove lo s’incontrava sovente, aveva lasciato la splendida tenuta del padre, lasciata la casa e la madre, non disposta a seguirlo, per venire a Milano con l’unico intento di vivere insieme a me nella ricerca ardentissima della verità e della sapienza” 128; e di Severo: “Tu mi conosci come io conosco me stesso… essendo tu un’altra anima mia, anzi l’anima mia e tua non sono più che un’anima sola” 129; e di Alipio, “fratello del mio cuore” 130: “Chi ci conosce potrebbe dire che io e lui siamo due (persone) non quanto all’animo ma quanto al corpo; solo, beninteso, per la nostra concordia e amicizia fedelissima, non per i meriti, in cui egli mi supera” 131. Del resto egli sentiva vere e approvava le parole di Orazio che aveva definito l’amico (Virgilio) metà dell’anima sua 132, come pure approvava la definizione dell’amicizia data da Cicerone: “L’amicizia – afferma egli e lo afferma giustamente – è il perfetto accordo su tutte le cose divine e umane, accompagnato da benevolo affetto” 133. 2) L’ideale cristiano dell’amicizia. Egli si sentiva inserito, per elezione e per indole, nella corrente dell’ideale classico dell’amicizia, di cui conosceva bene le opere, molte e pregevoli, a cominciare da quella a lui più vicina e più cara: L’Amicizia di Cicerone 134. Divenuto però cristiano, il suo sforzo fu quello di mostrare inverato nel cristianesimo questo grande ideale umano. Lo fece approfondendo la nozione, la proprietà, il fine. Osserva che non può esserci vera amicizia se non sul fondamento della verità. “Nessuno può essere amico dell’uomo se prima di tutto non sia amico della verità” 135. Osserva poi che se l’amicizia importa – secondo la definizione classica – l’accordo nelle cose umane e divine, non può esserci pieno accordo in, quelle umane se c’è disaccordo in quelle divine. “Questo accade perché è inevitabile che stimi le cose umane diversamente da quel che si conviene colui il quale disprezza le cose divine, e che non sappia amare rettamente l’uomo chiunque non ama Colui che ha creato l’uomo” 136. Il fondamento dunque dell’amicizia è l’amore di Dio. S. Agostino v’insiste: “Ama veramente l’amico chi ama Dio nell’amico o perché Dio è in lui o perché sia in lui” 137. Ne segue che l’amicizia vera è è quella che Dio annoda con la sua grazia. “Non c’è vera amicizia – scrive nelle Confessioni – se non quando l’annodi tu fra persone a te strette col vincolo dell’amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo che ci fu dato” 138. Da quella premessa deriva un’altra conseguenza importante: la vera amicizia trova solo nel Cristo il suo vincolo e la sua forza. S. Agostino lo scrive al papa Bonifacio, proponendo insieme e la nozione dell’amicizia e il posto che in essa occupa l’amore per Cristo. “Benché sia molto in alto, non disdegni d’essere amico degli umili e di rendere l’amore a chi te lo ha offerto, che ti viene reso. E che altro è l’amicizia se non questo? L’amicizia che non ha preso il nome se non dall’amore e non è fedele se non nel Cristo, solo nel quale può essere eterna e felice?” 139. Dunque l’amicizia è amore reciproco – amore offerto e reso – e solo nell’amore di Cristo resta fedele e diventa eterna. Queste due prerogative – fedeltà ed eternità – appartengono alla natura stessa dell’amicizia. Su di esse S. Agostino insiste commentando la definizione classica alla luce dei precetti cristiani dell’amore di Dio e del prossimo. “Nel primo comandamento, scrive, c’è il perfetto accordo sulle cose divine, nel secondo quello sulle cose umane, accompagnato da affettuosa benevolenza. Se insieme con me li osserverai con la massima fedeltà, la nostra amicizia sarà sincera ed eterna e ci unirà, non soltanto l’uno all’altro, ma anche allo stesso Signore” 140. Le altre due prerogative che mette in rilievo sono la fiducia e la libertà: sull’una e sull’altra le pagine agostiniane sono commoventi. Si veda la corrispondenza con S. Girolamo, particolarmente le Lettere 73 e 82: la prima sulla fiducia 141, la seconda sulla libertà. “Ci piaccia nelle nostre mutue relazioni non solo la carità, ma anche la libertà dell’amicizia” 142. 3) L’ideale cristiano dell’amicizia e la vita monastica. Dopo aver mostrato l’inveramento dell’amicizia nell’ideale cristiano – in esso infatti l’amicizia può essere, come dev’essere per natura, non solo sincera ma anche fedele e perpetua, fiduciosa e libera -, S. Agostino non poteva non inserirla nell’ideale monastico che di quello cristiano è, sul piano della tendenza, la perfezione. Ve lo inserì di fatto ponendo come fondamento la perfetta vita in comune – Tutto sia comune tra voi (n. 4) -, come centro la carità – Vivete unanimi e concordi (n. 9) -, come aspirazione la piena comunione o amicizia: un solo cuore e un’anima sola in Deum (n. 3). L’aggiunta in Deum, verso Dio, che indica intenzione, tensione e movimento, è essenziale, perché solo in Dio, e nella sua città, i fratelli possono costituire quella concordissima e ordinatissima società i cui membri godono di Dio e l’un dell’altro in Dio” 143. Non c’è chi non riconosce in queste parole la definizione agostiniana della Città di Dio nella sua condizione escatologica e definitiva, quando cioè ha raggiunto la piena comunione o la vera e piena amicizia. Questo inserimento nacque ben presto nell’animo di Agostino. Un passo dei Soliloqui, scritti prima del battesimo, ce lo assicura. Vi si parla della ricerca della sapienza e nota che la presenza degli amici non solo non ne costituisce un impedimento, ma un aiuto per trovarla prima e meglio. “Voglio chiederti però perché desideri che le persone a te care vivano e convivano con te. Agostino risponde: affinché possiamo indagare in concorde collaborazione sulla nostra anima e su Dio. Così colui che per primo avrà risolto il problema, indurrà senza fatica al medesimo risultato anche gli altri.” 144. 3. Carità e amicizia Ma a questo punto s’impone la necessità di chiarire un equivoco o, se si vuole, di sciogliere un problema che le relazioni tra la carità e l’amicizia non permettono di eludere. In questi ultimi tempi si è parlato spesso dell’amicizia come espressione fondamentale del carisma monastico agostiniano, anzi qualcuno ha spezzato non una lancia ma quante credeva di averne a disposizione per sostenere questa tesi: la vera amicizia, si è detto, è l’essenza dell’ideale monastico agostiniano. Ma in questo modo o si parla con troppa imprecisione creando confusioni pericolose, o si lasciano indietro molte cose che pur il Vescovo d’Ippona ha insistentemente inculcato. Prima di tutto bisogna fare un’affermazione di fondo: l’amicizia non s’identifica con la carità anche se non può prescindere da essa. Addurre dunque i testi che parlano della carità e intenderli come detti dell’amicizia può diventare, e diventa di fatto, una ignoratio elenchi. Non la commettiamo e sarà tanto di guadagnato per l’autenticità dell’ideale monastico agostiniano. Non cito autori perché non amo far polemiche con i confratelli. Ho scritto altrove a proposito d’un santo agostiniano che ebbe profondo e delicato il senso dell’amicizia: “Spesse volte, parlando della vita comune, particolarmente comune come Agostino l’intese – un solo cuore ed un’anima sola -, si confonde tra carità ed amicizia. La seconda non può stare senza la prima, ma la prima non s’identifica con la seconda. Tutt’altro! Quando ci si comanda di amare i confratelli anche se non ci sono simpatici, di sopportarne i difetti anche se sono fastidiosi, di dissimularne le stranezze anche se sono frequenti, non si tratta di amicizia, si tratta di carità. Di quella carità che è, secondo S. Paolo, paziente, benigna, non invidiosa…, che non tiene conto del male ricevuto…, tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta (1 Cor 13, 4-7)” 145. In altre parole, la carità, è amore oblativo, l’amicizia amore reciproco, e, per di più, fiducioso, confidente, stabile, sicuro, gioioso. La carità tende a creare questa bella amicizia, ma non sempre, anzi pienamente mai, qui in terra ci riesce. E quando non ci riesce o per colpa o senza colpa devono soccorrere le prerogative della carità descritte dall’Apostolo. S. Agostino lo sa e lo mette in pratica e lo raccomanda ai suoi discepoli. Nel passo dei Soliloqui citato sopra, egli continua così. “E se essi (gli amici che desiderava e prevedeva sarebbero vissuti insieme a lui) non volessero indagare su tali argomenti (cioè ricercare con tutta l’anima la sapienza)? Li convincerò a volere. E che avverrebbe se tu non lo potessi o perché ritengono che sono già arrivati o che tali conoscenze non si possono raggiungere o perché sono ostacolati dal pensiero e dal desiderio di altre cose?”. Ed ecco la risposta degna di attenta meditazione: Habebo eos, et ipsi me, sicut possumus; staremo insieme come potremo 146. Altro che amicizia! Qui si tratta di carità, solo di carità, e per di più d’una carità forte, generosa, paziente. Senza queste prerogative la carità viene meno affatto, e con la carità viene meno ogni speranza di stabilire l’amicizia. S. Agostino raccomanda, l’ascetismo della carità nella Regola, nelle Lettere, nei Discorsi 147. Basterà rileggere l’insistenza della Regola sulla correzione fraterna e sul perdono delle offese e il commento al salmo 99 sulla sopportazione dei “falsi fratelli”. Questo commento, tenuto dopo molti anni di esperienza monastica, rivela la profonda conoscenza che S. Agostino aveva del cuore umano e il suo realismo che professava nei riguardi dell’ideale monastico, del quale pur era innamorato. Vivere solo tra i buoni il cristiano non lo può, neppure ritirandosi nel monastero. Certo il monastero è un porto, ma anche nel porto entra il vento. Dove dunque la quiete? La risposta è secca e tagliente: Hic nusquam; quaggiù in nessuna parte 148. S. Agostino lo sa per esperienza: gode dell’amicizia quando gli riesce di stabilirla 149, soffre quando le necessità ecclesiastiche costringono gli amici a starsene lontani da lui 150, geme per gli scandali di chi non comprende l’ideale monastico o lo tradisce 151, pronuncia sulla condotta dei “falsi” monaci giudizi che per la loro crudezza fanno trasecolare 152. Perciò, raccomanda di non lodare la vita monastica imprudentemente – costituirebbe un inganno per chi vuole abbracciarla e produrrebbe un’amara delusione -, come pure, s’intende, di non biasimarla ingiustamente 153. Un uomo simile, parlando della vita monastica che ama, difende e diffonde, non può mettere l’accento sull’amicizia, non perché questo concetto contenga qualcosa di meno nobile o, come qualcuno potrebbe pensare, di pericoloso per la vita religiosa – si tratta sempre infatti di amicizia comunitaria, cioè aperta a tutta la comunità senza esclusioni e fondata sull’amore di Cristo -; ma perché sa che questo ideale è molto lontano e non è mai raggiungibile, pienamente, quaggiù. Metterà l’accento piuttosto, come lo mette di fatto, sulla carità che promuove l’unità di mente e di cuore, che cerca di stabilire, con umiltà, pazienza e generosità, quella corrispondenza di affetti che si avvicina progressivamente all’amicizia che regna tra i santi nel cielo, quando essa, la carità, avrà compiuto il suo più grande miracolo che è questo: escludere ogni ombra d’invidia, fare in modo che sia comune a tutti quello che è proprio dei singoli 154. Perciò, come raccomandazione fondamentale di S. Agostino a coloro che vivono insieme nei suoi monasteri, valgono queste sapienti parole le quali, partendo da una costatazione negativa, ne indicano il rimedio positivo: “i recipienti di fango si procurano angustie a vicenda. Sed si angustiantur vasa carnis, dilatentur spatia caritatis; se si trovano nella angustie i recipienti di carne, si dilatino gli spazi della carità” 155. Proprio così. Spesso – non voglio dire: troppo spesso, per non apparire pessimista – i recipienti di carne, cioè la nostra povera, fragile, malridotta natura umana, simile ad un vaso di terracotta, anche nel monastero, si sente stretta, urtata, pungolata, e rischia d’infrangersi. Si allarghino allora gli spazi della carità, e tutto sarà salvo. Sarà salva l’unitas caritatis che costituisce il fine stesso della vita monastica e la preparazione migliore alla vita eterna dove questa unitas sarà perfetta e imperturbabile e con essa piena ed eterna la vera amicizia, perché pieno ed eterno il reciproco amore. Capitolo terzo L’UMILTÀ Non si può scrivere un’introduzione, sia pur breve, alla Regola senza parlare dell’umiltà. Per molte ragioni. La prima è che l’umiltà, per S. Agostino, non si può separare dalla carità, né questa da quella: ubi humilitas, ibi caritas; dov’è l’umiltà, c’è anche la carità 156. La seconda, che il dottore della grazia ha scritto un’ampia teologia dell’umiltà, illustrandone le radici metafisiche 157, teologiche 158, cristologiche 159, umane 160. La terza, che l’umiltà è il fondamento dell’edificio spirituale 161 e l’unica via che porti alla sapienza 162. La quarta, che l’umiltà è la casa dove abita il custode della verginità consacrata: custos virginitatis caritas, locus huius custodis humilitas; custode della verginità è la carità, la casa dove abita questo custode e l’umiltà 163. La quinta… Ma può bastare. Qui interessa l’umiltà nell’ambito della Regola. Per essere brevi si può dire così: l’umiltà insieme alla carità ne è la chiave interpretativa e ne svela il contenuto profondo e la forza di persuasione. 1. La natura maligna della superbia Anzitutto, il discorso sulla superbia. Si trova proprio a inizio d’ella Regola. Importante perché legato con le parole che ne costituiscono il nucleo centrale. Rivolto a “quelli che credevano di valere qualcosa nel mondo”, cioè ai nobili e ai ricchi che entravano nel monastero – e in quel momento di fervido entusiasmo cristiano non erano pochi -dice loro di non vantarsi dei ricchi parenti e meno ancora di gloriarsi di aver portato al monastero i loro beni; “a che giova, si chiede, spogliarsi dei propri beni dandoli ai poveri e diventare povero, se la misera anima nel disprezzare le ricchezze diviene più superba che non quando le possedeva?” (n. 8). Misura della virtù è l’umiltà, origine di ogni vizio la superbia: una dottrina su cui torna con appassionata insistenza il Vescovo d’Ippona. Rivolto, poi, agli altri, a quelli che provenivano da umili condizioni, li ammonisce paternamente di non “montarsi la testa” per il fatto di trovarsi associati a quelli cui non osavano avvicinarsi nel mondo; non cerchino le vanità della terra, siano umili. E aggiunge un motivo di profonda psicologia: “affinché i monasteri, se ivi i ticchi si umiliano e i poveri si vantano, non comincino ad essere utili ai ricchi e non ai poveri” (n. 7). L’insistenza su questo tema dell’umiltà non sta solo nella condizione della vita in comune nella quale devono convivere in fraterna concordia quelli che provengono dalle più diverse condizioni sociali, ma soprattutto dalla natura perversa della superbia. S. Agostino lo spiega nella Regola stessa con queste parole: “Se infatti ogni altro vizio spinge a compiere azioni cattive, la superbia tende insidie anche alle buone per guastarle” (n. 8). Parole, queste, che convengono con quelle, non meno esplicite e più insistenti, della lettera al giovane Dioscoro. Dopo avergli detto che quando si tratta della via per giungere alla sapienza, che è Cristo, “la prima è l’umiltà, la seconda è l’umiltà, la terza è ancora l’umiltà”, ne dà questa ragione: “perché la superbia ci strapperà senz’altro di mano tutto il merito del bene di cui ci rallegriamo, se l’umiltà non precede, accompagna e segue tutte le nostre buone azioni in modo che l’anteponiamo per averla di mira, la poniamo accanto per appoggiarci ad essa, ci sottoponiamo ad essa perché reprima il nostro orgoglio”. Seguono altre parole che richiamano appunto quelle della Regola: “Poiché tutti gli altri vizi sono da temersi nelle azioni colpevoli; la superbia invece deve temersi anche nelle azioni buone, poiché le azioni per sé degne di lode vanno perdute se ispirate dall’amore della stessa lode” 164. 2. L’umiltà nella compagine della vita monastica Sulla base di queste due ragioni – concordia nel monastero e fuga della superbia come il più maligno dei vizi – si svolgono e devono interpretarsi i precetti della Regola. L’umiltà è necessaria nel governo del monastero sia in chi comanda, sia in chi ubbidisce. Il primo “deve stimarsi felice non perché domina col potere, ma perché serve con la carità” 165 e, se esteriormente si trova ad essere più in alto degli altri, interiormente deve mettersi più basso di tutti “prostrandosi ai loro piedi davanti a Dio” (n. 46). Il secondo deve obbedire con diligenza ed umiltà, perché “obbedendo maggiormente, mostrerete pietà non solo di voi stessi ma anche di lui” (n. 47) 166. L’umiltà è necessaria nel fare e nell’accettare la correzione fraterna la Regola tanto insiste (nn. 25-29). Chi fa la correzione non deve avere solo una grande carità, ma anche una grande umiltà pensando alla fragilità umana e a se stesso, interrogandosi se quel vizio che si appresta a correggere nell’altro lo abbia avuto mai egli stesso o se, avendolo avuto, o lo ha corretto o se ce l’ha tuttora: in quest’ultimo caso più che correggere deve invitare il confratello a gemere insieme per correggersi insieme 167. In ogni caso dev’essere convinto “che non c’è peccato che ha commesso un uomo che non possa commettere un altro uomo se gli manca dall’alto la guida di Colui che ha fatto l’uomo” 168. Non minore umiltà è necessaria in colui che riceve la correzione, tanto è vero che il legislatore, conoscendo bene il cuore umano più incline a difendere che a correggere i propri difetti, commina la pena dell’espulsione a chi, dopo la correzione, ricuserà d’accettare la pena (n. 27) 169. L’umiltà è necessaria nel chieder perdono e nel perdonare le offese, un esercizio non infrequente di carità fraterna che non si può mettere in atto senza grande umiltà. Eppure è d’una importanza estrema, perché, dice la Regola, “chi si rifiuta di chieder perdono o non lo richiede di cuore, sta nel monastero senza ragione alcuna, benché non ne sia espulso” (n. 42) 170. A questo dovere di umiltà nel chiedere perdono S. Agostino fa un’eccezione per il superiore che si accorga di aver ecceduto nella riprensione degli inferiori; la fa appunto perché l’umiltà, entrando in collisione con l’autorità, non ne indebolisca il vigore: “per salvare un’umiltà sovrabbondante non si deve spezzare il prestigio dell’autorità presso chi deve starvi soggetto” (n. 43). Giudichi ognuno come vuole questa disposizione, ma essa rivela lo spirito acuto di S. Agostino che ha presente in tutta la Regola l’umiltà, ma ha presenti anche l’autorità, e vuole evitare che un’umiltà eccessiva, particolarmente presso coloro che non saprebbero apprezzarla, rechi detrimento all’autorità. Senza il rispetto dell’autorità una comunità religiosa non può avere né coesione né vita serena e prospera. Infine l’umiltà è necessaria per ricoscere le proprie colpe davanti a Dio e chiedergliene perdono, che è l’ultimo precetto della Regola. È interessante notare come i santi che hanno professato la Regola agostiniana abbiano compreso questa nota dominante dell’umiltà. Vale la pena di ricordare una santa del lontano medioevo, Chiara da Montefalco, che come superiora non fece che raccomandare questa virtù quale fondamento di tutte le altre 171. Capitolo quarto VITA COMUNE O ASCETISMO DELLA CARITÀ Ricca delle prerogative che abbiamo ricordate, la carità opera un crescente movimento di espansione nell’anima che unisce i cuori e li solleva a Dio, creando con ciò i presupposti d’una vita comune gioiosa e feconda. Ma nessuno pensi che questo movimento sia facile. Non lo è affatto. Perché si realizzi, occorre un esercizio quotidiano di umiltà, di mortificazione, di rinuncia, di disponibilità, di pazienza, di dimenticanza di sé, di dedizione agli altri; occorre, cioè, un vigilante e continuo ascetismo, il quale, compiendo progressivamente l’opera della purificazione interiore, permette alla carità di prendere il dominio totale dell’anima e di ricomporre nell’ordine le disordinate passioni umane. 1. Difficoltà della vita comune La vita religiosa è un porto, è vero; ma anche nel porto entra il vento e le navi rischiano di rompere gli ormeggi e di urtarsi fra di loro; è un santo proposito, chi ne dubita? ma anche nella comunità dei “santi” si annidano i falsi fratelli e la loro presenza mette a dura prova la costanza ed il fervore della carità. Tutto questo S. Agostino lo sa, e vuole che si sappia. Egli rimprovera aspramente tanto gli incauti panegiristi della vita religiosa quanto i denigratori pertinaci di essa. Non è vero che tutto è brutto nella vita religiosa, anche se è vero che non tutto è bello: c’è la quiete, e c’è anche la tempesta, ci sono i buoni, e ci sono i cattivi. Anzi gli uni e gli altri vi s’incontrano in grado superlativo. “Da quando ho cominciato a servire il Signore – scrive S. Agostino dopo aver invocato Dio a testimonio della verità delle sue parole – ho incontrato difficilmente persone migliori di quelle che si sono santificate nel monastero, come pure non ho trovato persone peggiori di quelle che sono cadute nei monasteri” 172. Lodare quindi la vita religiosa come se tutti fossero buoni è una sottilissima insidia, biasimarla come se tutti fossero cattivi è un’aperta ingiustizia. Chi loda, non dimentichi che tra i buoni sono mescolati i cattivi; chi biasima, riconosca che tra i cattivi ci sono anche i buoni. Cosi l’uno non sarà imprudente, l’altro non sarà ingiusto. A chi, uscito dal monastero, non fa che denigrare, S. Agostino risponde: “O perfido, perché non parli dei buoni? Ti scagli contro coloro che non potesti tollerare, ma taci di coloro che tollerano la tua cattiveria” 173. “Ci sono anche i falsi monaci, e io ne ho conosciuti, dice ancora il Santo. Ma la pia fraternità dei monasteri non perisce per colpa di coloro i quali professano di essere quel che realmente non sono. Ci sono falsi monaci, come ci sono falsi chierici e falsi fedeli. Tutt’e tre le classi… hanno i buoni e i cattivi” 174. Certo, si sta più sicuri nel porto che in alto mare; ma anche il porto non è senza pericoli: se non c’è il pericolo d’incappare negli scogli, c’è il pericolo del vento che insidia l’incolumità delle navi. Quale il rimedio contro questo pericolo? Uno solo: la carità. La carità è forte, paziente, longanime; che scusa, crede, spera, sopporta tutto 175, che è in ogni caso la virtù di cui abbiamo bisogno. “Le navi nel porto si amino fra loro, sappiano stare l’una vicino all’altra, badino di non urtarsi; ci sia tra esse l’uguaglianza dell’equità (parilitas aequabilitatis) e la fermezza della carità; e, ogni qual volta il vento irromperà da quel lato per dove si entra nel porto, sappia il nocchiero destreggiarsi con cautela (cauta gubernatio)” 176. Si sa, però, che l’azione di governo più cauta e più sapiente non basta ad evitare gli urti. S. Agostino lo confessa gemendo a proposito d’uno scandalo scoppiato nel suo monastero. “Per quanto sia vigilante la disciplina della mia casa – scrive tristemente – io sono un uomo e vivo tra gli uomini, né oso vantarmi che la mia casa sia migliore dell’arca di Noè… o migliore della casa di Abramo… o di quella d’Isacco… o migliore della casa stessa di Gacobbe… o migliore della casa di David… o migliore dei compagni di Paolo… o migliore dei compagni dello stesso Gesù … “. Ognuno dei termini di paragone nascondeva una colpa grave, spesso vergognosa, causa alla comunità di sopportazione e di dolore. Nell’ultimo termine di paragone la cosa è notissima: “gli undici buoni (gli Apostoli) dovettero tollerare Giuda perfido e ladro … ” 177. Il Vescovo d’Ippona è tanto convinto che situazioni simili possano nascere nei monasteri, che fa al suo popolo la solenne confessione che abbiamo riportata poco 178. Conclude la lettera con queste parole di ammonimento e di conforto: “Sebbene quindi ci rattristiamo per via di alcune brutture, ci consoliamo anche, tuttavia, per le molte bellezze. Voi dunque non detestate, per causa della morchia, che offende i vostri occhi, i torchi (= i monasteri), per mezzo dei quali le dispense del Signore si riempiono di un olio più luminoso” 179. Perché in queste situazioni, che non sono rare, non perisca nella vita comune la concordia, la fraternità e la gioia, occorre che la carità eserciti fortemente il suo influsso dominante e dispieghi quelle virtù che sono proprie dell’ascetismo cristiano. Per questo S. Agostino nella sua Regola, pur tanto breve, ha dedicato due degli otto capitoli in cui è divisa, alla correzione fraterna e al condono delle offese; due disposizioni interiori, due esercizi di carità assolutamente indispensabili nella vita comune. 2. Correzione fraterna Della correzione fraterna stabilisce il principio, il presupposto, la tecnica. Il principio è espresso in quelle celebri e preziose parole: amate le persone e odiate i vizi. È un principio evangelico, universale, che si applica ad ogni umana relazione, da quella dell’amicizia a quella della vita politica. Nella vita comune ha un’applicazione più frequente, più feconda, più religiosa. Dunque, né odiare l’uomo a causa del vizio, né amare il vizio a causa dell’uomo. Due scogli non piccoli per la natura umana, che è portata a fare tutto il contrario, cioè a includere l’uomo nell’avversione al vizio e il vizio nell’amore per l’uomo. Passare incolume tra questi due scogli non è facile; eppur si deve e si può. A condizione che nel cuore ci sia la vera carità. La carità infatti è il presupposto essenziale della correzione fraterna. Senza di essa ci sarà l’insulto, lo scherno, il rimprovero; tutto, fuorché la correzione fraterna. Occorre inoltre che la carità abbia una grande dose di umiltà e di fortezza: dev’essere umile per non cedere alla tentazione della superbia, forte per sopportare il fastidio della correzione. S. Agostino, nella Regola, è più attento a questo secondo aspetto che al primo. Insiste infatti perché la correzione sia fatta tempestivamente e perché si osservi diligenter et fideliter quanto egli prescrive sul modo di farla; spiega, poi, che la correzione stessa, ancorché la necessità obblighi a manifestare la colpa del fratello a qualche altro, non è delazione o crudeltà, ma amore, soltanto amore. Com’è un atto d’amore e non di crudeltà il manifestare la malattia d’un fratello, quando questi la tiene occulta per paura d’un doloroso intervento. Sarebbe anzi crudeltà il non manifestarla, perché il silenzio si risolverebbe a tutto danno del fratello malato. Altrove il Vescovo d’Ippona torna spesso su questo argomento e insiste nella sincera ed autentica carità che deve ispirare la correzione fraterna 180, nell’umiltà che deve accompagnarla 181, nella preghiera che sola può renderla feconda. Il tema della correzione fraterna e la preghiera è trattato in una celebre opera agostiniana dal titolo: Sulla correzione e la grazia. Vi si legge: “(La correzione fraterna) dev’essere fatta per motivo di carità… e bisogna pregare per quello a cui viene fatta, affinché venga sanato (dalla grazia)” 182. La tecnica poi – chiamiamola così – della correzione fraterna indicata dalla Regola è quella stessa del Vangelo 183, con l’aggiunta d’una seconda correzione segreta da parte del Superiore. L’iter dunque è il seguente. Quando si tratti d’una colpa segreta, il colpevole dev’essere ammonito in segreto: ammoniscilo tra te e lui solo; se ti ascolta avrai guadagnato il tuo fratello. In questo caso manifestare ad altri la colpa del fratello non significa essere correttori, ma delatori. Ma se il fratello cadrà di nuovo nella stessa colpa, bisogna rivelarlo come se si trattasse d’un ferito da sanare. Rivelarlo, prima che ad altri, al Superiore, affinché questi con una correzione segreta ottenga l’emendamento del colpevole ed eviti di manifestarne la colpa ad altri. Se anche questo fosse inutile, si dovrà indicare ad altri due o tre, affinché questi siano in grado di convincerlo davanti alla comunità. Convinto che egli sia, dovrà sostenere la pena riparatrice che gli verrà imposta dal Signore. Ed ecco la conclusione di questo lungo processo che la carità mette in opera per aiutare un religioso colpevole a raddrizzare i suoi passi: Se ricuserà di subire la pena, anche se non se ne andrà via spontaneamente, sia espulso dalla vostra comunità. S. Agostino nota che questa prescrizione, per quanto possa sembrare dura, non nasce da un sentimento di crudeltà, ma nasce dalla pietà; la pietà verso la comunità religiosa, la quale dev’essere difesa dal grave contagio del vizio che proviene inesorabilmente dalla presenza d’un colpevole che non riconosce la sua colpa e non vuole ripararla. Così nella Regola. Ma nel libro Sulla correzione e la grazia, pensando non alla comunità, bensì al colpevole stesso, scrive che la pena, anche la più grave, come la scomunica, che i vescovi qualche volta sono costretti ad infliggere, può tornare con la grazia divina a salutare correzione del colpevole 184. Lo stesso può dirsi dell’espulsione dal monastero. 3. Condono delle offese L’altro esercizio di carità, che la fragilità umana o l’umana cattiveria rende necessario, è il condono delle offese. S. Agostino vi dedica un capitolo della sua Regola. In questo capitolo propone due precetti, che, se fossero osservati, renderebbero inutile, anzi impossibile chiedere perdono: il precetto di evitare le liti – liti non abbiatene mai – e quello di evitare le parole pungenti: astenetevi dalle parole offensive. Ma il Santo sa molto bene che questi precetti non è facile osservarli, che la nostra povera natura, nonostante l’impegno ascetico a cui è sottomessa, è troppo facile a trascendere. Occorre, perciò, ricorrere, per riparare le violazioni della carità, ad un atto di carità, che è appunto il chiedere perdono. Questa riparazione dev’essere fatta tempestivamente e sinceramente. Si notino i due avverbi, sono importanti: tempestivamente, perché l’ira non diventi odio e una paglia non si trasformi in una trave; sinceramente, perché al male dell’offesa non si aggiunga quello, non meno grave, dell’ipocrisia. Per questo S. Agostino rivolge ai suoi religiosi questa grave ammonizione: chi si rifiuta di chiedere perdono o non lo chiede di cuore, sta nel monastero senza ragione alcuna, benché non ne sia espulso. Sta nel monastero senza ragione alcuna. Non ha infatti la carità: e che sta a fare nel monastero, che è scuola di carità, chi non ha la carità? Forse qualcuno si sarebbe aspettato non un’ammonizione, ma un salutare provvedimento, come quello prescritto poco sopra. Se S. Agostino, così attento alle esigenze del Vangelo per ciò che riguarda la carità, non lo ha prescritto, ci dev’essere un motivo. Credo di trovarlo nel fatto che egli è, sì, attentissimo a creare nei monasteri un clima di autentica carità, ma non è meno attento ad evitare che si crei un clima di reale ipocrisia. Non impone perciò – anche se non lo esclude – l’espulsione a chi non vuol chiedere perdono, per non indurre qualcuno a chiederlo senza convinzione, che è, appunto, un atto di ipocrisia bell’e buono. Si limita quindi al rilievo su riferito – pur restando in monastero, non ha più scopo alcuno di starvi – che sul piano disciplinare è meno dell’espulsione, ma sul piano morale, per chi sa capire, è molto di più. Aggiungo infine due rilievi che il testo della Regola suggerisce. Uno psicologico, che è questo: chi, pur tentato spesso dall’ira, è però sollecito a impetrare perdono da chi riconosce d’aver offeso, è certamente migliore di chi si adira più raramente, ma più difficilmente si piega a chiedere perdono. Non v’è chi non veda l’acutezza di questa osservazione. Si tratta di due tipi diversi: uno emotivo e collerico, l’altro tenace e freddo, anche se timido; tutt’e due difettosi, ma nella comunità chi crea maggiore turbamento è certamente il secondo: il suo orgoglio – perché è solo l’orgoglio, cieco e testardo, ad impedire di chiedere perdono – innalza spesso un muro di divisione e mette a dura prova la pazienza dei fratelli. Nulla è più intollerabile dell’intolleranza dell’orgoglio. L’altro rilievo è spirituale. La comunità deve intervenire con la preghiera – una preghiera sempre più fervente e più pura – per ottenere da Dio che il fratello colpevole chieda perdono e che l’offeso sappia perdonare senza indugio. S. Agostino pensa certamente alla preghiera del Padre nostro, che tante volte ha commentato parlando del perdono delle offese 185. La comunità, pregando, deve sentirsi impegnata a riportare l’unità dell’amore là dove un gesto, una parola, un’azione ha portato la divisione, il turbamento, l’offesa. Capitolo quinto DIVERSITÀ DI DONI NELL’UNITÀ D’AMORE Abbiamo parlato dell’esercizio quotidiano della carità, imposto, nella vita comune, dalla fragilità o dalla cattiveria umana. Ma ancorché ciò non fosse, cioè ancorché non ci fossero colpe da perdonare, o non ci fossero difetti da sopportare e da farsi sopportare, ci sarebbero pur sempre tante differenze di origine, di indole, di formazione, di funzione che la carità dovrà ricondurre all’unità della concordia. Ma non potrà farlo se non a prezzo di sofferenze, di rinunce, di morte. Una morte che dà la vita, perché c’inserisce nel piano universale della salvezza. Come la piccola tessera destinata alla composizione di una grande opera musiva non può trovare il suo posto nell’unità del tutto e contribuire così alla bellezza del quadro, se non a condizione di essere ripulita, smussata, infranta. In realtà occorre un ascetismo sincero, profondo, continuo per riportare l’unità là dove la natura semina a piene mani molteplicità e divisione. La vita religiosa, essenzialmente, è complementarietà ed uguaglianza: uguaglianza di doveri, di diritti, di particolari esercizi, complementarietà di doni, di funzioni, di bisogni. Questa complementarietà, nel quadro generale dell’uguaglianza, dev’essere riconosciuta e rispettata, anzi difesa; difesa dalla tentazione sempre rinascente della squallida uniformità di un livellamento totale. Unità non vuol dire addizione di numeri, che crea la massa; ma inserimento vitale, attraverso la conoscenza e l’amore, in un organismo animato dalla grazia; vuol dire, in altre parole, incontro sapiente di perfezioni diverse che cooperano insieme a formare una perfezione più alta e più grande. Il compito di rendere viva ed efficiente questa collaborazione è della carità. La quale, purificando la natura umana dalle storture dell’orgoglio, e conservandone le native ricchezze, solleva tutti nel piano divino della salvezza, dove si scopre l’uguaglianza della vocazione umana e cristiana e ci si sente fratelli, investiti di una nobiltà nuova e in possesso d’una nuova ricchezza, di fronte alla quale la nobiltà e le ricchezze terrene appaiono quelle che sono: cenere ed ombra. Nella vita comune dunque va rispettata la personalità di ognuno, purché ognuno sia impegnato a rivestirsi dell’unica personalità di tutti, che è la personalità di Cristo; va rispettata la libertà dei singoli, purché i singoli aspirino a conquistare l’unica vera libertà, che è la libertà dei figli di Dio proclamata dal Vangelo; va rispettata la coscienza dell’individuo, purché questi informi la sua coscienza, sinceramente e costantemente, alla legge del Vangelo e ai precetti, liberamente accettati, della Regola. Dunque: disparitas claritatis et unitas caritatis; disparità di doni e unità d’amore. A questa perfezione ideale S. Agostino vuol condurre, con sapienza, i suoi figli. 1. Ricchi e poveri La prima disparità a cui rivolge la sua attenzione è quella, allora molto profonda e perciò pericolosa, che esisteva tra le diverse classi sociali da cui provenivano i religiosi: le classi ricchissime dei nobili, dei padroni, dei senatori, e quella poverissima degli schiavi, dei portuali, dei contadini. Solo la carità, che ha risorse inesauribili, poteva compiere il miracolo di unire persone di condizioni tanto diverse e farle vivere gioiosamente insieme. La carità infatti sospinge ciascuno all’esercizio di quelle virtù di cui ciascuno ha bisogno per raggiungere la concordia e la pace. I ricchi li sospinge alla liberalità, che piega l’animo a mettere volentieri in comune i beni posseduti, e all’umiltà, che li preserva da tre gravi mali: a) dal disdegnare la compagnia dei fratelli poveri, b) dal gloriarsi della dignità dei propri parenti, c) dall’insuperbirsi per aver portato alla comunità i propri beni. Inoltre l’umiltà apporta loro un grande bene, quello d’impegnarsi nel lavoro manuale, sia pur corrispondente alla loro formazione e proporzionato alla loro complessione fisica, allo scopo di guadagnarsi il pane, diventato ormai, nel monastero, comune 186. I poveri invece la carità li sospinge all’esercizio della parsimonia, perché non cerchino nel monastero ciò che fuori non potevano avere; della temperanza, perché non si stimino felici per aver trovato quel vitto e quelle vesti che fuori non potevano avere; della laboriosità, perché non diventino oziosi ora che sono nel monastero, quando fuori dovevano guadagnarsi il poco pane che mangiavano, col sudore della fronte; all’esercizio, infine, dell’umiltà, ma per un motivo diverso: perché non cadano nella vanagloria, in quella sciocca vanagloria che può sorprendere l’uomo di umile condizione quando si trova alla pari, nella stessa comunità, di coloro a cui prima non avrebbe osato avvicinarsi. Così la carità unisce quelli che la natura divide e, suggerendo a ciascuno, sulla base della fede, i sentimenti e gli atteggiamenti opportuni, crea la società “nuova” che ha come prerogativa l’unità e la santità. S. Agostino non manca di aggiungere a questo proposito due ammonimenti, di cui nessuno potrà misconoscere l’acume psicologico e l’opportunità. Ai poveri dice: state attenti che i monasteri non diventino utili ai ricchi, ma non ai poveri, se ivi i ricchi si umiliano e i poveri si gonfiano d’orgoglio, oppure, per usare l’espressione del De opere monachorum, se ivi “i senatori si trasformano in lavoratori e i lavoratori in oziosi” 187. Ai ricchi, poi, dice: “a che giova dar via il suo e diventare povero, se l’anima, inorgoglita di questo gesto, diventa più misera perché più superba?”. Infine, il dottore dell’umiltà, toccando quest’argomento non poteva dimenticare un’osservazione generale sulla natura maligna della superbia, la quale non solo, come ogni altro vizio, spinge a commettere azioni cattive, ma ha di proprio che insidia e guasta anche le opere buone. Qualcuno dirà che il discorso agostiniano non è più attuale, perché il contrasto tra ricchi e poveri che chiedono di entrare in monastero non è più, oggi, così acuto come allora; anzi, per lo più, non esiste affatto. La premessa è giusta, ma la conclusione non lo è altrettanto. Se non c’è più il contrasto tra ricchi e poveri ci sono pur sempre molte differenze, quelle stesse che allora erano legate, d’ordinario, a certe condizioni sociali: le differenze di cultura, di formazione, di indole, di costituzione. Queste differenze creano ancor oggi divisioni e contrasti a scapito della concordia, se la carità non è abbastanza generosa e forte da inculcare a ciascuno i pensieri e i sentimenti necessari per stabilire la fraternità e la collaborazione. Di queste differenze derivanti dalla prima – ricchezza e povertà – la Regola ne accenna solo una: la diversa costituzione fisica, che richiede, per alcuni, particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Ma noi vorremmo accennare prima di tutto ad una altra differenza, a quella riguardante la cultura. C’era anche allora. E non sappiamo perché S. Agostino non ne parli. È ovvio infatti che solo quelli provenienti da determinati ceti sociali avevano frequentato le scuole; mentre quelli provenienti dalla classe dei lavoratoti erano ordinariamente analfabeti. Oggi il contrasto non è così stridente; ma anche oggi, in un ambiente agostiniano, dove lo studio in generale e lo studio della teologia in particolare è o dovrebbe essere di casa, e dove non tutti, per le molteplici necessità dell’apostolato e per la diversità dei doni ricevuti da Dio, possono dedicarsi alla scienza, la distinzione tra religiosi impegnati nello studio o impegnati prevalentemente nel ministero sacerdotale e religiosi impegnati nelle opere organizzative o materiali, è inevitabile. Occorre agire tenacemente e ininterrottamente affinché questa necessaria distinzione non diventi divisione, opposizione, contrasto. Il segreto del successo sta di nuovo, come sempre, nella carità, che è l’anima della Regola. 2. Uomini di studio e uomini d’azione Agli uomini di studio la carità suggerisce, come già ai ricchi – e non è la scienza, del resto, una grande ricchezza? – l’esercizio costante della liberalità e dell’umiltà. La prima virtù li fa generosi nel comunicare a tutti, con gioia, i frutti delle proprie ricerche. Ognuno di loro dirà col Savio a proposito della sapienza: Senza oblique mire l’ho appresa e senza invidia la comunico; la ricchezza di lei non tengo nascosta 188. La seconda virtù, l’umiltà, li fa attenti ad evitare la vanagloria, la ricerca della scienza per la scienza, lo stolto sentimento di superiorità, e ricorda loro che il bene più grande non è la scienza, anche se sacra, ma la carità; e la carità può fiorire nel cuore dell’illetterato come in quello del dotto; anzi, spesso, fiorisce più in quello che in questo. L’umiltà, inoltre, che è riconoscimento ed adesione all’ordine delle cose, scopre agli studiosi l’intimo nesso tra conoscenza e amore – conoscere per amare e amare per conoscere – e il valore, anzi la necessità, per la Chiesa, dell’apostolato della scienza. A coloro infine che sono occupati nei lavori organizzativi o materiali la carità infonde la gioia della propria condizione che, senza togliere nulla alla dignità e al merito della vita religiosa, li libera dalla brutta tentazione della vanagloria, accresce in loro la consolante persuasione che l’unico parametro a cui si misurano gli uomini nel regno di Dio è la carità, di cui un solo palpito vale più di tutti i tesori della scienza e dell’arte, e li tiene lontani, la carità, dalla triste presunzione, che s’insinua così facilmente e così pericolosamente nell’animo, di sapere ciò che non si sa. Complementarietà di sentimenti che nasce dalla complementarietà della vita comune e che concorre, convergendo verso la costruzione del regno di Dio, a creare l’unità nella varietà! Ma torniamo alla lettera della Regola. 3. Deboli e robusti Era allora, ed è conseguenza della diversa condizione sociale da cui provenivano i religiosi. Anche a questa differenza, perché non degeneri, ma converga nell’unione dei cuori, provvede la carità. Essa prescrive, innanzi tutto, che a coloro che sono venuti in monastero da abitudini più raffinate e sono perciò, a causa del loro precedente tenore di vita, più delicati, si usino particolari riguardi nel vitto e nel vestiario. Una disuguaglianza, dunque. Senza dubbio. Ma una disuguaglianza suggerita dal buonsenso e da quel sentimento di comprensione e di umanità che non deve mancare mai nei monasteri; quindi, diremo, una disuguaglianza necessaria. Interviene, allora, la carità, la più comprensiva e la più umana di tutte le virtù, e riporta l’unità là dove aveva imposto la distinzione. Ai più robusti la Regola prescrive di non avere a fastidio nel giudicare ingiusto il trattamento riservato agli altri. Per due ragioni: primo perché non è un atto di onore, ma di tolleranza; secondo: perché questi, gli altri, passando dalla loro vita mondana a quella del monastero hanno fatto un gran passo. Son dunque degni di stima anche se non sono in grado ancora di adattarsi alle austerità di quelli che hanno una costituzione più forte. Non li stimino perciò fortunati per il trattamento che hanno – la tentazione di farlo è sempre pronta sulla soglia dell’anima, anzi nascosta nel subcosciente, da cui solo i santi riescono a snidarla – ma si rallegrino con se stessi, perché sono capaci di una maggiore frugalità. Sotto questo precetto c’è un principio luminoso che il Santo enuncia poco dopo e che noi commenteremo a suo tempo. Il principio è il seguente: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Questo principio e le conclusioni che S. Agostino ne tira a proposito del diverso trattamento tra i religiosi deboli o robusti di costituzione, può avere ed ha innumerevoli applicazioni: tante quante sono le abitudini, più o meno permesse o tollerate nel monastero. Coloro che non le hanno contratte o hanno avuto la forza di liberarsene devono stimarsi felici e non invidiare quelli che ne sono servi. Il Santo termina l’argomento con un’ammonizione che gli nasce o dalla conoscenza che aveva della psicologia umana o dall’esperienza, o forse dall’una e dall’altra insieme. Non avvenga, scrive non senza mestizia, quel detestabile disordine per cui in monastero i ricchi – educati non più felicemente, ma certo più delicatamente – si umiliano quanto più possono, mentre i poveri – abituati alle asprezze del lavoro e alle angustie dell’indigenza e perciò più robusti e più abituati alla frugalità – diventino schizzinosi 189. Chi conosce la vita monastica sa bene che l’ammonizione agostiniana aveva, ed ha tuttora, il suo fondamento. 4. Sani e ammalati È un altro binomio intorno a cui deve esercitarsi frequentemente la carità. Vi si esercita in molti modi, ispirando e unificando opposti sentimenti. Prescrive all’ammalato di ubbidire al Superiore e al Superiore di ubbidire al medico; al primo di fare quanto è necessario per la salute, anche se non vuole; al secondo di stare al consiglio del medico senza mormorare; al primo di non volere quanto può essergli dannoso, anche se è piacevole; al secondo di non accondiscendere, in nessun caso, a quel volere. Ai sani comanda di credere agli ammalati, servi di Dio, quando dicono di sentirsi male, anche se il male non è manifesto; agli ammalati poi impone di non dispiacersi, se si consulta il medico nel caso che si sia incerti che, per guarire il male, giovi veramente ciò che piace. Passata la malattia, la convalescenza. La convalescenza mette alla prova la carità fraterna non meno della malattia, anzi di più. Ma la carità ha risorse sufficienti per superare anche questa situazione. Da una parte impone alla comunità di usare un trattamento speciale per i convalescenti, ancorché fossero venuti al monastero dalla più squallida povertà; dall’altra ammonisce i convalescenti di non abituarsi a questo trattamento, cioè di non lasciarsi trattenere da quella vita comoda a cui li porta la necessità della malattia, ma di tornare volentieri, appena ristabiliti, alla vita normale, che è più consona ai servi di Dio, perché più frugale e più austera. È a questo proposito che S. Agostino enuncia il principio che abbiamo ricordato poco sopra, principio che dà la ragione ultima di questo grave ammonimento: è meglio aver meno bisogni che aver più cose. Diversità di situazioni, di doni, di funzioni; ma unità d’amore. Ciò è possibile se non c’è nel cuore l’invidia, e c’è invece una grande umiltà. Infatti “dov’è l’umiltà c’è la carità e dov’è la carità c’è la pace” 190. La pace, secondo la celebre definizione agostiniana, è la tranquillità dell’ordine; e l’ordine altro non è che la disposizione che dà a tutte le cose, pari o dispari che siano, il proprio posto 191. Capitolo sesto CASTITÀ I presupposti della vita comune, che ha nella carità il principio e il fine, sono i voti religiosi di castità, povertà, obbedienza, che nascono anch’essi dalla carità e tendono alla perfezione di essa. Può destare meraviglia che la Regola agostiniana si limiti a parlare della custodia della castità e non dedichi un capitolo e neppure un accenno al voto di castità, al contrario di quanto fa per la povertà e l’obbedienza. La meraviglia è legittima, ma la ragione non bisogna ricercarla molto lontano. Essa sta nel fatto che la Regola è diretta a coloro che abbracciavano la vita comune. Comincia infatti con le note parole: Questi sono i precetti che prescriviamo a voi che vi siete stabiliti nel monastero 192. Ora sulla via del santo proposito – proposito di diventare servi o serve di Dio – questo era il secondo passo, non il primo. Il primo era, e resta, il voto di castità, voto che spesso veniva emesso – ci riferiamo prevalentemente alle vergini – indipendentemente dalla volontà di entrare in un monastero. Nonostante questo silenzio della Regola conosciamo ampiamente il pensiero di S. Agostino intorno ai pregi della castità consacrata e, in particolare, della verginità. Non sarà inutile riassumerlo brevemente. Il santo Dottore ci dà l’esatta nozione della verginità cristiana e ne spiega il valore teologico, psicologico, ascetico e mistico. 1. Significato e merito della verginità consacrata La gloria della verginità non sta nella verginità come tale, ma nella sua consacrazione a Dio: “Non si onora la verginità di per se stessa, ma in quanto essa è dedicata a Dio” 193. Perciò anche se conservata nel corpo è un bene spirituale; un bene che nasce dalla pietà e dall’amore verso Dio. S. Agostino non dubita di scrivere che tra una donna sposata e una che vuole sposarsi è in condizione migliore la prima 194. I pregi della verginità non derivano dalla sua utilità per la vita presente, ma dall’utilità per la vita futura. Coloro che pensano alla verginità in relazione alla vita presente sono “mirabilmente sciocchi”: mirabiliter desipiunt 195. Né ci si deve appellare al propter instantes necessitates di S. Paolo: le “presenti necessità” di cui parla l’Apostolo sono da vedersi in relazione alla vita futura; sono quelle necessità che ci si consiglia di evitare, perché costituiscono un ostacolo ai beni futuri 196. Completa che non è solo quella di indifferenza, come in ogni altro atto cosciente e libero, ma che è inoltre la libertà morale, per cui non si è obbligati da nessuna legge a fare la scelta che si fa, e se ne potrebbe fare una diversa senza venir meno al proprio dovere o deviare dal cammino della salvezza. Questa pienezza di libertà è una feconda sorgente di merito per la verginità consacrata, la quale con questo appare ciò che è in realtà: un puro atto d’amore. Perciò S. Agostino insiste nel ricordare a chi abbraccia la verginità di non disprezzare il matrimonio. Questo atteggiamento negativo contro il matrimonio andrebbe tutto a danno della sua scelta, la quale, se fosse la scelta tra un bene e un male o tra un bene consigliato e un bene tollerato, non avrebbe più il valore che ha. Questa la nozione di verginità consacrata che ci offre il Vescovo d’Ippona. Nessuno vorrà misconoscerne la verità, la modernità, la bellezza. Chiarita la nozione, troviamo illustrate nei suoi scritti le molteplici relazioni che la collegano a Dio, a Gesù Cristo, alla Chiesa, alla vita futura. Anzitutto la verginità cristiana è un sacrificio fatto a Dio: nasce dall’amore, ma comporta una rinuncia, la rinuncia a un bene naturalmente e profondamente amato. “Vero sacrificio, scrive S. Agostino, è ogni opera che si compie per aderire a Dio con santa società d’amore… Perciò l’uomo che si offre e si consacra a Dio, in quanto muore al mondo per vivere a Dio, è un sacrificio”197. È, la verginità, una imitazione più completa di Cristo in quanto ne segue le orme anche nella condizione dello stato verginale 198. È una splendida espressione della Chiesa, la quale, a somiglianza di Maria, è vergine e madre: vergine per l’integrità della fede, madre per la fecondità dell’amore apostolico che genera sempre nuovi figli di Dio. La verginità consacrata esprime mirabilmente questa duplice prerogativa: integrità e fecondità 199. In fine è un segno dei beni futuri, un preannuncio di quel Regno cui sospira la Chiesa nel suo terreno pellegrinaggio, un richiamo costante al soprannaturale e all’eterno. A questo quadro che ha già una straordinaria bellezza – e bisogna proprio dire che S. Agostino aveva mente e cuore preparatissimi per dipingerlo – si devono aggiungere due elementi: quello psicologico e quello mistico. Psicologicamente la verginità è fonte di libertà interiore che permette di dedicarsi con maggiore intensità alle cose del Signore: torna il tema del cuore indiviso di S. Paolo. “Sia confitto in tutto il vostro cuore, scrive S. Agostino, alle vergini, Colui che per voi è stato confitto in croce. Occupi egli nella vostra anima tutto il posto che non avete voluto fosse occupato dal matrimonio. A voi non è permesso di amare poco Colui per amore del quale non avete amato ciò che era permesso” 200. Misticamente, poi, la verginità è una efficacissima disposizione per la contemplazione dei divini misteri e una fonte ineffabile di gioia. “Contemplate la bellezza di Colui che vi ama, scrive ancora S. Agostino, contemplatelo simile al Padre e sottomesso alla madre… contemplatelo anche regnante nei cieli e venuto sulla terra per servire” 201. “Lodate il Signore tanto più dolcemente quanto più abbondantemente egli occupa i vostri pensieri; sperate tanto maggiore felicità quanto più fedelmente lo servite: amatelo tanto più ardentemente quanto più attentamente vi studiate di piacergli” 202. Resta ancora l’aspetto ascetico. È quello trattato diffusamente, pur nella brevità del contenuto generale, nella Regola. S. Agostino vi tocca principalmente due punti: la modestia e l’aiuto fraterno della vita comune. 2. …Nel modo di procedere o di stare Intorno alla modestia enuncia un principio generale, efficacissimo: Nel modo di procedere o di stare, in ogni vostro atteggiamento, non vi sia nulla che offenda lo sguardo altrui ma tutto sia consono al vostro stato di consacrazione 203. Questo principio non varia mai, pur nel variare continuo dei tempi: è fondato nel senso profondo della consacrazione a Dio e nell’intuizione sicura che ne hanno il popolo cristiano e la stessa persona consacrata. La verginità abbracciata per il regno dei cieli dà all’anima una particolare santità, che conferma e rende più luminosa quella del battesimo. Si tratta infatti di un atto che è insieme segregazione e deputazione: segregazione da determinate opere della natura e deputazione a occuparsi solo delle cose di Dio, a preannunciare le realtà future, a rappresentare Cristo nel mondo. Questa particolare santità comporta particolari esigenze anche nell’atteggiamento esteriore; il popolo cristiano, per l’azione interiore dello Spirito Santo, le intuisce, e le intuisce parimenti, per un istinto soprannaturale, che è frutto anch’esso dei doni dello Spirito Santo, l’anima consacrata. Da questa duplice intuizione nasce il dovere e la misura della modestia, che evita quanto può offendere il sentimento altrui e pone in opera quanto corrisponde al sentimento proprio. Per primo aspetto – quello negativo – S. Agostino insiste a lungo e con forti parole sui peccati dello sguardo, che offendono chi li commette e gli altri: ne mette in rilievo la gravità che hanno, poiché lo sguardo impudico è rivelatore d’un cuore altrettanto impudico, e lo scandalo che generano. Non bisogna illudersi infatti, osserva acutamente, che gli altri – e pensa ai membri della comunità religiosa e al popolo di Dio in generale – non notino un tale comportamento; lo notano certamente e perfino quelli a cui non si pensa. Inculca pertanto al religioso, a difesa della castità, il timore santo di Dio; di Dio che vede tutto, anche se è paziente. La pazienza divina nasce dalla sapienza infinita, che invita e muove al ravvedimento, non nasce dall’acquiescenza alla colpa. S. Agostino perciò non esita a ricordare le dure parole della Scrittura: È detestato dal Signore chi fissa lo sguardo 204. Varrebbe la pena di esporre qui la bella dottrina agostiniana intorno al timore che il Santo chiama tanto suggestivamente timore casto. Ma non è possibile. Notiamo solo l’aggettivo, che è un poema, e rivela, come in un lampo, un panorama stupendo. Come la verginità, che è la forma più alta della castità, è l’integrità del corpo incontaminato dalla colpa, così il timore casto è l’integrità del cuore o, più chiaramente, è l’integrità dell’amore incontaminato da quel sentimento servile che ci porta a temere la pena, non ad amare la giustizia. Infatti S. Agostino chiama casto proprio quel timore che non si oppone all’amore, come fa il timore della pena, ma nasce dall’amore stesso e ne è compagno inseparabile: cresce e si perfeziona con esso. Il timore raccomandato dalla Regola è appunto il timore casto che ha paura di far dispiacere alla persona amata; paura che diventa tanto più grande quanto più grande è l’amore. La persona consacrata tema dunque di dispiacere a Dio… 205. Sul dovere della modestia S. Agostino si effonde in maggiori particolari nel De sancta virginitate. Dice: “Le anime consacrate non devono avere il viso accigliato, non svagato lo sguardo, non sfrenata la lingua, non sguaiato il riso, non volgare lo scherzo, non sconveniente il vestito, non borioso o trascurato il portamento” 206. A commento di queste parole riportiamo quanto abbiamo scritto altrove. Non v’è chi non veda quanta ricchezza di particolari e quale profonda psicologia vi siano in questo breve periodo. Non accigliato il viso, perché sarebbe contrario alla dolcezza della carità e segno di un animo agitato da non dominate passioni; non svagato lo sguardo, indizio di vanità e di leggerezza; non sfrenata la lingua, poiché nel multiloquio non manca mai il peccato; non sguaiato il riso, segno di cattiva educazione e spesso d’insipienza; non volgare lo scherzo, indegno di chi col suo tenore di vita si è impegnato a “mostrare agli uomini la vita degli angeli e a portare in terra i costumi del cielo” 207; non sconveniente il vestito, cioè né elegante né trasandato, affinché non avvenga che si richiami l’attenzione altrui o con la ricercatezza o con la sciatteria. Non borioso o trascurato il portamento, perché l’uno sarebbe segno di arroganza, l’altro di mollezza. Dire tutto questo positivamente non è facile. Possiamo dire però che la vigile consapevolezza della propria consacrazione, la gioia continua d’una speranza ineffabile, l’amore degli uomini, l’abitudine di pensieri solenni e benevoli, la pace interiore, che di quella consacrazione sono gli effetti preziosi, non possono non rendere il portamento naturalmente composto e la parola spontaneamente nobile e gradevole, non possono non imprimere nel volto e su tutta la persona “una specie di floridezza verginale ” che merita la stima e incute il rispetto 208. 3. La vita comune e la custodia della castità L’altro punto su cui insiste la Regola per la custodia della castità è l’aiuto che viene alla persona consacrata dalla vita comune. Infatti quel Dio che abita in voi vi proteggerà pure in questo modo, per mezzo cioè di voi stessi 209. Si sa che la castità è un dono di Dio e che Dio solo ne è il custode. Dio la custodisce per mezzo della carità che infiamma l’anima per i beni universali e celesti. S. Agostino lo ha ripetuto tante volte nella controversia pelagiana. Ma già nelle Confessioni, ripensando forse alla sua esperienza personale, lo aveva detto in tutte lettere. La breve, famosa, mirabile preghiera: da’ quel che comandi e comanda ciò che vuoi, si riferisce proprio alla castità. “Ci comandi la continenza, dice il testo delle Confessioni, e qualcuno disse: “Conscio che nessuno può essere continente se Dio non lo concede, era già un segno di sapienza anche questo, di sapere da chi ci viene questo dono”. La continenza in verità ci raccoglie e riconduce a quell’unità, che abbiamo lasciato per disperderci nel molteplice. Ti ama meno chi ama altre cose con te senza amarle per causa tua. O amore, che sempre ardi senza mai estinguerti, carità, Dio mio, infiammami. Comandi la continenza. Ebbene, da’ ciò che comandi e comanda ciò che vuoi” 210. Ma Dio custodisce la nostra castità anche per mezzo di noi stessi, per mezzo, cioè, dell’aiuto che ci viene dalle persone consacrate con le quali viviamo. La prima forma di aiuto è il rispetto mutuo: Quando vi trovate insieme proteggete a vicenda la vostra pudicizia 211. Questo è detto direttamente per l’incontro con persone di sesso diverso; ma vale anche per ogni incontro di persone consacrate. Il rispetto che noi abbiamo per gli altri e quello che gli altri hanno per noi, nascendo dalla stessa fonte, che è la presenza dello Spirito Santo in tutti e in ciascuno, crea un’atmosfera soprannaturale che sostiene e rafforza il santo proposito di essere fedeli a Dio, e ne accresce la gioia. La seconda forma di aiuto sta nell’amicizia. Dice il Concilio: “Tutti ricordino che la castità si può custodire più sicuramente se tra i religiosi nella vita comune vige un vero amore fraterno” 212. Queste parole sono tipicamente, anche se non letteralmente, agostiniane. S. Agostino ha voluto portare nella vita religiosa, lo abbiamo già detto, tutta la carica dell’amicizia; un’amicizia aperta, non gelosa; spirituale, non sensibile; franca, non adulatrice; soprannaturale, non puramente umana; ma, ciononostante, anzi proprio per questo, calda, gioiosa e duratura. Certamente quest’amicizia, che trova nella carità il suo alimento e, quando sia necessario, un correttivo, è un ideale a cui non è possibile arrivare sempre e con tutti; ma quel grado, anche minimo, che è possibile e doveroso, costituisce per tutti una forza straordinaria che sostiene l’animo e gli fa sentire il quam bonum et quam iucundum habitare fratres in unum! La terza forma di aiuto è la correzione fraterna, delicato e fecondo atto di carità di cui abbiamo parlato sopra. Aggiungeremo qui un altro mezzo efficacissimo per custodire la castità, mezzo che la Regola non tocca direttamente, ma che S. Agostino descrive diffusamente nel De sancta virginitate: l’umiltà. All’umiltà dedica infatti tutta la seconda parte – abbiamo detto anche questo – di quell’aureo trattato. Ne riporteremo una sola frase, ma scultorea come un aforisma e indimenticabile, questa: Custos virginitatis caritas, locus autem huius custodis humilitas. Custode della verginità è la carità, ma la casa dove abita questo custode è l’umiltà 213. Capitolo settimo LA POVERTÀ Se in ordine alla nostra consacrazione a Dio la castità occupa il primo posto, in ordine alla vita comune il primo posto spetta alla povertà. S. Agostino infatti, che concepì ed organizzò la vita religiosa intorno al concetto della vita comune, subito dopo aver indicato la ragione stessa di questa vita con le parole: abbiate un’anima sola e un cuor solo protesi verso Dio 214, ne indica il fondamento con queste altre: Non dite di nulla: “È mio”, ma tutto sia comune fra voi. Il superiore distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario, non però a tutti ugualmente, ma ad ognuno secondo le sue necessità 215. Non v’è chi non veda quanto siano sapienti e ricche di contenuto queste parole: non solo stabiliscono il fondamento della vita comune, ma ne indicano due aspetti essenziali, che sono: la comunione dei beni e la distribuzione proporzionale di essi; o, in altre parole, i doveri del religioso verso la comunità e i doveri della comunità verso il religioso. 1. Comunione dei beni È quella forma di povertà evangelica di cui i primi cristiani, a Gerusalemme, diedero uno splendido esempio. C’è infatti nella Regola stessa, come sappiamo, la citazione degli Atti. Come si legge negli Atti degli Apostoli – continua il testo citato – Essi avevano tutto in comune. Di questa povertà evangelica, interpretata dai primi cristiani, S. Agostino illustrò e mise in pratica quattro aspetti: il voto, la rinuncia ad ogni proprietà, la perfetta vita comune, l’attesa fiduciosa della misericordia di Dio. a) Voto Qualcuno afferma che per trovare la nozione del voto di povertà bisogna aspettare almeno un secolo dopo S. Agostino. Non è esatto. Il Vescovo d’Ippona ha chiara non solo la nozione di voto – di questo non si sa chi possa dubitare – ma anche la nozione del voto di povertà. Difatti egli paragona la povertà alla castità e ritiene che la violazione della prima sia altrettanto grave quanto lo è la violazione della seconda. Ecco un testo molto esplicito: ” …chi abbandona la società della vita comune che aveva abbracciato – quella società lodata dagli Atti degli Apostoli – viene meno al suo voto, viene meno ad una santa professione. Stia attento al giudice; non a me, ma a Dio… Io so quanto sia grave fare un voto e non osservarlo. Dice la Scrittura: Fate voti e scioglieteli al Signore vostro Dio 216, e ancora: è meglio non far voti, che farli e non adempierli 217. Una vergine, benché mai entrata in monastero, se è consacrata, non ha il permesso di sposarsi, ma nessuno la obbliga ad entrare in monastero. Se però vi entra e se ne allontana e resta vergine, è caduta per metà. Lo stesso accade a un chierico. Ha professato due cose: la santità e il clericato. Per se stesso la santità, perché il clericato Dio glielo ha imposto sul capo a favore del suo popolo; per lui è più un peso che un onore; ma qual è il sapiente – esclama sospirando S. Agostino – che capisce queste cose? 218. Dunque ha professato la santità, ha professato la vita comune, ha professato come è bello e come è giocondo il convivere di tanti fratelli insieme 219; se recede da questo proposito e resta chierico, anch’egli è caduto per metà” 220. Non si potrebbe desiderare una dottrina più limpida e più netta. Vale la pena d’insistervi un poco. L’esempio della vergine consacrata è trasparente. Se abbandona la vita comune, che ha professato, viene meno per metà ai suoi doveri; questo vuol dire che povertà e castità sono obblighi uguali davanti a Dio. Degno di considerazione è anche il secondo caso, oggi soprattutto, quando un numero non piccolo di religiosi-sacerdoti lasciano con grande disinvoltura la vita religiosa, pensando che, conservato il sacerdozio, nulla hanno perduto davanti a Dio. S. Agostino non era di questo parere: dimidius et ipse cecidit, sentenzia; anch’egli è caduto per metà. b) Rinuncia alla proprietà Il voto di povertà o voto di vivere in comune importa la rinuncia alla proprietà dei beni materiali. Così fece S. Agostino appena tornato a Tagaste, così volle che facessero quanti vivevano con lui. “La vostra Carità – così parla al suo popolo – sa certamente anche questo, che io ho detto ai miei fratelli che vivono con me, che se qualcuno ha qualcosa di proprio o lo venda, e ne dia il prezzo in elemosina, o lo doni e lo metta in comune… Ne facciano quello che vogliono – conclude il Santo con parole di commovente bellezza – purché siano poveri insieme a me, e aspettiamo insieme la misericordia di Dio” 221. È inutile dire che questa rinuncia non riguarda solo ciò che si possedeva prima di entrare in monastero, ma tutto, anche quello che in qualsiasi modo si acquistava dopo; anche i doni che provenissero dai parenti e perfino nel caso che si trattasse di cose ritenute necessarie. Anche in questo caso il dono ricevuto doveva essere messo in comune e la cosa distribuita dal superiore a chi ne avesse avuto bisogno. Anzi, il textus receptus della Regola aggiunge a questo punto una sentenza fortissima: se qualcuno avrà tenuto nascosto l’oggetto donatogli sia giudicato colpevole di furto 222. La sentenza risponde pienamente al pensiero di S. Agostino, estremamente severo in fatto di povertà, ed è riportata da molti manoscritti. Aggiungiamo un’altra osservazione. La rinuncia alla proprietà importava l’impossibilità di esercitare il diritto, universalmente riconosciuto, di far testamento. S. Agostino non lo fece infatti, e provò un acutissimo dolore quando si seppe che uno dei suoi sacerdoti, che vivevano con lui nel monastero, lo aveva fatto. Di lui dice il primo biografo: “Testamento non ne fece, perché, povero di Dio, non aveva di che farlo” 223. Di Gennaro invece, presbitero che, morendo, aveva fatto testamento, dice il Santo: ” … ha fatto testamento. Ha fatto, dico, testamento un presbitero e socio nostro, che era con noi, che viveva della Chiesa, che professava la vita comune; ha fatto testamento, ha istituito gli eredi. Oh dolore di quella società! oh frutto nato non dall’albero che ha piantato il Signore! Ma ha istituito erede la Chiesa. Non voglio questi doni, non amo il frutto dell’amarezza. Io volevo lui per darlo a Dio: aveva professato la nostra vita; doveva restarvi fedele, doveva mostrarsene degno, non doveva aver nulla di proprio, non doveva far testamento. Aveva qualcosa? Non doveva fingersi nostro compagno, quasi fosse povero di Dio (quando non lo era). Il mio dolore è grande, fratelli. Vi dico anzi che per questo dolore ho stabilito di non accettare per la Chiesa quell’eredità” 224. Quando si tratta di principi, S. Agostino non transige. I suoi religiosi devono saperlo. Occorre aggiungere, inoltre, che la rinuncia ad ogni proprietà doveva estendersi a tutti gli effetti civili. S. Agostino lo esige, almeno dopo il caso di Onorato, vescovo di Tagaste, ordinato sacerdote per la chiesa di Thiana, il quale, non avendo fatto la rinuncia della sua proprietà agli effetti civili, diede luogo, dopo la morte, ad una lunga e spiacevole discussione tra il monastero e la parrocchia 225. Occorre infine notare che a proposito della rinuncia, nella vita comune, ad ogni proprietà e all’obbligo conseguente di non fare testamento, S. Agostino ha pronunciato le parole più forti uscite dalle sue labbra e forse dal labbro di un vescovo o di un fondatore di Ordine religioso. Egli si era proposto, com’è noto, di non ordinare chierici della sua chiesa se non coloro che avessero accettato di vivere in comune con lui, in modo di aver diritto poi, qualora qualcuno di loro avesse abbandonato il monastero, di cancellarlo dall’albo del clero. Ma ci fu, pare, un’alzata di scudi sia da parte dei chierici che da parte dei vescovi. S. Agostino stesso, inoltre, si accorse che ciò poteva favorire la simulazione e l’ipocrisia. Cambiò parere. Il 18 (o il 28) dicembre 425 parlò al suo popolo e diede ai chierici la libera opzione: restare in monastero con lui o vivere in casa propria. Tempo per riflettere fino all’Epifania. Dopo il 6 gennaio il vescovo parla di nuovo al popolo, annuncia con gioia che tutti hanno accettato la vita comune e aggiunge: “Ora poi, se qualcuno sarà trovato proprietario, non gli permetto di fare testamento, ma lo cancello dalla tabella dei chierici. Si appelli pure contro di me a mille concili, navighi pure contro di me dove vuole – l’allusione a Roma è qui evidente – se ne stia dove potrà: mi aiuterà il Signore a far sì che dove io sono vescovo, egli non possa essere chierico” 226. Queste parole non hanno bisogno di commento. Il lettore però, per assaporarne la forza, le rilegga. c) Vita comune perfetta S. Agostino spinge il concetto della vita comune fino alle ultime conseguenze: non solo rinuncia ad ogni proprietà, ma uso comune delle cose: comune il vitto, comuni le vesti. Anche le vesti. La Regola è esplicita: Come siete nutriti da una sola dispensa, così vestitevi da un solo guardaroba” 227. Egli stesso, vescovo, faceva così. Sono celebri le sue parole a proposito: ” …io stesso – dice al suo popolo – prendo le vesti dal guardaroba comune, perché voglio avere in comune tutto ciò che ho. Per questo non voglio che mi offriate vesti che io solo in un certo senso potrei portare più convenientemente. Mi offrite, per esempio, un mantello prezioso: forse conviene ad un vescovo, benché non convenga ad Agostino, cioè un uomo povero, nato da poveri. La gente dirà che ora (da vescovo) ho trovato quelle vesti preziose che non avrei potuto avere o nella casa di mio padre o in quella mia professione secolare. Non va: voglio avere una tale veste che possa darla, se ne avrà bisogno, al mio fratello; tale, poiché la prendo dal guardaroba comune, quale possa portare convenientemente un presbitero, un diacono, un suddiacono. Se qualcuno me ne darà una migliore, la vendo – e in realtà sono solito farlo – affinché, se non può essere comune la veste, sia comune il prezzo della veste” 228. Agostino sa, da fine psicologo, che questo metodo, in realtà piuttosto severo, può dare occasione a contese e mormorazioni. Fa perciò due cose: richiama i suoi religiosi al principio dell’interiorità e permette che venga tollerata la loro debolezza, cioè che ciascuno possa riprendere le vesti che ha deposte. Ecco, nel primo punto, le parole della Regola: Se da ciò sorgono tra voi discussioni e mormorazioni, se cioè qualcuno si lamenta di aver ricevuto una veste peggiore della precedente e della sconvenienza per lui di vestire come si vestiva un altro suo confratello, ricavatene voi stessi una prova di quanto vi manchi del santo abito interiore del cuore, dato che litigate per gli abiti del corpo 229. Belle parole che richiamano il religioso alle vere ricchezze, che sono quelle interiori dello spirito. Dimenticare queste e litigare per le vesti è proprio segno di una triste miseria. Sul secondo punto l’eccezione è espressa in modo, da indicarne anche i limiti: Comunque, qualora questa vostra debolezza venga tollerata e vi si consenta di riprendere quello che avevate deposto, lasciate nel guardaroba comune e sotto comuni custodi quello che deponete 230. Ma l’ideale della Regola resta quello che S. Agostino praticò in realtà nei suoi monasteri. Se possibile – e questa condizione già dice che la cosa consigliata può avere difficoltà concrete, reali – non curatevi di quali indumenti vi vengano dati secondo le esigenze della stagione, se cioè riprendete quello smesso in passato o uno diverso già indossato da un altro; purché non si neghi a nessuno l’occorrente 231. In effetti le mutate condizioni sociali e le legittime precauzioni igieniche hanno consigliato o imposto di non insistere, molte volte, sul raggiungimento di questo ideale; ma l’ideale resta, e dev’essere fonte perenne d’ispirazione; una fonte d’ispirazione che impedisca alla persona religiosa di considerare come proprie o di attaccare il cuore a quelle cose – vesti, libri, macchine, oggetti – che gli vengano date in uso. Perché ciò non avvenga occorre coltivare la virtù della povertà evangelica, che consiste nel sentirsi veramente poveri, cioè sprovvisti di tutto, e fiduciosi solo nella misericordia di Dio. d) Spirito della povertà evangelica S. Agostino lo ha posseduto e lo ha espresso in maniera mirabile. Rileggiamo le parole citate sopra: “Facciano quel che vogliono, purché siano poveri insieme a me e aspettiamo insieme la misericordia di Dio” 232. Tali erano in realtà i chierici che vivevano con lui nel monasterium clericorum. Il nostro Santo lo annunzia gioiosamente al popolo dopo aver fatto la “visita” al monastero. Anzi, per tagliar corto con ogni possibile mormorazione, li passa in rassegna uno per uno, chiarendo la loro posizione di fronte alla legge fondamentale della vita comune. “Tutti i miei fratelli chierici che vivono con me – i presbiteri, i diaconi, i suddiaconi e mio nipote Patrizio – li ho trovati come desideravo trovarli… Il diacono d’Ippona è un uomo povero… Il diacono Eraclio lo conoscete… Gli rendo testimonianza che è restato povero e ha conservato il possesso della carità … Gli altri, cioè i suddiaconi, sono poveri e per dono di Dio aspettano la misericordia di Dio… Restano i presbiteri… Ve lo dirò in due parole: sono poveri di Dio. Nulla hanno apportato alla vita comune se non ciò che è più caro di tutti: la carità” 233. Povertà, fiducia in Dio, carità: tre concetti, tre virtù, tre atteggiamenti inscindibilmente uniti. I religiosi dunque alla scuola di S. Agostino devono essere e sentirsi “poveri di Dio”, o, come anche li chiama il Santo “minimi di Cristo” 234. Ma che vuol dire questo? Non aver nulla su cui sperare in questa terra, vivere del proprio lavoro, accontentarsi di poco, essere lieti di possedere Dio, attendere tutto da Lui per mezzo della sua Chiesa. ” … coloro ai quali non basta Dio e la sua Chiesa, stiano pure dove vogliono e dove possono: non toglierò loro il clericato – dice il Santo – non voglio degli ipocriti con me… Ma se uno è pronto a non avere nulla di proprio, ma o a darlo ai poveri o a metterlo in comune, resti con me”; “chi resta con me non ha nulla, ma possiede Dio”: Habet Deum qui mecum manere vult 235. È inutile notare che S. Agostino parla di povertà individuale, non di povertà comune; i singoli religiosi devono essere poveri, non necessariamente il monastero. Nel Concilio di Trento la Chiesa ha fissato sulla povertà religiosa la dottrina già esposta e difesa da S. Agostino 236. 2. Distribuzione proporzionale Al concetto della povertà evangelica, così profondamente inteso dal Vescovo d’Ippona, va congiunto un altro aspetto, che è essenziale anch’esso, della vita comune: l’equa, e perciò proporzionale distribuzione dei beni di cui ha bisogno la necessità passeggera. Si distribuisca a ciascuno di voi il vitto e il vestiario; non però a tutti egualmente, perché non avete la medesima salute, ma ad ognuno secondo le sue necessità 237. Anche qui la prescrizione della Regola è appoggiata sul testo degli Atti, esplicitamente ricordato: … e si distribuisca a ciascuno secondo le sue necessità 238. Questa della distribuzione proporzionale è una questione delicatissima da cui dipende il benessere del monastero ed il successo di una regola monastica. Per risolverla con sapienza occorreva un sicuro intuito della psicologia umana ed un senso profondo di bontà e di moderazione. L’animo di S. Agostino era ben provvisto di simili qualità. Dovunque infatti nelle prescrizioni della sua Regola brilla uno spirito di discrezione e di equilibrio, che sa essere forte senza debolezze, comprensivo senza negligenze, che ricorda ai Superiori di essere più buoni che severi, ed ai sudditi che è meglio aver meno bisogni che possedere più cose 239. Lo abbiamo visto sopra e lo vedremo ancora, fra poco, parlando delle qualità del Superiore. Qui rileviamo soltanto che alla felice riuscita di questo aspetto essenziale della vita comune contribuiscono anche, in parte non minima, tutti coloro che nella casa religiosa hanno un qualche ufficio, che tocca da vicino la vita degli altri. S. Agostino ricorda esplicitamente l’infermiere, il dispensiere, il guardarobiere e il bibliotecario. A tutti dà il comando di servire con animo sereno i propri fratelli: sine murmure serviant fratribus suis 240. Comando breve, ma capace, se osservato, di rendere serena e gioiosa la vita comune. Evidentemente questo servizio di carità fraterna dovrà essere reso secondo le disposizioni generali della Regola e della comunità. Così, secondo la Regola, il bibliotecario non deve dare i libri a chi li chiederà fuori orario 241, mentre il dispensiere deve dare le vesti senza indugio a chi le chiede, quando gli siano necessarie 242. Capitolo ottavo AUTORITÀ ED OBBEDIENZA Il breve capitolo che la Regola dedica all’autorità e all’obbedienza rivela meglio degli altri la profonda rivoluzione che il Vescovo d’Ippona introdusse nella vita monastica. Egli si occupa principalmente del primo termine del binomio, senza trascurare, evidentemente, il secondo. Scrivendo, attinge alle sue intuizioni di fine psicologo, ma anche e soprattutto alle sue esperienze di superiore premuroso, delicato, buono; d’una bontà sempre pronta a servire, ma anche pronta, quando la necessità lo richiedesse, a mostrarsi ferma e decisa. 1. Autorità Possiamo riassumere il suo pensiero così: il superiore dev’essere padre, servo e modello della comunità di cui è responsabile davanti a Dio. Questa responsabilità fa gemere S. Agostino. Si rileggano i suoi discorsi tenuti in occasione dell’anniversario della sua consacrazione episcopale 243. Perciò la sua sentita raccomandazione al superiore: rifletta continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio 244. Il pensiero della propria responsabilità lo indurrà prima di tutto a sentirsi e a mostrarsi padre. a) Superiore-padre Il padre deve congiungere insieme due qualità inseparabili: la bontà che si fa amare e la severità che si fa temere. Queste due qualità sono tutt’e due necessarie, ma soprattutto la prima. ” …sebbene siano cose necessarie entrambe, tuttavia preferisca piuttosto di essere amato che temuto” 245. Così la Regola. Farsi temere è indispensabile: sarebbe un grave errore non crederlo. È indispensabile per due ragioni, che la Regola esplicitamente menziona: imporre l’osservanza della legge e correggere le infrazioni. Sarà compito speciale del superiore far osservare tutte queste norme; non trascuri per negligenza le eventuali inosservanze ma vi ponga rimedio con la correzione 246. Ma egli non potrà assolvere questo compito senza un’autorità riconosciuta, rispettata e temuta. S. Agostino ne è tanto convinto che non comanda al superiore di chiedere perdono ai propri sudditi anche quando si accorga di aver usato troppa durezza nel riprenderli; mentre gli comanda di ricorrere all’autorità del superiore maggiore per imporre la disciplina in quelle circostanze nelle quali non arriva la sua competenza o non bastano le sue forze. Nel primo caso come nel secondo lo scopo della prescrizione è lo stesso, cioè quello di difendere l’autorità, che dev’essere forte per essere efficace. Nel primo caso questo motivo è espresso in tutte lettere: affinché non avvenga – si legge nella Regola – che una troppo grande umiltà verso i sudditi spezzi il prestigio dell’autorità del superiore 247. Non già che sia l’umiltà ad indebolire l’autorità, anzi l’umiltà la rafforza; dà infatti a chi la possiede una superiorità che l’orgoglio non conosce e una maestà che suscita negli altri rispetto e venerazione – ubi humilitas, ibi maiestas 248; ma sono certi modi di manifestare questo nobile e forte sentimento – l’umiltà – che possono generare in alcuni spiriti poco profondi un’idea falsa dell’autorità, quasi che, mostrandosi umile, diventasse debole ed incerta. Perciò, S. Agostino non comanda – anche se non proibisce – di chiedere perdono. Il superiore però deve umiliarsi profondamente davanti a Dio e chiedergli perdono per non aver saputo conservare nella riprensione la giusta misura. Dunque il superiore, anche se dev’essere un padre, anzi appunto perché dev’essere un padre, non può dimenticare che ha l’obbligo di farsi temere, e d’imporre, sia pure, se necessario, col timore il rispetto della disciplina. L’esigenza del rispetto può giungere fino al rimedio estremo, che è l’espulsione dalla comunità. Lo abbiamo visto sopra: S. Agostino stesso – abbiamo visto anche questo – ha dato, nei riguardi della disciplina monastica, rari esempi di fortezza. È necessario farsi temere; ma soprattutto, per un superiore, è necessario farsi amare: preferisca piuttosto, ci dice la Regola, di essere amato che temuto. Splendido e luminoso principio che porta l’impronta del genio e dell’animo di S. Agostino! La ragione di esso sta nelle parole che seguono: riflettendo continuamente che dovrà rendere conto di voi a Dio 249. S. Agostino si appella, come si vede, al senso profondo della responsabilità, non davanti agli uomini, che sarebbe poco, ma davanti a Dio. Se non che questa ragione sembrerebbe dimostrare proprio il contrario; in quanto il senso della responsabilità sembrerebbe spingerlo piuttosto alla severità, da cui nasce il timore, che alla bontà, da cui nasce l’onore. In realtà, invece, è S. Agostino che ha ragione. Il senso della responsabilità spinge il superiore prima di tutto a volere fermamente e a promuovere con tutti i mezzi l’osservanza regolare, che è fonte di santificazione per le anime e di onore a Dio. Ora, considerando attentamente il cuore dell’uomo, l’osservanza della legge si ottiene più con l’amore che con il timore. Il timore infatti entra nell’animo per preparare il posto all’amore: finché il richiamo dell’amore è debole, lo stimolo del timore è necessario; intendiamo per timore il timore della pena. Ma finché per compiere il proprio dovere è necessario il timore, la stabilità della vita spirituale resta vacillante e la fecondità limitata: solo l’amore rende la vita spirituale sicura e feconda. Perciò il superiore libererà tanto più la sua coscienza dalla responsabilità verso Dio, quanto più riuscirà ad infondere nella comunità, che gli è stata affidata, l’amore per l’osservanza religiosa, e perciò anche per il superiore che la rappresenta e la tutela. Ma come farà il superiore a farsi amare senza diventare connivente con l’inosservanza e l’indisciplina? Non è facile rispondere a questa domanda. Più che da uno studio, da un’arte, da un impegno particolare ciò dipende da diverse qualità naturali e soprannaturali, combinate in bella maniera e tanto felicemente da produrre, anche senza che la persona se ne avveda, un effetto singolare di simpatia, di stima, di rispetto. Da questi sentimenti a quello dell’amore il passo è breve. La Regola ne indica due di queste qualità, che sono poi le principali: l’umiltà e la esemplarità. L’umiltà che non ama comandare, ma ubbidire, che accetta il superiorato, non lo desidera; che non cerca in esso l’onore e il potere, ma il volere di Dio e il servizio dei fratelli; che fa, in altre parole, del comando un atto costante di obbedienza. L’esemplarità che crede fermamente nell’ideale religioso, che stima sinceramente le norme che ne assicurano il compimento, che si studia costantemente di mostrarsi modello delle buone opere. b) Superiore-servo “Chi vi presiede non si stimi felice perché domina col potere, ma perché serve con la carità” 250. Queste parole della Regola enunciano un programma – il programma sempre antico e sempre nuovo del Vangelo – che S. Agostino attuò fedelmente per tutta la vita. Enunciano anche una dottrina che, per il Vescovo d’Ippona, sta al centro della spiritualità propria dei sacerdoti e di quanti, nella Chiesa, hanno una responsabilità direttiva. “Nella casa dell’uomo giusto, che vive di fede ed è ancor pellegrino, lontano dalla città celeste – si legge in una bella pagina del De civitate Dei – anche coloro che comandano, servono a quelli cui sembrano comandare. Infatti non comandano per la cupidigia di dominare, ma per il dovere di aiutare, non per l’orgoglio di essere i primi, ma per la misericordia di provvedere 251. S. Agostino ci lasciò rari esempi di questo servizio d’amore; un amore disinteressato, umile, generoso: infatti si sentì e fu in realtà e senza risparmio servo di tutti, vicini e lontani. In merito a questo servizio sviluppò una splendida dottrina che ne svela tutte le ricchezze teologiche e pastorali. Ma di questo ho parlato altrove 252. Qui riporto solo un testo che ci mostra le stupende radici cristologiche di questa dottrina e le sue profonde conseguenze, che impegnano il superiore a cercare non i propri interessi, ma gli interessi di Cristo. “Che altro vuol dire (il Signore con quelle parole a S. Pietro): Mi ami tu? Pasci le mie pecore, se non: se mi ami non pensare a pascere te stesso, ma pasci le mie pecore, come mie, non come tue; cerca in esse la mia gloria, non la tua; il mio dominio, non il tuo; il mio guadagno e non il tuo; se non vuoi essere del numero di coloro che appartengono ai tempi difficili, i quali sono amanti di se stessi, con tutto quel che deriva da questa sorgente d’ogni male”. “Non amiamo dunque – conclude il Santo – noi stessi, ma il Signore; e nel pascere le sue pecore, non cerchiamo i nostri interessi, ma i suoi” 253. Queste parole – non occorre dirlo – hanno una singolare profondità psicologica, in quanto ci avvertono di un grave pericolo, che si traduce spesso in inganno, che consiste nel pensare di servire gli interessi di Cristo, mentre in realtà si servono i propri, o almeno si servono anche i propri. Ciò avviene quando si chiede, sia pure inconsapevolmente, al ministero pastorale – e il superiore come tale è un pastore – di soddisfare non dirò a sordidi interessi, ma alla nostra piccola gloria e alla sete, che tutti più o meno sentiamo, di onore e di potere. In questo caso, non infrequente, si fanno insieme due cose: si servono le anime e ci si serve di loro. Per evitare questo sottile inganno S. Agostino raccomanda a tutti i superiori di pascere le pecore di Cristo, ma come pecore di Cristo, non come proprie; desiderando cioè che esse siano totalmente ed esclusivamente di lui e in nessun modo nostre. c) Il superiore-modello La terza qualità del superiore, descritta dalla Regola, e la seconda di quelle che gli sono più necessarie per farsi più amare che temere, è mostrarsi ed essere modello nell’operare il bene. Si offra a tutti come esempio di buone opere 254. È il precetto della Regola, che è, poi, la traduzione di quello dato dall’Apostolo a Timoteo 255. Tra queste opere vengono ricordate esplicitamente quelle che S. Paolo ricorda ai fedeli di Tessalonica 256: Moderi i turbolenti, incoraggi i timidi, sostenga i deboli, sia paziente con tutti 257. Sarebbe interessante percorrere queste opere una per una e indicare quei suggerimenti che possano aiutare il superiore a compierle con esemplarità; ma si andrebbe troppo per le lunghe. Utili consigli si possono trovare nella terza parte della Regola pastorale di S. Gregorio Magno. Qui basterà rilevare che la radice di tutte queste opere buone è l’amore; un amore forte e generoso, che è lieto di dare senza chiedere, lieto di servire senza voler essere servito. In un discorso, che poco fa ho raccomandato di leggere, S. Agostino riassume così i suoi doveri di pastore: “Dobbiamo moderare i turbolenti, incoraggiare i timidi, sostenere i deboli, riprendere i contraddittori, evitare gli invidiosi, istruire gli indotti, scuotere i pigri, frenare i rissosi, reprimere i superbi, pacificare i litiganti, aiutare i bisognosi, liberare gli oppressi, approvare i buoni, tollerare i cattivi, amare tutti” 258. Molte di queste opere sono proprie anche del superiore, di ogni superiore. La radice di esse sta nell’ultimo inciso: amare tutti. Proprio così. L’amore si conquista con l’amore, e quando in una comunità c’è la gioia dell’amore, la vita spirituale è assicurata. Ricorderemo a questo proposito che la celebre espressione di S. Agostino, così spesso ripetuta e così spesso interpretata male: ama e fa’ ciò che vuoi, è stata scritta a proposito della correzione fraterna, che è uno dei compiti principali, e tra i più difficili, del superiore. “Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi, sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che tu perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” 259. Ricorderò poi che la carità è una, ma varia il suo atteggiamento secondo le necessità della persona a cui si rivolge. Non posso fare a meno di citare a questo proposito il seguente testo agostiniano. Vi si parla di chi, per dovere di carità, deve provvedere a tante diverse persone, e a ciascuna secondo il suo bisogno particolare. “Si deve a tutti la stessa carità – scrive il Santo – ma non a tutti la stessa medicina. La carità infatti, pur essendo la stessa, genera gli uni e si conforma alla debolezza degli altri; gli uni si studia di edificarli, gli altri teme di offenderli; di fronte a uno si umilia, di fronte a un altro si erge con fierezza; con alcuni è blanda, con altri è severa; a nessuno è nemica, per tutti è madre” 260. Per tutti è madre! Il segreto d’un superiore pio e saggio non poteva essere espresso più efficacemente. 2. Obbedienza S. Agostino non ebbe occasione di scrivere un trattato intorno all’obbedienza come la ebbe di scriverlo intorno alla verginità, né d’insistere su l’argomento dell’obbedienza come dové insistere su quello della povertà. Perciò la sua dottrina su questo argomento – intendiamo su l’obbedienza religiosa – non è così ricca come è ricca quella su la verginità e la povertà. Anzi abbiamo già osservato che toccando l’argomento relativo al binomio autorità e obbedienza preferisce fermarsi sul primo termine, forse perché, essendo vescovo e mal soffrendo il grave peso della sua responsabilità, credeva più opportuno e più pastorale ricordare a se stesso i suoi doveri che quelli degli altri. Non v’è dubbio però che la dottrina intorno al potere e all’arte del comando illumina anche il dovere e la natura dell’obbedienza. A questo proposito la Regola è brevissima, ma molto efficace. Ai tre doveri del superiore – padre, servo e modello – fa corrispondere tre doveri dei sudditi, che sono: obbedienza, onore e compassione. a) Si obbedisca al superiore come ad un padre L’obbedienza dev’essere filiale e soprannaturale. Anzitutto filiale. Le parole della Regola che abbiamo riferite sono un raggio di luce il cui splendore illumina un vasto panorama. Si obbedisca al superiore come ad un padre 261. Dunque la comunità è una famiglia, dunque in essa v’è uno che ha il compito e l’ufficio di padre, dunque tutti debbono essere, sentirsi e operare come figli. Ma il figlio sa che deve ubbidire a suo padre, ubbidire con amore, con gioia, con spontaneità; ma ubbidire. È un’esigenza di ogni società umana, la cui pace consiste appunto nell’”ordinata concordia dei membri nel comandare e nell’ubbidire”. È un’esigenza della disponibilità di tutti alle opere di Dio. Si ricorderà che S. Agostino accettò il sacerdozio solo per ubbidire e ricordò a tutti e spesso il dovere dell’obbedienza. È un’esigenza della nostra pace interiore, che trova la sua radice nel saper compiere con amore il volere di Dio. “Piace a Dio – dice acutamente il Vescovo d’Ippona – colui al quale piace Dio” 262, piace non già nella sua bellezza, che è troppo naturale, ma nelle sue disposizioni, anche se, spesso, spiacevoli alla natura. Per questo la Regola continua indicando la vera ispirazione dell’obbedienza: … col dovuto rispetto per non offendere Dio nella persona di lui 263. Il superiore che fa le veci di Dio è, intesa rettamente, un’idea evangelica, che S. Agostino riprende. Gioverebbe ripetere qui quanto il santo dottore dice a proposito dell’obbedienza come virtù “radicale” e”fontale”264, e perciò, in questo senso, “origine, madre e custode di tutte le virtù” 265; come pure il paragone che egli istituisce tra l’obbedienza – nel senso predetto – e la verginità 266, ma il lettore vorrà scusare la nostra fretta. b) … sia tenuto in alto per l’onore Al superiore non si deve solo l’obbedienza, ma anche l’onore. Questo sarà per lui un motivo di più per umiliarsi davanti a Dio, ma l’atteggiamento interiore, umile e sincero, del superiore non dispensa gli altri dal compiere il proprio dovere. Certe forme di mal compresa democrazia non entrano nelle categorie agostiniane. Davanti a voi, prescrive la Regola, (il superiore) sia tenuto in alto per l’onore, davanti a Dio si prostri per timore ai vostri piedi 267. Onore e umiltà: umiltà da parte del superiore, onore da parte degli altri. Così, anche sotto questo aspetto, si realizza quella composizione dei contrari che costituisce la mirabile armonia della vita comune. Del resto il dovuto onore prestato al superiore è un aspetto di quello che si deve a tutti i fratelli, ed è un segno di stima, anzi un bene necessario per la comunità. S. Agostino infatti osserva col solito acume che, se al superiore non gli viene prestato il dovuto onore, il male non è per lui, ma per coloro che non lo prestano, cioè per la comunità; allo stesso modo, se il dovuto onore gli viene prestato, chi se ne avvantaggia non è il superiore, ma la comunità 268. Il superiore, poi, solo per questa ragione, cioè per il bene della comunità, può convenientemente accettare o anche volere tale onore 269. A condizione che non lo ami. E se lo amasse? Potremmo rispondere con una forte parola: peggio per lui. Alla comunità non ne viene nessun danno. Quando non sia quello di avere un superiore spiritualmente assai mediocre. Ma anche qui S. Agostino ci ammonisce. Res ista cordis est, iudicem habere non potest nisi Deum 270. È una questione che appartiene al cuore: non può giudicarla se non Dio. c) …obbedendo… mostrerete pietà… anche di lui Il terzo sentimento dei sudditi verso il superiore è la compassione. La Regola lo dice esplicitamente: Perciò, obbedendo maggiormente, mostrerete pietà non solo di voi stessi ma anche di lui 271. È un particolare interessante che basta da solo a qualificare una spiritualità. Obbedire per compassione verso il superiore! È un precetto che commuove per la sua profonda umanità e per la genuinità evangelica che racchiude. Il superiore ha una responsabilità che è sua, ma che ha per oggetto il bene degli altri; una responsabilità che, se è sapiente, non vorrebbe avere; che ha accettato e porta per amore di Cristo, gemendo e sperando. È ovvio allora che obbedendo gli si rende più facile il compito, gli si allevia il peso, lo si aiuta a portarlo con merito e ad evitare i pericoli che gli incombono. Il superiore, dice la Regola, si trova in un pericolo tanto più grande quanto più alta è la sua posizione tra voi 272. Consapevole di questo pericolo S. Agostino chiede al suo popolo di aiutarlo con la preghiera e con l’obbedienza a portare il suo fardello. “Aiutateci pregando e obbedendo… Poiché come noi dobbiamo pensare con grande timore e sollecitudine alla maniera di compiere irreprensibilmente l’ufficio pontificale, così voi dovete stare attenti a prestare umile obbedienza a tutte le cose che vi siano comandate” 273. E altrove: “Le mie uniche ricchezze sono la vostra speranza in Cristo. La mia gioia, il mio sollievo, il mio respiro tra i pericoli e le prove dell’ufficio altro non è che la santità della vostra vita, Fratelli, se non avete pietà di voi stessi, abbiate, ve ne supplico, pietà di me!” 274. Voglio terminare con un pensiero agostiniano che assicura, qualunque sia la condotta del superiore, la coscienza dei sudditi. “Ecco nel nome di Cristo ci apprestiamo ad andarcene – il discorso è tenuto a Cartagine – e diranno (i donatisti) molte cose contro di noi. Ma a quale scopo? Mettete subito da parte la nostra causa. Non rispondete se non a questo: Fratelli, state alla questione; Agostino è vescovo nella Chiesa cattolica, porta il suo fardello di cui renderà conto a Dio, so che è buono, ma se fosse cattivo è affare suo; ma anche se è buono, non ripongo in lui la mia speranza. Questo infatti ho imparato prima di ogni altra cosa nella Chiesa cattolica: a non riporre la mia speranza in un uomo” 275. Capitolo nono LA PREGHIERA Se la castità, la povertà e l’obbedienza sono le condizioni della vita comune e del progressivo fiorire, in essa, della carità; la preghiera, la mortificazione, la lectio divina, lo studio e il lavoro ne sono il continuo alimento. Prima di tutto la preghiera. A chi legge la Regola può sembrare strano che S. Agostino, il quale ha parlato tanto e tanto profondamente della preghiera – è in realtà il dottore della preghiera com’è il dottore della grazia – dedichi ad essa nella Regola un capitolo brevissimo. È vero, il capitolo della Regola sulla preghiera è molto breve, ma occorre aggiungere subito che è molto ricco. Tocca infatti ben cinque temi essenziali: la necessità della preghiera, la interiorità della preghiera, la preghiera comune, la preghiera privata, il canto ecclesiastico. A questi temi se ne aggiunge un sesto, a cui la Regola accenna più tardi, che completa il quadro: la frequenza, e perciò la perfezione della preghiera. Vediamo uno per uno, sia pur rapidamente, questi temi. 1. Necessità Il primo è espresso con le parole dell’Apostolo: Orationibus instate: insistete, perseverate assiduamente nella preghiera, attendetevi con alacrità. Questo vuol dire l’Apostolo 276 e questo dice S. Agostino. Ma dietro queste brevi parole v’è tutta la dottrina sulla necessità della preghiera, che il Vescovo d’Ippona ha difeso ampiamente mostrandone il fondamento teologico, che è costituito dalla necessità della grazia. La preghiera infatti è tanto necessaria quanto è necessaria la grazia. La grazia è necessaria, come è noto, per osservare la legge divina, per vincere le tentazioni, per giungere alla giustificazione, per perseverare in essa fino alla fine: per le stesse ragioni è necessaria la preghiera. Certo, anche la preghiera è un dono di Dio; ma è un dono che Dio dà a tutti, affinché per mezzo di esso ognuno possa ottenere gli altri doni che sono necessari per giungere alla salvezza. “Vi sono dei doni – dice S. Agostino – che Dio dà anche a quelli che non pregano, come l’inizio della fede; e vi son dei doni che dà solo a quelli che pregano, come la perseveranza finale” 277. Dio ha voluto che nella palestra spirituale combattessimo più con le preghiere che con le nostre forze 278. S. Agostino ne era profondamente e teologicamente convinto. Perciò la viva e continua esortazione alla preghiera. La ritroviamo nella Lettera a Proba 279, che è un trattato sulla preghiera. “Combatti con la preghiera, le dice, per vincere questo mondo; prega nella speranza, prega con fede ed amore, prega con costanza e pazienza, prega come una vera vedova di Cristo” 280, cioè come chi si sente sprovvisto di ogni sostegno e lo attende solo da Dio. La necessità della preghiera fu un tema centrale della controversia pelagiana. Il punto di partenza era identico, cioè questo: Dio non comanda l’impossibile. Ma da questa verità i pelagiani concludevano che non è necessaria la grazia per osservare ciò che Dio comanda; mentre S. Agostino ne concludeva, interpretando esattamente il Vangelo, che è necessaria la preghiera per ottenere la grazia ed essere in grado così di fare quello che Dio comanda. Da qui la celebre preghiera delle Confessioni contro cui si scagliò Pelagio: “Dammi (Signore) ciò che comandi e comanda ciò che vuoi” 281. Ma la preghiera non è solo implorazione, è anche, anzi prima di tutto, adorazione, lode, ringraziamento. Anche queste forme sono incluse in quel breve precetto della Regola: orationibus instate. Tant’è vero che il testo dell’Apostolo, da cui queste parole sono tratte, continua così: vigilate in essa – nella preghiera – con azioni di grazie 282. Ma di questo diremo qualcosa a commento del penultimo capoverso della Regola. 2. Interiorità Il secondo tema a cui la Regola accenna è l’interiorità della preghiera; tema espresso con quelle parole: Quando pregate Dio con salmi ed inni, meditate nel cuore ciò che proferite con la voce 283. È inutile dire che il tema dell’interiorità è fecondissimo: è connesso intimamente al dovere, alla natura, all’oggetto della preghiera, e serve a spiegare una moltitudine di questioni che si pongono intorno ad essa. L’interiorità della preghiera vuol dire che Dio non si prega con le labbra, ma col cuore 284, che altro è parlare molto, altro il pregare molto 285, che il grido della preghiera è il fervore della carità, mentre il silenzio della preghiera è il freddo della carità 286. Applicando questo principio S. Agostino, con un colpo d’ala, identifica la preghiera col desiderio. “Il desiderio prega sempre, anche quando la lingua tace. Se desideri sempre, preghi sempre. Quando sonnecchia la preghiera? Quando si raffredda il desiderio” 286. Ed ancora: “La tua preghiera è lo stesso tuo desiderio, se il desiderio è continuo, la preghiera è continua” 287. Questa identificazione è veramente luminosa. Si comprende, allora, perché dobbiamo pregare, ancorché Dio sappia di che cosa abbiamo bisogno. Dobbiamo pregare, perché attraverso la preghiera prendiamo coscienza del nostro bisogno, approfondiamo e dilatiamo il nostro desiderio e ci mettiamo in grado di ricevere in maniera più grande – la grandezza del dono è proporzionata alla grandezza del desiderio – ciò che Dio si prepara a darci 288. Si comprende anche la ragione della preghiera vocale, ancorché la preghiera consista, essenzialmente, non nella voce, ma nell’amore. “Se in determinati intervalli di ore e di tempi preghiamo Dio anche con le parole – scrive S. Agostino a Proba – lo facciamo per ammonire noi stessi con quei segni e renderci consapevoli in tal modo dei progressi fatti nel desiderio di Dio e per spronarci efficacemente ad accrescerlo” 289. La preghiera vocale o è la risultanza di un forte desiderio o il mezzo per suscitarlo. Si comprende infine quale sia la risposta da dare a una questione che spesso ci tormenta: che cosa possiamo chiedere a Dio nella preghiera. Data l’identificazione tra preghiera e desiderio la risposta è facile: ciò stesso che possiamo onestamente desiderare e nell’ordine in cui possiamo e dobbiamo desiderarlo. Se la preghiera infatti s’identifica con il desiderio, l’oggetto della preghiera non può essere altro che l’oggetto del desiderio. Perciò insegnandoci a pregare, Gesù ci ha insegnato a desiderare, cioè ad amare. Il Padre nostro è il paradigma dei nostri desideri: le sette petizioni di esso contengono tutto ciò che possiamo rettamente e convenientemente desiderare, tutto ciò che possiamo e dobbiamo amare 290. Il Padre nostro perciò non è solo una preghiera, ma una fonte di spiritualità, una regola di condotta, una scuola di vita. V’è poi un’altra conclusione – questa volta una conclusione generale – da trarre dal principio dell’interiorità, che è questa: la preghiera non è solo un dovere, anche se è un dovere, ma è soprattutto un bisogno, un bisogno incoercibile dell’animo nostro. Questa conclusione, che rovescia radicalmente le corte vedute che spesso si hanno della preghiera, non si riferisce tanto alla preghiera di domanda – è ovvio che chi domanda sa e confessa di aver bisogno – quanto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di adorazione. Questa preghiera infatti non nasce da una condizione morale o fisica d’indigenza, ma dal bisogno profondo, costituzionale dell’anima umana, la quale, fatta per Iddio, cerca, anche senza saperlo, Dio, lo ama e vuole possederlo. Quando dunque la Regola ci prescrive di meditare nel cuore ciò che proferiamo con la voce, ci prescrive di far nostri i sentimenti dei salmi e degli inni che recitiamo. Ora si sa che i salmi sono una scuola di alta spiritualità contemplativa. Se contengono spesso il grido del bisognoso o del sofferente che implora la liberazione dai pericoli, la difesa contro i nemici, il sostegno contro il dolore e contro l’abbandono degli uomini, contengono anche, e in misura maggiore, il riconoscimento della maestà di Dio, la lode della sua provvidenza, il ringraziamento per i suoi benefici, il desiderio di abitare nella sua casa, la contemplazione dei suoi attributi, il senso profondo della mutabilità delle cose e dell’immutabile eternità. Nessuno può recitare i salmi senza vibrare di questi stessi sentimenti. Si sa quanto S. Agostino li amasse. Da quando, a Cassiciaco, imparò ad ammirarne la bellezza e a farne l’espressione preferita della sua preghiera, non se ne staccò più. Si rilegga quanto egli stesso ne dice nelle Confessioni 291. Da vescovo, commentandoli, contribuì a farne scoprire ed amare le ricchezze, particolarmente le ricchezze cristologiche. È Cristo – il Cristo totale – che parla nei salmi: “dobbiamo sentire, nota e familiare, come fosse la nostra, la sua voce in ogni salmo, sia che canti o che gema o che si rallegri nella speranza o che sospiri per la realtà” 292. 3. Preghiera comune Anche a questo proposito la Regola è brevissima: enuncia solo il principio, ma un principio che vale per sempre e che non cambia mai. “Attendete con alacrità alle preghiere nelle ore e nei tempi stabiliti” 293. Spetta ora ad un Regolamento o alle Costituzioni stabilire questi tempi e queste ore. Ma ore e tempi per la preghiera comune ci debbono essere: una vita comune senza preghiera comune non sarebbe più vita comune. In questo, che è l’essenziale, la Regola è perentoria. Conosciamo uno di questi Regolamenti – l’Ordo monasterii di cui abbiamo parlato – che, se fosse stato in uso ad Ippona o in qualche convento agostiniano d’Africa, ci direbbe quale era il modo di pregare in quei monasteri; in ogni modo, essendo antichissimo, ci dice qual era il modo di recitare l’”Uffizio” in qualche monastero d’Occidente già nel secolo V°. Lo riportiamo qui in una nostra traduzione. “Vi descriviamo, poi, come dovete pregare e salmodiare: a) Alle prime ore del giorno – si tratta delle nostre Lodi – si diranno tre salmi: il 62° (Deus, Deus meus, ad te de luce vigilo), il 5° (Verba mea auribus percipe Domine), 1’89° (Domine, refugium factus es mihi). b) A Terza si dirà prima un salmo con responsorio, quindi due antifone, una lezione e la preghiera finale. Similmente si farà a Sesta e Nona. c) Al tramonto del sole – Lucernaio (quando cioè si accendevano i lumi) = ai nostri Vespri – si diranno: un salmo con responsorio, quattro antifone, ancora un salmo con responsorio, una lezione e la preghiera finale. d) Al tempo opportuno dopo il Lucernaio (= Vespri), mentre tutti sono seduti, si leggeranno le lezioni; infine i salmi consuetudinari prima del riposo notturno. e) In quanto poi alle preghiere notturne, queste comprendono nei mesi di novembre, dicembre, gennaio e febbraio dodici antifone, sei salmi e tre lezioni; in marzo, aprile, settembre e ottobre dieci antifone, cinque salmi e tre lezioni; in maggio, giugno, luglio e agosto otto antifone, quattro salmi e due lezioni” 294. Questo testo, preziosissimo per la Liturgia delle Ore – è il più antico che si conosca in Occidente – sotto l’aspetto spirituale non ha bisogno di commenti. Ci si consenta solo un’osservazione: i religiosi che seguivano quest’ordinamento liturgico prendevano davvero sul serio la preghiera in comune! E questi religiosi furono molti. Sappiamo infatti che l’Ordo monasterii dal secolo V° al secolo XIII° ha preceduto, per lo più, il testo della Regola agostiniana. Oggi perciò, quando la Chiesa, attraverso la riforma della Liturgia delle ore, vuole che questa forma di preghiera torni ad essere per tutto il popolo cristiano una fonte viva di spiritualità, i discepoli di S. Agostino, che l’hanno sempre considerata una forma insostituibile della loro pietà comunitaria, debbono essere di esempio e di stimolo ad altri. A Ippona i fedeli andavano in chiesa mattina e sera e pregavano più volte al giorno in casa. A un pio fedele S. Agostino fa dire così: “mi alzerò ogni giorno, mi recherò alla chiesa, dirò un inno al mattino, e un altro alla sera, e il terzo e il quarto nella mia casa; così io sacrifico ogni giorno un sacrificio di lode e lo offro al mio Dio” 295. I fedeli di oggi, sull’esempio dei religiosi, devono tornare, se non a questa frequenza, almeno a questo fervore di preghiera comune. Quanto sia gradita a Dio la preghiera comune è inutile dirlo. Coloro che sono un solo cuore ed un’anima sola protesi verso Dio non possono non avere una sola voce che loda Dio. L’unità della carità suppone ed esige l’unità della preghiera: la suppone perché ne è l’effetto; la esige perché ne è la causa. Tra l’una e l’altra v’è una mirabile causalità reciproca che le fa crescere e decrescere insieme. 4. Preghiera privata La Regola non prescrive soltanto la preghiera comune, ma esorta anche alla preghiera privata. Lo fa indirettamente, ma assai chiaramente. Vuole infatti che nel monastero ci sia un oratorio, che l’oratorio sia destinato solo alla preghiera, che in esso ognuno che lo voglia e che ne abbia tempo possa raccogliersi a pregare anche fuori delle ore stabilite. La prescrizione di destinare l’oratorio esclusivamente alla preghiera – L’oratorio sia adibito esclusivamente allo scopo per cui è stato fatto e che gli ha dato il nome 296 – può aver tratto occasione dall’uso di alcuni monasteri, forse a Roma, di servirsi dell’oratorio – dove allora non c’era il Santissimo – come sala di lavoro. Ma qui non importa la prescrizione in sé, bensì l’intenzione, che è quella di provvedere che ci sia nel monastero un luogo silenzioso e libero, dove il religioso, che lo possa e lo voglia, si raccolga in preghiera senz’essere disturbato. Se perciò qualcuno – continua la Regola – avendo tempo, volesse pregare anche fuori delle ore stabilite, non ne sia ostacolato da chi abbia ritenuto conveniente adibire l’oratorio a scopi diversi 297. Questa sensibilità per la preghiera privata in una Regola destinata ad organizzare la vita comune, è degna in tutto del Dottore che ha tanto insistito sull’interiorità e che ha speso nella preghiera tutte le gocce di tempo che ha avuto disponibili. L’esortazione, così frequente in S. Agostino e così importante, di ritirarsi nella propria anima e di elevarla a Dio quanto più è possibile – “Rifugiati nella tua anima e rivolgila a Dio per quanto puoi” 298 -, altro non è che un’esortazione alla preghiera continua e perciò, in quanto tale, privata. Nella Lettera a Proba S. Agostino loda l’uso dei monaci d’Egitto, dei quali aveva inteso che pregavano spesso, anche se brevemente, saettando a Dio, di corsa, la propria preghiera – da qui la parola giaculatoria – “affinché, dice, l’intenzione vigilantemente eretta, intenzione che è sommamente necessaria a chi prega, non svanisca o non si ottunda a causa del troppo prolungarsi della preghiera”. “Con ciò, continua il Santo, mostrano chiaramente anch’essi che questa intenzione, come non dev’essere sforzata, se non può perdurare, così non dev’essere subito interrotta, se perdura” 299. “Perciò non è insensato né inutile pregare anche lungamente, quando sia possibile, cioè quando i doveri di altre opere buone e necessarie non lo impediscono; ancorché, come ho detto, anche compiendo queste opere dobbiamo, attraverso il desiderio, pregare sempre. Poiché pregare a lungo non vuol dire, come alcuni credono, cadere nel multiloquio. Altro infatti è un lungo discorso, altro un diuturno affetto. Di nostro Signore è stato scritto che passava la notte in preghiera 300, e che pregava più lungamente 301: con ciò che altro faceva se non darci l’esempio, Egli, propizio intercessore nel tempo ed eterno elargitore col Padre?” 302. Del resto la preghiera privata è inseparabile dalla preghiera comune: ne è la migliore preparazione e il migliore risultato. Infatti con la preghiera privata ci prepariamo efficacemente alla preghiera comune, che è, per lo più, la preghiera liturgica, e da questa ci deriva lo stimolo che acuisce il bisogno della preghiera privata. Poiché la preghiera comune non ha solo il compito di esprimere all’unisono la carità dei fratelli, né solo quello di scuotere, attraverso l’orario, la nostra pigrizia, difendendoci dalla nostra negligenza; ma anche il compito di farci sentire più profondamente e il dovere e il bisogno di pregare. Chi dunque, mancandogli la possibilità, per particolari circostanze, di partecipare alla preghiera comune, trascura di fare quella stessa preghiera da solo, mostra di non aver fatto bene, cioè con profonda convinzione, la preghiera comune. Giova notare, poi, che la preghiera privata, nel senso stretto, per il cristiano non esiste: egli è sempre unito a Cristo e alla Chiesa; e quando prega non può non sentire questa misteriosa unione. “Gesù Cristo Figlio di Dio, dice S. Agostino, prega per noi, prega in noi, ed è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote, prega in noi come nostro capo, è pregato da noi come nostro Dio… Non dire nulla senza di Lui ed Egli non dice nulla senza di te” 303. Questo è vero in modo particolare per la preghiera comune, ma è vero anche per la preghiera privata, che perciò non è, propriamente, privata. 5. Canto ecclesiastico L’ultimo punto toccato dalla Regola intorno al tema della preghiera è quello del canto ecclesiastico. Viene toccato in forma negativa, ma non per questo rivela meno efficacemente l’uso del canto sacro nei monasteri e l’importanza che vi annette S. Agostino. E non vogliate cantare se non quanto è prescritto per il canto. Evitate quindi ciò che al canto non è destinato 304. Che cosa abbia dato occasione a queste parole non è facile dirlo: forse abusi già esistenti, forse la preoccupazione che sarebbero potuti nascere, forse l’avversione e la contestazione di alcuni. Suggerisce quest’ultima ipotesi la risposta di S. Agostino al tribuno Ilario, un laico di Cartagine, insorto energicamente contro l’uso, introdotto da poco in quella Chiesa, di cantare i salmi durante la celebrazione eucaristica, sia prima dell’offertorio sia durante la comunione 305. Ma l’ipotesi più vera sembra essere un’altra, cioè gli eccessi dei donatisti, i quali non solo cantavano salmi composti da loro, ma li cantavano con un’eccitazione frenetica, rimproverando i cattolici di essere “troppo sobri nel cantare i divini cantici dei Profeti” 306 In ogni modo le parole della Regola sono una giusta preoccupazione, valida anche oggi – ci si consenta di sottolineare queste parole – che attraverso la necessaria vigilanza della comunità – diciamo pure della Chiesa – tende ad evitare facili abusi e a fare del canto ecclesiastico un’elevazione spirituale, uno stimolo alla pietà, un’espressione lirica dei grandi sentimenti che la carità ispira. Questa in realtà l’esperienza e questa la persuasione di S. Agostino. Sentì la prima volta il canto sacro a Milano: la commozione lo prese, e pianse. “Quante lacrime versai ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici 307, che risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene” 308. Questa esperienza fu tanto profonda che non potrà più dimenticarla. A Ippona, nella sua basilica pacis, quando sente il clero e il popolo cantare i salmi, si commuove ancora. Qualche volta gli pare di sentirsi più attratto dalla melodia del canto che dalle parole dei salmi, e se ne fa uno scrupolo, e vorrebbe togliere quell’uso che egli stesso ha introdotto; ma ripensa all’esperienza milanese e riconosce l’utilità di quell’uso e lascia correre, anzi se ne rallegra. “Allora – scrive nelle Confessioni, – rimuoverei dalle mie orecchie e da quelle della stessa Chiesa tutte le melodie delle soavi cantilene con cui si accompagnano abitualmente i salmi davidici; e in quei momenti sembra più sicuro il sistema, che ricordo di aver udito spesso attribuire al vescovo alessandrino Atanasio: questi faceva recitare al lettore i salmi con una flessione della voce così lieve, da sembrare più vicina ad una declamazione che a un canto. Quando però mi tornano alla mente le lacrime che i canti di chiesa mi strapparono ai primordi della mia fede riconquistata, e la commozione che oggi ancora suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica” 309. Anzi loda questa pratica e la raccomanda, vuole cioè che in Chiesa durante la celebrazione della sacra liturgia si canti, e si canti molto. “A proposito di quest’ultima usanza – cioè del canto – tanto utile per commuovere l’animo alla devozione e infiammare il cuore d’amore divino – si notino queste parole – si riscontra una grande varietà”. Così nella risposta a Gennaro. Nella quale, poco dopo, scrive queste altre parole: ” … quando i fratelli si radunano in chiesa, qual è il tempo in cui non si devono cantare le lodi sacre, se non quando si fa lettura e l’omelia relativa, oppure quando il vescovo recita preghiere ad alta voce o viene indetta la preghiera dell’assemblea dalla viva voce del diacono? Negli altri intervalli di tempo non vedo assolutamente che cosa di meglio e di più utile, di più santo possa farsi dai cristiani riuniti nell’assemblea ecclesiale” 310. Anche durante il lavoro manuale S. Agostino vedeva bene che si cantasse. “Quanto al salmeggiare, è una cosa fattibile anche mentre si lavora con le mani. È anzi bello rallegrare così il lavoro quasi col ritmo d’una celestiale cadenza. Chi infatti non sa come tanti lavoratori, senza cioè sospendere il lavoro, col cuore e con la lingua si danno a cantare motivi uditi nelle rappresentazioni teatrali, tanto insulsi e il più delle volte anche licenziosi? Nessuno quindi può proibire al servo di Dio che, mentre lavora con le mani, mediti la legge del Signore e canti salmi a gloria del nome di Dio altissimo. Basta che abbia il tempo riservato per imparare a memoria quel che poi avrà da ripetere” 311. Il canto è l’espressione dei sentimenti più forti. Cantare è proprio di chi ama, dice S. Agostino: cantare amantis est 312. L’esule che ama la patria esprime col canto il desiderio di tornarvi; il viandante che fa ritorno a casa sostiene col canto il suo cammino. Così il cristiano. “Canta, gli dice perciò il Vescovo d’Ippona, come sogliono cantare i viandanti; canta, ma cammina. Mitiga, cantando, la fatica, ma non amare la pigrizia: canta e cammina” 313. 6. Progresso nella preghiera La Regola infine tocca un sesto argomento riguardante la preghiera: è l’argomento della sincerità e della perfezione progressiva con cui dobbiamo farla. Lo tocca in un inciso parlando della collaborazione che tutta la comunità deve dare affinché i fratelli, che si siano offesi a vicenda, si chiedano reciprocamente perdono: lo facciano, dice la Regola, grazie alle vostre preghiere che quanto più frequenti tanto più dovranno essere perfette 314. Si noti prima di tutto l’accostamento tra la frequenza e la perfezione. I religiosi hanno la possibilità e il dovere di dedicarsi alla preghiera con più frequenza e con maggiore regolarità, essendo la preghiera, come nutrimento principale della carità, il fine principale della loro vita consacrata. Occorre però evitare che da questa regolare frequenza nasca la stanchezza, la noia o l’abitudine monotona e senza vita. Deve nascere invece la perfezione. La preghiera importa l’intenzione, l’attenzione e la tensione. Il frequente esercizio deve rendere l’intenzione più pura, l’attenzione più vigile, la tensione più forte. “Nella preghiera si compie – spiega S. Agostino – la conversione del cuore verso Colui che è sempre pronto a darci i suoi doni, se noi siamo pronti a riceverli; con la conversione avviene la purificazione dell’occhio interiore… affinché la pupilla del cuore, diventata pura, possa sopportare la luce; ma possa anche abitare in essa, e vi abiti non solo senza molestia, ma con ineffabile gaudio, in cui consiste appunto la vera ed autentica vita beata” 315. Il progresso dunque nella preghiera segna il progresso nel nostro cammino interiore. Il Vescovo d’Ippona ha descritto spesso i gradi di questo cammino. La prima volta lo ha fatto nel libro scritto a Roma che ha per titolo La grandezza dell’anima. Vi distingue quattro gradi, che sono: la virtù, la tranquillità, l’ingresso nella luce, la dimora nella luce. Nel primo grado la preghiera suscita e sostiene l’impegno di purificazione, che consiste nell’esercizio delle virtù morali – particolarmente della fortezza e della temperanza, le virtù che ci rendono immobili ai terrori e alle lusinghe – nella benevolenza verso gli uomini, nell’umile sottomissione all’autorità della Scrittura e della Chiesa, nel pensiero costante della fugacità delle cose e della morte. Nel secondo è la preghiera che implora la grazia necessaria per consolidare la sanità e l’equilibrio interiore e conformare l’anima all’ideale cristiano attraverso l’esercizio continuo della fede, della speranza, della carità. Nel terzo grado è di nuovo la preghiera che con grande fiducia dirige lo sguardo verso la contemplazione della verità rivelata, cioè verso “quel premio altissimo e segretissimo per raggiungere il quale si è tanto lavorato” 316. Nel quarto infine è la stessa preghiera che, trasformata in contemplazione, lode, compiacenza, unione, diventa la gioiosa dimora dell’anima in Dio 317, dimora che suppone il raggiungimento della beatitudine della pace e la fruizione, in grado eminente, del dono della sapienza 318. Avido di queste altezze, S. Agostino, vescovo, immerso in tante preoccupazioni laceranti ed opprimenti, ha sentimenti di nostalgia e di santa invidia per i religiosi che possono attendere alla preghiera con più frequenza e con più serenità. Ecco un brano della lettera all’abate di Capraria, Eudossio: “Quando noi pensiamo alla pace che voi godete in Cristo, la gustiamo anche noi nella vostra carità, benché viviamo in mezzo a varie dure fatiche… Vi esortiamo dunque, vi preghiamo e vi scongiuriamo per la profondissima umiltà e la eccelsa misericordia di Cristo, di ricordarci nelle vostre sante preghiere, che crediamo siano da voi elevate con maggiore vigilanza e attenzione, mentre le nostre vengono strapazzate e offuscate dalla confusione e dal tumulto degli atti processuali secolari che riguardano non già noi, ma coloro i quali, se ci costringono a fare con loro un miglio, ci si comanda di andare con essi per altri due. Siamo assillati da tante questioni che a stento possiamo respirare”. Ma si consola pensando al premio che il Signore Gesù ha promesso al ministro fedele. “Siamo però pienamente convinti, conclude, che Colui, al cui cospetto arrivano i gemiti dei prigionieri 319, se saremo perseveranti nel ministero in cui si è degnato collocarci con la promessa del premio, ci libererà da ogni angustia con l’aiuto delle vostre preghiere” 320. Capitolo decimo FRUGALITÀ E MORTIFICAZIONE Accanto alla preghiera, e intimamente collegato con essa, v’è un altro mezzo che l’ideale cristiano propone come nutrimento della carità: la frugalità e la mortificazione. La Regola ne parla, ma secondo il solito, brevemente. Domate la vostra carne con digiuni ed astinenza dal cibo e dalle bevande, per quanto la salute lo permette. Ma se qualcuno non può digiunare, non prenda cibi fuori dell’ora del pasto se non quando è malato 321. Sono parole d’una discrezione singolare. Per ammirarne la portata innovatrice occorre ricordare che furono scritte quando nei monasteri d’Oriente e d’Occidente era in vigore la pratica di digiuni lunghi e rigorosi e la pratica di una astinenza severa ed estenuante. I digiuni duravano spesso tre giorni continui senza cibo o bevanda alcuna 322, e molti digiunavano per tutta la vita cinque giorni alla settimana 323, l’astinenza, poi, escludeva non solo il vino e le carni – cosa allora ordinaria – ma ogni genere di cibi cotti. Anche gli infermi, scrive S. Girolamo, usano solo l’acqua; mangiare qualcosa di cotto è ritenuto, poi, un atto di lussuria 324. Perciò non si può non ammirare la discrezione della Regola che enuncia il precetto generale e ne indica i limiti, fa un’eccezione per i deboli e un’altra ancora per gli ammalati. 1. Legge evangelica Il precetto generale, che fa parte del messaggio evangelico, è il seguente: Domate la vostra carne con i digiuni e l’astinenza. Digiuno e astinenza significano, spiega altrove S. Agostino, la mortificazione in genere 325. Ora non v’è chi non sappia che la mortificazione è una legge evangelica 326, legge che S. Paolo ha inculcato ripetutamente e insistentemente 327, come condizione di salvezza: Coloro che appartengono a Cristo hanno crocifisso la carne con le sue passioni e le sue voglie 328. È noto pure che S. Agostino prese molto sul serio questa legge. Le Confessioni lo documentano. Nella seconda parte del libro 10° troviamo un ampio, minuzioso, spietato esame di coscienza intorno ai peccati della sensibilità, della curiosità e della superbia, che ci dimostra, senza volerlo, a quale alto grado di purificazione interiore il Santo era giunto 329. La necessità della purificazione non nasce dal male del corpo o della materia, poiché nulla è male di ciò che Dio ha creato, e il corpo non è qualcosa di estraneo all’anima, ma è un componente essenziale della natura umana – S. Agostino difende energicamente questa verità contro il platonismo 330 – ma nasce dalla “guerra civile” tra la ragione e i sensi sorta nell’uomo a causa del peccato originale. La purificazione quindi non ha lo scopo di mortificare l’amore, ma quello di liberarlo dalle scorie del male, perché diventi più autentico e più vero, e perciò più forte e più generoso. “Nessuno vi dice – sono parole di S. Agostino al suo popolo – nessuno vi dice: non amate niente. Tutt’altro! Sareste pigri, morti, detestabili, miseri, se non amerete nulla. Amate, ma state attenti a ciò che amate. L’amore di Dio e l’amore del prossimo si chiama carità; l’amore del mondo, l’amore di questo secolo si chiama cupidigia. Sia frenata la cupidigia e sia stimolata la carità” 331. È noto a questo proposito l’aforisma agostiniano: “il nutrimento della carità è la diminuzione della cupidigia: la perfezione il non avere cupidigia” 332. Meta altissima questa a cui non è possibile giungere qui in terra; ma meta necessaria, a cui si deve aspirare di continuo attraverso l’opera della purificazione e dell’ascetismo cristiano. Si tratta in fondo di ristabilire l’ordine e di creare i presupposti della pace: la pace tra l’anima e Dio per mezzo della carità, la pace tra la ragione e i sensi per mezzo della purificazione 333. Inoltre la purificazione è legata strettamente, per S. Agostino, alla contemplazione. Unendo questi due concetti egli si riferisce alla settima delle beatitudini evangeliche che dice: beati i puri di cuore perché vedranno Dio. “Tutto il nostro sforzo in questa vita – così egli al popolo – consiste nel sanare l’occhio della mente con cui si vede Dio. Per questo si celebrano i sacrosanti misteri, per questo si predica la parola di Dio, per questo le esortazioni della Chiesa… L’occhio della mente infatti è simile all’occhio del corpo: come questo, se è disturbato da qualcosa di estraneo, si chiude alla luce e, benché questa gli brilli intorno, se ne allontana e ne resta assente, così l’occhio della mente, turbato e ferito dal disordine delle passioni, si allontana dal sole della giustizia e non osa contemplarlo, né può” 334. Quello della purificazione è un impegno essenziale della vita religiosa, inseparabile dalla preghiera, condizione sine qua non del progresso spirituale. Fa parte di quell’impegno totale che si richiede per raggiungere la sapienza. “Non raggiungerai il vero – ammonisce S. Agostino l’amico Romaniano – se non ti darai tutto alla filosofia” 335. Ed ecco l’ammonimento che dà allo stesso tempo, nel De ordine, ai giovani: “I giovanetti che si applicano al conseguimento della sapienza devono vivere in maniera da astenersi dalla libidine, dalle lusinghe del ventre e della gola, dall’esagerata cura e ornamento della persona, dalle frivole occupazioni nei giuochi, dal torpore dell’accidia e della pigrizia, dall’emulazione, maldicenza e invidia, dall’ambizione agli onori e ai poteri e perfino dal desiderio smoderato della fama. Siano convinti che l’amore al denaro è sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione. Non agiscano né da codardi né da temerari. Nei confronti delle colpe dei soggetti cerchino di superare l’ira o la frenino in maniera da poterla considerare superata. Non portino odio ad alcuno. Trovino rimedio ad ogni vizio” 336. Come S. Agostino stesso fin dal momento della conversione s’impegnò in quest’opera si può vedere dal primo libro dei Soliloqui che è, dopo la lunga, mirabile preghiera a Dio, tutto una considerazione sulla necessità di purificare l’anima per giungere a contemplare la bellezza di Dio. “L’anima, vi si legge, ha bisogno di tre disposizioni: che abbia occhi di cui possa ben usare, che guardi, che vegga. Occhio dell’anima è la mente immune da ogni macchia del corpo, cioè già separata e purificata dai desideri delle cose caduche 337. 2. Digiuno e astinenza In quest’opera di purificazione occupano un posto speciale, per la veneranda tradizione della Chiesa e per l’efficacia pratica, il digiuno e l’astinenza. Per questo la Regola ne parla esplicitamente. S. Agostino, seguendo il consiglio e l’esempio di S. Ambrogio, voleva che ci si attenesse all’uso della chiesa locale 338. Ma sul dovere di attenersi a quest’uso è piuttosto severo. Si ricordi il caso del sacerdote Abundanzio: il grande provvedimento a suo carico fu motivato, fra l’altro, dalla provata infrazione alla legge del digiuno 339. Vale la pena di ricordare qui una norma del monastero dei chierici, che era in vigore certamente anche in quello dei laici: nessuno poteva pranzare o cenare fuori del monastero. “Dico anche questo: se per caso nel nostro monastero o nella nostra comunità qualcuno sia malato o convalescente, ed a questi sia necessario ristorarsi prima dell’ora del pranzo, non proibisco alle pie persone – uomini o donne – di portare loro quanto sembri opportuno: ma che nessuno pranzi o ceni fuori dal monastero” 340. In quanto alla pratica del digiuno e dell’astinenza nei monasteri la Regola indica però un limite: per quanto la salute ve lo permette. La salute: limite doveroso, che preclude gli eccessi e dà una norma sapiente; norma che vale per tutti, e varia per ciascuno; varia secondo la costituzione fisica, le occupazioni, la resistenza. Una norma flessibile dunque che rispetta le condizioni dei singoli, cioè, si direbbe oggi, la personalità. Anzi, a questa norma generale, così sapientemente modulata, la Regola fa un’eccezione generale. L’eccezione è a favore di quelli che non possono digiunare. Si suppone che non lo possano o perché deboli di costituzione o perché occupati in lavori pesanti o anche perché le abitudini della vita precedente non consentono il passaggio immediato alle austerità monastiche. In questo caso però la Regola vuole che non si prenda cibo alcuno fuori dell’ora dei pasti. Ma se qualcuno non può digiunare, non prenda cibi fuori dell’ora del pasto 341. Anche questa prescrizione è molto sapiente e, vorremmo aggiungere, molto moderna. Ai cibi si dovrebbero aggiungere, nello spirito della Regola, anche le bevande. Se le condizioni odierne hanno consigliato la Chiesa e spesso consigliano anche le comunità religiose ad attenuare il rigore dei digiuni, la prescrizione della Regola non solo conserva tutto il suo valore, ma cresce di valore e di attualità. Se non si può digiunare, si stia almeno all’oratio determinato nel prendere i cibi e le bevande necessarie. Anzi questa dovrebbe essere un’abitudine costante della vita del pio religioso. Ma anche a questa prescrizione la Regola fa un’eccezione, che è la malattia: se non quando – aggiunge – è ammalato 342. Vorremmo aggiungere che S. Agostino dà al digiuno anche un significato caritativo, cioè sociale. Ciò che dirà bellamente S. Leone Magno: “diventi refezione del povero l’astinenza del digiunatore” 343, egli lo aveva detto non meno bellamente, anzi, per l’accenno esplicito al corpo mistico, più bellamente, con queste parole: “Riceva Cristo affamato ciò che prende in meno il cristiano che digiuna… La volontaria povertà del ricco diventi la necessaria ricchezza del povero” 344. 3. Frugalità religiosa Occorre dire, infine, che la prima forma di digiuno e di astinenza, e quindi di purificazione, è la frugalità. La Regola lo ricorda con quel principio che abbiamo messo in rilievo più volte: è meglio aver meno bisogni che avere più cose. In realtà l’esempio che dava S. Agostino ai suoi religiosi era eloquente. Del suo tenore di vita nell’episcopio, non diverso certamente da quello che aveva tenuto nel monastero dei laici, dice Possidio: “Usava d’una mensa frugale e parca, che ammetteva talvolta, fra erbaggi e legumi, anche la carne, per riguardo agli ospiti e ai fratelli più deboli”. Possidio aggiunge: “sempre poi aveva il vino” 345, ma i bicchieri, ci fa sapere altrove il biografo, erano stabiliti 346. L’uso della carne e del vino era, per quei tempi, un’innovazione ardita che Possidio sente il bisogno di spiegare citando S. Paolo e un passo delle Confessioni 347. Pensiamo che a questo modo di fare non fosse estranea una ragione d’opposizione ai manichei. Possidio, completa il quadro con queste altre parole: “Solo i cucchiai aveva d’argento; invece i recipienti in cui si portavano le vivande in tavola erano di terracotta o di legno o di marmo; e questo non per necessità o per indigenza, ma per deliberato proposito” 348. Terminiamo ricordando un passo del Contra Academicos, dove si dice che Agostino mangiava quanto era strettamente necessario per estinguere la fame 349 e che talvolta stava tanto poco a tavola che l’inizio del pranzo coincideva con la fine 350. Dalle Confessioni poi citeremo solo queste parole: “Tu mi hai insegnato, o Signore, ad accostarmi agli alimenti per prenderli come medicamenti” 351. Ma qualche volta dimenticava anche questa norma. Dice infatti Possidio che ascoltava con “religiosa diligenza” tutti quelli che andavano da lui “talvolta fino all’ora della refezione, talvolta prolungando anche per tutto il giorno il digiuno” 352. Capitolo undecimo LECTIO DIVINA Alla preghiera e alla mortificazione occorre aggiungere, come terzo elemento insostituibile dell’ascetismo religioso, la lectio divina. La Regola, con la sua brevità consueta, lo ricorda e lo impone. I libri si chiedano giorno per giorno alle ore stabilite 353. Vien fatto di domandarsi: questa prescrizione, che suppone nella casa religiosa l’esistenza della biblioteca ed esige un bibliotecario, si riferisce alla lettura o allo studio? Rispondiamo: a tutt’e due, ma certamente alla prima. Sappiamo che nei monasteri agostiniani pulsava un’intensa vita intellettuale: si studiava, si discuteva, si approfondivano le questioni esegetico-teologiche. Ma questo non poteva essere un lavoro di tutti. Avendo aperto i suoi monasteri a tutte le classi sociali, anche alle più umili, che vi affluivano in gran numero, S. Agostino non poteva pensare che il livello intellettuale restasse quello di Cassiciaco o di Tagaste. Lo ricorda egli stesso ai monaci di Cartagine che dallo studio o dall’istruzione prendevano il pretesto per escludere dalle loro occupazioni il lavoro manuale. “Ammettiamo infine che a qualcheduno venga affidato l’incarico di dispensare la parola di Dio e che tale incombenza lo assorba in modo da non permettergli d’attendere al lavoro manuale. Ma forse che in un monastero tutti sono all’altezza d’un tale compito? Trovandosi con dei fratelli provenienti da differenti condizioni sociali, saranno tutti in grado d’esporre loro le Sacre Scritture o di tenere loro con frutto delle conferenze su punti particolari di dottrina? E se tutti non hanno tali capacità, perché con questo pretesto volersi tutti esimere dal lavoro?” 354. Forse questo fatto ha indotto S. Agostino ad usare, senza distinguere tra lectio divina e studio, un’espressione che lascia ad alcuni la possibilità di dedicarsi all’approfondimento della scienza sacra e ricorda a tutti l’obbligo comune. L’uso di dedicare determinate ore del giorno alla lettura edificante era allora, ed è restato poi, un uso generale nelle case religiose, non solo maschili, ma anche femminili. S. Atanasio raccomanda alle vergini consacrate di meditare assiduamente la Sacra Scrittura di modo che il sole, nascendo, veda nelle loro mani il libro santo 355. S. Girolamo, non meno poeticamente, pensa alle ore vegliate alla lucerna e dice alla vergine Eustochio, sua cara discepola: “Il sonno ti sorprenda con il libro in mano: siano le pagine sante a ricevere il tuo volto cadente” 356. Pelagio, su questo punto in armonia con la tradizione, consiglia la vergine Demetriade di stabilire un certo numero di ore da dedicare alla lettura delle Scritture sacre 357. S. Agostino non poteva essere da meno. Dietro le brevi parole della Regola c’è il suo esempio, le sue frequenti raccomandazioni, le sue spiegazioni profonde e deliziose. Ai monaci di Cartagine che si opponevano al lavoro manuale, trincerandosi dietro le occupazioni della preghiera, del canto dei salmi, della lettura, dell’ascolto della parola di Dio, S. Agostino risponde esclamando: “O vita veramente santa e cristianamente lodevole e soave! Ma, continua, se mai dobbiamo lasciarci distrarre da queste occupazioni, non dobbiamo neppure mangiare, né si dovranno preparare ogni giorno i pasti” 358. Dunque ci siano nei monasteri ore stabilite per il lavoro manuale, ma non si crei nessuna opposizione tra il lavoro e le occupazioni spirituali, compresa la lectio divina. Se l’ordinato lavoro d’un monastero non basta a sopperire alle necessità di quanti si sono ivi riuniti, si dovrà ricorrere alla generosità dei fedeli. S. Agostino è esplicito. “Basta che abbia il tempo riservato per imparare a memoria quel che poi avrà da ripetere. E intanto, durante le ore che egli passa ad imparare questi salmi, e non può lavorare, non gli debbono mancare gli aiuti dei fedeli per supplire ai suoi bisogni ed evitargli che cada in miseria” 359. Ci permettiamo di richiamare su queste parole l’attenzione di chi legge. Esse vogliono dire che la preoccupazione del lavoro non deve togliere ne ridurre al minimo il tempo della lettura: se il lavoro è necessario per nutrire il corpo, la lettura è necessaria per nutrire lo spirito. Senza di essa anche la preghiera languisce. In un monastero ben ordinato mai il tempo del lavoro andrà a scapito, abitualmente, del tempo – i Santi Padri, e S. Agostino tra essi, parlano di ore – della lectio divina. Se in conseguenza di ciò venissero a mancare i mezzi di un onesto sostentamento, si dovranno, secondo il consiglio di S. Agostino, interessare i fedeli e chiedere la loro collaborazione. Inutile dire che tra i libri da leggere viene, prima di tutto, il libro per eccellenza, la Scrittura. Sappiamo già quanto S. Agostino l’abbia amata, quanto l’abbia meditata. Ai suoi figli ha insegnato a fare altrettanto. Le Scritture sono “le caste delizie” dell’anima 360, superiore, per chi ami la sapienza, ad ogni altra delizia 361; sono “i pascoli fertilissimi” che ci nutrono 362; lo “specchio” fedele che ci mostra quali siamo 363; la “medicina” che guarisce le nostre malattie 364; la manifestazione della carità 365; la rivelazione di Cristo: “Tutta la Scrittura… parla di Cristo e raccomanda l’amore” 366. Possiamo riassumere dunque il pensiero di S. Agostino con queste belle parole di S. Gregorio Magno al medico Teodoro: “Che cos’è la Sacra Scrittura se non una lettera di Dio onnipotente alla sua creatura?… il Signore degli uomini e degli Angeli ti manda per il tuo bene le sue lettere e tu, figlio benedetto, trascuri di leggerle con ardore? Studiati dunque, te ne prego, di meditare ogni giorno le parole del tuo Creatore. Impara a conoscere il cuore di Dio nelle parole di Dio, affinché aneli più ardentemente verso le cose eterne e la tua mente si accenda di maggiori desideri per i gaudi celesti” 367. Questa dottrina dei Santi Padri che vede un complemento necessario tra la preghiera e la lettura della Sacra Scrittura, in quanto che pregando parliamo a Dio, leggendo la Scrittura Dio parla a noi, è in perfetta armonia con quella esposta dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione, che “esorta con ardore ed insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo 368, con la frequente lettura delle divine Scritture”. “Infatti, continua il Concilio citando S. Girolamo, la ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo” 369. Dopo la Sacra Scrittura vengono, per ordine d’importanza, le opere dei Santi Padri. Per questo S. Agostino raccomandava che fossero conservate gelosamente nella biblioteca le loro opere. Tra esse brillano, per numero ed importanza, e per l’affetto che i figli debbono al Padre, le opere di S. Agostino “dalle quali si conosce quale sia stato il suo merito e la sua grandezza nella Chiesa, e nelle quali i fedeli sempre lo trovano vivo” 370. Se non tutti possono leggerle tutte – anzi, se questi fortunati, data la mole e la profondità degli scritti, saranno sempre pochi – nessuno, almeno di quelli che militano alla sua scuola, può omettere di leggerne alcune. Suggeriamo quelle che abbiamo indicato sopra come fonti – storiche e dottrinali – del monachismo agostiniano, specialmente le Confessioni e La santa verginità. Inoltre il Commento al Vangelo di S. Giovanni o almeno il Commento alla prima Lettera; l’Esposizione sui Salmi e i Discorsi. Leggerle con una lettura continuativa, o, se ciò non fosse possibile, antologica. Ma omettere di farlo, no: si, risolverebbe in un grave danno spirituale e comunitario. Per confermare la grande utilità, anzi il posto insostituibile che la Lectio divina deve occupare nella vita religiosa agostiniana, ricorderemo l’esempio di Santa Melania e l’autorevole parola di Paolo VI. “La beata – scrive l’anonimo autore della preziosa biografia di S. Melania -, leggeva il Vecchio e il Nuovo Testamento tre o quattro volte nel corso dell’anno; e scrivendo elegantemente quanto bastava, ne dava ai Santi gli esemplari di proprie mani. Dopo poi aver finito l’ufficio divino insieme alle vergini che erano con sé recitava a memoria in privato altri salmi. Leggeva poi con tale assiduità i trattati dei Santi Padri che nessun libro di quelli che poteva trovare le era sconosciuto. E, sia che li comprasse o li prendesse in prestito, li percorreva con tanta applicazione che non le sfuggiva nessuna espressione e nessun pensiero” 371. Con piacere riportiamo tre passi molto significativi nei quali Paolo VI rivolgendosi a Religiosi o Religiose agostiniani si esprime così: “Tutte le volte che noi sentiamo nominare S. Agostino abbiamo quasi un fremito di gioia e di grande devozione e di grande simpatia; ci sembra un’anima universale così viva, così interprete dei due mondi che dobbiamo unire: quello dell’uomo e quello di Dio, che abbiamo per lui una venerazione tutta speciale e speriamo che ancora faccia scuola nella nostra santa Chiesa Cattolica; e ci pare che la faccia anche per merito vostro, proprio della vostra Famiglia Religiosa che sappiamo in grande risveglio… Non aggiungiamo altro perché avete tutto a vostra disposizione; S. Agostino ha tutto, è un’enciclopedia di vita spirituale e cristiana; non avete che da sfogliare bene le pagine di questo vostro impareggiabile maestro e troverete le espressioni più felici, più invitanti e confortanti che si possano cercare nel dizionario del nostro linguaggio con Dio e con l’anima” 372. “…siete Agostiniani! Per noi S. Agostino è una miniera sempre viva, diremo anzi una fontana sempre zampillante: non si è mai finito di ammirare e di cavare dalle sue parole, dalle sue intuizioni, dalla ricchezza di questo spirito – veramente è stato lui a parlare del Maestro interiore meglio di qualsiasi altro – tesori che possono essere di grande importanza non solo per l’erudizione, non solo per la vita religiosa della vostra Famiglia spirituale, ma del mondo moderno! Vogliate bene a S. Agostino, voi Agostiniani! e sappiate divulgare qualche cosa della sua grande sapienza, della sua esperienza, della sua stessa vita… Noi siamo pieni di venerazione e di ammirazione, e speriamo che voi l’abbiate più di Noi stessi…” 373. “… avete per voi i testi del vostro grande Patrono e Istitutore, S. Agostino. Noi vorremmo pensare che voi avrete letto le 90 e più opere di S. Agostino. Un po’ difficile! Ma qualcheduna sì, non è vero? qualche pagina sì; e questo, diremmo, basta per darvi la fierezza di appartenere a una Famiglia che ha una radice così antica e così viva e sempre moderna, da alimentare chi si fa alunno di questo Maestro. Vorremmo che davvero le pagine di S. Agostino vi fossero care e in parte conosciute, perché sono la sorgente d’acqua viva e zampillante, profonda e quieta, per indirizzare la vostra vita sul duplice binario dell’apostolato in favore delle anime e della preminente vita di unione con Dio… Chi più di lui fu attivo nell’impegno quotidiano per l’edificazione della Chiesa; e chi meglio di lui fu attento alla voce del Maestro interiore, che parla nel fondo dell’anima in un segreto e continuo e amoroso colloquio? Quale esempio, figliole, quale scuola, quale forza per voi che ne siete le figlie spirituali! Non lasciate, pertanto, di leggere qualche cosa di S. Agostino” 374. Come può ben notare il benevolo lettore, tali parole sono così chiare che ci dispensano da ogni commento. Capitolo dodicesimo OSSERVANZA DELLA REGOLA L’ultimo capoverso della Regola non è meno ricco di quello precedente, anche se diversamente. Contiene infatti, con la solita concisione, il precetto di un esame di coscienza, frequente ed attento, circa l’osservanza della Regola stessa e una sintesi rapida, ma efficace, della dottrina sulla necessità della grazia. 1. Esame di coscienza S. Agostino vuole che la Regola sia presa sul serio, cioè come una norma stabile a cui si deve uniformare la vita. Per questo prescrive due cose: primo che sia conosciuta bene, secondo che si confronti con essa costantemente la nostra condotta. Perché poi possiate rimirarvi in questo libretto come in uno specchio onde non trascurare nulla per dimenticanza, vi sia letto una volta la settimana 375. La lettura è un mezzo; il fine è la conoscenza della Regola in modo che non sia dimenticata in nessun particolare, perché ogni particolare è importante. La conoscenza poi, a sua volta, è un mezzo che tende a un fine ulteriore che è rimirarsi nella Regola come in uno specchio. L’immagine dello specchio è quella stessa usata frequentemente da S. Agostino per la Sacra Scrittura. Questo fatto ci consente di applicare alla Regola, con le dovute proporzioni, ciò che S. Agostino stesso dice della Sacra Scrittura. “La Sacra Scrittura ti sia quale specchio – dice il Santo in un discorso al popolo -. Questo specchio ha una lucentezza non fallace, una lucentezza che non adula, che non ha preferenze per nessuno. Sei bello? Ti vedrai bello. Sei brutto? Ti vedrai brutto. Ma se ti appresserai a lui in stato di bruttezza e ti vedrai brutto, non accusare lo specchio; torna in te stesso, lo specchio non t’inganna. Non devi ingannarti neppure tu” 376. L’esame di coscienza, dunque, dev’essere umile, sincero, coraggioso. Nessuno pensi che la Regola, non abbondando in prescrizioni particolari, sia un paradigma poco utile per un severo esame di coscienza. S. Agostino vuole appunto che l’esame verta non tanto sui particolari, che sono conseguenza di certi principi, quanto sui principi stessi da cui quei particolari dipendono. Quando questi principi siano profondamente radicati nell’animo in modo da creare in esso una disposizione abituale e un’inclinazione costante e forte, si può essere certi che l’osservanza della Regola, e con ciò la spinta verso la perfezione, è assicurata. Ma occorre che l’esame sia fatto con sincerità, senza inganni. Se troviamo che la nostra condotta non è conforme alla Regola, non dobbiamo accusare la Regola, ma noi stessi. In questo modo la Regola raggiunge lo scopo per cui è stata scritta, che è quello di esserci luce, norma e guida. Tra le norme che la Regola ci offre vengono in primo luogo – è inutile ricordarlo – l’ascesa verso Dio, l’esercizio della carità fraterna, la fedeltà alla preghiera, l’amore per il bene comune della Chiesa, dell’Ordine, della comunità, la gioia e la santità della consacrazione a Dio, la povertà convinta e sentita che attende tutto dalla misericordia divina, il servizio dei fratelli, il condono delle offese, la correzione fatta con umiltà ed amore, l’aspirazione costante alla contemplazione. Basti questa rapida enunciazione. Essa dimostra che l’esame di coscienza di chi prende la Regola sul serio è lungo, impegnativo, sconvolgente. Anche sconvolgente. Non è possibile essere mediocri quando ci si confronta senza orpelli con un ideale tanto esigente e tanto alto. Nulla è più esigente e più alto della carità con cui amiamo Dio e il prossimo. Ma la carità, lo ripetiamo ancora una volta, che sarà l’ultima, è il segreto, la forza, l’anima della Regola agostiniana. 2. La grazia Il tema dell’osservanza della Regola richiama al pensiero di Agostino un altro tema, che è legato strettamente ad esso, quello della grazia. Non c’è bisogno qui di ricordare quanto il Vescovo d’Ippona abbia contribuito ad approfondire, illustrare e difendere la dottrina della grazia: fu questo uno degli impegni più grandi che ebbe dalla conversione alla morte, particolarmente negli ultimi venti anni quando dovette insorgere contro i “nemici della grazia di Dio”, i pelagiani. Per questo il titolo, che la storia gli ha riservato, di Dottore della grazia. La Regola non ha sull’argomento che poche parole, ma bastano per ricordare tre grandi principi che riassumono la dottrina sulla necessità dell’aiuto divino per compiere il bene ed evitare il male. Possiamo enunciarli, rapidamente, così: se siamo buoni è dono di Dio, se non lo siamo è colpa nostra, se vogliamo diventarlo e continuare ad esserlo dobbiamo pregare perché il Signore ci sostenga con la sua grazia. Il primo e il secondo principio sembrano alla nostra corta ragione contrari tra loro, ma non lo sono. Enunciano soltanto il mistero della grazia che s’innesta sul mistero della nostra natura, la quale, essendo creata, è limitata e defettibile. Ne segue che quanto v’è in noi di negativo, di difettoso, di peccato è nostro, cioè nasce dalla nostra condizione di creature – l’uomo, direbbe qui S. Agostino, non ha di suo se non “la menzogna e il peccato” 377 – mentre quanto vi è in noi di buono, di positivo, di perfetto è dono di Dio, cioè è anch’esso nostro, ma è nostro in quanto ci è stato donato. Per portare un esempio diremo che l’occhio può non vedere quando brilla la luce, ma non può vedere quando la luce non c’è. L’esempio è di S. Agostino. “Dio non ci aiuta a peccare – scrive il Santo – ma non possiamo compiere il bene se Dio non ci aiuta. Come l’occhio del corpo non ha bisogno della luce perché si chiuda e si allontani da essa, ma ha bisogno della luce per vedere, né può affatto vedere senza la luce; così Dio, che è la luce dell’uomo interiore, aiuta l’occhio della nostra anima affinché operiamo il bene non secondo la nostra, ma secondo la sua giustizia. Allontanarsi però da Dio è opera nostra… Dio aiuta quelli che si convertono a Lui, abbandona quelli che se ne allontanano, ma anche per convertirci a Lui, egli ci aiuta” 378. Ma torniamo alla Regola. a) Se vi troverete ad adempiere tutte le cose che vi sono scritte ringraziatene il Signore, datore di ogni bene 379 Perché ringraziare il Signore, se non perché è un dono suo l’aver osservato ciò che la legge prescrive? Ringraziare infatti altro non è che il riconoscere di aver ricevuto un favore e mostrarsene grati a chi ce lo ha fatto. È dono di Dio, dunque, osservare la legge di Dio. Abbiamo ricordato sopra la breve preghiera di S. Agostino, che costituì uno scandalo per i pelagiani: Dammi ciò che comandi e comanda ciò che vuoi 380, preghiera contenuta nelle Confessioni, ma che S. Agostino conferma e commenta più tardi nella controversia pelagiana 381. Egli ne è tanto convinto che ringrazia il Signore non solo per avergli perdonato le colpe che ha commesso, ma per avergli perdonato anche quelle che non ha commesso. Ecco le sue parole: “Attribuisco alla tua grazia e alla tua misericordia il dileguarsi come ghiaccio dei miei peccati – dice al Signore nelle Confessioni – attribuisco alla tua grazia anche tutto il male che non ho commesso. Cosa non avrei potuto fare, se amai perfino il delitto in se stesso? Eppure tutti questi peccati, e quelli che di mia spontanea volontà commisi, e quelli che sotto la tua guida evitai, mi furono rimessi, lo confesso. Quale uomo conscio della propria debolezza osa attribuire alle proprie forze il merito della castità e dell’innocenza che serba, e quindi ti ama meno, quasi che meno abbia avuto bisogno della misericordia con cui condoni i peccati a chi si rivolse a te?” 382. Questo stesso sentimento, che è umiltà insieme e sapienza, S. Agostino lo inculca agli altri, particolarmente alle vergini. Vale la pena di rileggere alcune pagine del libro su La santa verginità 383. Ne riportiamo due tratti significativi. “Ritenete come a voi perdonato in una maniera più perfetta, vi si legge, tutto il male che non avete commesso per esserne stati preservati da lui” 384. Ed ancora: “(La vergine di Dio) penserà con piena convinzione che, quando Dio impedisce a certuni di cadere in peccato, costoro han da considerare che tutti i peccati sono stati loro perdonati in maniera più radicale. Ne sono testimoni certe espressioni di supplica devota che troviamo nella Sacra Scrittura: quelle, cioè, in cui appare che gli stessi comandamenti di Dio non possono tradursi in pratica senza il dono e l’aiuto di chi li aveva impartiti” 385. Da questa dottrina S. Agostino tira una conclusione generale: Dio, coronando nel cielo i nostri meriti, corona i suoi doni: i doni della fede, della giustificazione, della perseveranza finale, senza i quali o non ci sono meriti o non hanno nessun influsso per la vita eterna 386. Quando dunque la coscienza ci assicura d’aver osservato la Regola, se non ricorre sul nostro labbro l’espressione Deo gratias, espressione che era in uso presso i primi discepoli di S. Agostino i quali, incontrandosi, si salutavano con essa 387, almeno ciò che questa espressione suggerisce ed esprime deve essere sempre nel nostro cuore. Che cosa v’è infatti di più nobile, di più bello, di più santo che il sentimento umile e sincero di gratitudine a Dio? “Che cosa di meglio potremmo recare nel cuore – scrivono Agostino e Alipio al vescovo di Cartagine Aurelio – e pronunciare con la bocca e manifestare con la penna se non “Sia ringraziato Dio”? Non potrebbe dirsi nulla di più conciso, nulla udirsi di più lieto, nulla comprendersi di più significativo, nulla compiersi di più utile di questa esclamazione. Sì ringraziamo Dio … ” 388 per il suo ineffabile dono 389. b) Quando invece, continua la Regola, qualcuno si avvedrà di essere manchevole in qualcosa, si dolga del passato 390. Riconosca cioè la sua colpa, senza cercare scuse, senza attribuirla ad altri che a se stesso. “Molti – osserva S. Agostino – confessano la propria iniquità, ma non contro se stessi, bensì contro Dio; quando si trovano in mezzo ai peccati dicono: Dio lo ha voluto”. Non proprio, con queste parole, ma certamente con un ragionamento che, volere o no, porta a questa conclusione. Si appellano infatti alle stelle, al fato – oggi si direbbe alla natura – al diavolo. “Spazza via queste scuse per i tuoi peccati” ammonisce S. Agostino. Il ragionamento giusto, il ragionamento vero è un altro, precisamente questo: “Dio mi ha creato con il libero arbitrio: se ho peccato, io ho peccato. Non soltanto dunque confesserò la mia iniquità, ma la confesserò contro di me, non contro Dio. Io ho detto: Signore abbi pietà di me, grida il malato al medico. Io ho detto. Perché io ho detto? Sarebbe sufficiente: ho detto. Dice Io per dare enfasi al discorso: io, io, non il fato, non la fortuna, non il diavolo, perché neppure esso mi ha obbligato, ma io ho acconsentito a lui che tentava di persuadermi 391. Il riconoscimento della propria colpa è l’inizio della “conversione”, l’inizio di ogni mutamento in meglio. “Tu cerchi la bellezza, cerchi una cosa buona. Ma perché cerchi la bellezza, o anima? Perché il tuo sposo ti ami. Poiché se sei brutta gli dispiaci. Egli infatti chi è? Il più bello tra i figli degli uomini… Tu vuoi piacergli… Ma non lo puoi finché sei deforme. Che cosa farai per diventare bella? Prima di tutto ti dispiaccia la tua deformità e allora da Colui, per piacere al quale vuoi diventare bella, riceverai in dono la bellezza. … Dunque, o anima, non potrai essere bella se non avrai confessato, davanti a Colui che è sempre bello, la tua bruttezza” 392. Sono queste alcune espressioni di un lungo brano d’un discorso agostiniano che nessuno vorrà privarsi della gioia di leggere. Si tratta dunque di evitare una grave perversione, quella di attribuire il bene che facciamo a noi stessi e il male che commettiamo a Dio. No. Occorre rovesciare le posizioni: il bene va attribuito a Dio, il male a noi. Questo è l’ordine. S. Agostino vi insiste 393. Forse a causa dei manichei, forse a causa dell’orgoglio umano, che si gloria volentieri del bene, ma non è in grado, perché cieco, di riconoscere il male; forse, infine, a causa della controversia pelagiana, che lo induceva a mettere in rilievo l’efficacia della grazia. In ogni modo, l’insistenza del vescovo d’Ippona su questo argomento è ammonitrice e rivela uno dei cardini più fermi della vita spirituale. Solo se ci riconosciamo colpevoli davanti a Dio possiamo incominciare a non esserlo più. Il secondo riguarda il futuro: occorre cioè premunirsi per non commettere più peccati. Ci premuniamo in due modi: implorando, con umiltà e dolore, il perdono dei peccati commessi e chiedendo a Dio la grazia di non cadere in nuove tentazioni. c) La Regola infatti continua e conclude: …si premunisca per il futuro, pregando che gli sia rimesso il debito e non sia ancora indotto in tentazione 394. Questa conclusione, che ci ricorda il posto che occupa la preghiera nella vita cristiana e ce lo ricorda con le parole del Padre nostro, è in tutto degna del Dottore della grazia e del contenuto della Regola. Il Dottore della grazia ha tanto insistito su quelle parole del Vangelo: Vigilate e pregate, affinché non cadiate in tentazione! 395. Nella prima opera contro i pelagiani ha scritto queste forti parole: “Respingiamo lontano dalle nostre orecchie e dalla nostra mente coloro che dicono che, una volta ricevuto il libero arbitrio, non dobbiamo pregare affinché Dio ci aiuti a non commettere peccati” 396. Vi ha insistito particolarmente commentando il Padre nostro, di cui le ultime tre domande contengono il piano divino per la nostra liberazione dal male, che è quello di liberarci dal peccato, di aiutarci a non commettere peccati, di toglierci finalmente, nella resurrezione, ogni possibilità di peccato. Altro infatti non vogliono dire quelle tre domande se non questo: perdonaci, Signore, le colpe che abbiamo commesso lasciandoci vincere dalla tentazione, aiutaci a non lasciarci più vincere da essa, toglici la tentazione 397. E quando ci sarà tolta, se non nel cielo? La Regola, poi, trova in queste ultime parole il suo degno coronamento. Se i religiosi si sono uniti insieme per tendere insieme verso Dio, essi non possono raggiungere lo scopo della loro vita se non pregando. La preghiera, e solo la preghiera, vive di Dio e per Iddio, perché è, essenzialmente, come già sappiamo, conversione, tensione, adorazione, amore.

Agostino Trapè

Agostino nello Studio

(Vittore Carpaccio)

SANT’AGOSTINO:
INTRODUZIONE
ALLA DOTTRINA
DELLA GRAZIA

Grazia e Libertà

Città Nuova Editrice

“LA SPIRITUALITA’ DI SAN PAOLO” – Don Enrico Ghezzi

Posted on Febbraio 25th, 2009 di Angelo | paolo-di-tarso

CICLO DI CATECHESI SULLA LETTERA AI ROMANI

I PARTE:INTRODUZIONI E PRIMI TRE CAPITOLI

“La spiritualità di Paolo”.


ghezzi enrico-teresa di lisieuDi Don Enrico Ghezzi

attuale Rettore della chiesa di Santa Maria dell’Orto a Roma. Noto biblista, è  uno dei massimi esperti  del vangelo di Giovanni.


L’anno paolino è una straordinaria occasione, offertaci dal Papa, per riscoprire l’apostolo delle genti e percorrere con lui il nostro cammino. Come noi, Paolo non ha conosciuto il Gesù della storia, ma lo ha creduto risorto, si può dire che ha dato alla storia il suo vero senso.

La fede nella resurrezione, l’amore di Dio, la giustificazione dalla fede in Cristo sono solo alcuni dei temi che ci accompagnano in questi testi relativi alla prima parte del ciclo di catechesi sulla Lettera ai romani (si concluderà alla fine del 2009).

L’anno paolino avrà effetti su ognuno di noi se, per intercessione di Paolo, avremo fatto esperienza della Grazia e del perdono del Signore e se avremo approfondito la conoscenza dell’epistolario paolino, fonte indispensabile per chi vuole vivere in profondità la propria adesione a Cristo.

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S.Maria dell’Orto, situata in via Anicia, deve il suo nome all’immagine della Vergine che vi si venera e che anticamente si trovava sul portale di un orto situato nelle vicinanze. La leggenda narra che intorno al 1488 un uomo affetto da un male incurabile avesse fatto voto ad un’immagine della Madonna con Bambino dipinta su un muro che se fosse guarito avrebbe tenuto una lampada sempre accesa dinanzi alla Madonna.

santa-maria-dellorto-roma-madonna_abside1L’uomo guarì e, oltre a mantenere la promessa fatta, fece erigere anche una piccola cappella grazie all’aiuto economico di una Confraternita di corporazioni da lui stesso fondata. La chiesa venne edificata all’inizio del XVI secolo, sotto il pontificato di Alessandro VI, proprio grazie ai fondi che la Confraternita continuò ad elargire. Inizialmente disegnata da Michelangelo, la chiesa fu costruita a più riprese, visto che vi parteciparono anche Giulio Romano, Guido Guidetti e il Vignola, che progettò anche la facciata portata a termine poi da Francesco da Volterra e da Martino Longhi il Giovane.

La facciata, a due ordini spartiti da paraste e con portale ad arco fra due colonne, è ornata da una fila di piccoli obelischi con la croce e da un orologio settecentesco. L’iscrizione, che corre lungo la trabeazione, così recita: AEDICULAM DIRUPT VIRG DEIPAR HORTENSISQUE IN HANC AEDEM MUTARUNT SOCII DEDICAR HOSPITIO AUXER AD EGENOS ALEN SUO SUMPTU ET RELIG, ossia “La cappella rovinata della Vergine madre di Dio e dell’Orto i confratelli trasformarono in questa chiesa, la dedicarono, vi aggiunsero un ospizio per nutrire i poveri a proprie spese e con devozione”.

La chiesa serviva da cappella all’ospedale (non più esistente) che le sopra menzionate Confraternite o corporazioni dei pizzicaroli, vignaroli, fruttaroli, vaccari e pollaroli (così sono ancora chiamate a Roma queste attività) avevano eretto per i propri iscritti. L’interno a tre navate con cappelle laterali custodisce un pavimento policromo settecentesco, l’altare maggiore di Giacomo Della Porta e varie opere d’arte come l’Assunzione di Maria del Calandrucci, il Battesimo di Gesù di Corrado Giacquinto e l’Annunciazione di Taddeo Zuccari. L’attiguo Oratorio della chiesa sorge sul luogo dove si trovava l’ospedale, interessante non solo per il soffitto cinquecentesco in legno ma anche per gli emblemi e stendardi delle varie Università che custodisce in un piccolo museo.

17 novembre 2008

Monica Romano

Sono molto contenta e anche emozionata di introdurre Don Enrico Ghezzi, che è stato per 17 anni il parroco di San Vigilio, la mia parrocchia territoriale. Da circa un mese è stato assegnato alla Rettoria di Santa Maria dell’Orto, una bellissima chiesa che si trova a Trastevere.

Don Francesco

La Rettoria è chiusa da 150 anni e, secondo me, è uno degli esempi più belli del barocco romano.

Don Enrico

La chiesa è bellissima e tutti i turisti che vanno a visitare Santa Cecilia entrano anche a Santa Maria dell’Orto, che è chiusa da oltre 150 anni. Si tratta di un vero gioiello: il miglior barocco. La chiesa è straordinaria anche dal punto di vista sociologico: è stata fatta da tutti i pizzicaroli, i fruttaroli, i pollaroli, i verniciai.

Facciamo, innanzitutto, una breve sintesi della vita di Paolo. I testi che useremo sono quelli degli Atti degli Apostoli. San Paolo è stato descritto soprattutto da San Luca, nel terzo Vangelo che continua con gli Atti degli Apostoli. Gli Atti descrivono la vita delle prime comunità cristiane, quindi troviamo notizie di Paolo soprattutto nella seconda parte degli Atti. Bisogna poi aggiungere i testi autobiografici, ossia alcune lettere, in particolare quella ai Galati – dove racconta della sua conversione – alcune parti di quella ai Filippesi e di quella ai Romani e infine una parte della Lettera ai Corinzi.

Paolo si chiamava Saulo di Tarso. Tarso si trovava in Asia Minore, che oggi corrisponde a parte della Grecia e della Turchia. Qui si trovano paesi di grande tradizione cristiana, poi diventati a prevalente a presenza di musulmani. Questo cambiamento è dovuto principalmente al fatto che anche in quei secoli esisteva una grandissima divisione, tanto è vero che sono nate la chiesa ortodossa e la chiesa latina. I primi secoli della storia della chiesa sono stati terrificanti: ariani, antiariani, vescovi divisi fra di loro, i grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. La grande funzione svolta dalla chiesa latina è stata quella di aver dato un senso di unità.

Dobbiamo partire dalla giovinezza di Saulo, che in seguito sarà chiamato Paolo, probabilmente perché Tarso era una città di grande influenza romana e la famiglia di Paolo – giudei della diaspora usciti dalla Palestina – lavorava anche per i romani. Paolo nacque a Tarso, in Cilicia, tra l’8 e il 10 d.C. da giudei molto osservanti, della tribù di Beniamino. Fu mandato giovanissimo a Gerusalemme, presso il maestro Gamaliele, per studiare la Torah – la Legge – e la scrittura dell’Antico Testamento.

Paolo compare per la prima volta in At 7, 58

Lo trascinarono fuori della città e presero a lapidarlo (Stefano) e i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane chiamato Saulo.

Paolo, quindi, assistette a questa violentissima uccisione. In realtà gli ebrei non avevano il potere di uccidere: dove arrivavano i romani solo Roma poteva attribuire lo ius necandi. In questo caso, quindi, si trattò di una insurrezione improvvisa contro Stefano, che le autorità non riuscirono a sedare, così come accadrà nel 42 con Giacomo.

At 8, 1-4 (anche in At 1, 21)

Saulo era tra coloro che approvarono la sua uccisione. In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli Apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria. Persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. Saulo intanto infuriava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione. Quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio.

In un passo della lettera ai Galati (Ga. 1, 11-17) Paolo spiega come fosse, un tempo, uno zelante persecutore.

Vi dichiaro dunque fratelli che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.  Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre….

Luca racconta i famosi tre viaggi di Paolo, tutti compiuti nell’area del Mediterraneo anche se  Paolo poi arriverà fino in Macedonia. Il primo di questi viaggio – Cipro e Pamphilia – avvenne nel 44-48; il secondo viaggio – Filippi, Tessalonica, Atene – nel 50-52 e il terzo – da Malta a Roma – nel periodo tra il 53 e il 58. Nel 58 fu arrestato a Gerusalemme (At 21, 27), tenuto prigioniero a Cesarea di Palestina fino al 60 e poi mandato a Roma per essere processato. Il viaggio verso Roma fu disastroso: ci fu una sosta di parecchi mesi a Malta, poi riuscì ad arrivare a Siracusa, raggiunse Napoli e infine Roma. Rimase prigioniero per due anni al Carcere Mamertino. Lì poteva predicare anche se era in catene: a Roma, infatti, esisteva già una comunità cristiana. La sua morte risale al 63-64. Secondo la tradizione, processato e liberato, riuscì a tornare in Oriente, secondo alcuni, invece, riuscì ad arrivare in Spagna. In ogni caso tornò a Roma verso il 67-68 e nel 68 fu martirizzato, nella zona in cui si trova la basilica delle Tre Fontane: si dice che dopo la decapitazione la testa avrebbe fatto tre salti da cui sarebbero sgorgate le tre fontane.

La formazione giovanile di Paolo si compì a Gerusalemme, nella scuola di Gamaliele.

Gal 1, 11

Vi dichiaro dunque, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Quelli furono gli anni più intensi: studiò i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e soprattutto la Torah, la Legge. La legge ha una grande importanza nella religione ebraica perché è Dio e gli ebrei sono il popolo della Legge. Studiando la Legge l’anima zelante del giovane Saulo si riempì della rivelazione di Dio del Primo Testamento. Paolo sentì l’interesse divino e la difesa della tradizione biblica, sentì scendere dentro di sé la parola di Dio: Dio è presente nella misura in cui si accetta e si vive la Legge.

Anche nello zelo esagerato della sua giovane anima, nutrita da un grande intelletto, Paolo attinge alla parola di Dio, quindi anche all’inizio della sua fede c’è l’azione di Dio: approfondisce la parola di Dio e la sente dentro di sé, cuore del suo cuore, anima della sua anima.

Qui occorre fare una prima riflessione: anche la nostra storia di fede non può esistere senza una forte esperienza della Parola. Noi cristiani siamo fragili e deboli proprio perché non abbiamo quasi mai fatto un’esperienza della Parola. La Bibbia è una forza dinamica e potente che rende possibile in noi l’azione di Dio, rivela il disegno. Paolo ha capito proprio questo, quello che fondamentalmente manca alla nostra tradizione. Noi, infatti, siamo più attaccati alla tradizione dei sacramenti e conosciamo poco la Parola, che invece è l’anima.

L’abbandono dello zelo persecutorio verso i cristiani avvenne attraverso l’intervento di Dio, di quella che comunemente chiamiamo “conversione di San Paolo”. Potremmo dire, in realtà, che si trattò di una seconda chiamata di Paolo. Gesù cambiò la sua vita.

At 22, 6-11

Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco. Verso mezzogiorno all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me. Caddi a terra e sentii una voce che mi diceva “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Risposi “Chi sei o Signore?” Mi disse “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti”. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora “Che devo fare Signore?” E il Signore mi disse “Alzati e prosegui verso Damasco e là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia.” E poiché non ci vedevo più a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco.

At 9, 17-21

Allora Anania andò, entrò nella casa (il sacerdote Anania era stato preavvisato che questo grande persecutore avrebbe probabilmente cambiato la sua vita) gli impose le mani e disse “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Fu subito battezzato.

Dunque, una luce lo folgorò e lo rese cieco, poi ricevette il dono dello Spirito Santo e il battesimo. Così si diventava cristiani nelle prime comunità: si ascoltava a lungo la Parola, si veniva illuminati dallo Spirito, si riceveva il battesimo e si entrava a far parte della comunità.

Dopo il battesimo in Paolo nacque una nuova vocazione: proclamare che Gesù è Figlio di Dio, dimostrando che Gesù è il Cristo (versetti 19 e 22).

Gal 1, 11-12

Vi dichiaro dunque fratelli che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Paolo fu dunque chiamato ad annunciare il Vangelo per privilegio, per rivelazione di Gesù Cristo. Da quel momento in avanti la sua missione sarà quella di annunciare Gesù Cristo.  Utilizzando le espressioni presenti in Isaia 49, 11 e in Geremia 1, 5 – fin dal seno materno Dio mi ha chiamato – in Gal 1, 15-17 Paolo dice

Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.

La parola apostolo poteva essere usata solo da quelli che avevano conosciuto Gesù, che avevano visto la sua morte e avevano potuto constatare la sua risurrezione. Anche Paolo, tuttavia, si definisce un apostolo, perché aveva incontrato Cristo, che lo aveva reso apostolo, non dei giudei, ma dei pagani. Per Paolo non era più la Legge ha salvare, ma la fede in Gesù Cristo.

Gal 2, 15-16

Noi che per nascita siamo giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo.

Era vissuto per la Legge e poi ad un certo momento capisce che la Legge non salva e che solo la fede in Gesù Cristo può salvarci. Questo ci porta ad un’altra riflessione: alla radice della nostra fede c’è una chiamata. Questo è proprio il grande problema dei cristiani di oggi: nessuno di noi si è convertito, ci siamo trovati ad esserlo per devozione e per tradizione. Non ci siamo mai sentiti chiamati: ci siamo trovati cristiani senza saperlo.

La conversione di Paolo dall’Antico Testamento a Cristo è avvenuta perché Paolo si è sentito scelto perché amato.

Gal 1, 15

Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me…

La scelta dei verbi in questo passo è interessante: mi scelse, mi chiamò, si compiacque. E la cosa più bella: fin dal seno materno. Paolo dice che si è sentito amato gratuitamente e questo è fondamentale: spesso non trasmettiamo una fede in cui diciamo Dio ti ama, ma una fede che è piena di leggi, di regole. Anche San Giovanni dice Gesù avendo amato i suoi li amò sino alla fine. E’ proprio per la scoperta dell’amore di Dio in Cristo che Paolo decise di dedicare tutta la sua vita ai i pagani: l’amore è per tutti.

Rm 1, 1

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il Vangelo di Dio che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore, a quanti sono in Roma diletti da Dio…

Rm 5, 5

La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Rm 8, 37

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Alla radice della sua predicazione, quindi, sta proprio l’amore di Dio, riversato nei nostri cuori e la consapevolezza che non esiste sofferenza che ci potrà separare dall’amore di Cristo.

La vera esperienza di Dio sulla terra, che ha portato Gesù e ha riempito il cuore di Giovanni, degli apostoli e di Paolo, è un’esperienza di amore. Perché Dio è amore. Se c’è una definizione di Dio che noi cristiani dobbiamo portare nei nostri cuori è proprio che Dio è amore.

Vorrei ora descrivere la personalità di Paolo. Paolo è un cuore ardente, brucia di amore per Cristo e per i suoi fedeli, pagani, non circoncisi. All’epoca si riteneva che per diventare cristiani fosse necessario prima diventare ebreo e, quindi, sottoporsi alla circoncisione. Paolo, invece, disse che chi si converte a Cristo non ha più bisogno di circoncidersi, perché è in Cristo. La Legge era necessaria quando il Figlio di Dio non era ancora rivelato, ma una volta che Gesù è venuto e si è rivelato, la salvezza è in Cristo, non nella Legge.

Per questa ragione fu costretto a scappare: quando diceva che Gesù Cristo è il Figlio di Dio che ci ha amato, i giudei e i giudei-cristiani impazzivano perché non ritenevano possibile che un uomo potesse essere Figlio di Dio.

Nella Bibbia di Gerusalemme Paolo viene descritto come un appassionato, un’anima di fuoco. Per lui Dio è tutto e lo serve predicando il Cristo, avendo compreso che solo da Lui viene la salvezza.

I Cor 4, 11

Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.

L’amore che Cristo ha infuso in Paolo doveva essere annunciato, perché questo è il disegno di Dio in Gesù Cristo: salvare non solo gli ebrei, ma l’umanità intera. E questo è il messaggio che vale anche oggi. L’anno paolino è stato indetto proprio per richiamare questi grandi valori.

II Cor 4, 5

Noi infatti non predichiamo noi stessi ma Cristo Gesù Signore. Quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse “rifulga la luce dalle tenebre rifulse nei nostri cuori”.

E’ molto bella la difesa che Paolo fa contro quei cristiani che volevano demolire la sua opera, che lo accusavano perché parlava ai pagani non ebrei, perché annunciava a tutti che la novità è Cristo e che in Cristo è salvato il mondo.

II Cor 11, 11-32

Questo forse perché non vi amo?

Paolo veniva considerato meno apostolo degli altri, perché non era vissuto con Gesù, non lo aveva conosciuto. Per questo veniva screditato e accusato di fare una sua predicazione e non quella di Gesù Cristo.

Lo sa Dio, lo faccio invece e lo farò ancora per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano. Questi tali sono falsi apostoli.

Questi falsi apostoli demolivano tutta la sua opera: lui passava, creava comunità cristiane e quando si allontanava distruggevano la sua opera, affermando la necessità di ricevere la circoncisione e di essere sotto la legge.

Operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia perché anche satana si maschera da angelo di luce.

Non è però gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia, ma la loro fine sarà secondo le loro opere.  Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri come un pazzo, o sennò ritenetemi pure come un pazzo perché possa anch’io vantarmi un poco.  Quello che dico però non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto nella fiducia che ho di potermi vantare, dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano mi adatterò anch’io.  Infatti voi che pur siete saggi sopportate facilmente gli stolti, in realtà sopportate chi vi riduce in servitù.

Paolo li prendeva anche in giro e diceva: vi credete tanto sapienti ma credete ai nuovi maestri che sembrano saggi e in realtà non lo sono.

Chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia, lo dico con vergogna, come siamo stati deboli, però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono ebrei? Anch’io. Sono israeliti? Anch’io. Sono stirpe di Abramo? Anch’io.

Paolo vantava la sua identità ebraica e si domandava come degli ebrei potessero distruggerlo.

Sono ministri di Cristo? Sto per dire un pazzia: io lo sono più di loro, molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio.

Ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde, viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericolo dalla città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da falsi fratelli, fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità e oltre a tutto questo il mio assillo quotidiano la preoccupazione per tutte le Chiese.

Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non ne trema? Se è necessario vantarsi mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza, Dio è padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli sa che non mentisco. A Damasco il Governatore del re Areta montava la guardia alla città.

Il riferimento al governatore Areta è molto importante, perché Caligola lo aveva riconfermato nel 39, mentre l’Imperatore Claudio lo aveva allontanato a seguito di disordini capitati a Damasco. La data del 39 è fondamentale per tutta la vita di Paolo: è l’unica data sicura che abbiamo, per dare una dimensione anche storica ai suoi viaggi.

L’ardore  di Paolo viene espresso sempre con parole di estrema tenerezza.

Fil 1, 7-8

E’ giusto del resto che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo.

Gal 4, 19

Figlioli miei che io di nuovo partorisco nel dolore finchè non sia formato Cristo in voi.

Ai cristiani di Corinto che ascoltano altri missionari Paolo addirittura dice (II Cor 11, 2) che soffre per loro quasi una gelosia divina. Nell’ultima lettera rimanda a Filemone lo schiavo Onesimo, con parole dolcissime.

Filemone 8, 11

Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual’io sono, Paolo, vecchio e ora anche prigioniero per Cristo Gesù. Ti prego dunque per il mio figlio che ho generato in catene, Onesimo.

Mentre era in catene Onesimo viene convertito da Paolo.

Quello che un giorno ti fu inutile ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.

Straordinarie queste espressioni, questa tenerezza di Paolo. Anche nella parte finale della lettera ai Romani mostra una tenerezza infinita verso tutti quelli che lo avevano aiutato.

Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre: ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno, anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso. Salutate Prisca e Aquila

Prisca e Aquila furono i fondatori delle prime comunità cristiane e aiutarono moltissimo Paolo.

miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.  Salutate il mio caro Epeneto primizia dell’Asia per Cristo. Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, mio diletto nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi. Salutate Apelle che ha dato buona prova in Cristo. Salutate i familiari di Aristobulo.Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che sono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa che hanno lavorato per il Signore.  Salutate la carissima Perside che ha lavorato per il Signore. Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua che è anche mia. Salutate Asincrito, Flegonte, Erme, Patrona, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro. Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo.

Esiste un vocabolario dove vengono ricordati i termini più appassionanti per Paolo: cardia (cuore) è usato 52 volte (su un totale, nel Nuovo Testamento di 152); splancna (viscere) 8 volte (su un totale di 11); amare 33 volte (su 133); agape (amore) 75 volte (su 141) gioire 29 volte (su 74); gioia 21 volte (su 59); ringraziare 24 volte (su 38); epifotein (desiderare) 7 volte (su 9); mitezza 8 volte (su 11).

Paolo ha fondato tutta la sua vita su Cristo e la sua risurrezione.

I Cor 15, 1

Vi rendo noto fratelli il Vangelo che vi ho annunziato – quindi quello dei sinottici, degli apostoli, l’euanghelion (il buon annuncio) – e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato altrimenti avreste creduto invano. Vi ho trasmesso dunque anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo perì secondo i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai 12. In seguito apparve a più di 500 fratelli in una sola volta, la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli, ultimi fra tutti apparve anche a me come a un aborto.  Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana, anzi  ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto sia io che loro così predichiamo e così avete creduto.

(versetto 42) Così anche la risurrezione dei morti, si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina a corpo animale risorge un corpo spirituale.

Paolo, in sostanza, dice ciò che sta alla base di tutto il suo lavoro è che Cristo è risorto. Tutti si chiedono se risorgeremo così come siamo o si verificherà una nuova creazione. Il teologo Ratzinger nell’Introduzione al Cristianesimo dice che non dobbiamo chiederci con quali cellule risorgeremo o se saremo una nuova creazione, perché abbiamo la certezza che siccome Cristo è risorto anche noi risorgeremo. E la nostra speranza è che non solo risorgeremo ma parteciperemo della stessa gloria. Questo Paolo lo dice continuamente (così come Giovanni): non solo risorgeremo in Cristo ma avremo la stessa gloria.

Rm 8, 28-30

Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. Quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati, quelli che ha chiamati li ha anche giustificati, quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

Rm 8, 19-26

La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio.  Essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola ma anche noi che possediamo le primizie dello spirito gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli.

Tutto il mondo avrà una nuova creazione, perché Cristo ha in sé la nuova creazione e noi parteciperemo della sua nuova gloria.

La redenzione del nostro corpo poichè nella speranza noi siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza, infatti ciò che uno vede come potrebbe ancora sperarlo?

Rm 6, 1-11

Che diremo dunque: continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? E’ assurdo.  Noi che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato? O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte?

Quindi morire con Cristo per risorgere con Cristo.

Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.  Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato.  Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato ma se siamo morti con Cristo crediamo che anche vivremo con lui sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più.  La morte non ha più potere su di lui.

La sintesi di tutta la grandezza di Paolo è in Fil 1, 21

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero che cosa debba scegliere.

Paolo è disposto a morire, ma se ancora deve vivere, è disposto a farlo

Sono messo alle strette infatti fra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo,  il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio sono convinto che resterò e continuerò ad essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede, perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo con la mia nuova venuta tra voi.

Questo è proprio il cammino di questo uomo, appassionato della Parola di Dio nella sua prima giovinezza, illuminato dalla riscoperta di Gesù Cristo morto e risorto, che nella sua vita ha un unico scopo: far conoscere al mondo che Dio è bellezza e che Dio è amore.

Don Francesco

Sono contento che siamo arrivati al punto centrale: la vita e la morte. Tutti noi abbiamo provato grandi distacchi e tutti noi siamo in attesa della risurrezione e penso che senza questi testi non possiamo farcela. La sua esperienza di fede a che punto è arrivata sul suo rapporto con la morte?

Don Enrico

Io cerco di pensare che arrivato alla mia età (settant’anni) quello che dovevo fare l’ho fatto. Quando penso all’incontro che farò penso sempre alla I lettera di Giovanni: perché vedremo Dio così come egli è, finalmente vedremo il volto di Dio. Giovanni dice che noi siamo già figli di Dio, ma non lo sappiamo quello che saremo, perché vedremo Dio così come egli è. Giovanni dice Dio nessuno l’ha visto. Il mio desiderio è di arrivare a vedere Dio così come egli è. Certo occorre la dolcezza, la profondità, la passione che aveva Paolo, che aveva Giovanni, che avevano tanti uomini e tante donne che hanno avuto una fede semplice ma profonda.

Monica Romano

Paolo si è trovato in contrasto con i Giudei e anche con i giudei-cristiani. Lei vede anche nella chiesa di oggi una simile situazione?

Don Enrico

Vedo una certa diminuzione della passione per Gesù Cristo. I vari gruppi che si sono formati in questi ultimi periodi secondo me corrono il rischio di rappresentare più il loro fondatore che Gesù Cristo. Esiste un forte personalismo e noto che ci sono delle affermazioni nello stesso tempo molto dogmatiche e molto moralistiche che non tengono invece conto di questa passione per Gesù Cristo.

Quando si perde questo incontro profondo con Gesù si creano degli equivoci. Anche nella Chiesa abbiamo elementi profondamente disgreganti: ognuno la pensa come vuole e la cosa che più mi amareggia è vedere oggi, anche nei ragazzi, l’assoluta ignoranza di Cristo. Gesù non è conosciuto. Secondo me oggi la Chiesa dovrebbe spogliarsi di tanti fronzoli ed arrivare a Gesù, come ha fatto Paolo.

Intervento

La perdita di Cristo ci ha fatto perdere anche l’amore per il prossimo: non c’è più amore in questa umanità.

Don Enrico

Certo, c’è una grande difficoltà ad amare se non c’è una motivazione alta per amare, che è poi quella che c’è nell’Antico Testamento – amerai il prossimo tuo come te stesso – e in Paolo: per me vivere è Cristo. Noi non dobbiamo avere una società individualizzata, così chiusa, così egoistica, ma è vero che nei tempi difficili che stiamo vivendo oggi riscoprire l’amore di Dio e del prossimo è più difficile.

Intervento

E’ un messaggio sconvolgente nella sua semplicità: l’amore di Dio è gratuito, Dio non esclude nessuno. E’ semmai l’uomo che si autoesclude dall’amore di Dio.

Don Enrico

C’è un filosofo, credo di origine ebraica, che parlando dell’Antico Testamento e dell’immagine di Dio, dice che la civiltà moderna ha sostituito Dio con la tecnica. Questo è il nostro grande problema, perché la tecnica non ci salva. La difficoltà che oggi incontra il cristianesimo è proprio la perdita del senso di Dio. Questo accade perché l’uomo moderno non sente più il bisogno di essere salvato. Abbiamo perso il senso della rivelazione, che è il senso dell’amore, della comunione, di questa auto rivelazione che Dio fa dall’Antico Testamento in Gesù Cristo, di questa auto rivelazione che ci viene incontro e che ci salva.

“La spiritualità di Paolo”.

di don Enrico Ghezzi, attuale Rettore della chiesa di Santa Maria dell’Orto a Roma. Noto biblista, è  uno dei massimi esperti  del vangelo di Giovanni.

L’anno paolino è una straordinaria occasione, offertaci dal Papa, per riscoprire l’apostolo delle genti e percorrere con lui il nostro cammino. Come noi, Paolo non ha conosciuto il Gesù della storia, ma lo ha creduto risorto, si può dire che ha dato alla storia il suo vero senso.

La fede nella resurrezione, l’amore di Dio, la giustificazione dalla fede in Cristo sono solo alcuni dei temi che ci accompagnano in questi testi relativi alla prima parte del ciclo di catechesi sulla Lettera ai romani (si concluderà alla fine del 2009).

L’anno paolino avrà effetti su ognuno di noi se, per intercessione di Paolo, avremo fatto esperienza della Grazia e del perdono del Signore e se avremo approfondito la conoscenza dell’epistolario paolino, fonte indispensabile per chi vuole vivere in profondità la propria adesione a Cristo.

17 novembre 2008

Monica Romano

Sono molto contenta e anche emozionata di introdurre Don Enrico Ghezzi, che è stato per 17 anni il parroco di San Vigilio, la mia parrocchia territoriale. Da circa un mese è stato assegnato alla Rettoria di Santa Maria dell’Orto, una bellissima chiesa che si trova a Trastevere.

Don Francesco

La Rettoria è chiusa da 150 anni e, secondo me, è uno degli esempi più belli del barocco romano.

Don Enrico

La chiesa è bellissima e tutti i turisti che vanno a visitare Santa Cecilia entrano anche a Santa Maria dell’Orto, che è chiusa da oltre 150 anni. Si tratta di un vero gioiello: il miglior barocco. La chiesa è straordinaria anche dal punto di vista sociologico: è stata fatta da tutti i pizzicaroli, i fruttaroli, i pollaroli, i verniciai.

Facciamo, innanzitutto, una breve sintesi della vita di Paolo. I testi che useremo sono quelli degli Atti degli Apostoli. San Paolo è stato descritto soprattutto da San Luca, nel terzo Vangelo che continua con gli Atti degli Apostoli. Gli Atti descrivono la vita delle prime comunità cristiane, quindi troviamo notizie di Paolo soprattutto nella seconda parte degli Atti. Bisogna poi aggiungere i testi autobiografici, ossia alcune lettere, in particolare quella ai Galati – dove racconta della sua conversione – alcune parti di quella ai Filippesi e di quella ai Romani e infine una parte della Lettera ai Corinzi.

Paolo si chiamava Saulo di Tarso. Tarso si trovava in Asia Minore, che oggi corrisponde a parte della Grecia e della Turchia. Qui si trovano paesi di grande tradizione cristiana, poi diventati a prevalente a presenza di musulmani. Questo cambiamento è dovuto principalmente al fatto che anche in quei secoli esisteva una grandissima divisione, tanto è vero che sono nate la chiesa ortodossa e la chiesa latina. I primi secoli della storia della chiesa sono stati terrificanti: ariani, antiariani, vescovi divisi fra di loro, i grandi Concili di Nicea e Costantinopoli. La grande funzione svolta dalla chiesa latina è stata quella di aver dato un senso di unità.

Dobbiamo partire dalla giovinezza di Saulo, che in seguito sarà chiamato Paolo, probabilmente perché Tarso era una città di grande influenza romana e la famiglia di Paolo – giudei della diaspora usciti dalla Palestina – lavorava anche per i romani. Paolo nacque a Tarso, in Cilicia, tra l’8 e il 10 d.C. da giudei molto osservanti, della tribù di Beniamino. Fu mandato giovanissimo a Gerusalemme, presso il maestro Gamaliele, per studiare la Torah – la Legge – e la scrittura dell’Antico Testamento.

Paolo compare per la prima volta in At 7, 58

Lo trascinarono fuori della città e presero a lapidarlo (Stefano) e i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane chiamato Saulo.

Paolo, quindi, assistette a questa violentissima uccisione. In realtà gli ebrei non avevano il potere di uccidere: dove arrivavano i romani solo Roma poteva attribuire lo ius necandi. In questo caso, quindi, si trattò di una insurrezione improvvisa contro Stefano, che le autorità non riuscirono a sedare, così come accadrà nel 42 con Giacomo.

At 8, 1-4 (anche in At 1, 21)

Saulo era tra coloro che approvarono la sua uccisione. In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli Apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria. Persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. Saulo intanto infuriava contro la chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione. Quelli però che erano stati dispersi andavano per il paese e diffondevano la parola di Dio.

In un passo della lettera ai Galati (Ga. 1, 11-17) Paolo spiega come fosse, un tempo, uno zelante persecutore.

Vi dichiaro dunque fratelli che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la chiesa di Dio e la devastassi superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri.  Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre….

Luca racconta i famosi tre viaggi di Paolo, tutti compiuti nell’area del Mediterraneo anche se  Paolo poi arriverà fino in Macedonia. Il primo di questi viaggio – Cipro e Pamphilia – avvenne nel 44-48; il secondo viaggio – Filippi, Tessalonica, Atene – nel 50-52 e il terzo – da Malta a Roma – nel periodo tra il 53 e il 58. Nel 58 fu arrestato a Gerusalemme (At 21, 27), tenuto prigioniero a Cesarea di Palestina fino al 60 e poi mandato a Roma per essere processato. Il viaggio verso Roma fu disastroso: ci fu una sosta di parecchi mesi a Malta, poi riuscì ad arrivare a Siracusa, raggiunse Napoli e infine Roma. Rimase prigioniero per due anni al Carcere Mamertino. Lì poteva predicare anche se era in catene: a Roma, infatti, esisteva già una comunità cristiana. La sua morte risale al 63-64. Secondo la tradizione, processato e liberato, riuscì a tornare in Oriente, secondo alcuni, invece, riuscì ad arrivare in Spagna. In ogni caso tornò a Roma verso il 67-68 e nel 68 fu martirizzato, nella zona in cui si trova la basilica delle Tre Fontane: si dice che dopo la decapitazione la testa avrebbe fatto tre salti da cui sarebbero sgorgate le tre fontane.

La formazione giovanile di Paolo si compì a Gerusalemme, nella scuola di Gamaliele.

Gal 1, 11

Vi dichiaro dunque, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Quelli furono gli anni più intensi: studiò i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e soprattutto la Torah, la Legge. La legge ha una grande importanza nella religione ebraica perché è Dio e gli ebrei sono il popolo della Legge. Studiando la Legge l’anima zelante del giovane Saulo si riempì della rivelazione di Dio del Primo Testamento. Paolo sentì l’interesse divino e la difesa della tradizione biblica, sentì scendere dentro di sé la parola di Dio: Dio è presente nella misura in cui si accetta e si vive la Legge.

Anche nello zelo esagerato della sua giovane anima, nutrita da un grande intelletto, Paolo attinge alla parola di Dio, quindi anche all’inizio della sua fede c’è l’azione di Dio: approfondisce la parola di Dio e la sente dentro di sé, cuore del suo cuore, anima della sua anima.

Qui occorre fare una prima riflessione: anche la nostra storia di fede non può esistere senza una forte esperienza della Parola. Noi cristiani siamo fragili e deboli proprio perché non abbiamo quasi mai fatto un’esperienza della Parola. La Bibbia è una forza dinamica e potente che rende possibile in noi l’azione di Dio, rivela il disegno. Paolo ha capito proprio questo, quello che fondamentalmente manca alla nostra tradizione. Noi, infatti, siamo più attaccati alla tradizione dei sacramenti e conosciamo poco la Parola, che invece è l’anima.

L’abbandono dello zelo persecutorio verso i cristiani avvenne attraverso l’intervento di Dio, di quella che comunemente chiamiamo “conversione di San Paolo”. Potremmo dire, in realtà, che si trattò di una seconda chiamata di Paolo. Gesù cambiò la sua vita.

At 22, 6-11

Mentre ero in viaggio e mi avvicinavo a Damasco. Verso mezzogiorno all’improvviso una gran luce dal cielo rifulse attorno a me. Caddi a terra e sentii una voce che mi diceva “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” Risposi “Chi sei o Signore?” Mi disse “Io sono Gesù il Nazareno che tu perseguiti”. Quelli che erano con me videro la luce, ma non udirono colui che mi parlava. Io dissi allora “Che devo fare Signore?” E il Signore mi disse “Alzati e prosegui verso Damasco e là sarai informato di tutto ciò che è stabilito che tu faccia.” E poiché non ci vedevo più a causa del fulgore di quella luce, guidato per mano dai miei compagni giunsi a Damasco.

At 9, 17-21

Allora Anania andò, entrò nella casa (il sacerdote Anania era stato preavvisato che questo grande persecutore avrebbe probabilmente cambiato la sua vita) gli impose le mani e disse “Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo. E improvvisamente gli caddero dagli occhi come delle squame e recuperò la vista. Fu subito battezzato.

Dunque, una luce lo folgorò e lo rese cieco, poi ricevette il dono dello Spirito Santo e il battesimo. Così si diventava cristiani nelle prime comunità: si ascoltava a lungo la Parola, si veniva illuminati dallo Spirito, si riceveva il battesimo e si entrava a far parte della comunità.

Dopo il battesimo in Paolo nacque una nuova vocazione: proclamare che Gesù è Figlio di Dio, dimostrando che Gesù è il Cristo (versetti 19 e 22).

Gal 1, 11-12

Vi dichiaro dunque fratelli che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini ma per rivelazione di Gesù Cristo.

Paolo fu dunque chiamato ad annunciare il Vangelo per privilegio, per rivelazione di Gesù Cristo. Da quel momento in avanti la sua missione sarà quella di annunciare Gesù Cristo.  Utilizzando le espressioni presenti in Isaia 49, 11 e in Geremia 1, 5 – fin dal seno materno Dio mi ha chiamato – in Gal 1, 15-17 Paolo dice

Ma quando Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.

La parola apostolo poteva essere usata solo da quelli che avevano conosciuto Gesù, che avevano visto la sua morte e avevano potuto constatare la sua risurrezione. Anche Paolo, tuttavia, si definisce un apostolo, perché aveva incontrato Cristo, che lo aveva reso apostolo, non dei giudei, ma dei pagani. Per Paolo non era più la Legge ha salvare, ma la fede in Gesù Cristo.

Gal 2, 15-16

Noi che per nascita siamo giudei e non pagani peccatori, sapendo tuttavia che l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo.

Era vissuto per la Legge e poi ad un certo momento capisce che la Legge non salva e che solo la fede in Gesù Cristo può salvarci. Questo ci porta ad un’altra riflessione: alla radice della nostra fede c’è una chiamata. Questo è proprio il grande problema dei cristiani di oggi: nessuno di noi si è convertito, ci siamo trovati ad esserlo per devozione e per tradizione. Non ci siamo mai sentiti chiamati: ci siamo trovati cristiani senza saperlo.

La conversione di Paolo dall’Antico Testamento a Cristo è avvenuta perché Paolo si è sentito scelto perché amato.

Gal 1, 15

Colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me…

La scelta dei verbi in questo passo è interessante: mi scelse, mi chiamò, si compiacque. E la cosa più bella: fin dal seno materno. Paolo dice che si è sentito amato gratuitamente e questo è fondamentale: spesso non trasmettiamo una fede in cui diciamo Dio ti ama, ma una fede che è piena di leggi, di regole. Anche San Giovanni dice Gesù avendo amato i suoi li amò sino alla fine. E’ proprio per la scoperta dell’amore di Dio in Cristo che Paolo decise di dedicare tutta la sua vita ai i pagani: l’amore è per tutti.

Rm 1, 1

Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il Vangelo di Dio che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo nostro Signore, a quanti sono in Roma diletti da Dio…

Rm 5, 5

La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.

Rm 8, 37

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.

Alla radice della sua predicazione, quindi, sta proprio l’amore di Dio, riversato nei nostri cuori e la consapevolezza che non esiste sofferenza che ci potrà separare dall’amore di Cristo.

La vera esperienza di Dio sulla terra, che ha portato Gesù e ha riempito il cuore di Giovanni, degli apostoli e di Paolo, è un’esperienza di amore. Perché Dio è amore. Se c’è una definizione di Dio che noi cristiani dobbiamo portare nei nostri cuori è proprio che Dio è amore.

Vorrei ora descrivere la personalità di Paolo. Paolo è un cuore ardente, brucia di amore per Cristo e per i suoi fedeli, pagani, non circoncisi. All’epoca si riteneva che per diventare cristiani fosse necessario prima diventare ebreo e, quindi, sottoporsi alla circoncisione. Paolo, invece, disse che chi si converte a Cristo non ha più bisogno di circoncidersi, perché è in Cristo. La Legge era necessaria quando il Figlio di Dio non era ancora rivelato, ma una volta che Gesù è venuto e si è rivelato, la salvezza è in Cristo, non nella Legge.

Per questa ragione fu costretto a scappare: quando diceva che Gesù Cristo è il Figlio di Dio che ci ha amato, i giudei e i giudei-cristiani impazzivano perché non ritenevano possibile che un uomo potesse essere Figlio di Dio.

Nella Bibbia di Gerusalemme Paolo viene descritto come un appassionato, un’anima di fuoco. Per lui Dio è tutto e lo serve predicando il Cristo, avendo compreso che solo da Lui viene la salvezza.

I Cor 4, 11

Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi.

L’amore che Cristo ha infuso in Paolo doveva essere annunciato, perché questo è il disegno di Dio in Gesù Cristo: salvare non solo gli ebrei, ma l’umanità intera. E questo è il messaggio che vale anche oggi. L’anno paolino è stato indetto proprio per richiamare questi grandi valori.

II Cor 4, 5

Noi infatti non predichiamo noi stessi ma Cristo Gesù Signore. Quanto a noi siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse “rifulga la luce dalle tenebre rifulse nei nostri cuori”.

E’ molto bella la difesa che Paolo fa contro quei cristiani che volevano demolire la sua opera, che lo accusavano perché parlava ai pagani non ebrei, perché annunciava a tutti che la novità è Cristo e che in Cristo è salvato il mondo.

II Cor 11, 11-32

Questo forse perché non vi amo?

Paolo veniva considerato meno apostolo degli altri, perché non era vissuto con Gesù, non lo aveva conosciuto. Per questo veniva screditato e accusato di fare una sua predicazione e non quella di Gesù Cristo.

Lo sa Dio, lo faccio invece e lo farò ancora per troncare ogni pretesto a quelli che cercano un pretesto per apparire come noi in quello di cui si vantano. Questi tali sono falsi apostoli.

Questi falsi apostoli demolivano tutta la sua opera: lui passava, creava comunità cristiane e quando si allontanava distruggevano la sua opera, affermando la necessità di ricevere la circoncisione e di essere sotto la legge.

Operai fraudolenti che si mascherano da apostoli di Cristo. Ciò non fa meraviglia perché anche satana si maschera da angelo di luce.

Non è però gran cosa se anche i suoi ministri si mascherano da ministri di giustizia, ma la loro fine sarà secondo le loro opere.  Lo dico di nuovo: nessuno mi consideri come un pazzo, o sennò ritenetemi pure come un pazzo perché possa anch’io vantarmi un poco.  Quello che dico però non lo dico secondo il Signore, ma come da stolto nella fiducia che ho di potermi vantare, dal momento che molti si vantano da un punto di vista umano mi adatterò anch’io.  Infatti voi che pur siete saggi sopportate facilmente gli stolti, in realtà sopportate chi vi riduce in servitù.

Paolo li prendeva anche in giro e diceva: vi credete tanto sapienti ma credete ai nuovi maestri che sembrano saggi e in realtà non lo sono.

Chi vi divora, chi vi sfrutta, chi è arrogante, chi vi colpisce in faccia, lo dico con vergogna, come siamo stati deboli, però in quello in cui qualcuno osa vantarsi, lo dico da stolto, oso vantarmi anch’io. Sono ebrei? Anch’io. Sono israeliti? Anch’io. Sono stirpe di Abramo? Anch’io.

Paolo vantava la sua identità ebraica e si domandava come degli ebrei potessero distruggerlo.

Sono ministri di Cristo? Sto per dire un pazzia: io lo sono più di loro, molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai giudei ho ricevuto i trentanove colpi, tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio.

Ho trascorso un giorno e una notte in balia delle onde, viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericolo dalla città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da falsi fratelli, fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità e oltre a tutto questo il mio assillo quotidiano la preoccupazione per tutte le Chiese.

Chi è debole che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo che io non ne trema? Se è necessario vantarsi mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza, Dio è padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli sa che non mentisco. A Damasco il Governatore del re Areta montava la guardia alla città.

Il riferimento al governatore Areta è molto importante, perché Caligola lo aveva riconfermato nel 39, mentre l’Imperatore Claudio lo aveva allontanato a seguito di disordini capitati a Damasco. La data del 39 è fondamentale per tutta la vita di Paolo: è l’unica data sicura che abbiamo, per dare una dimensione anche storica ai suoi viaggi.

L’ardore  di Paolo viene espresso sempre con parole di estrema tenerezza.

Fil 1, 7-8

E’ giusto del resto che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa, sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo.

Gal 4, 19

Figlioli miei che io di nuovo partorisco nel dolore finchè non sia formato Cristo in voi.

Ai cristiani di Corinto che ascoltano altri missionari Paolo addirittura dice (II Cor 11, 2) che soffre per loro quasi una gelosia divina. Nell’ultima lettera rimanda a Filemone lo schiavo Onesimo, con parole dolcissime.

Filemone 8, 11

Per questo, pur avendo in Cristo piena libertà di comandarti ciò che devi fare, preferisco pregarti in nome della carità, così qual’io sono, Paolo, vecchio e ora anche prigioniero per Cristo Gesù. Ti prego dunque per il mio figlio che ho generato in catene, Onesimo.

Mentre era in catene Onesimo viene convertito da Paolo.

Quello che un giorno ti fu inutile ma ora è utile a te e a me. Te l’ho rimandato, lui, il mio cuore.

Straordinarie queste espressioni, questa tenerezza di Paolo. Anche nella parte finale della lettera ai Romani mostra una tenerezza infinita verso tutti quelli che lo avevano aiutato.

Vi raccomando Febe, nostra sorella, diaconessa della Chiesa di Cencre: ricevetela nel Signore, come si conviene ai credenti, e assistetela in qualunque cosa abbia bisogno, anch’essa infatti ha protetto molti, e anche me stesso. Salutate Prisca e Aquila

Prisca e Aquila furono i fondatori delle prime comunità cristiane e aiutarono moltissimo Paolo.

miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa.  Salutate il mio caro Epeneto primizia dell’Asia per Cristo. Salutate Maria, che ha faticato molto per voi. Salutate Andronico e Giunia, miei parenti e compagni di prigionia; sono degli apostoli insigni che erano in Cristo già prima di me. Salutate Ampliato, mio diletto nel Signore. Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo, e il mio caro Stachi. Salutate Apelle che ha dato buona prova in Cristo. Salutate i familiari di Aristobulo.Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli della casa di Narciso che sono nel Signore. Salutate Trifena e Trifosa che hanno lavorato per il Signore.  Salutate la carissima Perside che ha lavorato per il Signore. Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua che è anche mia. Salutate Asincrito, Flegonte, Erme, Patrona, Erma e i fratelli che sono con loro. Salutate Filologo e Giulia, Nereo e sua sorella e Olimpas e tutti i credenti che sono con loro. Salutatevi gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte le Chiese di Cristo.

Esiste un vocabolario dove vengono ricordati i termini più appassionanti per Paolo: cardia (cuore) è usato 52 volte (su un totale, nel Nuovo Testamento di 152); splancna (viscere) 8 volte (su un totale di 11); amare 33 volte (su 133); agape (amore) 75 volte (su 141) gioire 29 volte (su 74); gioia 21 volte (su 59); ringraziare 24 volte (su 38); epifotein (desiderare) 7 volte (su 9); mitezza 8 volte (su 11).

Paolo ha fondato tutta la sua vita su Cristo e la sua risurrezione.1 Cor 15, 1

Vi rendo noto fratelli il Vangelo che vi ho annunziato – quindi quello dei sinottici, degli apostoli, l’euanghelion (il buon annuncio) – e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete in quella forma in cui ve lo ho annunziato altrimenti avreste creduto invano. Vi ho trasmesso dunque anzitutto quello che anch’io ho ricevuto, che cioè Cristo perì secondo i nostri peccati, secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai 12. In seguito apparve a più di 500 fratelli in una sola volta, la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo e quindi a tutti gli apostoli, ultimi fra tutti apparve anche a me come a un aborto.  Io infatti sono l’infimo degli apostoli e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono e la sua grazia in me non è stata vana, anzi  ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto sia io che loro così predichiamo e così avete creduto.

(versetto 42) Così anche la risurrezione dei morti, si semina corruttibile e risorge incorruttibile, si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza, si semina a corpo animale risorge un corpo spirituale.

Paolo, in sostanza, dice ciò che sta alla base di tutto il suo lavoro è che Cristo è risorto. Tutti si chiedono se risorgeremo così come siamo o si verificherà una nuova creazione. Il teologo Ratzinger nell’Introduzione al Cristianesimo dice che non dobbiamo chiederci con quali cellule risorgeremo o se saremo una nuova creazione, perché abbiamo la certezza che siccome Cristo è risorto anche noi risorgeremo. E la nostra speranza è che non solo risorgeremo ma parteciperemo della stessa gloria. Questo Paolo lo dice continuamente (così come Giovanni): non solo risorgeremo in Cristo ma avremo la stessa gloria.

Rm 8, 28-30

Del resto noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli. Quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati, quelli che ha chiamati li ha anche giustificati, quelli che ha giustificati li ha anche glorificati.

Rm 8, 19-26

La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio.  Essa infatti è stata sottomessa alla caducità, non per suo volere ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto. Essa non è la sola ma anche noi che possediamo le primizie dello spirito gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli.

Tutto il mondo avrà una nuova creazione, perché Cristo ha in sé la nuova creazione e noi parteciperemo della sua nuova gloria.

La redenzione del nostro corpo poichè nella speranza noi siamo stati salvati. Ora ciò che si spera, se visto, non è più speranza, infatti ciò che uno vede come potrebbe ancora sperarlo?

Rm 6, 1-11

Che diremo dunque: continuiamo a restare nel peccato perché abbondi la grazia? E’ assurdo.  Noi che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere nel peccato? O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù siamo stati battezzati nella sua morte?

Quindi morire con Cristo per risorgere con Cristo.

Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.  Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui perché fosse distrutto il corpo del peccato e noi non fossimo più schiavi del peccato.  Infatti chi è morto è ormai libero dal peccato ma se siamo morti con Cristo crediamo che anche vivremo con lui sapendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più.  La morte non ha più potere su di lui.

La sintesi di tutta la grandezza di Paolo è in Fil 1, 21

Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno. Ma se il vivere nel corpo significa lavorare con frutto non so davvero che cosa debba scegliere.

Paolo è disposto a morire, ma se ancora deve vivere, è disposto a farlo

Sono messo alle strette infatti fra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo,  il che sarebbe assai meglio, d’altra parte è necessario per voi che io rimanga nella carne. Per conto mio sono convinto che resterò e continuerò ad essere d’aiuto a voi tutti per il progresso e la gioia della vostra fede, perché il vostro vanto nei miei riguardi cresca sempre più in Cristo con la mia nuova venuta tra voi.

Questo è proprio il cammino di questo uomo, appassionato della Parola di Dio nella sua prima giovinezza, illuminato dalla riscoperta di Gesù Cristo morto e risorto, che nella sua vita ha un unico scopo: far conoscere al mondo che Dio è bellezza e che Dio è amore.

Don Francesco

Sono contento che siamo arrivati al punto centrale: la vita e la morte. Tutti noi abbiamo provato grandi distacchi e tutti noi siamo in attesa della risurrezione e penso che senza questi testi non possiamo farcela. La sua esperienza di fede a che punto è arrivata sul suo rapporto con la morte?

Don Enrico

Io cerco di pensare che arrivato alla mia età (settant’anni) quello che dovevo fare l’ho fatto. Quando penso all’incontro che farò penso sempre alla I lettera di Giovanni: perché vedremo Dio così come egli è, finalmente vedremo il volto di Dio. Giovanni dice che noi siamo già figli di Dio, ma non lo sappiamo quello che saremo, perché vedremo Dio così come egli è. Giovanni dice Dio nessuno l’ha visto. Il mio desiderio è di arrivare a vedere Dio così come egli è. Certo occorre la dolcezza, la profondità, la passione che aveva Paolo, che aveva Giovanni, che avevano tanti uomini e tante donne che hanno avuto una fede semplice ma profonda.

Monica Romano

Paolo si è trovato in contrasto con i Giudei e anche con i giudei-cristiani. Lei vede anche nella chiesa di oggi una simile situazione?

Don Enrico

Vedo una certa diminuzione della passione per Gesù Cristo. I vari gruppi che si sono formati in questi ultimi periodi secondo me corrono il rischio di rappresentare più il loro fondatore che Gesù Cristo. Esiste un forte personalismo e noto che ci sono delle affermazioni nello stesso tempo molto dogmatiche e molto moralistiche che non tengono invece conto di questa passione per Gesù Cristo.

Quando si perde questo incontro profondo con Gesù si creano degli equivoci. Anche nella Chiesa abbiamo elementi profondamente disgreganti: ognuno la pensa come vuole e la cosa che più mi amareggia è vedere oggi, anche nei ragazzi, l’assoluta ignoranza di Cristo. Gesù non è conosciuto. Secondo me oggi la Chiesa dovrebbe spogliarsi di tanti fronzoli ed arrivare a Gesù, come ha fatto Paolo.

Intervento

La perdita di Cristo ci ha fatto perdere anche l’amore per il prossimo: non c’è più amore in questa umanità.

Don Enrico

Certo, c’è una grande difficoltà ad amare se non c’è una

Intervento

E’ un messaggio sconvolgente nella sua semplicità: l’amore di Dio è gratuito, Dio non esclude nessuno. E’ semmai l’uomo che si autoesclude dall’amore di Dio.

Don Enrico

C’è un filosofo, credo di origine ebraica, che parlando dell’Antico Testamento e dell’immagine di Dio, dice che la civiltà moderna ha sostituito Dio con la tecnica. Questo è il nostro grande problema, perché la tecnica non ci salva. La difficoltà che oggi incontra il cristianesimo è proprio la perdita del senso di Dio. Questo accade perché l’uomo moderno non sente più il bisogno di essere salvato. Abbiamo perso il senso della rivelazione, che è il senso dell’amore, della comunione, di questa auto rivelazione che Dio fa dall’Antico Testamento in Gesù Cristo, di questa auto rivelazione che ci viene incontro e che ci salva.

Con l’autorizzazione della Parrocchia di http://www.santamelania.it/ un sito da visitare.

COME ABBIAMO ASCOLTATO GIOVANNI – Don Enrico Ghezzi


Posted on Marzo 4th, 2009 di Angelo

Colgo l’occasione per far conoscere ai naviganti alcune tue riflessione ed il recente ponderoso volume di 1343 pagine:

COME ABBIAMO ASCOLTATO GIOVANNI”

Ed. DIGIGRAF – Studio  Esegetico-Pastorale sul quarto Vangelo”

Autore: Don Enrico Ghezzi

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Qui di seguito, uno stralcio della presentazione al libro di p. Ugo Vanni, Prof. Emerito di esegesi del N.T. della Pontificia Università Gregoriana e membro della Pontificia Commissione Biblica.

Il vangelo di Giovanni alla catechesi degli adulti

E’ stato detto giustamente che il Vangelo di Giovanni, il “vangelo spirituale” come lo chiamava Cirillo di Alessandria, è come un cielo con sempre più stelle.

In effetti, come mostra la storia della sua esegesi e della risonanza suscitata nella chiesa, il Vangelo di Giovanni – sia a livello di ricerca che a livello applicativo – ha prodotto una serie quasi innumerevole di commentari scientifici e di espressioni scritte della esperienza spirituale che suscita.

In Giovanni c’è sempre qualcosa di nuovo da comprendere e qualcosa di nuovo da applicare in chiave spirituale alla vita. Viene da chiedersi: è possibile unire insieme le due linee, quella dello studio e quella dell’esperienza spirituale?

Una risposta affermativa a questa domanda ci viene offerta dalla patristica. Basti citare due esempi tra i tanti possibili: i commenti di S. Giovanni Crisostomo e di S. Agostino costituiscono ancora oggi due pietre miliari per la comprensione di S. Giovanni, ma, nello stesso tempo, entrano nel vivo dell’esperienza spirituale del lettore e la mettono in moto. Provocano una conoscenza che passa attraverso la vita e ne esce arricchita e più profonda.

Dobbiamo riconoscere a don Enrico Ghezzi il merito e il coraggio di essersi messo, con questo commentario che ci offre, sulla linea della interpretazione patristica. Il testo del vangelo commentato che raggiunge il lettore, espresso in uno stile chiaro e scorrevole, ha a monte lunghi anni di studio rigoroso, condotto in dialogo coi commentatori moderni più noti. Sotto il profilo esegetico appare un testo solido e maturo.

GIOVANNI, IL VANGELO SPIRITUALE

Incontro con don Enrico Ghezzi, parroco a Roma, presso il Centro Culturale L’Areopago

Riportiamo la trascrizione dell’incontro  sul Vangelo di Giovanni che don Enrico Ghezzi, 68 anni, parroco di San Vigilio a Roma, ha tenuto presso il Centro Culturale L’Areopago lo scorso 31 ottobre 2006. Malgrado un pò di editing che ci e’ stato autorizzato dal relatore sul testo finale, volutamente abbiamo mantenuto il carattere colloquiale dell’intervento, perché -  avendo condiviso con don Enrico meta’ della nostra vita e quasi tutto il nostro cammino cristiano -  siamo convinti che anche questo suo modo diretto, incisivo, semplice e passionale di annunciare il Vangelo e di educare alla fede e ai valori sia il cuore del suo ministero sacerdotale e della sua testimonianza cristiana, insieme ai contenuti e allo spirito di ricerca che con rara autorevolezza e dolcezza talvolta mista a rigore ha instancabilmente trasmesso alla sua comunita’ e a quanti -  anche lontani -  ha incontrato sul proprio cammino.

Don Enrico ha servito instancabilmente il popolo di Dio a lui affidato con amore, liberta’, fedelta’ al Vangelo, senza clamori e spesso in solitudine, prima come parroco nella periferia dura del Labaro -  dove sono ancora rimasti i segni che ha lasciato in tante persone che ancora lo amano e lo ricordano – , e ora a San Vigilio, dove siamo stati testimoni della sua totale dedizione alla parrocchia, la cui vita s’incentra sulla figura di Cristo,l’ascolto della Parola, la partecipazione ai sacramenti e la carita’. In questi 15 anni lo ricordiamo sempre intento a scrivere, leggere, studiare per preparare le catechesi per adulti, giovani, ragazzi, chino nel suo ufficio dalla mattina presto alla sera tardi, con la porta sempre aperta a chiunque lo interpelli, intervallando e radicando il lavoro con i momenti di preghiera e contemplazione in chiesa, e naturalmente della messa quotidiana. Non raramente ci siamo ritrovati davanti l’immagine di don Enrico che -  ammalato, spesso sofferente -  invece di essere sul suo letto a riposare – come ci saremmo aspettati -  se ne stava regolarmente e naturalmente svolgendo il suo servizio, sempre con la Bibbia e il rosario in mano, spesso con qualcuno degli ultimi testi usciti che lo aiutano nella riflessione.

Tra un’attivita’ e l’altra, don Enrico ha anche trovato il tempo per scrivere un commento esegetico-pastorale sul Vangelo di Giovanni che -  ci permettiamo di dire, un pò come ha fatto l’autore del quarto vangelo – e’ anche frutto della condivisione e meditazione svolte insieme alle sue comunita’ nel corso degli anni. Il testo si intitola “Come abbiamo ascoltato Giovanni”, Studio esegetico-pastorale sul quarto Vangelo, edizioni Digigraf, 2006, pp. 1343. La prefazione e’ stata curata da p. Ugo Vanni, professore emerito di Esegesi del Nuovo Testamento presso la Pontificia Universita’ Gregoriana e membro della Pontificia Commissione Biblica.

Monica Romano

Sono Don Enrico, quarant’anni che sono prete e tutti passati in parrocchia, quindici anni nella bella borgata del Labaro, dove ho vissuto la mia esperienza piu’ significativa, e adesso nella Parrocchia di San Vigilio all’Eur comincio il sedicesimo anno, dal ‘91. Don Francesco in occasione di un mio intervento chirurgico per il quale sono stato ricoverato in ospedale mi ha sostituito per un paio di mesi in parrocchia. Ecco siamo qui allora e mi diceva di presentare un po’ questo libro sul Vangelo di Giovanni -  “Come abbiamo ascoltato Giovanni” – che io ho avuto la gioia e la passione di scrivere tra una estate sudatissima e l’altra, nei momenti di ritaglio dal mio impegno pastorale. La Parrocchia di San Vigilio credo abbia tanti abitanti quanto la vostra, piu’ o meno.

Perché ho scritto questo libro: ma poi le cose come vanno, ho sempre avuto una grande  passione per il Vangelo di Giovanni, perché fin da quanto ero ragazzo, quindici-venti anni, mi aveva sempre colpito questa idea della luce, della vita, della grazia, mi aveva sempre affascinato questo personaggio che e’ Gesu’.

All’inizio del Vangelo Giovanni Battista vede – poi lo diremo – vede Gesu’ e dice “ecco l’Agnello di Dio”.

Ci si potrebbe chiedere come ha fatto Giovanni Battista a chiamare  Gesu’ Agnello di Dio, perché Gesu’ diventa Agnello di Dio alla fine della vita. Ma come mai Giovanni Battista lo dice proprio all’inizio?

Fatto sta che il giorno dopo -  il Vangelo ci racconta – i due discepoli di Giovanni Battista abbandonano Giovanni e seguono Gesu’, e Gesu’ dice: “Chi cercate, che cercate?”. Detta questa frase, il Vangelo ancora ci dice che “lo seguirono, videro dove abitava e stettero con lui”.

Come mai abbandonano Giovanni Battista? Queste parole – “chi cercate” -  sono bellissime e moltio ricorrenti:

  • anche la Maddalena – Maria di Magdala – quando Gesu’ risorge e’ in quest’orto bellissimo e Gesu’ risorto dice “chi cerchi?”;
  • poi anche quando Gesu’ viene preso per essere portato al processo, dice: “Chi cercate?”.

Questa parola “cercare” e’ una parola bellissima del Vangelo di Giovanni; i ragazzi liceali e universitari del gruppo che seguo il martedì sera durante un incontro settimanale che ho voluto per così dire “intitolare” “incontrare Gesu’” – mi hanno risposto una cosa bellissima quando ho chiesto loro: “Secondo voi perché i discepoli ‘stettero con lui’”?

I ragazzi mi hanno risposto:

  • “Perché si sono sentiti emozionati davanti a Gesu’”.
  • Un altro ha risposto: “Hanno sentito la gioia”.

Probabilmente di fronte a Gesu’ io credo che i discepoli abbiano sentito un grande stupore: che occhi avra’ avuto Gesu’, che volto, Gesu’ che e’ il volto del Padre, e questi pescatori, questi uomini semplici – sui quali poi noi in qualche modo “fondiamo la fede” nel senso che loro hanno reso possibile la trasmissione della buona notizia – lo videro, lo seguirono dove abitava e stettero con lui. Questo lo trovate nel I capitolo, versetto 32-34. E Giovanni, parlando di questo incontro specifica anche l’ora – “Erano circa le quattro del pomeriggio”…Perché questo “appunto”? Giovanni vuole puntualizzare che quando incontra Gesu’ e’ un momento così reale, così fondamentale della sua vita, che mette anche l’ora; sempre, nei momenti piu’ importanti, c’e’ anche l’ora nel Vangelo di Giovanni.

Allora prima di iniziare  a parlare del Vangelo di Giovanni – sapete e’ uscito questo libro, “Inchiesta su Gesu’” – di Corrado Augias, che mi hanno prestato e ne stanno parlando molto; Augias che sapete e’ ebreo e fa delle domande a questo Mauro Pesce -  biblista e docente di Storia del Cristianesimo all’Universita’ di Bologna. All’affermazione-domanda che il Vangelo di Giovanni e’ il piu’ tardo fra i quattro ufficialmente riconosciuti dalla Chiesa – Matteo, Marco, Luca e appunto Giovanni -, la risposta e’: “La produzione dei Vangeli non e’ certo finita con la fine del primo e l’inizio del secondo secolo”; piu’ avanti il libro si soffermera’ su tutti questi famosi vangeli apocrifi, l’ultimo lo sto leggendo adesso, quello di Giuda,  quest’ultimo manoscritto trovato vent’anni fa sempre in Egitto e che adesso sono riusciti a mettere insieme e pubblicarlo dopo vent’anni di studi.

Tutti i vangeli apocrifi -  e lo stesso vangelo di Giuda – sono vangeli “gnostici” – da “gnosis“, che significa “conoscenza”. Sono vangeli dove si tende regolarmente a negare l’incarnazione, a rendere Gesu’ un essere che ha soltanto apparenza di uomo, a raccontare che la sua carne e’ soltanto un’apparenza. Da qui nascono le grandi eresie; Ario, che negava che Gesu’ fosse Dio, Nestorio che affermava che fosse soltanto un uomo. In quel momento, probabilmente un discepolo di Nestorio diventa discepolo di Maometto; fu probabilmente questa grande divisione nella comunita’ cristiana che c’era in Egitto e anche il fatto che questi popoli dovessero pagare le tasse a Bisanzio a far sì che Maometto arrivi e in un batter d’occhio cancelli una grande tradizione cristiana che c’era intorno al Mar Mediterraneo, Egitto, Siria, Palestina. Maometto arriva e l’Islam prende piede proprio per le divisioni che c’erano fin dall’inizio su questa duplice realta’: veramente uomo o soltanto uomo, veramente Dio o soltanto Dio, perché sembrava impossibile che Dio potesse soffrire sulla croce, sembrava impossibile che Dio potesse essere anche veramente uomo.

Ecco vedete i vangeli gnostici – il vangelo di Tommaso, il vangelo di Pietro, il vangelo di Giuda -  arrivano tutti dopo i tre sinottici – Matteo, Marco e Luca -; anche il  Vangelo di Giovanni e’ posteriore ad essi, e’ vero, risalendo a verso il ‘90 e ‘100, tanto che alcuni si spingono arditamente addirittura a dire che possa in qualche modo avere uno sfondo gnostico, in quanto le parole “luce”, “verita’”, “gloria”, “vita eterna”, “redentore”, “salvezza” -  che sono ricorrenti nel quarto Vangelo – erano grandi temi che il mondo gnostico sentiva molto forte. Diciamo poi che lo gnosticismo – dicono gli studiosi – era un movimento esistenzialista; qualcuno ritiene somigli un pò alla New Age di oggi, un movimento in cerca di una filosofia che desse risposta ai grandi problemi dell’esistenza – la vita, la morte, la salvezza. Quindi, possiamo dire che nello gnosticismo c’era una grande anima religiosa, ma si sottendeva un’interpretazione che spesso si allontanava dalla grande tradizione ebraico-cristiana.

Dunque vedete che sul Vangelo di Giovanni, piu’ che sui vangeli sinottici, si dicono ancora tante cose: secondo questi autori moderni, Giovanni ci avrebbe trasmesso una figura di Gesu’ piu’ con un linguaggio che assomiglia ad un linguaggio un po’ mistico, quasi disincarnato.  E invece nel  Vangelo di Giovanni – che probabilmente comincia a combattere questa idea di una figura soltanto divina del Logos -  ci dice: “E il Verbo si e’ fatto carne”, esprimendo in modo unico e sublime il mistero dell’Incarnazione.

Un primo aspetto notevole del Vangelo di Giovanni e’ il Prologo, in cui si dice che Gesu’ in realta’ e’ un essere che preesisteva alla sua nascita fisica ed era la Parola con cui Dio ha creato il mondo:  quando il Verbo, la Parola, il Logos si fece carne, la parola stessa di Dio assume figura umana. Il Vangelo di Giovanni racchiude circa due anni e mezzo della vita di Gesu’, e tre pasque; mentre nei sinottici – Matteo, Marco e Luca – Gesu’ dalla Galilea si dirige poco a poco verso Gerusalemme in tre anni, la’ dove poi sara’ preso e crocifisso, nel Vangelo di Giovanni invece Gesu’ vive a Gerusalemme le tre pasque del 28, 29 e 30.

Quasi assolutamente certo e’ che nell’anno 30, il 7 aprile, Gesu’ muore, secondo i calendari ebraici, e quindi Giovanni sceglie Gerusalemme come il luogo, il grande teatro del dramma della morte e della risurrezione di Gesu’, il nuovo tempio.  La sua struttura narrativa racchiude circa due anni in dodici capitoli ma dedica cinque interi capitoli a quell’ultima sera che Gesu’ passa con i suoi discepoli piu’ stretti.  Dal Capitolo 12 al capitolo 17 c’e’ tutta la grande storia della passione; poi nel 18, 19 la morte; il 20 e’ il capitolo della risurrezione e il 21simo non e’ scritto da Giovanni, ma probabilmente dalla comunita’ giovannea  perché tratta della figura di Pietro e della figura di Giovanni.

Allora adesso io cercherò di illustrare, come io sono stato capace di analizzare e commentare, facendo il parroco, questo Vangelo. Bisogna indubbiamente partire un po’ da questo fatto: il papiro piu’ antico che parla di Giovanni e’ il papiro 52, scritto certamente in Siria, che e’ il papiro del 130-135. L’autore del Vangelo di Giovanni certamente va sotto il nome di Giovanni, fratello di Giacomo, figlio di Zebedeo. Questo e’ stato creduto fin dall’inizio; i padri piu’ antichi, i padri apostolici e post apostolici con qualche differenza, parlano di un certo Giovanni il presbitero; Papia, un autore del 130-140 d.C, parla di un certo Giovanni presbitero. Interessante, poi, questa definizione – “il discepolo che Gesu’ amava”. Ecco si può dire subito: come mai Giovanni che scrive il vangelo si definisce il discepolo che Gesu’ amava? Non era forse un po’ troppo presuntuoso dirsi il discepolo che Gesu’ amava? Probabilmente questo Vangelo di Giovanni, e’ stato un po’ rielaborato, forse da un segretario di Giovanni o comunque dai discepoli di Giovanni, così mentre Giovanni si menzionava col suo nome – “Giovanni figlio di Zebedeo fratello di Giacomo” – e non si riferiva a se stesso direttamente con questa descrizione, altri, probabilmente i suoi discepoli, lo hanno indicato come “il discepolo che Gesu’ amava”.

State bene attenti che forse questo non l’ho detto all’inizio, che c’e’ una questione sinottica e una questione giovannea: chi sono i veri autori dei vangeli? La questione sinottica: per esempio e’ certo che ci sia stato un vangelo aramaico di Matteo scomparso e che sia confluito tutto nel Vangelo di Matteo greco di oggi:  i vangeli sono scritti in greco – che era la lingua allora piu’ diffusa – però sapete che ci sono degli studi iniziati nel secolo scorso, protestanti, cui si sono aggiunti molti autori cattolici, dove si arriva a capire chi sono per esempio Matteo, Marco e Luca, che non sono i nomi di quelli che hanno scritto i vangeli, ma sono nomi che sono stati dati dopo.

Quindi c’e’ tutta una grande questione. Sapete poi quali sono i primi scritti dopo Gesu’, quali sono stati? Sono stati gli scritti di San Paolo; le Lettere di Paolo vengono prima dei vangeli, e’ interessantissimo, però a quel tempo giravano gia’ le pericopi, le pagine tramandate oralmente, perché allora non c’era lo scrivano: ecco, le tradizioni orali venivano via via tramandate e questi evangelisti, questi uomini le hanno messe per iscritto, “adattandosi” al “pubblico” al quale erano indirizzate e sottolineando degli aspetti particolari della vita e della testimonianza di Gesu’, sempre -  ovviamente -  in conformita’ a quanto avevano visto o sentito, alla luce della sua risurrezione e sotto l’illuminazione dello Spirito Santo.

Il Vangelo di Matteo -  ad esempio – e’ indirizzato in particolare agli ebrei e difatti c’era un originale in aramaico che purtroppo e’ andato perduto; a Matteo non interessava la predicazione fuori dalla Palestina, e infatti e’ l’unico che inizia con la genealogia di Gesu’, risalendo fino al re Davide e addirittura ad Abramo, per indicare come Gesu’ sia in continuita’ con la grande tradizione ebraica.

Probabilmente, invece, il Vangelo di Luca e’ un vangelo per gli ellenisti convertiti al cristianesimo, per i quali sin dall’inizio si pone il problema se dovessero essere anche loro -  come gli ebrei – sottoposti alla circoncisione. Coloro che si sottoponevano alla circoncisione erano chiamati “i timorati di Dio”; non so se lo avete fatto, io nella mia parrocchia ho spesso affrontato questo aspetto leggendo in particolare la Lettera ai Galati, dove c’e’ tutta una grande discussione sulla circoncisione, grandissima: inizialmente si pensava, poi si discuteva, che un cristiano dovesse necessariamente essere sottoposto alla circoncisione – sia se ebreo sia se pagano -, e c’e’ una grande diatriba fra Pietro e Paolo su questo, che quasi dividera’ la comunita’ cristiana.

Perché era così importante la circoncisione?

Perché questo era il segno che tu eri parte del popolo eletto, era l’identificazione con il popolo eletto, era il segno, il patto tra Dio, i patriarchi e Mose’ e che anche tu eri parte del popolo eletto. I primi cristiani dicevano: sì, noi abbiamo Gesu’, però veniamo da una grande tradizione, quindi sarebbe necessario che tutti i cristiani si sottopongano alla circoncisione. Paolo, sapete, dibatte questo e dice no, chi e’ in Cristo e’ nuova creatura. Perché Paolo -  capite – l’apostolo delle genti, predicava non piu’ solo agli ebrei, ma a tutti i pagani; Paolo va in Grecia, va ad Atene, Paolo pensate parla ai Filippesi; Filippi e’ una citta’ che sta su nella Macedonia. Io quasi posso dire che neanche mi ricordavo che la Macedonia faceva parte della Jugoslavia, Paolo arriva fin su la’ in alto in Macedonia e quindi parla a delle persone che non avevano niente a che fare con le tradizioni giudaiche; quindi non ritiene necessario il discorso della circoncisione, mentre Pietro ad un certo momento lo nega e poi lo afferma.

Questo per dire come l’ambiente in cui si sviluppavano i vangeli era estremamente variegato ed essi furono scritti secondo le necessita’ di chi annunciava la buona notizia della risurrezione di Cristo. Il Vangelo di Luca e’ l’unico che ci fornisce qualche -  scarno -  dettaglio sull’infanzia di Gesu’, ci racconta l’annunciazione – che nessun altro evangelista ci racconta, mentre Marco non ha né la genealogia di Gesu’ né i racconti sull’infanzia. Perché? Perche’ voi sapete che Marco fu probabilmente allievo di Pietro a Roma e ai romani non interessava né la genealogia di questo “aliquis Crestus” – come lo definisce Tacito – “un certo Cristo”, né il racconto di questa nascita “miracolosa”.

Ma tornando al Vangelo di Giovanni, com’e’ stato scritto questo testo, come poté un pescatore come Giovanni scrivere cose così alte sul mistero del Verbo incarnato?  Probabilmente -  dice tra gli altri studiosi Brown -  Giovanni, questo figlio di Zebedeo che Gesu’ amava, ha scritto alcuni appunti, ha raccolto le tradizioni orali e le ha poi messe insieme; Brown suppone che vi sia stato una sorta di segretario e poi alla fine la comunita’ cristiana dietro la redazione finale del testo.  Un grande studioso, che ora ha novant’anni ma che vive ancora, un gesuita – Leon Dufour – che ogni tanto viene a Roma, dalle suore Camaldolesi all’Aventino a parlare, un grande studioso, dice che non e’  che Giovanni abbia scritto da solo tutto il quarto Vangelo, ma ha dato tutto quello che era necessario come base della redazione del testo che però poi e’ frutto di una grande contemplazione, di una grande riflessione della comunita’ cristiana. La lingua e’ la lingua greca, perché in quel tempo si parlava la lingua greca.

I primi padri della Chiesa hanno chiamato questo Vangelo, “il Vangelo spirituale”. Perché?

Per il ruolo fondamentale dello Spirito nella comprensione del mistero di Gesu’.  Giovanni negli ultimi capitoli tira fuori tutto il grande ruolo dello Spirito Santo; “Egli vi insegnera’ la verita’ tutta intera”, scrive.  E’ il Vangelo spirituale perché senza l’aiuto dello Spirito noi non potremmo capire questo grande mistero che e’ la persona di Gesu’.

State bene attenti, perché si chiama “Vangelo”?

Guardate in Isaia 52 c’e’ scritto, guardate qua: “Svegliati, svegliati Gerusalemme, rivestiti della tua magnificenza Sion, indossa le vesti piu’ belle Gerusalemme perché su di te entrera’ l’annuncio del Signore”. E piu’ avanti dice, al versetto 7: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunci, che annuncia la pace, messaggero di bene che annuncia la salvezza”.  Questa parola – che “annuncia” il messaggero, che “annuncia” la pace, che “annuncia” la salvezza – questa parola e’ “euangello“, buon annuncio, la parola  e’ “vangelo”.

Quindi quando il Vangelo di Giovanni viene definito “Vangelo spirituale”, si pensa ad un annunzio gioioso, ma qual e’ la differenza importantissima fra questi versetti di Isaia e il Vangelo di Giovanni?  Che mentre Isaia immagina la Gerusalemme – lo leggevamo anche stasera alla Messa di tutti i Santi – questa Gerusalemme, come citta’ di Dio futura, il Vangelo spirituale di Giovanni e’ una realta’ che si realizza pienamente ora, il compimento e’ in Gesu’, questo euangello, questa buona notizia e’ Gesu’, Gesu’ morto e risorto, la cui comprensione piena sara’ poi soltanto con la venuta dello Spirito Santo. Vangelo di luce e  di grazia, perché annunzia la buona notizia che Gesu’ e’ morto e risorto, ma la cui comprensione piena sara’ soltanto alla fine dei tempi.

E ora cerchiamo di capire un discorso un po’ difficile: per esempio, dicevo prima Giovanni dice “ecco l’Agnello di Dio”. Siamo all’inizio del Vangelo, come ha fatto Giovanni Battista  a dire  “l’Agnello di Dio”, quando Gesu’ ancora non era morto?  Gesu’ diventa l’agnello di Dio solo alla fine, quando viene crocifisso e muore, ecco perché Gesu’ muore in Giovanni proprio verso le tre del pomeriggio, quando gli ebrei cominciavano a uccidere gli agnelli per la Pasqua: Gesu’ diventa, secondo le profezie di Isaia, il nuovo agnello.

Ma come faceva Giovanni Battista a dire una cosa così? Allora attenti bene: per capire i vangeli dobbiamo tenere a mente una cosa:  da una parte l’autore ha memoria di quello che e’ accaduto attraverso la tradizione orale, l’evangelista ha memoria delle parole che ha detto Gesu’, ma non era lì a scriverle, ha memoria delle parole che sono state dette da Gesu’ o intorno a Gesu’, dall’altra parte l’autore dietro la contemplazione della persona di Gesu’ e sotto l’illuminazione dello Spirito Santo, l’autore applica alla realta’ del Cristo risorto tutto quello che poteva esser stato detto da o intorno a Gesu’: quindi da una parte c’e’ la verita’ storica – perché l’autore non può inventare -, c’e’ una memoria storica, ma questa memoria storica, ai tempi in cui vengono scritti i vangeli, viene interpretata secondo l’illuminazione dello Spirito Santo.

Per esempio, nel Vangelo di Giovanni c’e’ una grandissima diatriba continuamente con i farisei, che Giovanni chiama “oi iudaioi“, i giudei.  Ma in realta’ la polemica tra Gesu’, una polemica durissima,  - che troviamo nei capitoli V, VII,VIII, bellissimi – contro i giudei, in realta’ però non riguardava soltanto la polemica di Gesu’ ai suoi tempi, ma Giovanni fa rivivere scrivendo il Vangelo la polemica durissima che ci fu in seguito, dopo gli anni 70, quando Tito distrugge Gerusalemme e c’e’ la dispersione di tutti i vari gruppi – i sadducei, gli zeloti – e rimane questo gruppo popolare che sono i farisei.

Allora l’autore interpreta il dibattito che Gesu’ aveva ai suoi tempi con i farisei alla luce però delle sofferenze che i cristiani del suo tempo sopportavano quando, distrutta Gerusalemme, ad esempio, ad un ebreo convertitosi al cristianesimo non permettevano piu’ di entrare in sinagoga; questi cristiani provenienti dall’ebraismo venivano scomunicati e non solo non si permetteva piu’ loro di tornare indietro se lo avessero voluto, ma spesso venivano confiscati i loro beni, cadevano in una situazione veramente drammatica. Giovanni sente profondamente questa realta’ e la descrive usando spesso le parole di Gesu’ applicandole a una situazione del tempo in cui scrive il quarto Vangelo; quindi, tante volte, quando in alcune parti  il Vangelo di Giovanni sembra attaccare i farisei che non hanno compreso Gesu’, in realta’ Giovanni vive una situazione storica del suo tempo.

Guardate una delle cose grandi che ci si chiede e’ quali saranno state le fonti del Vangelo di Giovanni. E allora qui ci sono dei grandi autori, ad esempio Bultmann – grandissimo autore protestante, un uomo di una grandissima fede in Cristo – che ha parlato della famosa de-mitizzazione dei Vangeli: per lui, Cristo e’ un fatto esistenziale, la mia esistenza e’ in Cristo.  Però, lui dice, il linguaggio che Giovanni spesse volte ha usato – acqua, luce, vita – e’ un linguaggio “gnostico”.  Allora tutti gli autori cattolici e non cattolici invece cercano di dimostrare che la vera fonte del Vangelo di Giovanni sono soprattutto l’Antico Testamento – che viene continuamente citato da Giovanni – e soprattutto i Libri Sapienziali.

I Libri Sapienziali sono quelli che parlano della “sapienza che accompagna Dio nella creazione”, la sapienza e’ un’ancella di Dio che accompagna Dio nella creazione. Giovanni attingera’ da questi concetti e questa sapienza, ma mentre nell’Antico Testamento la sapienza possiamo dire sia una sorta di attributo di Dio, qui in Giovanni invece la Sapienza e’ il Logos di Dio, e’ l’immagine stessa di Dio. Gesu’ e’ l’immagine del Padre: “Dio nessuno l’ha mai visto. Solo il Figlio Unigenito, che e’ nel seno del Padre, lui lo ha rivelato”.  Il volto di Dio e’ un volto sconosciuto: nessuno può vedere Dio; Mose’ dovette coprirsi gli occhi e vedere Dio solo da dietro, perché nessuno può vedere Dio. E allora – dice Giovanni nel suo prologo – questo Gesu’ che si fa carne sara’ colui che rivela i misteri profondi che sono nel cuore del Padre, che sono nel cuore di Dio.

Io ai miei parrocchiani dico sempre una cosa:  guardate, ma secondo voi non era sufficiente credere nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma perché doveva venire Gesu’ Cristo?

  • Perché?
  • Bastava credere in questo Dio, in fondo e’ lo stesso Dio, ma come mai e’ venuto Gesu’ Cristo a rivelare i segreti che sono nel cuore del Padre?
  • Come mai?
  • Secondo voi perché?
  • Ma come mai e’ stata necessaria la rivelazione in Gesu’ Cristo?
  • Ci avete mai pensato?

Guardate, la fine del Vangelo di Giovanni, Cap. 20, dice al versetto 31: “Molti altri segni fece Gesu’ in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro”. Giovanni scrive soltanto sei /sette miracoli,  questi sono stati scritti -  dice Giovanni – “perché crediate che Gesu’ e’ il Cristo, il Figlio di Dio e perché credendo abbiate la vita nel suo nome”. La finalita’ del Vangelo di Giovanni e’ proprio questa: il Padre ha messo nel Figlio la sua immagine, la sua santita’, la sua potenza, e’ diventato uomo – ecco perché Gesu’ e’ venuto nel mondo -  e perché credendo in Gesu’, credendo che Gesu’ e’ il Figlio di Dio abbiate la vita eterna. E’ l’umanita’, questa umanita’, la vera motivazione per cui il Padre ha mandato il Figlio; e’ perché Dio voleva comunicare all’uomo, a ciascuno di noi, la sua identita’, la sua profondita’, il suo cuore, il suo amore. Noi non potremmo mai arrivare alla profondita’ dell’amore di Dio se Gesu’ non ce lo avesse rivelato ed e’ credendo in lui che l’uomo ha la vita eterna e questa e’ la motivazione finale, il motivo per cui Giovanni scrive il suo Vangelo. Per gli ebrei Gesu’ e’ il Messia, l’Unto; quando noi facciamo i battesimi, le cresime, l’ordinazione dei preti, l’unzione dei malati, attraverso l’olio che e’ un simbolo di una cristificazione, noi siamo cristificati.

Quindi il significato del Vangelo di Giovanni e’ proprio questo:

  • fede nella persona di Gesu’ Cristo, portatore di salvezza,
  • centralita’ di Cristo, che e’ il salvatore
  • ed e’ colui che rivela il Padre.

In Giovanni la cristologia proprio indica che Gesu’ e’ quello che ci parla del Padre, che ci parla di Dio.

Segni e parola -  che Giovanni ci ha tramandati nel suo Vangelo – sono l’autorivelazione di Gesu’, per il fatto che sono i grandi rivelatori di Dio.

Guardate in Giovanni c’e’ un solo peccato, in Giovanni non ci sono elenchi di peccati; voi sapete che nel Vangelo Gesu’ dice: “Non quello che entra, ma quello che esce dal cuore dell’uomo” -  ossia omicidio, fornicazione, ecc. -  questi sono i peccati.

  • In Paolo c’e’ -  per così dire – un elenco di peccati;
  • in Giovanni non c’e’ nessun elenco, perché, secondo voi, perché?
  • Qual e’ il peccato secondo Giovanni, fondamentale, in ogni riga del suo Vangelo?
  • E’ l’incredulita’, il mistero di Gesu’ che viene in nome del Padre e non e’ accolto, ed e’ qui il grande dramma.
  • State bene attenti:  gli ebrei, i farisei, erano credenti in Dio, Gesu’ non parla ad un popolo miscredente, erano profondamente monoteisti: qual era il dramma di Gesu’, allora?

Che coloro che avevano accolto e creduto in tutti i miracoli e segni che Dio aveva fatto lungo la storia del popolo d’Israele – questa storia che viene completata dal dono di Dio piu’ grande di mandare il Suo Figlio – non accolgono la completa e definitiva rivelazione di Dio.

Guardate, quando io scrivevo questo libro sul Vangelo di Giovanni quello che mi entusiasmava era veramente questo capitolo V, quando Gesu’ esprime completamente la sua coscienza di essere in comunione col Padre: “Io e il Padre siamo una cosa sola, non sono io che opero, e’ il Padre che opera in me, nessuno può venire a me se il Padre non lo attira”. e’ bellissimo, guardate com’e’ la fede; tante volte i nostri figli non hanno la fede, noi possiamo pregare, ma e’ il Padre che attira.

Bellissimo questo testo, il testo del capitolo VI, alla fine, quando tutti se ne sono andati, e Gesu’ dice: “e’ il Padre che attira al Figlio, al Verbo”; questa e’ la grande rivelazione di Giovanni. E dice ancora: “Se credete in me avete la vita eterna, io sono il pane disceso dal cielo, chi mangia di questo pane ha in sé la vita eterna, chi crede in me ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.

Naturalmente, come sapete, in Giovanni poi c’e’ anche il grande comandamento dell’amore:

  • “Avendo amato i suoi li amò sino alla fine” e “amatevi come io vi ho amato”,
  • ma in Giovanni l’amore e’ “figlio della fede”, nasce dalla fede in Gesu’.

Non credere in Gesu’ e’ il grande dramma di Giuda. Adesso questo libretto che e’ uscito, il vangelo di Giuda, e’ molto interessante perché ci spiega il contesto e le difficolta’ in cui vivevano i cristiani dopo la morte e risurrezione di Gesu’, quando meditavano e tentavano di comprendere e spiegare questo grande mistero della rivelazione di Dio. In questo vangelo Giuda dice “io questo lo dovevo fare perché dovevo permettere a Gesu’ di portare a termine la sua missione, e d’altra parte lui non e’ un vero uomo, ma e’ Dio sotto questa immagine di uomo”.

Anche qui c’e’ una visione proprio disincarnata e quindi un po’ gnostica della venuta e del mistero di Gesu’. Qual e’ il contesto nel quale questo vangelo di Giuda nasce? Vedete, gli ebrei chiedevano ai primi cristiani: “Com’e’ possibile che Dio abbia scelto uno che poi lo ha tradito, ma che razza di Figlio di Dio e’?”.

I primi cristiani facevano molta fatica a spiegare questo. La risposta: si dice che probabilmente Giuda appartenesse al gruppo degli zeloti, un gruppo che voleva eliminare il potere dei romani anche con la violenza, con la guerra, anche con le armi.  Da lì quest’arma che viene menzionata nei vangeli quando Gesu’ viene preso alla fine della sua vita, nell’orto degli ulivi; Giuda era probabilmente deluso, perché questo Gesu’ che si proclamava il salvatore, il liberatore, parlava di perdono e di misericordia e di morte, e quindi diciamo “tradisce” le aspettative di Giuda e degli zeloti di un riscatto “politico” di Israele dalla dominazione romana.

Questa e’ la contestualizzazione del vangelo di Giuda.  In realta’, se riflettiamo piu’ profondamente, e’ il grande mistero del male, del peccato. In fondo, tutti siamo un po’ come Giuda, siamo tutti un po’ portatori del tradimento, tradiamo l’amore di Dio, siamo tutti un po’ Giuda in questo senso.  Don Mazzolari, grande sacerdote, diceva sempre “nostro fratello Giuda”, siamo tutti un po’ Giuda, però ecco lì esplode veramente il grande problema del male.

Con Gesu’ irrompe nel mondo la forza dell’amore che domina sull’incredulita’, vincera’ l’incredulita’, quindi vincera’ il male o vincera’ Gesu’?

Tutto questo problema di oggi dei demoni, i posseduti, il diavolo, vedete a volte riflette una non conoscenza del Vangelo e una non profonda esperienza di Gesu’, della sua potenza salvatrice, del suo amore che trasforma, del suo pane che giorno per giorno ci da’ vita: Gesu’ ha gia’ vinto il maligno con la sua risurrezione, ed e’ questo il suo irrompere nel mondo romano, dove -  d’altra parte come oggi e come sempre – i romani e anche i pagani temevano moltissimo le forze del male, le potenze dei cieli. Anche il colto romano era preso spesso da terrore, da sofferenza, ecco perché nei vangeli sinottici ci sono molti miracoli, perché era necessario che questo personaggio fosse un personaggio taumaturgico, che sapeva vincere il male, perché il Vangelo di Marco indirizzato ai romani contiene molti miracoli di Gesu’.

Adesso per arrivare un po’ alla fine, parliamo dei sacramenti in Giovanni. Sono due, fondamentalmente: il battesimo e l’eucaristia. Dice Gesu’ a Nicodemo, che era andato a trovarlo di notte per paura dei giudei: “Bisogna rinascere dall’acqua e dallo Spirito Santo”; l’acqua e’ simbolo dello Spirito Santo. L’altro grande tema e’ l’eucaristia: “Chi mangia di questo pane ha la vita eterna”.

Ma vi siete mai chiesti: nell’ultima cena di Giovanni c’e’ l’eucaristia ?

Sì o no? Cosa c’e’?

C’e’ la lavanda dei piedi. Nell’ultima cena di Giovanni non c’e’ il racconto dell’istituzione dell’eucaristia, c’e’ la lavanda dei piedi. Perché?

Perché tutto il tema dell’eucaristia e’ nel Cap. VI, soprattutto nel versetto 57-58: “Io sono il pane disceso dal cielo, chi mangia di questo pane ha in sé la vita eterna ed io lo risusciterò nell’ultimo giorno”.  Il Vangelo di Giovanni -  come abbiamo avuto gia’ modo di dire -  e’ l’ultimo dei vangeli essendo stato scritto intorno al 90-100 d.C. Ora, e’ chiaro che la prassi della comunione era gia’ ormai radicata nella comunita’ cristiana, perciò Giovanni non sente l’esigenza di raccontare nuovamente quell’episodio, che tra l’altro era gia’ presente in Paolo e poi nei Vangeli sinottici. Ma Giovanni ribadisce la centralita’ dell’eucaristia -  e, strettamente connessa ad essa, della carita’ -  attraverso il discorso di Gesu’ sul pane e il racconto della lavanda dei piedi nell’ultima cena.

Un altro momento in cui Giovanni si sofferma sui sacramenti e’ durante la crocifissione di Gesu’, quando il soldato colpì il fianco di Gesu’ con la lancia e -  dice Giovanni – “effusit sanguis et aqua”, ne uscì sangue ed acqua.

Anche qui il sangue e’ probabilmente il sacrificio che poi viene trasmesso nell’eucaristia, e l’acqua e’ simbolo del battesimo.

Al capitolo VII del Vangelo di Giovanni, Gesu’ dice: “La mia carne e’ vero cibo, il mio sangue vera bevanda”. Queste parole non ci sono negli altri vangeli; inoltre in Giovanni la parola “carne” assume il significato di debolezza dell’uomo, fragilita’, peccaminosita’, mortalita’.

Giovanni non dice il “Verbo si e’ fatto corpo”, ma dice il “Verbo si e’ fatto carne”, quindi ha partecipato – Paolo lo dira’ varie volte – fino in fondo alla nostra condizione umana.

Soffermiamoci un momento su questa frase: “Chi mangia di questa carne”; ma come fa Gesu’ a darci da mangiare la sua carne?

Attenti bene, siccome celebriamo l’eucaristia tutti i giorni, quando andiamo alla messa, questo pezzo di pane che vediamo, e il sacerdote, e’ un segno sacramentale, non possiamo dire simbolico (come per i protestanti). Padre Leon Dufour dice molto bene: “Chi mangia di questo pane, chi crede totalmente a Gesu’ e vive della sua parola, diventa profondamente in comunione con Cristo”.  Questo e’ il pane disceso dal cielo: credere totalmente nella persona di Gesu’ e far entrare la sua parola che in qualche modo diventa carne in ciascuno di noi. Quando vedete il sacerdote, questo e’ Cristo presente in mezzo a noi, io credo. Gesu’ ha voluto rendersi presente attraverso la fede in lui, anche attraverso questo segno “chi mangia della mia carne e beve del mio sangue ha in sé la vita eterna”. Quindi chi crede partecipa pienamente alla vita di Cristo e Gesu’ vive pienamente in me: “Io e il Padre facciamo dimora in voi”; guardate sono testi bellissimi.  Il Padre e il Figlio sono in noi con lo Spirito Santo, Dio dimora in noi, questo e’ un grande concetto che c’e’ nel Vangelo di Giovanni, il “dimorare” – che probabilmente risale all’Antico Testamento – quando Dio dimorava nella tenda, dimorava nella legge, poi nel tempio, qui non e’ piu’ un’immagine, non e’ piu’ la legge, qui e’ Gesu’, e’ il Padre stesso che viene ad abitare in me, in noi.

Un’altra cosa che forse si potrebbe dire secondo me e’ questa: spesso Giovanni e’ stato accusato di non avere un’etica: nel Vangelo di Giovanni non si dicono i peccati. Per Giovanni, l’unico grande peccato e’ l’incredulita’. Ma naturalmente abbiamo visto che per Giovanni la fede crea l’amore e quindi la prima lettera di Giovanni, anche se non e’ dello stesso autore, e’ tutta incentrata sull’amore.  L’altra accusa che viene mossa a Giovanni e’ questa: di non avere il concetto di Chiesa, di Chiesa di tipo petrino, come quella che andava diffondendosi negli anni 50, 60, 70 dopo Cristo. In realta’ Giovanni vive in questa Chiesa di Efeso, una Chiesa forse molto contemplativa, molto spirituale. In piu’, gli studiosi rispondono che se c’e’ un testo di Giovanni dove appare la Chiesa e’ proprio quello del Buon Pastore, cap. X: “Io sono il buon pastore, questo e’ il mio gregge”, quindi c’e’ il gregge di cui Gesu’ e’ il pastore e, attenti bene, di questo gregge che e’ la Chiesa e’ Gesu’ il buon pastore, non altri, noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che e’ Gesu’, nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve avere il potere, se non l’autorita’ nella carita’ e il servizio che provengono dal seguire Gesu’ e fare la Sua volonta’.

L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – e’ al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi e’ in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Il cuore della Chiesa – poi Paolo dira’ -  e’ Cristo, che e’ il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesu’ che dice: “Chi e’ in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carita’ nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli e’ perché forse viene meno qualche volta questa centralita’ di Cristo:  magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma e’ Gesu’ il Pastore e questo guardate da’ una grande liberta’, nella misura in cui noi siamo comunita’ in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna. Alla samaritana dice: “Io ti darò un’acqua, bevendo la quale tu non avrai piu’ sete, ma da te zampilleranno fonti di acqua viva, il dono dello Spirito Santo”. Chi e’ in Cristo ha la vita nuova che e’ la vita stessa di Cristo; se Gesu’ e’ venuto nel mondo e’ proprio per portare a noi la vita che c’e’ nel cuore del Padre. Quando noi testimoniamo il cristianesimo così – io dicevo questa sera ai miei ragazzi – e’ la cosa piu’ bella, non ci sono tutte le storie che continuamente sentiamo, i moralismi, ecc.; la vita morale e’ vissuta bene quando siamo in Cristo, quando attingiamo all’acqua della fonte viva che e’ il cuore di Cristo, e d’altra parte pensate ai santi, Benedetto, gli apostoli, Francesco, Chiara, Teresa di Calcutta: piu’ si e’ uniti in Cristo e piu’ si e’ santi. Domani e’ la festa dei Santi, e’ la nostra festa domani, anche noi siamo santi, santificati dallo Spirito Santo, i nostri genitori, i nostri santi, tante brave persone venute prima di noi, nella poverta’, nella sofferenza, santi, certamente, santi perché sono stati santificati dal corpo di Cristo che e’ l’eucaristia, santificati dallo Spirito – “Io vi manderò lo Spirito che vi insegnera’ la verita’ tutta intera”, dice Gesu’, e nel giorno della Pentecoste il fuoco dell’amore dello Spirito fa nascere la Chiesa.  E’ la nostra festa domani, e’ la festa di tutti, io ho fatto questa omelia nella messa prefestiva di stasera e la farò anche domani: noi siamo santificati e -  dicevo – questa sera lasciamoci una volta riempire da questa promessa: Gesu’ ci promette la beatitudine, sentiamoci una volta beati, una volta santificati, togliamo gli stress, quelle pressioni, io capisco che la sera venire fino qui con questo stress quotidiano che ha una persona che va a lavorare e’ terribile, ma prendiamoci un momento di contemplazione, sentiamo in noi quest’opera di beatitudine, lasciamoci amare dal Signore.  E allora, ecco veramente l’esperienza del Vangelo di Giovanni e’ un’esperienza che ci può davvero far sentire sempre giovani. Dice Nicodemo anziano: “Come faccio io che sono vecchio a tornare nel seno di mia madre e rinascere?”. Gli risponde Gesu’: “Rinasci dall’acqua e dallo Spirito”, cioe’ viviamo immersi nei sacramenti, in comunione con Gesu’, lasciamo che questa santita’ che Gesu’ ci ha donato entri in noi e ci sentiamo una volta santificati, beatificati e allora in qualche modo l’amore di Gesu’ arrivera’ attraverso di noi anche alle nostre famiglie, ai nostri figli, ai nipoti, che credano, che non credano. Oggi ho fatto un funerale a una persona giovane, 55 anni; ieri era venuta una signora che lo conosceva, dicendomi: “Ma Don Enrico sa, questi sono atei, il figlio si proclama ateo, mi raccomando, che predica fara’ lei domani?”. Io ho letto le beatitudini e ho detto: guardate in ogni uomo un po’ di beatitudine ci deve essere stata per forza, e allora anche lui, questo nostro fratello, nel suo cuore avra’ vissuto un momento di bellezza evangelica e oggi il Signore lo accogliera’,  anche lui se lo portera’, come il buon pastore, nel seno del Padre. E allora vedete come e’ ricca di vita anche pratica, di vita quotidiana, la parola di Gesu’. So che quest’anno fate il Vangelo di Giovanni, ecco fatelo con molta gioia, con molta profondita’ ed io credo che sentirete davvero zampillare dentro di voi la bellezza della luce, della grazia, la bellezza del dono che Gesu’ ci ha fatto: Gesu’ ci ha portati tutti insieme nel cuore del Padre. Noi possiamo con Gesu’ sentire i palpiti di amore del cuore del Padre. Come faceva Teresa del Bambin Gesu’, che sentiva, come faceva Francesco, sentivano come il Padre…..qui ci sono tanti temi di cui vi volevo parlare.

Abbiamo detto molte cose in questo nostro incontro: Verbo, pane, acqua, sangue, vita, i giudei, la salvezza, l’incredulita’. Una parola sull’ira di Dio: Leon Dufour fa notare che “mai nei Vangeli si parla di ira del Padre, non c’e’ l’ira del Padre”, bellissimo; ma vi rendete conto?  Mentre nell’Antico Testamento se ne parla, se voi andate a vedere sul vocabolario biblico la parola “ira” e’ presente; diciamo che anche Gesu’ qualche volta si arrabbia, non e’ indifferente, e allora l’ira di Dio come va intesa?  L’ira di Dio e’ questa:  la sofferenza di Dio di non poter amare fino in fondo le sue creature, di non poter amare, perché c’e’ uno steccato, una barriera; l’ira di Dio e’ un supplemento di amore, non poter arrivare fino al cuore delle sue creature. Quindi quando leggerete questo Vangelo spirituale, ricordatevi, “Gesu’ mi ha portato a sentire i battiti di amore del cuore del Padre”.

Domanda: Il Vangelo di Giovanni può ritenersi quello che piu’ e’ stato attento a reperire la provenienza storica dei fatti, perché poi risulta essere quello che forse si presenta come il piu’ colto?

Risposta: L’accusa che viene spesso fatta al Vangelo di Giovanni e’ di non essere abbastanza storico. Allora, attenti bene: per esempio in Giovanni c’e’ alla fine la risurrezione di Lazzaro di cui nessun altro evangelista parla e Giovanni lo mette lì proprio prima della cattura e della morte di Gesu’, con una proiezione sulla stessa morte e risurrezione di Gesu’.  Allora ci si chiede: ma e’ possibile che gli altri evangelisti non abbiano parlato di questo fatto clamoroso? -  ci si chiede spesso. State bene attenti: dicono bene gli studiosi, i padri della chiesa per esempio non erano interessati a sapere quanti miracoli storicamente Gesu’ aveva fatto, né quello era l’interesse degli evangelisti, che non avevano l’interesse a raccontare dei fatti “storici”, perché essi miravano a soffermarsi su questa persona di Gesu’ e sulle sue parole, morte e risurrezione, con cui Egli ci ha rivelato un mondo nuovo e svelato il volto d’amore del Padre. Indubbiamente, vi sono nella tradizione vetero-testamentaria e anche nel Nuovo Testamento episodi di miracoli, di resurrezioni: però l’evangelista Giovanni non ritiene centrale questo episodio in sé e per questo lo inserisce alla fine del suo vangelo, perché il suo scopo era quello di illuminare la persona di Gesu’ e la sua risurrezione, di leggere la risurrezione di Lazzaro come preparazione alla risurrezione di Gesu’. Quindi certi eventi storici a Giovanni non interessavano piu’, perché erano gia’ conosciuti dalle chiese e comunita’ cristiane, lui scrive tardi, a lui interessa descrivere come ha contemplato nello Spirito Santo il mistero di Gesu’.

Che cos’e’  che noi abbiamo di piu’ a cuore, l’uomo cosa desidera di piu’?  Di per sé l’uomo desidera una cosa, di non morire, ma pensate che intuizione ha avuto Gesu’. Le foglie che in questa stagione cadono, i tigli che sono lì nella mia parrocchia e in giugno sono profumatissimi, adesso in autunno cadono, come dicevano i poeti latini Orazio, Catullo; insomma oggi c’e’, domani non c’e’ piu’, la visione del nulla, una visione spesso propria della filosofia moderna.  Quello che io trovo grande in in Gesu’ e che Giovanni e’ riuscito a trasmetterci e’ che Gesu’ ha dato un senso alla nostra storia personale, portando l’idea della nostra risurrezione. Ma come risorgeremo? Risorgeremo con il nostro corpo, quando sara’ la fine; la mia identita’ personale, quello per cui io sono uomo, risorge, non solo il mio spirito come e’ stato sempre insegnato. Nella mentalita’ ebraica, l’uomo e’ composto di spirito e di carne, la nostra identita’ risorge, mio padre che e’ morto, mia sorella che e’ morta, la sua identita’, quello per cui siamo persona e’ entrato nel regno di Dio. Io non sono persona con il braccio, con la gamba, sono persona con tutta la configurazione della mia esistenza e Gesu’ ha detto chi crede in me io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

Un’altra grande cosa da sottolineare sarebbe questa famosa  teologia di Giovanni:  e’ una teologia realizzata, e’ una escatologia realizzata o e’ un’escatologia futura ? La parola escatologia vuol dire le ultime cose. In Giovanni, l’escatologia e’ un’escatologia realizzata, che non esclude una teologia futura, nella risurrezione finale,  ma in Giovanni chi crede oggi ha gia’ la vita eterna. Ora noi non sappiamo com’e’ il paradiso – e a me non interessa sapere com’e’ il paradiso – Giovanni dice però nella prima lettera che io leggo sempre ai funerali: “Dio nessuno l’ha mai visto”, quando moriremo vedremo Dio così come egli e’. Questo e’ il Paradiso, contemplare Dio nella pienezza della luce, dell’amore, della verita’. Di la’ noi vedremo Dio così come Egli e’.

Domanda: Lei quando ha iniziato a parlare ha fatto l’ipotesi del come mai i discepoli erano andati a seguire Gesu’: e’ semplice, Gesu’ ha fatto le nozze di Cana e ha dato da mangiare, con Giovanni Battista loro facevano gli asceti in mezzo al deserto, mangiavano locuste, per forza…..

Don Enrico: Ma Gesu’ non aveva ancora cominciato a fare i segni quando i discepoli lo seguono, siamo ancora all’inizio e loro sono i primi discepoli di Gesu’, e secondo me questo e’ grandissimo, le nozze di Cana vengono dopo.  Qual e’ il significato delle nozze di Cana?  L’acqua che diventa vino; c’e’ un’interpretazione piu’ bella, piu’ profonda, in questo modo Gesu’ davanti ai suoi primi discepoli manifestò la sua gloria. Innanzitutto vorrei soffermarmi su questa figura molto dolce, molto semplice di Maria, che dice: “Fate quello che egli vi dice”, così discreta. Ma all’evangelista non interessa tanto il cambiamento dell’acqua in vino come fatto in se’, ma come attraverso questi segni Gesu’ incominciò a manifestare la sua gloria, la gloria che lo conduce fino alla gloria della resurrezione. La vita di Gesu’ e’ proprio questa: la discesa, la sua morte e la sua glorificazione; Gesu’ che vive e’ gia’ in qualche modo colui che e’ glorificato e che a poco a poco manifesta la sua gloria, attraverso i segni. Quindi anche a Cana – che e’ un episodio bellissimo, dolce – in realta’ Gesu’ vuole manifestare il suo rapporto di intimita’ col Padre, che incomincia a rivelarsi nei segni. Chi va incontro a Gesu’ nel Vangelo di Giovanni incontra il Padre; questo e’ grandissimo. Gesu’ aveva questo senso enorme di comunione con Dio che chiama Padre. “Come fai tu a chiamare Dio Padre?” – gli chiedono i suoi oppositori; e ancora gli dicono increduli: “Conosciamo tua madre e tuo padre”. Guardate -  sembra dire Gesu’ – non sono io, guardate le mie opere, sono le mie opere che testimoniano che io e il Padre siamo una cosa sola. Sapete che per essere creduti presso il mondo antico c’era sempre bisogno di due testimoni e Gesu’ dice: non sono io che testimonio me stesso, il Padre che mi ha mandato testimonia. Ma come fai a dire che e’ il Padre? Va bene, non credete a me, guardate le mie opere. Gesu’ continuamente spingeva a guardare dopo duemila anni dove Dio si e’ rivelato, guardate il momento straordinario dove Dio e’ diventato uomo, per assumere su di sé tutta la debolezza dell’uomo.

Domanda: Leggendo il Vangelo di Giovanni mi sembra di vedere la sobrieta’ del sepolcro, due parole sul sepolcro come e’ descritto da Giovanni. Questa semplicita’.

Don Enrico: Giovanni sceglie per Gesu’ una terra vergine, il giardino che non era mai stato usato; a me personalmente ha richiamato un po’ Adamo, che viene tratto dalla terra e Gesu’ scende in questa terra vergine perché nessuno l’aveva mai usata come sepolcro. E lì avviene la grande sconfitta di Gesu’: il silenzio totale, lui che si era fatto Figlio di Dio scende in questo sepolcro come gli altri uomini. Io qui ho scritto nel mio libro: immagino Maria, Maria di Cleofa e le altre donne, e Giovanni evangelista che hanno vegliato come facciamo noi nei nostri cimiteri, hanno vegliato in quella notte drammatica chiedendosi, ma davvero tutto e’ finito?  Questo consumarsi di Gesu’ nella storia dell’uomo fino alla fine: scendere nel sepolcro; ma quando noi scenderemo nei nostri sepolcri, per noi sara’ davvero tutto finito? Questo momento drammatico di scendere.  Ma poi ecco qui questo discorso della Pasqua, Gesu’ si e’ consumato, per tre giorni sta giu’ come ciascuno di noi, ma poi c’e’ il grande miracolo pasquale: Gesu’ risorge. E questo e’ stato possibile perché? Perché Gesu’ si e’ totalmente affidato al Padre. Noi nella nostra morte ci affidiamo completamente alla potenza del Padre che si e’ rivelato in Gesu’. Gesu’ scende nel silenzio della tomba come ciascuno di noi in una terra che nessuno ancora aveva toccato, come Adamo fatto dalla terra nasce; poi risorge per la potenza del Padre, e nella gloria di Gesu’ ci sono gia’ in nuce la risurrezione e la gloria dell’uomo.

Mi ricordo da bambino – io sono milanese – in una chiesa vedevo sempre un quadro di fine ‘700-‘800, un Ecce Homo, bellissimo, con Pilato che porta avanti questo Gesu’ con un mantello rosso.  “Ecco l’uomo”. Pensate, Pilato poteva indicare Gesu’ in un altro modo, ma invece usa questa parola che si può applicare all’umanita’ intera, anthropos. L’uomo Gesu’ si presenta davanti al sinedrio, davanti alla folla inferocita, come l’uomo che ha perso. Si vede qui l’uomo della sconfitta, come avviene anche nella nostra vita, la desolazione,  la delusione, abbiamo sognato tanto nella nostra giovinezza; questo uomo che va incontro alla morte, che accetta di essere denudato e sappiamo come essere resi nudi anche ai nostri giorni e’ una violenza enorme fatta sul corpo e sull’anima. Questa veste che viene tolta, che non viene consumata – in genere chi stava sotto la croce usava prendere tutte le ultime cose che avevano quelli messi a morte sulla croce. E Gesu’ fino in fondo, nudo, come una violenza, una violazione che delle volte vediamo anche ai nostri giorni, Gesu’ accetta fino in fondo questa immagine drammatica, però -  sembra rassicurarci Giovanni – uscirono sangue e acqua dal suo costato, segno della nuova vita. Per Agostino questo e’ il momento in cui nasce la Chiesa: sangue e acqua per indicare che inizia una nuova vita. Gesu’ scende nel sepolcro, affidandosi al Padre, e il Padre lo risuscita. Noi che cerchiamo di credere in Dio qualche volta dovremmo farci la domanda: ma perché ci ha messo al mondo, non potevamo stare nel nulla, nel silenzio, non nascere?  Ma pensate che dono e’ la vita, la vita eterna, che in primo luogo non vuol dire vita per sempre, ma vita in comunione, attraverso lo Spirito e Gesu’, con il Padre. Altrimenti potevamo essere nel silenzio, non nascere, ma siamo nati, abbiamo tutti una storia che e’ un anticipo di vita, vita eterna.  Chi crede in me ha la vita, e in Cristo e nel Padre noi abbiamo l’eternita’ della vita, partecipiamo alla vita trinitaria del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Siamo coinvolti, in questa grande sinfonia trinitaria, entriamo anche noi in comunione eterna con Dio. Per questo ha grande senso la vita.

TUTTO E’ GRAZIA – Dossier – Teresa di Gesù Bambino – Enrico Ghezzi

teresa di lisieuDOSSIER Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo

Per continuare la nostra esperienza spirituale sulla figura di Santa Teresa di Lisieux – di cui la nostra parrocchia ha avuto la grazia di ospitare le reliquie nell’ottobre missionario – proponiamo alcuni testi che possano aiutare ulteriormente a meditare alla luce della sua vita di santità.

“Tutto è grazia”

Omelia di Don Enrico Ghezzi, Parroco della Diocesi di Roma

Riportiamo la trascrizione dell’omelia di Don Enrico Ghezzi, da 15 anni parroco di San Vigilio a Roma, tenuta durante la Messa domenicale dello scorso 1 ottobre, giorno in cui cade la memoria di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo.

Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo inaugura la vita spirituale intesa come “infanzia spirituale”, cioè il ritorno all’ “innocenza”. Lei ha vissuto e incarnato sulla Via di Gesù l’invito evangelico: “Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18,3).

Cosa significa questo? Nel corso della sua vita e predicazione, Gesù insiste spesso sulla necessità di diventare piccoli, cioè di abbandonarsi nel cuore del Padre, come fanno i bambini con i genitori. Ma come “diventare bambini”?

2 ottobre 2006 – Accoglienza delle reliquie di Santa Teresa a Santa Melania

FOTO: Santa Melania/M.Romano

Dice il Vangelo di Giovanni: “Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato” (Gv 1,18). Gesù è costantemente rivolto verso il seno di Dio, il Padre. Padre Ignace de la Potterie ci ricorda l’intimità di Gesù, il Figlio Unico, sempre rivolto verso il cuore del Padre”, ricordandoci l’immagine di Gv 13,25, dove Giovanni, il discepolo amato, durante la cena pasquale, si reclina sul petto di Gesù.

Perciò, innocenza spirituale significa “abbandonarsi, come Gesù, nel seno, nel cuore di Dio. Gesù è colui che ci porta nel cuore di Dio, il Padre.

Dice ancora l’evangelista Giovanni: “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). L’infanzia spirituale – che potremo anche considerare un po’ come la povertà di spirito di cui ci parla il Vangelo – partorisce e genera in sé lo splendore della bellezza, dell’ingenuità propria dell’innocenza. L’innocenza è luce, come emerge nelle vite di santi e testimoni della fede come Teresina, Francesco e Chiara, Edith Stein, Charles de Foucault, Papa Giovanni, Madre Teresa…

I santi vivono – da adulti – l’innocenza della luce; in loro la vita è splendore e grazia. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo ha detto: “Tutto è grazia”, che significa: tutto è luce di Dio in me.

L’opacità – che potremmo definire come l’egoismo e l’indifferenza – spegne in noi i doni della vita, la luce che ci viene donata dalla “Vita” stessa che è la vita di Dio che vive nel Verbo incarnato che è Gesù, e che Gesù ci comunica. L’innocenza è la comunione stessa della vita di Dio in noi, trasmessaci da Gesù.

Nel bambino vediamo l’esplosione della vita: la scoperta, la meraviglia, lo stupore, la gioia. L’innocenza è gioia, gratuità. L’innocenza è vivere l’impossibilità di pensare e fare il male, come abbiamo visto in Gesù, e in tanti santi come Teresa di Lisieux.


2-4 ottobre 2006 – Reliquie di Santa Teresa di Lisieux a Santa Melania

FOTO: Santa Melania/M.Romano

Dice Gesù a Nicodemo: “Se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3). Ecco il “genio” di Gesù, che afferma la necessità di diventare bambini per entrare nel Regno di Dio. Per i cristiani, acqua e spirito sono lo “strumento” per “rinascere dall’alto”; essi costituiscono il dono del Battesimo: il Battesimo ci fa “rinascere” a vita nuova, rigenerata, santificata. È una nuova vita perché è la stessa Vita di Dio (cioè luce) che è la vita in Gesù, il suo Spirito donato a noi. Il Battesimo fa rinascere non più nella carne, ma nello Spirito Santo che è la Vita e l’Amore di Dio. Il Battesimo è il Sacramento della nuova vita, della vera gioia e quindi della nuova innocenza. È la vera giovinezza perché ci fa nascere nello Spirito.

La storia di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo – come di tutti Santi – è la storia del Battesimo vissuto con la novità che Gesù opera nella vita e nella storia attraverso lo Spirito. È essere rigenerati in Gesù e nel suo eterno Spirito di grazia, di luce, di amore, di purificazione, di dono.

DOSSIER – Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo
Per continuare la nostra esperienza spirituale sulla figura di Santa Teresa di Lisieux – di cui la nostra parrocchia ha avuto la grazia di ospitare le reliquie nell’ottobre missionario – proponiamo alcuni testi che possano aiutare ulteriormente a meditare alla luce della sua vita di santità.

La “scienza dell’amore”

Riflessioni di John Wu Ching Hsiung, giurista e scrittore cattolico cinese

Riportiamo alcuni stralci da “La Scienza dell’Amore”, un’opera che raccoglie pensieri e riflessioni sulla vita e la dottrina di Santa Teresina compilata da John Wu Ching Hsiung, giurista, poeta, scrittore e diplomatico cinese convertito al cattolicesimo dopo aver conosciuto la santa di Lisieux. Nel suo scritto – pubblicato per la prima volta in inglese nel 1940 a Hong Kong e successivamente in cinese nel 1974 a Taipei – l’autore, uno dei giuristi più brillanti della Cina moderna e primo cattolico nominato ambasciatore della Repubblica di Cina (Taiwan) presso la Santa Sede, definisce Teresa “tanto complessa quanto semplice”, “delicatamente audace e audacemente delicata”, “fluida come l’acqua ma ardente come il fuoco”. E nella prefazione alla prima edizione in lingua inglese scrisse, rivolgendosi innanzitutto a Maria: “O Madre, aiutami a dipingere un bel ritratto della tua amata figlia Teresa, che è anche la mia cara sorella spirituale!”. Poi aggiunge: “Perciò, gentile lettore, se questo scritto vi piace, tutto il merito va dato a Lei; se non vi piace invece la colpa è mia; ma se vi piace, eppure non vi induce ad amare Santa Teresa e il suo Divino Amante come faccio io, la colpa sarà vostra”.

I testi che seguono sono tratti da: John Wu Ching Hsiung, La Scienza dell’Amore, Pontificio Istituto Missioni Estere, Milano, II edizione, 1947. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

[Teresa] era così completamente satura di Spirito Santo che qualsiasi cosa diveniva per essa una parabola della Verità e un simbolo dell’Amore […] Solo quando uno è completamente unito a Dio, può raggiungere il distacco completo dal mondo e da se stesso. La piccola Teresa, la cui grande passione era l’amor di Dio, poteva ben disprezzare tutte le altre cose. Tutte le sue virtù sono come ruscelli che sgorgano da una Sorgente sempre viva. Anima felice che poteva esclamare: “Il mio cuore è pieno della volontà di Gesù in maniera che, versandovi sopra qualche cosa, ciò non penetra fino al fondo, è un nulla che scorre via facilmente come olio sulla superficie dell’acqua limpida”.


Abito di suor Teresa

FOTO: Santa Melania/M.Romano

[…] Quanto più io studio il carattere di Teresa, tanto più essa mi affascina e tanto più io adoro l’Artista Supremo delle anime: Gesù. Che fanciulla straordinaria doveva essere quando a soli 15 anni poteva scrivere parole come queste: “L’amore può tutto; le imprese più impossibili gli sembrano facili e dolci. Nostro Signore non considera tanto la grandezza delle nostre azioni e nemmeno la loro difficoltà, ma piuttosto l’amore con cui le facciamo. Di che cosa dunque dobbiamo temere?”. Ciò mi ricorda un proverbio cinese: “Purchè marito e moglie si amino l’un l’altro, che importa loro anche se debbano mendicare assieme?”. Per il suo Sposo Divino essa era pronta a sopportare qualsiasi genere di martirio e a considerarlo un nulla. Per essa la vita è un martirio continuo, un grande cumulo di piccoli sacrifici: vuol essere martire senza apparire tale. Il suo eroismo raggiunge altezze tali che quasi non sembra più eroico ma ordinario. Con la sua dottrina e col suo esempio essa ha approfondito, sottilizzato e allargato l’idea di martirio, e ha fatto ciò per se stessa e per altre anime subordinando tutto all’amore.

Lontana dall’essere simile a quelle grandi anime che sin dalla loro fanciullezza praticarono ogni genere di macerazioni, io ho fatto consistere le mie mortificazioni solamente nello spezzare la mia volontà, trattenere una parola amara di risposta, rendere piccoli servigi senza farli apparire, e mille altre piccole cose di questo genere”. Per essa martirio non significa solamente l’essere decapitati o fucilati o immersi in una caldaia d’olio bollente. Tali occasioni sono dopotutto molto rare e vengono accordate solo a poche anime privilegiate. Ma c’è il martirio della vita quotidiana, e siccome l’amore si nutre di sacrifici, resterebbe affamata sino a morirne se dovesse aspettare solamente le occasioni dei grandi sacrifici. Per Teresa la vita ordinaria di ogni giorno assume una nuova dignità e un nuovo significato. […] E ciò perché Dio realmente non ha bisogno dei nostri sacrifici: essi sono utili in quanto sono prove del nostro amore per Lui. Se noi lo amiamo con un cuore infiammato e una devozione appassionata, qualsiasi cosa facciamo o ci freniamo dal fare, qualsiasi parola che diciamo o ci freniamo dal dire, diventa un piccolo sacrificio che può rassomigliarsi a un fiore profumato, perché lo offriamo con un volto sereno e un dolce sorriso che affascina il cuore di Dio.

C’è un proverbio cinese che dice: “Se uno dipinge male una tigre, il risultato può sembrare un cane, ma se uno scolpisce un cigno, il risultato può almeno rassomigliare a un’anitra”. È più sicuro per le piccole anime imitare la piccola Teresa, piuttosto che imitare i Santi giganteschi dei tempi passati; perché dopo tutto il cigno e l’anitra sono volatili della stessa specie, ma la tigre e il cane, almeno secondo il nostro modo di pensare cinese, appartengono a specie interamente diverse.

E dopo tutto è forse il nostro sangue così prezioso che può aggiungere qualche cosa al sangue di Gesù Cristo? Che cosa vale una piccolissima goccia di fronte a un oceano infinito? Eppure, quando necessario, anche il nostro sangue può essere utile come un’umile prova del nostro amore per Dio; ma solo come una prova e non come un fine a se stesso. In altre parole il martirio d’amore assorbe tutte le altre forme di sacrificio e mortificazione, e aggiunge qualche cosa di nuovo, di più e di superiore.


Letto di Teresa nella casa dei Buissonets, dove abitava col padre e le sorelle prima di entrare nel Carmelo

FOTO: Santa Melania/M.Romano

[…] Madama Chiangkaishekin un notevole articolo intitolato: “Che cosa la religione è per me”, ha sintetizzato così la natura della semplicità cristiana[1]: “La vita è realmente semplice, eppure noi la rendiamo così confusa. Nelle pitture della vecchia arte cinese, vi è generalmente un oggetto solo nel quadro che è messo in rilievo, per esempio un fiore. Tutto il resto nella pittura è subordinato alla bellezza di quell’unico oggetto. Una vita perfettamente vissuta è così. Ma che cos’è quel fiore? Come mi sembra adesso, per me quel fiore è la volontà di Dio[2]”. Cito queste parole perché mi sembra che esprimano perfettamente quello che fu la vita di Teresa.

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[…] “I miei Santi favoriti in Cielo sono quelli che, per modo di dire, hanno rubato il Paradiso, come per esempio i Santi Innocenti e il Buon Ladrone. Vi sono certo grandi Santi che sembrano quasi di averlo meritato con le loro opere, ma io voglio essere un ladro e rubarlo con uno stratagemma, uno stratagemma di amore che ne aprirà le porte a me e a tanti altri poveri peccatori. Lo Spirito Santo mi incoraggia dicendo nel libro dei Profeti: ‘Venite a me piccoli anime per imparare la sagacità!’ ”. Ciò che vi è di incantevole in questo è che si tratta di un furto all’aperto. Dio le permette di rubare il Paradiso perché essa permette a Dio di rubare se stessa. […] Lao Tzu[3] disse: “La virtù solida rassomiglia ad un ladro”[4]. Mi sembra quasi che ci sia qualche cosa di ladresco, menzognero e paradossale nell’opera dello Spirito di Verità, e forse è per questo che tutti i suoi figli sono, secondo le parole di Paolo: “Ritenuti ingannatori, eppur veraci; come sconosciuti eppur noti; come morenti eppure pieni di vita; come torturati ma non uccisi; come tristi eppur sempre in gioia; come bisognosi eppur arricchendo molti; come avendo nulla eppur possedendo tutto”[5].

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[…] Con la sua scelta volontaria di divenire prigioniera dell’Amore, Teresa divenne in realtà libera come un uccello nell’aria, e mentre andò sempre più crescendo nell’attaccamento al suo Sposo, si staccò sempre più da qualsiasi altro legame terreno. Fin dalla sua più tenera fanciullezza essa penetrò e comprese la vanità delle cose che passano. […] Così essa considerava il mondo sub specie aeternitatis (alla luce dell’eternità). Il considerare la vita in questa maniera la preparò al distacco completo dalle cose nonostante le inclinazioni interne del cuore. Gradualmente si distaccò dalle creature, dall’amore della bellezza della natura, dall’attrattiva dell’arte e dall’istinto di possedere non solo le cose materiali, ma anche ciò che essa chiama “le ricchezze spirituali”. “ Se fossi stata ricca, essa scrive, mi sarebbe stato impossibile vedere un povero affamato senza dargli qualcosa del mio. Così pure a mano a mano che guadagno il mio tesoro spirituale, io penso al tempo stesso a quelle anime che sono in pericolo di cadere nell’infermo e do loro tutto ciò che possiedo, e non ho trovato ancora un momento nel quale poter dire: Ora lavoro per me stessa!”. […] “Vi è solo una maniera per costringere il buon Dio a non giudicarci:dobbiamo sempre cercare di apparire dinnanzi a Lui con le mani vuote. La cosa è facile: non mettete nulla da parte; spendete i vostri tesori appena li guadagnate. Anche se io vivessi fino a ottant’anni, sarei sempre povera perché non so far economia: tutto ciò che guadagno è speso subito per riscattare le anime”.

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[…] Teresa non ha messo fuori uso la santità degli altri Santi, ma ha semplicemente adattata la santità ai bisogni del giorno d’oggi. Essa è una rivoluzionaria che sa riformare trasformando. […] Il nostro secolo è come un vecchio che ha bisogno di ritornare bambino e la piccola Teresa gli ha mostrato la via. Sensibile, intuitiva, paradossale, umoristica, acuta, flessibile, eterea, essa ha fatto per la vita spirituale ciò che i più grandi genii contemporanei hanno fatto per il mondo nelle loro rispettive sfere di attività. […] Confesso che talvolta io rimango stupito per certi suoi pensieri che sono come lampi del suo genio penetrante. Ma nessuno potrebbe essere più sorpreso di lei stessa: “Da che ho preso la mia posizione tra le braccia di Gesù, sono come una sentinella che osserva il nemico dall’alto di una torre. Nulla mi sfugge e spesso io stessa sono meravigliata al vedere le cose così chiare”. L’umiltà per lei non è solamente un sentimento del cuore, ma una convinzione profonda basata sulla conoscenza del proprio nulla di fronte al suo Creatore. Essa sentiva e pensava sempre in presenza di Dio. […] L’amore apriva gli occhi della piccola Teresa a nuove verità e nuove ragioni per amare Gesù. […] L’amore ha la sua logica sconosciuta alla matematica. “Io lo amo, essa ragionava, perché Egli non mi ha perdonato molto, ma tutto. Egli mi ha perdonato anticipatamente tutti i peccati che avrei potuto commettere”. Teresa arriva per intuizione dove i sommi teologi arrivarono con lunghi e profondi ragionamenti. […] “Suppongo che il figlio di un abile medico si impatta per la strada in un sasso che lo faccia cadere. Nella caduta egli si fa molto male; il padre, pronto, lo rialza con amore e cura le sue ferite, impiegando a questo scopo tutti i rimedi suggeriti dall’arte, e il figlio sollecitamente e interamente guarito gli dà prova della sua riconoscenza. Ma ecco un’altra supposizione: il padre ha saputo che sulla via percorsa dal figlio v’è un sasso pericoloso; lo precede e toglie l’inciampo senza che nessuno lo scorga. Ora, questo figlio, oggetto della sua tenerezza previdente, ignorando la disgrazia dalla quale la mano paterna l’ha preservato, non gli dimostrerà riconoscenza alcuna, e l’amerà di meno di quello che l’amerebbe se l’avesse guarito da una ferita mortale; ma giunto che sia a cognizione di tutto, non l’amerà forse ancora di più?”.


Scrittoio e alcuni libri appartenenti a Teresa che si trovavano nei Buissonets
FOTO: Santa Melania/M.Romano

Mi vien quasi di immaginarmi Gesù che mettendo una mano gentilmente sulla spalla di Teresa le dica: “La verità è che tu, bambina mia, vuoi amarmi come io non sono mai stato amato dinnanzi e non ti mancano ragioni per giustificare il tuo amore. […] In Cielo, come in terra, il piccolo fiore di Gesù lo ama con un tale abisso di amore da sembrare quasi che il proprio amore non sia sufficiente. Essa vuole che milioni e milioni di altre anime lo amino come essa l’ama. “Io invito tutti gli Angeli e i Santi a venire a cantare cantici di amore”. Ma anche se il creato intero partecipasse un giorno a questo vivo concerto, essa lo stimerebbe poco più di una piccola goccia d’acqua sperduta nell’oceano infinito dell’amore divino. Essa avrebbe ancora i sentimenti di una fanciulla verso una tenera madre:

E come può l’amore
D’un piccolo fil d’erba
Ricambiar lo splendore
D’intera primavera?

Breve biografia di John Wu Ching Hsiung
A cura di Monica Romano

John Wu Ching Hsiung (1899-1986) nasce a Ningpo, provincia orientale del Zhejiang (Cina). Si laurea in Legge all’Università di Shanghai nel 1921 e ottiene il dottorato di ricerca in Giurisprudenza presso l’Università americana del Michigan nel 1922. Dopo aver studiato anche alla Sorbona di Parigi e all’Università di Berlino, viene nominato Presidente della Corte di Appello di Shanghai, che però lascerà per accettare una cattedra di legge all’Università di Chicago e poi ad Harvard. Nel 1930, Wu è costretto a tornare in Cina per una malattia della moglie, Ah Yu, – sposata 1916 attraverso un matrimonio combinato – divenendo un famoso e ricco giurista. Nel 1933, su richiesta di Sun Fo – figlio del primo presidente della Repubblica Cinese Sun Yat-sen – scrive la prima bozza della costituzione cinese.

Nel 1938, dopo l’entrata dei giapponesi a Shanghai, si rifugia a Hong Kong e nel 1942, riuscito quasi miracolosamente a scappare dalle mani dei giapponesi, si dedica alla traduzione dei Salmi e del Nuovo Testamento in cinese classico, commissionata e finanziata da Chiang Kai-shek[6]. Nel 1945 è inviato alla Conferenza di San Francisco quale membro della Delegazione cinese e l’8 settembre 1946 viene eletto all’unanimità quale ambasciatore della Repubblica di Cina presso la Santa Sede. Accettando questo prestigioso incarico, vive a Roma con la moglie e i tredici figli. In quanto rappresentante del governo della Cina nazionalista (Taiwan), amico di Chiang Kai-shek e cristiano, non potè rientrare nella Cina comunista dopo il 1949.

La storia del suo avvicinamento alla fede cristiana e della sua conversione è lunga e articolata. Pur amando e apprezzando le religioni e il pensiero cinesi, John Wu avverte la lontananza del Tao come entità astratta e impersonale e i limiti del Confucianesimo nel rispondere alle inquietudini dello spirito. Nel 1917, inizia a leggere la Bibbia e se ne innamora. Decide così di diventare cristiano e di essere battezzato. Ben presto entra in crisi e ricade nel dubbio, nell’incertezza, nella solitudine. Molti anni dopo, durante la permanenza a Hong Kong per sfuggire all’occupazione giapponese, in casa di un amico cattolico dove si era rifugiato, rimane colpito nell’assistere alla recita del rosario da parte di tutta la famiglia e scorge per caso un’immagine di Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo. Legge così “Storia di un’Anima”, che definisce “la sintesi vivente tra tutte le coppie di opposti, come umiltà e audacia, libertà e disciplina, gioia e dolore, dovere e amore, forza e tenerezza, grazia e natura, follia e saggezza, ricchezza e povertà, pluralità e individualità”. E, riferendosi a Teresa, dice: “Ella sembra mettere insieme il cuore del Buddha, le virtù di Confucio, il distacco filosofico di Lao Tzu”. Culmine del suo cammino di ricerca, la lettura degli scritti di Teresa lo spingono a entrare nella Chiesa cattolica, il 18 dicembre 1937. Scriverà della sua conversione: “Durante tutta la mia vita io ho cercato una madre, e l’ho trovata alfine nella Chiesa cattolica”.

È a seguito della miracolosa guarigione dalla polmonite della figlioletta di due anni – che già prima della malattia doveva essere chiamata Teresa – che avviene la conversione della moglie, che si farà a sua volta battezzare col nome di Mary Teresa. Tutta la famiglia Wu da questo momento in poi diventerà cattolica e sempre più unita nella fede in Cristo: “Per me non ho mai voluto imporre la mia Fede a nessun membro della mia famiglia, ma il buon Dio ci ha amato tanto che ha condisceso a divenire l’Ospite della nostra umile casa”.


Note

[1] Chiang Kai-shek (1887-1975) fu un politico e militare cinese che nel 1925 assunse la guida del Kuomintang, il partito nazionalista cinese fondato dal primo presidente della Repubblica Cinese, Sun Yat-sen con la fine della Cina imperiale avvenuta nel 1911. Fino al 1949, anno della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, una guerra civile tra i nazionalisti di Chiang Kai-shek e i comunisti guidati da Mao Zedong per il controllo della Cina sconvolse tutto il Paese. Sconfitto, Chiang dovette riparare nell’isola di Taiwan, fondando la Repubblica di Cina, che governò come presidente per tutta la vita con pugno di ferro. Nel 1927, Chiang Kai-shek sposò Mayling Soong – sorella minore della vedova di Sun Yat-sen e figlia di un pastore metodista. Per compiacere i genitori di Soong, Chiang divorziò dalla prima moglie, abbandonò tutte le sue concubine e si convertì al protestantesimo, ricevendo il battesimo nel 1929 (ndr.)

[2] China in peace and war. Kelly e Walsh, Shanghai.

[3] Lao Tzu – letteralmente “vecchio maestro” o, secondo alcuni, “vecchio bambino” – fu uno dei più importanti filosofi cinesi, la cui esistenza reale è ancora dibattuta. Vissuto nel VI secolo secondo la tradizione, Lao Tzu fondò il Taoismo ed è considerato l’autore del Tao Te Ching – “Il Libro della Via (Tao) e della sua Virtù” – che però sarebbe posteriore, risalendo al IV secolo, quando secondo alcuni studiosi il filosofo sarebbe in realtà vissuto. Il Taoismo è la più importante corrente di pensiero della filosofia cinese dopo il Confucianesimo e una delle religioni attualmente più diffuse in Cina e nel Sud-est asiatico. È molto difficile stabilire quanti siano attualmente gli aderenti al Taoismo, a causa del diffuso sincretismo religioso tra i cinesi e spesso la loro contemporanea appartenenza alle religioni tradizionali. Secondo alcune fonti, i seguaci del Taoismo sarebbero circa 20 milioni (ndr).

[4] Tao Teh Ching, cap. 44

[5] II Cor. VI, 9-10

[6] Rif. nota n.1

DOSSIER – Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo
Per continuare la nostra esperienza spirituale sulla figura di Santa Teresa di Lisieux – di cui la nostra parrocchia ha avuto la grazia di ospitare le reliquie nell’ottobre missionario – proponiamo alcuni testi che possano aiutare ulteriormente a meditare alla luce della sua vita di santità.

Teresa, “santa” e “piccola in tutto”

Ricordi di Suor Genoveffa del Volto Santo, sorella di Teresa di Lisieux

Riportiamo alcuni estratti di una raccolta di scritti di Céline Martin – una delle quattro sorelle di Teresa, entrata anche lei nel Carmelo di Lisieux col nome di Suor Genoveffa del Volto Santo – in cui parla della “Santa dell’infanzia spirituale” raccontandone grandezza e semplicità, carità, comunione con Dio, attraverso aneddoti, discorsi, ricordi, insegnamenti, esortazioni.
I testi sono tratti da: Teresa di Lisieux, Consigli e Ricordi, Città Nuova, 1973. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

Le sue conversazioni sull’amore e la misericordia di Dio erano inesauribili. La sua fiducia era invincibile e se desiderava fin dalla sua infanzia “diventare una santa e una grande santa”, come lei stessa affermava nella sua autobiografia, la sua ambizione andava a perdersi nell’infinita ricchezza dei meriti di Gesù “che erano il suo possesso”, diceva. Per questo le speranze, anche le più alte, non le sembravano temerarie.

Assicurava che non occorreva temere di desiderare e di chiedere troppo a Dio: “Sulla terra ci sono persone che sanno farsi invitare, che si intrufolano dovunque… Se noi domandiamo a Dio qualche cosa che non pensava di darci, Egli è così potente e ricco che ne va del suo onore il non rifiutarcelo, ed Egli quindi dà…”

Ma non adoperava mai questa audacia per sollecitare consolazioni o anche per alleggerire le sue pene. Nella richiesta di grazie temporali era molto cauta. Credeva che Dio non le rifiutava niente e si serviva di ciò con una grande discrezione “per paura – confidava – che Egli non si creda obbligato ad esaurirmi”. Di conseguenza quando domandava un favore o una consolazione lo faceva per far piacere ad altri, oltretutto facendo “passare le sue preghiere attraverso la Santa Vergine”, cosa che lei spiegava in questi termini: “Chiedere alla Madonna non è lo stesso che chiedere al buon Dio. Lei sa bene ciò che deve farne dei miei desideri, se è utile dirli oppure no…D’altra parte tocca a Lei valutare le cose per non forzare il buon Dio esaurirmi, per lasciarGli fare, in tutto, la Sua volontà”.

Quando esprimeva il desiderio di “fare del bene sulla terra dopo la sua morte”, poneva questa condizione: “ Prima di esaudire tutti quelli che mi invocheranno, comincerò col guardare bene negli occhi Dio per vedere se non chiedo una cosa contraria alla Sua volontà”.

Ci faceva notare che questo abbandono rispecchiava la richiesta della Santa Vergine a Cana, dove si accontentava di dire: “Non hanno più vino” (Gv 2,3).

Allo stesso modo Marta e Maria dicono solamente: “Colui che tu ami è malato” (Gv 11,3). Esse espongono semplicemente i loro desideri senza formulare domande, lasciando Gesù libero di fare la Sua Volontà.


Alcuni oggetti appartenenti a Teresa da bambina, tra cui una bambola e una culletta

FOTO: Santa Melania/M.Romano

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Un’altra volta le dissi: “Quello che in te invidio, sono le tue opere. Anch’io vorrei fare del bene, realizzare belle cose che facciano amare Dio!”.

“Occorre non attaccare il cuore a questo – mi rispose – . Credimi! Scrivere libri di pietà, comporre le preghiere più sublimi, fare opere d’arte…No! Davanti alla nostra impotenza occorre offrire le opere degli altri; ed è questo il beneficio della comunione dei Santi; e poi, di questa impotenza, non dobbiamo mai farcene una pena, ma dobbiamo dedicarci unicamente all’amore.

Dice bene Taulero: “ Se amo il bene che c’è nel mio prossimo più di quanto lo faccia egli stesso, questo bene è più mio che suo. Se in San Paolo amo tutte le grazie che Dio gli ha concesso, tutto questo mi appartiene alla stessa stregua che a lui. Per questa comunione posso essere partecipe di tutto il bene che c’è in cielo e sulla terra, negli angeli, nei santi e in tutti quelli che amano Dio”.

I Dottori ci insegnano che in cielo l’amore che unisce tutti gli eletti è così grande che ognuno gioisce della felicità degli altri come se egli l’avesse meritata, come se egli stesso ne godesse.

Tu farai del bene quanto me e anche di più, con il desiderio di fare questo bene e con l’azione più nascosta, fatta per amore, per esempio rendendo un piccolo servizio che ti costi molto. Tu sai che io sono povera, ma Dio mi dà di volta in volta quanto mi occorre”.


Oggetti appartenenti a Suor Teresa

FOTO: Santa Melania/M.Romano

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La mia cara sorellina mi diceva: “Ciò che maggiormente attira le grazie di Dio è la riconoscenza, perché se noi lo ringraziamo di un favore Egli ne rimane toccato e si preoccupa di farcene altri dieci, e se lo ringraziamo ancora con la stessa effusione, quale incalcolabile moltiplicazione di grazie ne risulterà! Io l’ho sperimentato, prova anche tu e vedrai. La mia riconoscenza è priva di limiti per tutto quello che egli mi dà, e glielo dimostro in mille maniere”.

Era riconoscenze anche per il più piccolo servizio ricevuto, ma particolarmente per il bene che le era stato fatto dai ministri del Signore con i quali aveva avuto modo di confidarsi.

Mi lamentavo del fatto che Dio sembrava trascurarmi…Suor Teresa mi riprese vivacemente: “Non dire questo! Guarda, anche quando non capisco niente degli avvenimenti, sorrido, ringrazio, mi mostro sempre contenta davanti a Dio. Non si deve mai dubitare di Lui, è mancanza di delicatezza. Mai “imprecare” contro la Provvidenza, ma esserLe sempre riconoscenti”.

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Suor Teresa del Bambino Gesù era alta: misurava un metro e sessantadue centimetri; madre Agnese di Gesù, invece, era molto più bassa. Un giorno le dissi: “Se ti fosse stata data la facoltà di scegliere, avresti preferito essere alta o bassa?”.

Senza esitare rispose: “ Avrei scelto di essere piccola di statura per essere piccola in tutto”….

…. “Nostro Signore rispose una volta alla madre dei figli di Zebedeo: “Sedere alla mia destra e alla mia sinistra spetta a quelli cui il Padre mio l’ha destinato” (Mt 20,23; Mc 10,40).

Io mi immagino che quei posti scelti, rifiutati a grandi santi, a grandi martiri, spetteranno ai piccoli…Non lo predisse forse David, quando disse che il piccolo Beniamino presiederà le assemblee (dei santi)? (Sal 67,28).

Le si domandò con quale nome avremmo dovuto pregarla quando fosse in cielo. “Mi chiamerete Teresina”, rispose umilmente.


Volto Santo di Tours al quale Teresa era molto devota e di cui conservava un’immagine nel breviario

FOTO: Santa Melania/M.Romano

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Quando una suora aveva torto e si mostrava spiacevole, lei non faceva che mostrarsi più amabile, più previdente e più dolce per calmare quel cuore agitato che sentiva soffrire. La sua bontà si manifestava con una grande tenerezza quando si ritornava da lei, dopo averle procurato un dolore.

Un giorno me ne spiegò la ragione: “ Sapessi quanto Dio è Misericordioso con le anime imperfette! Ne trovo la prova nella natura. Guarda i piccoli piselli che si sciolgono in bocca, che sono solo zucchero, e la loro buccia è tenerissima. Pure, essi possono ricevere il calore del sole e il fresco della notte, che non vengon loro risparmiati. Essi sono il simbolo delle anime perfette.

Le grosse fave, al contrario, che rappresentano le anime imperfette, sono dotate di un involucro ben solido che le immunizza. Dobbiamo dunque comportarci come il buon Dio e adoperare ogni nostra delicatezza e ogni nostra attenzione per le anime imperfette….

….Passeggiando in giardino durante la ricreazione, mostrandomi un albero da frutto mi disse: “Guarda queste pere in apparenza bruttissime; esse sono l’immagine di suore ce non ti sono simpatiche. In autunno, quando ti si daranno questi frutti privi di corpi estranei che li sfigurano, li mangerai con piacere senza pensare che li avevi disprezzati. Così, nell’ultimo giorno, resterai sbalordita di vedere le tue sorelle prive di ogni loro imperfezione e ti appariranno come grandi sante”.

DOSSIER – Santa Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo
Per continuare la nostra esperienza spirituale sulla figura di Santa Teresa di Lisieux – di cui la nostra parrocchia ha avuto la grazia di ospitare le reliquie nell’ottobre missionario – proponiamo alcuni testi che possano aiutare ulteriormente a meditare alla luce della sua vita di santità.

La gioia, carità squisita

Lettera di Albino Luciani a Santa Teresa di Lisieux

Ho scritto sopra: “senza fatica”. Intendiamoci: ciò, sotto un aspetto; sotto un altro invece… Siamo agli ultimi mesi; la vostra anima avanza in una specie di galleria oscura, non vede niente di quel che prima vedeva chiaramente. “La fede, Voi scrivete, non è più un velo, ma un muro!”. Le sofferenze fisiche sono tali da farvi dire: “Se non avessi avuto la fede, mi sarei data la morte”. Ciononostante, continuate a dire con la volontà al Signore che lo amate: “

Canto la felicità del Paradiso, ma senza provar gioia; canto semplicemente che voglio credere”. Le ultime vostre parole sono state: “Mio Dio, io vi amo!”.

All’amore misericordioso di Dio vi eravate offerta come vittima. Tutto ciò non vi impediva di godere delle cose belle e buone: prima dell’ultima malattia con gioia dipingeste, scriveste poesie e piccoli drammi sacri, interpretandone qualche parte con gusto di fine attrice. Nell’ultima malattia, in un momento di ripresa, chiedeste dei pasticcini al cioccolato.

Non avevate paura delle vostre stesse imperfezioni, neppure di esservi talvolta addormentata per stanchezza durante la meditazione (“i bambini piacciono alle mamme anche quando dormono”!).


Amando il prossimo, vi sforzaste di rendere i piccoli servigi utili ma inosservati, e di preferire, semmai, le persone che vi davano noia e meno incontravano il vostro genio. Dietro il loro volto poco simpatico cercavate il volto simpaticissimo di Cristo. E non ci s’accorgeva di questo sforzo e di questa ricerca: “Quant’è mistica in cappella e nel lavoro, scriveva di Voi la priora, altrettanto è buffa e piena di trovate, fino a farci scoppiar dal ridere, in ricreazione”.


Cattedrale di San Pietro. Qui Teresa da bambina veniva a Messa la domenica e partecipava alla vita della comunità
FOTO: Santa Melania/M.Romano

Queste poche linee, che ho tracciate, son ben lontane dal contenere il vostro completo messaggio ai cristiani. Bastano, tuttavia, a segnar alcune direttive per noi.

l’amore a Dio non dev’essere esclusivo, ma prevalente, almeno nell’estimazione.


Confessionale dove la piccola Teresa si è confessata per la prima volta

FOTO: Santa Melania/M.Romano

Cercare il volto di Cristo nel volto del prossimo è l’unico criterio che ci garantisca di amare sul serio tutti, superando antipatie, ideologie e mere filantropie.
Un giovanotto, ha scritto il vecchio arcivescovo Perini, batte una sera alla porta di una casa: ha l’abito delle feste, un fiore all’occhiello, ma, dentro, il cuore gli batte forte: chissà come la ragazza ed i suoi familiari accoglieranno la domanda di matrimonio ch’egli viene timidamente a fare?

Aiutare come si può, non prendersela, essere comprensivi, mantenersi calmi e sorridenti (il più possibile!) in queste occasioni, è amare il prossimo senza retorica, ma in modo pratico.

Cristo ha molto praticato questa carità. Quanta pazienza nel sopportare i litigi che gli Apostoli facevano tra di loro! Quanta attenzione a incoraggiare e lodare: “Mai trovata tanta fede in Israele” dice del Centurione e della Cananea. “Voi siete rimasti con me anche nei momenti difficili” dice agli Apostoli. E una volta chiede per piacere la barca a Pietro.

“Sire di ogni cortesia” lo dice Dante. Sapeva mettersi nei panni degli altri, soffriva con loro. Proteggeva, difendeva oltre che perdonare i peccatori: così Zaccheo, così l’adultera, così la Maddalena.

La gioia può diventare carità squisita, se comunicata, come appunto Voi facevate nelle ricreazioni del Carmelo, agli altri.

L’irlandese della leggenda che, morto improvvisamente, si avviò al tribunale divino, era non poco preoccupato: il bilancio della vita gli si rivelava piuttosto magro. C’era una fila davanti a lui, stette a vedere e a sentire. Dopo aver consultato il gran registro, Cristo disse al primo nella fila: “Trovo che avevo fame, e tu mi hai dato da mangiare. Bravo! Passa in Paradiso!”. Al secondo: “Avevo sete e tu m’hai dato da bere”. A un terzo: “Ero in carcere e m’hai visitato”. E così via.



Intorno al Volto Santo di cui Teresa aveva una grande devozione, le rose in basso rappresentano i genitori, Louise and Zelie Martin; i cinque fiori Teresa e le sue sorelle (Marie, Pauline, Léonie, Céline); i fiori chiusi i fratellini morti appena nati.

FOTO: Santa Melania/M.Romano

Per ognuno, che veniva spedito in Paradiso, l’irlandese faceva un esame e trovava di che temere: lui, non aveva dato né da mangiare né da bere, non aveva visitato né carcerati né malati. Venne il suo turno, tremava, guardando Cristo, che stava esaminando il registro. Ma ecco che Cristo alza gli occhi e gli dice: “Non c’è scritto molto. Però qualcosa hai fatto anche tu: ero mesto, sfiduciato, avvilito: sei venuto, m’hai raccontato delle barzellette, m’hai fatto ridere e ridato coraggio. Paradiso!”.

Giugno 1973



E’ una facezia, d’accordo, ma sottolinea chenessuna forma di carità va trascurata o sottovalutata.

Ad aprire viene la ragazza in persona. Un’occhiata e il rossore, il piacere evidente (manca la “furtiva lacrima”) della signorina lo rassicurano, il cuore gli s’allarga. Entra; c’è la madre della ragazza; gli sembra signora simpaticissima, gli verrebbe voglia d’abbracciarla addirittura. C’è il padre, l’ha incontrato cento volte, ma stasera gli appare trasfigurato da una luce speciale. Più tardi arrivano i due fratelli; braccia al collo, saluti calorosi.

Si chiede Perini: cosa succede in questo giovanotto? Cosa sono tutti questi amori spuntati all’improvviso come funghi? Risposta: non si tratta di amori, ma di un amore solo: ama la ragazza e l’amore portato a lei lo diffonde su tutti i suoi parenti.

Chi ama sul serio Cristo non può rifiutarsi di amare gli uomini, che di Cristo sono fratelli. Anche se brutti, cattivi e noiosi, l’amore li deve un po’ trasfigurare.

Il vero amor di Dio si sposa con la ferma decisione presa e, al bisogno, rinnovata.

In una delle lettere indirizzate idealmente ad alcune grandi figure del passato in una raccolta intitolata “Illustrissimi”, l’allora Patriarca di Venezia – il Cardinale Albino Luciani, futuro papa Giovanni Paolo I per soli 33 giorni – si rivolge alla Santa di Lisieux, sottolineandone la grandezza e la forza e invitando i cristiani a imitarla nella carità semplice e quotidiana, che ha un grande valore agli occhi di Dio e fa la differenza nella vita di coloro che incontriamo nel nostro cammino.

Cara piccola Teresa,

Avevo diciassette anni, quando lessi la vostra autobiografia. Fu per me un colpo di fulmine. “Storia di un fiorellino di maggio” l’avevate definita.

A me parve la storia di una “spranga d’acciaio” per la forza di volontà, il coraggio e la decisione, che da essa sprizzavano. Scelta una volta la strada della completa dedizione a Dio, niente v’ha più sbarrato il passo: né malattia, né contraddizioni esterne, né nebbie e tenebre interiori.

Teresa, l’amore che avete portato a Dio (e al prossimo per amor di Dio) fu veramente degno di Dio. Così dev’essere l’amore nostro: fiamma, che si alimenta di tutto ciò che in noi è grande e bello; rinuncia a tutto ciò, che in noi è ribelle; vittoria, che ci prende sulle proprie ali e ci porta in regalo ai piedi di Dio.

Amore spicciolo. Spesso è l’unico possibile. Non ho mai avuto l’occasione di gettarmi nelle acque di un torrente per salvare un pericolante; spessissimo sono stato richiesto di prestare qualcosa, di scrivere lettere, di dare modeste e facili indicazioni. Non ho mai incontrato un cane idrofobo per via; invece, tante noiose mosche e zanzare; mai avuto persecutori che mi bastonassero, ma tante persone che mi disturbano col parlare forte in strada, col volume della televisione troppo alzato o magari col fare un certo rumore nel mangiare la minestra.

L’indeciso Enea del Metastasio, che dice: “Intanto confuso, nel dubbio funesto, non parto, non resto” non era stoffa da vero amore di Dio.

Più adatto, semmai, il vostro compatriota maresciallo Foch, che durante la battaglia della Marna, telegrafava: “Il centro del nostro esercito cede, la sinistra si ritira, ma io attacco lo stesso!”.

Un po’ di combattività e di amore al rischio non guasta nell’amore al Signore. Voi ce l’avevate: non per niente sentiste in Giovanna d’Arco una “sorella d’armi”.

Me ne ricordai, quando mi portarono ammalato al sanatorio, in anni in cui, penicillina e antibiotici non essendo ancora stati inventati, al degente si prospettava, più o meno vicina, la morte.

Mi vergognai di provare un po’ di paura: “Teresa ventitreenne, fino allora sana e piena di vitalità, mi dissi, fu inondata di gioia e di speranza, quando sentì salire alla bocca la prima emottisi. Non solo, ma, attenuando il male, ottenne di portare a termine il digiuno con regime di pane secco e acqua, e tu vuoi metterti a tremare?

Sei sacerdote, svegliati, non fare lo sciocco!”.

Voi, a Lisieux, avete camminato dietro i suoi esempi; noi dovremmo fare altrettanto nel mondo.

Carnegie racconta di quella signora, che un giorno fece trovare ai suoi uomini, marito e figli, la tavola ben preparata e infiorata, ma con un pugnetto di fieno su ogni piatto. “Cosa? Fieno ci dài oggi?” le dissero. “Oh, no, rispose, vi porto subito il pranzo. Ma lasciate che vi dica una cosa: da anni vi faccio la cucina, cerco di varare, una volta il risotto, un’altra il brodo, ora l’arrosto, ora l’umido, ecc. Mai che diciate: “Ci piace”, “sei stata brava!”. Dite per piacere una parola, non sono di sasso! Non si può lavorare senza un riconoscimento, un incoraggiamento, per il solo re di Prussica!”.

Può essere spicciola anche la carità sprivatizzata o sociale. C’è in atto uno sciopero giusto: può darsi che esso porti disagio a me, che non sono direttamente interessato alla vertenza. Accettare il disagio, non mormorare, sentirsi solidali con dei fratelli, che lottano per la difesa dei loro diritti, è pure carità cristiana. Poco notata, non per questo meno squisita.
Una gioia mescolata all’amore cristiano. Appare già nel canto degli Angeli a Betlemme. Fa parte dell’essenza del Vangelo, che è “novella lieta”. E’ caratteristica dei grandi santi: “

Un Santo triste, diceva Santa Teresa d’Avila, è un triste santo”. “Qui da noi, soggiungeva San Domenico Savio, ci si fa santi con l’allegria”.

Giacobbe un giorno si innamorò di Rachele: per averla, prestò servizio ben sette anni, che “gli parvero, dice la Bibbia, pochi giorni, talmente l’amava” e Dio non ebbe niente a ridire, anzi approvò e benedisse.

Spruzzare d’acqua santa e benedire tutti gli amori di questo mondo è un’altra cosa. Purtroppo, tenta di farlo oggi qualche teologo, il quale, influenzato dalle idee di Freud, Kinsey e Marcuse, inneggia alla “nuova morale sessuale”. Se non vogliono la confusione e lo spappolamento, invece che a questi teologi, i cristiani dovranno guardare al Magistero della Chiesa, che gode di speciale assistenza sia per conservare intatta la dottrina di Cristo sia per adattarla in modo conveniente ai tempi nuovi.

Nell’Elisir d’amore di Donizetti basta la “furtiva lacrima”, spuntata sulle ciglia di Adina, a rassicurare e fare beato l’innamorato Nemorino. Dio non si accontenta di sole furtive lacrime. Una lacrima esterna in tanto gli piace, in quanto ad essa corrisponde dentro, nella volontà, una decisione. Così è anche delle opere esterne: esse piacciono al Signore, solo se corrisponde loro un amore interno. Il digiuno religioso aveva addirittura fatto sterminio sulle facce dei Farisei, ma a Cristo non piacquero quelle smunte facce, perché trovava che il cuore dei Farisei era lontano da Dio. Voi avete scritto: “L’amore non deve consistere nei sentimenti, ma nelle opere”. Avete però soggiunto: “

Dio non ha bisogno delle nostre opere, ma solo del nostro amore”. Perfetto!

Con Dio si può amare un sacco di altre belle cose. A un patto: niente sia amato contro o sopra o nella stessa misura di Dio. In altre parole:

Rileggendovi, in occasione del centenario della nascita (1873-1973), mi colpisce invece il modo con cui avete amato Dio e il prossimo. Sant’Agostino aveva scritto: ” Andiamo a Dio non col camminare, ma con l’amare”. Anche Voi chiamate la vostra strada “via dell’amore”. Cristo aveva detto: “Nessuno viene a me, se il Padre mio non l’attira”. In perfetta linea con queste parole,Voi vi siete sentita come un “uccellino senza forza e senz’ali”; in Dio, invece, avete visto l’aquila, che scendeva per portarvi alle altezze sulle proprie ali. Chiamaste la grazia divina “ascensore”, che vi innalzava a Dio presto e senza fatica, essendo Voi “troppo piccola per salire l’aspra scala della perfezione”.

98° video – Santa Tersa del Bambino Gesù – Viver d’Amore!…

Santa Tersa del Bambino Gesù – Viver

Viver d’Amore!…

“La sera dell’amore, senza parabole Gesù diceva: « Se uno vuole amarmi,
la mia Parola nella sua vita accolga. Io e il Padre verremo a visitarlo e,
dimora prendendo nel suo cuore, lo ameremo per sempre, da lui stando.
Vogliamo che, colmo di pace, resti nel nostro Amore! ».

Viver d’Amore è custodire Te, Verbo Increato, Parola del mio Dio!
Ah, tu sai che t’amo, Gesù divino! Lo Spirito d’Amor tutta m’infiamma.
È amando Te che io attiro il Padre: il debole mio cuore lo trattiene.

O Trinità, tu ormai sei prigioniera del mio Amore!

Viver d’Amore è di tua vita vivere, Re glorioso, delizia degli eletti.
Tu nascosto nell’ostia per me vivi: e io voglio per te, Gesù, nascondermi!
Pur occorre agli amanti solitudine, un cuore a cuore che duri notte
e giorno Il tuo sguardo è per me beatitudine: vivo d’Amore!…

Viver d’Amore non è mai qui in terra un piantare la tenda in vetta
al Tabor: è salire invece con Gesù il Calvario, è nella Croce scorgere
un tesoro! A me gioire sarà dato in Cielo, ove per sempre esclusa
è la prova; ma nell’esilio voglio col soffrire viver d’Amore.

Viver d’Amore è dare senza tregua, senza pretesa di compensi umani.
Ah, senza misura io do, ben certa che non si calcola quando pur si ama!
Al Cuor Divino, colmo di dolcezza, ho dato tutto ed or leggera corro
ed io altro non ho che la mia ricchezza: viver d’Amore.

Viver d’Amore è delle antiche colpe bandire ogni timore, ogni ricordo.
Dei miei peccati nessun segno vedo: in un lampo l’amor tutto ha bruciato!
Fiamma Divina, Fornace dolcissima, nel tuo braciere io dimora prendo!
Nelle tue fiamme libera io canto: « Vivo d’Amore ».

Viver d’Amore è navigare sempre, gioia e pace nei cuori seminando.
Mossa da Carità, Pilota caro, ti vedo nell’anime mie sorelle.

La Carità è la mia sola stella: su giusta rotta vogo alla sua luce.
Io sulla vela il mio motto ho scritto: « Viver d’Amore ».

Viver d’Amore è, mentre Gesù dorme, trovar riposo sui tempestosi
flutti. Non temere, Signor, che io ti svegli! In pace attendo il celeste
approdo. Presto la Fede squarcerà il suo velo; la Speranza per me
è vederti un giorno: Carità è una vela gonfia che mi spinge: Vivo d’Amore!

Viver d’Amore, mio Divin Maestro, è supplicarti che il tuo fuoco invada
del tuo Sacerdote l’anima sacra: più puro sia dei Serafini in Cielo! Glorifica
la Chiesa tua immortale; non esser sordo, Gesù, ai sospiri miei; per lei io,
Figlia sua, qui mi immolo: Vivo d’Amore!

Viver d’Amore è asciugarti il Volto e ottener perdono ai peccatori:
la tua grazia li accolga, o Dio d’Amore; e il tuo Nome in eterno benedicano!

Mi rintrona nel cuore la bestemmia: per cancellarla voglio ricantare:
« ll tuo Santo Nome io adoro e amo ». Vivo d’Amore!

Viver d’Amore è imitar Maria che di pianto e preziosi aromi bagna i tuoi
piedi divini e, rapita, coi lunghi suoi capelli li rasciuga; poi ella, rotto
il vaso, si rialza per profumare il tuo dolce Volto. Anch’io il tuo Volto
posso profumare col mio Amore!

« Viver d’Amore, oh, che follia strana! », mi dice il mondo:
« Cessate il vostro canto, e vita e profumi non sprecate più!
Sappiate farne un uso intelligente! ».

Amarti, Gesù, che perdita feconda! Tutti i miei profumi son
per te solo; senza rimpianti lascio il mondo e canto:
« Muoio d’Amore! »

Morir d’Amore è assai dolce martirio, che vorrei appunto per te
patire! Cherubini, accordatevi la lira: del mio esilio io sento già la fine.
Fiamma d’Amor, continua a consumarmi! Vita fugace, pesa il tuo fardello!
Gesù Divino, il mio sogno adempi: morir d’Amore.

Morir d’Amore, ecco la mia Speranza! Quando spezzate vedrò le mie
catene, sarà Dio la mia grande Ricompensa: altri beni io non voglio
possedere. Del suo Amore voglio infiammarmi tutta, voglio vederlo,
a Lui per sempre unirmi. Ecco il mio Cielo, ecco il mio destino: viver d’Amore!!!…”

Santa Teresa del Bambin Gesù, Dottore della Chiesa: Opere (Febbraio 1897)

Preghiera:

O Dio, il Tuo Santo Spirito infiammò il cuore di Santa Teresa di un
amore senza frontiere al Tuo Divino Figlio e la illuminò per comprendere
e praticare la Legge Suprema dell’Amore. Supplichiamo umilmente a Te
di concederci per sua intercessione, trovare Te in tutte le cose, avvenimenti
e persone. Te lo chiediamo per mezzo di Gesù Cristo, Nostro Signore, amen.

A cura dell’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum”

I GIOVANI E IL DIAVOLO – De Carli

mercoledì 27 maggio 2009

Don Gabriele Amorth

I GIOVANI E IL DIAVOLO

  

Parla Padre Amorth, l’anti-satana

 

L’intervista con Padre Gabriele Amorth, l’esorcista più conosciuto al mondo: “Vescovi e preti ignoranti s’affidano agli psichiatri”.Giuseppe De Carli

Nel 1972 Paolo VI affermò che «attraverso qualche fessura il fumo di satana è entrato nella Chiesa». Il 15 novembre dello stesso anno dedicò al demonio un intero discorso. L’intervento del Papa fece scalpore.Quel fumo è stato allontanato o ha invaso altre stanze?

«Ha invaso altre stanze»

A che cosa si riferisce?

«Alla ignoranza assoluta dei preti e dei vescovi su queste tematiche per cui capita che, quando una persona si rivolge al suo vescovo per chiedere aiuto, viene sbattuto fuori dalla porta. Ci sono diversi esorcisti in crisi di identità che mandano tutti dagli psichiatri».

I casi di possessioni però aumentano e il clero sembra sempre meno attrezzato?

«È così. Quando una persona viene da me ed esprime i suoi disturbi chiedo subito se va a messa, se prega. Di solito le risposte sono negative. Niente messa, niente sacramenti, posizioni matrimoniali sballate».

E lei come reagisce?

«Di solito dico: “Figliolo caro, la prima condizione per guarire è quella di vivere in grazia di Dio. Un esorcismo non serve a niente se si vive in stato di peccato».

Parla con foga padre Gabriele Amorth, principe degli esorcisti, mentre affronta uno dei fenomeni più inquietanti della nostra epoca. Malefici, possessioni diaboliche, fatture, sedute spiritiche, occultismo, rock satanico, scritture automatiche, invocazioni ai morti, magia nera o bianca. Insomma, lo “spiritismo fai da te”. Padre Amorth non è affatto triste come si suppone. Al contrario. È persona gaia e dolce, serena e persino spiritosa. Scherza con chi scrive e con Mariarita Viaggi, l’ex-annunciatrice della Rai, oggi in forza a RaiUno, cantautrice e “scugnizza di Dio” come lo stesso Amorth la definisce. È grazie alla Viaggi, nata sensitiva che riesce a sintonizzarsi anche senza parole col famoso esorcista, che abbiamo ottenuto questa intervista. Padre Amorth, nato a Modena il 1 maggio 1925, ci riceve in una grande sede della società San Paolo a Roma. Un ufficio che assomiglia a una infermeria. Sulle pareti foto di san Padre Pio, del beato Alberione, una statuina della Madonna di Fatima e una effigie della Madonna di Medjugorje.

«Io sono cotto di Medjugorje. Su questa apparizione ho scritto molto ed è il posto del mondo dove ci si confessa di più e avviene il maggior numero di conversioni». Mi dà un numero di “Tutto Maria” e un foglietto con i “Comandamenti di Dio”. «Basta seguirli per salvarsi. Qui c’è la medicina per ogni male dell’anima».

Senta, padre Amorth, lei è sempre stato critico nei confronti del nuovo Rituale degli esorcismi. Lo è ancora?

«Lo sono ancora perché nessun cambiamento è stato fatto. Tranne una modifica: nel nuovo Rituale si proibiva di fare gli esorcismi nei casi di malefici che sono il novanta per cento. Il che significava impedire agli esorcisti di fare il loro mestiere».

La modifica l’avete ottenuta per un intervento dell’allora cardinale Joseph Ratzinger.

«Ratzinger per tre volte mi ha consultato. Da parte mia uso il vecchio Rituale e mi sento in perfetta regola».

Quanti sono gli esorcisti in Italia?

«Calcolo che siano circa trecento. Poi altri, ma temo abbiano scarsa preparazione».

Sappiamo che Giovanni Paolo II è intervenuto qualche volta per liberare dei fedeli dal demonio. Con Benedetto XVI la battaglia del principe delle tenebre si è fatta ancora più dura?

«Sì, Benedetto XVI è un Papa sensibilissimo su questa problematica, cosa rara e da ammirare perché i tedeschi, come i francesi, i portoghesi e gli spagnoli, ad esempio, non hanno esorcisti. Non ci credono i vescovi e i preti. E in quelle Chiese questa figura è scomparsa».

La più grande vittoria del demonio non è forse quella di far credere che non esiste?

«È una frase attribuita a Baudelaire. Fa credere di non esistere per agire con piena libertà, per tormentare e, a volte, distruggere una vita. Il calo vertiginoso della pratica religiosa ne è un sintomo. Si frequenta la Chiesa fino all’adolescenza poi si sparisce. Si azzera Dio nella propria vita».

Eppure la vita terrena e pubblica di Gesù è stata una ininterrotta battaglia contro il male. Scacciare il demonio è stata une delle sue occupazioni principali.

«Nel Vangelo tante volte Gesù caccia i demoni e dà il potere di vincerli. Prima agli Apostoli, poi ai settantadue discepoli e poi a tutti. Anche lei, con una preghiera privata, può scacciare i demoni. La preghiera pubblica è quella di un esorcista che agisce in nome della Chiesa. È un sacerdote nominato da un vescovo, non è detto però che sia più efficace. Ci sono tanti santi che, pur non essendo preti, erano esorcisti. San Benedetto da Norcia, santa Caterina da Siena, qui a Roma san Vincenzo Pallotti, san Padre Pio. Io sono amico del Rinnovamento Carismatico Cattolico e lo sono perché il cuore di questo movimento è Gesù Cristo e lo Spirito Santo, gli unici che hanno il potere di liberarci dal male».

Il filone della magia nera, la presenza di satana hanno invaso gli schermi cinematografici e i concerti di massa. C’è un appeal oscuro, anche se fa cassetta. Fra l’altro, dietro tanti delitti abbiamo scoperto che c’è il dito del demonio.

«Pensi alla suora uccisa a Chiavenna o a Erika e Omar, i due ragazzi di Novi Ligure. Le indagini hanno scoperto che questi ragazzi avevano libri satanici. E satana si trova benissimo con queste persone, perché fanno quello che lui vuole».

Impressiona che siano soprattutto giovani.

«Non si meravigli. Una volta mentre esorcizzavo una persona, invocavo l’intercessione di Giovanni Paolo II. Il demonio era furioso. Perché ce l’hai tanto con questo Papa? gli ho chiesto…».

E la risposta quale è stata?

«Perché mi ha strappato tanti giovani, perché ha rotto i miei piani.. Io credo si riferisse al crollo del comunismo».

Può essere. Anche se oggi la società globale dei consumi quanto a “morte di Dio” non è da meno del socialismo reale.

«Ha ragione. Il demonio usa ogni mezzo per strappare la gente da Dio. Leggi sul divorzio e leggi sull’aborto che – non dimentichiamo – è un omicidio legalizzato. Gioventù demotivata e senza ideali che, andando in discoteca, si lascia irretire dalle droghe leggere o pesanti. Giovani che incontrano una setta satanica e ci si infilano dentro».

Cosa promette satana?

«Basta leggere le tentazioni di Cristo. Promette tutti i beni terreni. Nella mia vita ho bruciato tante “consacrazioni” a satana scritte col sangue: “Tu sei il mio dio, io appartengo a te”».

Gloria, potenza, denaro, successo, sesso facile. Forse la tentazione più subdola è la visibilità a ogni costo.

«Se ti prostri ad adorarmi, tutti i regni della terra saranno tuoi, dice il demonio a Gesù portato su un alto monte. “Sta scritto: adorerai solo il Signore Dio tuo”, risponde Gesù. Vede, persino Gesù è stato messo alla prova. E quale prova! Dio ci ha dato il libero arbitrio e lo rispetta fino al punto di permetterci di fare il male».

Quale è l’identikit di un posseduto?

«Di essere completamente lontano da Dio. Sant’Alfonso Maria de’ Liguori affermava che chi prega si salva, chi non prega si danna. Poi il “posseduto” fa dei piaceri e delle ricchezze un idolo, un vitello d’oro da adorare. Noi non abbiamo scampo. Fra cent’anni saremo o all’inferno o in paradiso. Ecco perché io faccio come Gesù. “Cosa devo fare per avere la vita eterna?” Gesù è diretto: “Osserva i dieci comandamenti”».

Il demonio, Belzebù non le ha mai fatto del male?

«A me no. La Madonna mi protegge col suo manto. Ho l’arcangelo Gabriele, come il mio nome, che mi protegge. Ho il mio angelo custode che mi fa da cane da guardia e non lascia passare niente».

Padre Amorth, è sempre riuscito a sconfiggere il demonio?

«Si fa una fatica immensa. Si può alleviare la sofferenza di una persona, ridurre al minimo una possessione diabolica, permettere alla vittima di tornare a una vita normale. Scacciare via il demonio non sempre riesce».

C’è una preghiera che ci può mettere al riparo?

«Tutte le preghiere sono buone. Io raccomando la messa, i sacramenti, la confessione settimanale per coloro che sono colpiti, quella mensile per tutti gli altri. Raccomando la preghiera mariana del rosario, la lettura quotidiana della Sacra Scrittura. Tutte le cose stanno in piedi se vengono alimentate. Lo stesso per l’amore. Se due si sposano e se alimentano il loro amore il matrimonio regge. Così è per la fede. E non si può credere a fasi alterne o costruirsi una propria religione. “Credo, ma non sono praticante” che vuol dire? Io non ho mai incontrato un diavolo ateo, tutti i diavoli credono e non sono praticanti, perché hanno disubbidito a Dio».

Vuol dire che credere in Dio non serve a niente se….

«Se non si è coerenti e praticanti. “Non chi dice: Signore, Signore, entra nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio”».

© Copyright Il Tempo, 26 maggio 2009 consultabile online anche qui.

Pubblicato da Raffaella a 9.05

RIFLESSIONE SULLA CORRESPONSABILITA’ – P. J. Frisque

 

RIFLESSIONI SULLA

CORRESPONSABILITA’

OPZIONI ’70 – SUPPLEMENTO – Aprile  1970 N. 3   Anno I

DIREZIONE/REDAZIONE: Centro Studi F.B.F. – Erba (CO)

Avvertiamo di non badare troppo allo stile letterario. Trattandosi di appunti presi durante l’esposizione, il linguaggio, se ha il vantaggio di farci percepire il qualche modo il calore degli oratori, talvota è poco felice, vi ricorrono parecchie ripetizioni e successivamente puntualizzazioni di concetti. Insomma è un linguaggio ‘parlato’.

Ma quello che è importante per noi è cogliere le idee che propongono e le prospettive che aprono. Sotto questo aspetto sono certamente stimolanti. Quelli che pongono sono problemi dell’ora presente, problemi che vanno risolti non solo a livello intellettuale, ma anche a livello di vita, problemi che ci toccano da vicino e su cui tutti abbiamo un contributo da dare.

* * *

Di  P. J. Frisque

Per approfondire il tema della corresponsabilità è necessario rispondere a due domande:

• L’esercizio della corresponsabilità nella Chiesa trova il suo fondamento al livello stesso della vita teologale o non è che un’esigenza dell’ora presente che in quanto tale non ha niente a che vedere con la fede?
• Se la corresponsabilità è di fatto una esigenza della fede e della missione della Chiesa, perché appare come una esigenza nuova?

In altre parole si tratta – in un secondo tempo – di mettere il tema della corresponsabilità in prospettiva storica, per comprendere bene che si tratta di un’esigenza nuova, ma che però corrisponde anche ad un elemento tradizionale qual è la vita stessa della Chiesa. Ecco quindi lo schema che vi propongo.

La corresponsabilità: sua natura e suo fondamento teologale.

Chi non si accorge che tutti i membri del Popolo di Dio sono dei membri responsabili, non sentirà il bisogno di studiare il tema della corresponsabilità

La base di uno studio sulla corresponsabilità è evidentemente l’accorgersi che tutti i membri del Popolo di Dio sono dei membri responsabili.

Non c’è corresponsabilità se non c’è responsabilità. E’ evidente. Tanto evidente che talvolta lo si dimentica!
Ci sono molti preti, ed anche altri, che vogliono giocare ai corresponsabili ma che non sono per niente responsabili.

Più ancora, nella Chiesa non c’è corresponsabilità se non c’è una responsabilità riconosciuta a tutti. Ciò vale evidentemente in modo tutto particolare per i preti che sono pronti ad essere corresponsabili perché sono responsabili, ma che considerano gli altri membri del Popolo di Dio come “clientela”. [nel nostro caso dipendenti – n.d.r] Conosco bene questa situazione!

E’ sufficiente interrogare la Lumen Gentium per avere qualche lume sul problema della responsabilità. Non si travisa il pensiero del cap. II riassumendolo così:

tutti i popoli, tutti i membri del Popolo di Dio godono di una fondamentale uguaglianza. In altre parole tutti sono fratelli. La realtà di questa fraternità fondamentale comprende già tutti gli uomini. Dio solo è PADRE ed Egli è padre di tutta la famiglia umana.

L’affermazione della fraternità fondamentale che lega tutti i membri del Popolo di Dio è stata ripresa con un lait-motiv nei numerosi documenti conciliari, ed io vi do un solo ma tipico esempio dell’evoluzione della mentalità durante i lavori conciliari. La Lumen Gentium aveva ancora detto dei Vescovi: “ Che i Vescovi considerino i loro preti come degli amici e come dei figli”.

La stessa formula è stata ripresa dal decreto sul Ministero e la Vita Sacerdotale – un anno più tardi – sotto questa forma(citando la L:G: ma senza segnalare una importantissima correzione): “che i Vescovi considerino i loro preti come degli amici e come dei fratelli…”. Questo cambia tutta la prospettiva!

La realtà fondamentale della fraternità cristiana che è semplicemente l’espressione della fondamentale uguaglianza di tutti i membri del Popolo di Dio, e dunque, in un certo senso di tutti gli uomini davanti a Dio, è la prima affermazione della Lumen Gentium.

Seconda affermazione: “Tutti i membri del Popolo di Dio sono chiamati ad un ruolo attivo”. Non sono solamente dei membri uguali. Sono chiamati ad un ruolo attivo nell’edificazione del Regno. Questi ruoli sono diversi, ma tutti sono indispensabili alla costruzione del Regno.

Infine, terza affermazione che è la più importante: il ruolo attivo che è domoandato a ciascuno è, propriamente parlando, un ruolo creativo. In altre parole, ciascun membro del Popolo di Dio apporta alla costruzione una pietra unica ed insostituibile. Non ci sono semplicemente delle responsabilità. La responsabilità di ciascuno è in un certo modo una responsabilità creatrice. Ciascuno è chiamato ad apportare una pietra originale. Se egli non la porterà, nessun altro l’apporterà, perché in ciascuno lo Spirito Santo è all’opera in modo diverso.

E’ uno dei punti più importanti della Lumen Gentium. L’aver affermato che il carisma non ha niente di straordinario. Ciascuno di noi è sotto l’azione carismatica dello Spirito Santo. Ecco la base!

Ora ci si può domandare che cosa sia, nella Chiesa, l’esercizio di un’autentica corresponsabilità.

1. Innanzitutto diciamo cosa non è, perché intorno ad essa circolano molte idee sbagliate:
a) non è soltanto il mezzo per permettere una buona coordinazione degli sforzi di ciascuno. La coordinazione dei compiti è di fatto una necessità che può richiedere la formazione dei numerosi organismi. Ma la corresponsabilità è tutta un’altra cosa che un’attività comune domandata a ciascuno, in modo che gli sforzi di ciascuno siano coordinati.
b) Non è nemmeno il mezzo per unificare i compiti. Così ci si richiamerebbe alla corresponsabilità per favorire nell’ambiente del mondo attuale, l’obbedienza di tutti all’autorità di uno solo, a cui spetterebbe il ruolo di definire i compiti.. Dunque, questo sarebbe un modo di unificare le aspirazioni degli uomini d’oggi, che amano dare il loro contributo alla stessa opera. Ma di fatto ciò sarebbe solo un mezzo per favorire, per rendere più facile, l’obbedienza di tutti all’autorità di uno solo…Questa non è corresponsabilità
c) Non è nemmeno il mezzo per mettere in opera un piano, per esempio un progetto pastorale definito a priori per facilitarne l’esecuzione. Si riunirebbero i membri di un gruppo ogni volta che si deve prendere una decisione, per informarli. Ed un buon animatore di gruppo instillerebbe nella coscienza di ciascuno un certo numero di convinzioni appropriate! Di fatto ci si può immaginare diverse formule che danno le apparenze della corresponsabilità ma che non lo sono! Altro esempio. Si riunirà il gruppo; si ascolteranno veramente tutti; si organizzeranno molti incontri…per dare a coiascuno la possibilità di esprimersi. M in fondo l’autorità ha già nella testa ciò che bisogna fare. Si mettono a posto un poco i dettagli perché tutto sia approvato più facilmente. Evidentemente in una situazione del genere ciascuno non ha un’autentica corresponsabilità.

2. Allora cos’è dunque la corresponsabilità?

d) Partiamo da un punto di vista descrittivo. La CORRESPONSABILITÀ è incaricarsi, tutti e ciascuno, di un compito unico e diverso che, per l’essenziale, è da scoprire insieme. Suppone un’intesa profonda, un ascolto vicendevole, che può essere molto faticoso. Bisogna passare molto tempo ad ascoltarsi, il che è apparentemente inefficace. Si dirà volentieri “ma non si conclude niente!”. Infatti è molto più comodo per i responsabili prendere delle decisioni e farle applicare che passare delle ore mentre ciascuno esprime come egli vede le cose con la certezza che sarà ascoltato da ciascuno, e con la volontà di ascoltare egli stesso ciò che è detto da ciascuno, in vista di riformare la sua coscienza, in modo che la decisione che sarà presa – e che sarà una decisione comune – non appartenga più a nessuno. E’ì questo che è importante!

Lo ripeto: la corresponsabilità suppone un’intesa profonda, un ascolto vicendevole in vista di una elaborazione comune e , finalmente, in vista di una comune decisione. Chi dice responsabilità evoca il dinamismo dello spirito umano. Qualcosa di nuovo deve scaturire dall’intesa! In breve, si tratta di un comportamento di tipo dialogico. Non c’è dialogo se si sa in anticipo ciò che deve risultare. Da questo punto di vista il Vaticano II è un buon esempio di comportamento dialogico. E ‘ E’ evidente che all’inizio nessuno aveva in mente con chiarezza quelle che sarebbero state le decisioni del Concilio.

Con la corresponsabilità io credo che di fatto tocchiamo un punto chiave dell’umanesimo che gli uomini del nostro tempo devono promuovere se non vogliono continuare a ignorarsi e a divorarsi. Ma è facile dimostrare che perveniamo anche al cuore del Vangelo che ci fa cogliere le esigenze ultime del vero comportamento dialogico. Con la corresponsabilità arriviamo al Comandamento Nuovo, C’è un vero dialogo quando gli uomini onorano la loro condizione di figli di Dio, che è insieme una condizione di figli e una condizione di fratelli.

Questa condizione acquisita in Gesù Cristo permette a tutti gli uomini di spogliarsi totalmente di se stessi allo scopo di promuovere l’incontro con l’altro, il più autentico possibile, quello in cui “l’altro” è riconosciuto come altro, quello in cui desidero aver bisogno di lui così com’è, ed egli ha bisogno di me, come io sono, in vista di un vero compimento della comunità umana e di ciascuno dei suoi membri.

Parlare di corresponsabilità è parlare di un esercizio attivo della fraternità evangelica, quella fraternità evangelica senza frontiere in cui ciascuno, in cui ciascun popolo è chiamato, nella parità, nell’ascolto vicendevole e nella comunione, a dare il meglio di se stesso al servizio del bene comune.

Non è necessario ricordare l’esistenza del Vaticano II su questo punto; è tanto evidente!

Se si prende seriamente la corresponsabilità significa avere una concezione della vita cristiana che è veramente dialogica. E’ esattamente quello che San Paolo ci dice nella lettera 1Cor, 12, quando parla dei diversi ruoli dei cristiani. Tutti i membri non devono scegliere il medesimo ruolo nel Corpo. Egli afferma innanzitutto che i membri sono diversi, per dire in seguito che tutti i membri hanno una funzione di servizio a tutto il Corpo. Egli afferma innanzitutto che i membri sono diversi, per dire in seguito che tutti i membri hanno una funzione di servizio a tutto il corpo, e che tutti sono solidali: se qualcuno soffre, tutti i membri soffrono con lui.

Ciò significa che non è possibile vivere la vita della fede senza viverla in comunione con gli altri, convinti che questa comunione, questo ascolto vicendevole trasforma la nostra coscienza, ci modella progressivamente e fa sì che alla fine della corsa non siano più gli stessi della partenza.

Io ho fatto questa esperienza spirituale nel gruppo di lavoro per la redazione del decreto sul Ministero e la Vita Sacerdotale. Ciò mi ha fatto molto riflettere e mi ha trasformato… perché ho potuto constatare che i testi che io stesso avevo redatto sono diventati completamente differenti da come li avevo scritti. Però alla fine, era più mio pensiero che all’inizio, anche se non era più il mio.

Ciò significa che quando si applica veramente la corresponsabilità – per esempio a proposito di un testo che deve esprimere una realtà estremamente profonda – il punto d’arrivo non appartiene più a nessuno e tuttavia la corresponsabilità ha permesso a ciascuno di dare il meglio di se stesso al servizio del bene comune. Vedete bene quali prospettive possono aprire dei comportamenti e delle attitudini di questo genere.

Concretamente, in una comunità, quando ci si trova e ciascuno esprime ciò che lo Spirito compie in lui e lo svela, senza pertanto attendersi la critica… – d’altronde non c’è niente da criticare nell’opera dello Spirito in ognuno di noi – ed in cui ciascuno ascolta l’altro ed è pronto a dare il suo contributo, alla fine dell’esperienza non si è più gli stessi!

A titolo di spiegazione vi riferisco l’esperienza che ho vissuto in un gruppo. Non avevamo imparato a fare gruppo. Allora il nostro responsabile ci disse un giorno: “Vi propongo questa formula: su tutti i punti sui quali noi discuteremo ciascuno esprimerà il suo parere ma è proibito agli altri di criticarlo”. Tutti si sono espressi molto liberamente perché nessuno si preparava a porgli la minima questione. Vi posso assicurare che questo metodo di lavoro ci ha condotti molto lontano. Perché quando si è liberi, veramente liberi di esprimere profondamente ciò di cui si vive ed allo stesso tempo si ascolta seriamente ciò che gli altri dicono, alla fine dell’incontro, della messa in comune, non si è più gli stessi.

Non c’è bisogno che gli altri vengano a dire”è questo o quello…”: si sa benissimo da soli su quale punto bisogna cambiare! In quata messa in comune c’è una sorta di “parola” che emerge dalla vita vissuta nel gruppo e che costituisce una serie di richiami per ciascuno.

I mezzi che possono essere utilizzati sono diversi….L’importante è trovare il mezzo con cui ciascuno possa svelare il suo impegno. Più esattamente, possa svelare meraviglie che Dio fa per lui, in lui. Che possa dire come vede la sua responsabilità…Perché soprattutto sul piano della responsabilità e del ruolo che noi dobbiamo avere nella Chiesa, che si tratta di esprimete la maniera in cui si vedono le cose, ma sempre ripetendosi che al punto di arrivo la decisione che sarà presa non sarà l’addizione di tutto ciò che è stato detto….o una specie di comun denominatore per cercare di non provocare dolore a nesuno. No!

Ciò che sgorga all’arrivo è una decisione unanime. Che è diverso da una decisione uniforme. Questo vuol dire che ciascuno di coloro che erano là e che si è espresso, è consapevole di aver dato il meglio di se stesso al servizio del bene comune, tanto che ciò che appare come risultato, appare a ciascuno come una reale novità.

Quando si è fatta un’esperienza di questo genere in seno ad una comunità, credo che si incominci a scoprire che cos’è l’autentica corresponsabilità. In altre parole: l’esercizio della corresponsabilità ci trascina nel movimento, nell’avventura comune della fede del Popolo di Dio. Permette alla fede di sbocciare nella Chiesa. Permette alla fede di sbocciare nella Chiesa.

e). Qualche carattere della corresponsabilità

• L’esercizio autentico della corresponsabilità non suppone l’uniformità dei compiti, né che tutti siano competenti in tutte le materie. Si può essere corresponsabili di tutti i problemi che possono nascere in un gruppo ma in gradi diversi. Il Concilio ha insistito, in tutti i testi in cui ha parlato di corresponsabilità, sulla diversità dei compiti.

La corresponsabilità sarà tanto più feconda quanto più i compiti e le competenze saranno diverse. L’ascolto vicendevole sarà tanto più ricco se vissuto fra uomini e donne differenti e diversamente impegnati nella missione della Chiesa. Si imparano moltissime cose con l’ascolto e lasciando risuonare in se stessi il modo con cui gli altri abbordano certe questioni. Ciascuno ha qualcosa da imparare dall’altro. E ciascuno può dire “ascoltando l’altro io sono sempre più me stesso per il medesimo fatto che mi sono messo ad ascoltare un uomo molto differente da me”.

Credo che l’incontro fra membri differenti, fra “altri”, sia una ricchezza incredibile per una comunità di fede.

La tendenza è di fare gruppo con degli amici, di ricercare un gruppo di gente che si intende bene. Evidentemente è compito dei responsabili non mettere insieme delle persone che abbiano un’assoluta incompatibilità di carattere!

Ma attenzione di non cadere nell’errore contrario, cioè di re “facciamo dei gruppi con della gente che si capisce bene”, ossia con dei “simili”. Non si fa niente in tali comunità. Non si può fare niente che concerna veramente l’avventura della fede.

E’ per questo che nelle comunità in cui qualcosa non va bene…è buon segno! Voglio dire: è buon segno se si ha l’attitudine conveniente. Perché mai può andare tutto bene…Se va “tutto bene” vuol dire che non c’è “l’altro”. Perché quando c’è un altro, c’è una questione, una domanda, un modo di vedere che non è il mio. Non è che in questo aspetto costantemente rinnovato, costantemente approfondito – questo aspetto stesso della fede – che l’esercizio della corresponsabilità diventa interessante.

Se si è tutti decisi a condurre questa avventura con spoliazione, con tutta la rinuncia di se stessi che comporta, nascerà qualcosa di nuovo che non appartiene a nessuno.
Evidentemente non bisogna creare delle difficoltà per il piacere di crearle. Al contrario è necessario trovare i mezzi per rendere la vita “distesa”…

Bisogna rispondere alle difficoltà che si pongono con dei mezzi appropriati: chi è stanco…che vada a dormire! Una volta risolte le piccole difficoltà, allora si svelano quelle vere, quelle che bisogna affrontare e che la fede ci permette di affrontare. In questo momento incomincia la corresponsabilità.

• L’esercizio della corresponsabilità esige che i membri di un gruppo unifichino veramente tutta la loro vita, a partire dalle loro responsabilità, a partire dal loro ruolo. A partire dal loro ministero nella Chiesa E’ solo a questo prezzo, è solo nella misura in cui siamo animati dalla fede, dalla speranza, e dalla carità che noi possiamo, insieme ad altri, far nascere una decisione comune, che sarà veramente una decisione ecclesiale.
• Un terzo carattere essenziale. L’orizzonte della corresponsabilità è sempre la Chiesa universale. Ciò vuol dire che non possiamo esercitare la corresponsabilità se non essendo coscienti di partecipare “nel nostro angolino” al dinamismo profondo che anima tutto il popolo di Dio. La piattaforma universale alla quale dobbiamo aggrapparci per esercitare la corresponsabilità ci è data dalla convergenza di tutto ciò che succede in continuità con il dinamismo conciliare più autentico. Dalla convergenza sbalorditiva di ciò che succede nell’America del Nord e del Sud, in Giappone ed in Tailandia, a Saigon e qui da noi a Busiga e in tutto il mondo. La decisione che stiamo per prendere non si tratta solo della decisione di un gruppo; è un po’ una decisione della Chiesa che al momento in cui emerge non appartiene più al gruppo ma appartiene esclusivamente alla Chiesa. Perché è una decisione che si riferisce a Cristo, che è guidata dallo Spirito di Cristo.

Una conseguenza molto pratica: in un gruppo si rischia sempre di dire: “costui pensa così perché ha quel temperamento, quella formazione…” e si giunge a delle questioni personali… Mentre ciò che ci deve animare è la stessa missione della Chiesa, la missione concreta come la posiamo cogliere nelle molteplici informazioni che abbiamo oggi – mezzi non mancano – nei contatti che abbiamo con gli altri. Un gruppo che esercita la corresponsabilità nella Chiesa non deve mai essere un ghetto; infatti siamo tutti al servizio di una missione che non è la nostra ma quella di Gesù Cristo, invece se ci si comporta come in un ghetto i problemi personali predominano sull’oggettività della missione.
f). La radice sacramentale della corresponsabilità. E’ il battesimo che ci permette d’essere corresponsabili. Per i preti è a causa del carattere specifico dell’Ordinazione presbiterale che li costituisce in un tipo di fraternità che permette di esercitare la loro specifica corresponsabilità. Il testo del Decreto sul ministero e la vita sacerdotale è molto interessante su questo punto: “per la loro ordinazione i preti sono tutti reciprocamente legati da una fraternità sacramentale”.

Cercando di esercitare la corresponsabilità ci si incontra su un terreno teologale poiché è necessario un intervento di Dio nel Sacramento per rendere capaci tutti i membri del Popolo di Dio – e in modo loro proprio i preti – di esercitarla. Se non fossimo costituiti dal Sacramento “Fratelli in Gesù Cristo”, non potremmo mai osare di tentare l’avventura della fede, con tutti i rischi che questa avventura comporta.

Saremmo costantemente scoraggiati davanti alle difficoltà che si presentano. Ora, è caratteristico della corresponsabilità, come l’impegno della fede, il ricominciare sempre da zero senza orgoglio!

Una vera comunità, un autentico gruppo fraterno non è quello in cui tutto va troppo bene. Non è il gruppo in cui il responsabile ha una tale autorità, un tale prestigio personale che di fatto tutti lo seguono senza preoccupazione della responsabilità propria. Al contrario! E’ la comunità in cui il responsabile compie esattamente il suo ruolo che è molto spesso di presiedere la carità, con discrezione.

Cosa significa essere responsabili del gruppo? Significa permettere a ciascuno di dare il meglio di se stesso al servizio del bene comune. Fare tutto affinché ciascuno possa fare ciò. Allora, in un vero gruppo o comunità si possono percepire delle tensioni, e ciò è un bene, in un certo senso. Ciò prova semplicemente che non ci si è accecati su quello che sono gli uni e gli altri…E in certi casi, io immagino, in una comunità dove ci si trova tra fratelli e sorelle differenti, queste tensioni sono inevitabili; ma esse sono essenzialmente sorgenti di fecondità teologica, a condizione che si sia abbastanza chiari sui mezzi concreti per risolvere i piccoli problemi.

Non bisogna necessariamente vivere insieme dal mattino alla sera e dalla sera al mattino per esercitare la corresponsabilità. Questi sono dei dati umani talmente elementari! Quello che importa, è che questi autentici ostacoli, che questo affrontare la morte la morte inerente ad ogni vero incontro con gli altri, siano presenti e che con molto umorismo, una delle doti fondamentali della vita di gruppo, con molto profondo senso di ciò che è la fede, ci impegnamo in una avventura in cui, all’inizio, non sappiamo bene dove saremo condotti. E per questo che la corresponsabilità è radicata sacramentalmente. Sappiamo all’inizio che siamo fratelli in Gesù Cristo: questo ci è dato. Ma tutto l’itinerario della fraternità da instaurare e delle responsabilità da assumere per questa fraternità, tutto questo itinerario è evidentemente da percorrere.

LA CORRESPONSABILITA’ IN PROSPETTIVA STORICA

Per misurare l’importanza della corresponsabilità bisogna collocarla nella vasta mutazione provocata nel mondo e nella Chiesa dall’avvento della civiltà profana.

Prendiamo innanzitutto coscienza di com’era ieri la situazione, e particolarmente per quanto concerne l’autorità-obbedienza.

In una concezione sacrale dell’universo il soprannaturale, o meglio l’intervento di Dio nella storia appariva come una realtà immediatamente riconoscibile. Il disegno del Padre in Gesù Cristo si trova come materialmente inscritto in un certo ordine di cose: un ordine istituzionale. Un certo linguaggio dai contorni ben determinati e quasi immutabili.

Una mentalità di tipo sacrale è questa: la volontà di Dio era manifesta…si sapeva cosa bisognava fare. Essa si traduceva in regole, in leggi, in istituzioni precise. Il sacro era una realtà familiare; è questo che dice nel modo migliore che cosa è questa mentalità di tipo sacrale.

Voi dite bene che questa non è unicamente la mentalità di ieri. Gli europei non sono completamente liberi da questa mentalità; essa vive ancora nel loro spirito. Non so se sapete che a Parigi i gabinetti di astrologia sono più numerosi dei gabinetti medici. Lo dice un recente studio di sociologia. E’ difficile liberarsi da una mentalità in cui si tocca un po’col dito il sacro, come una realtà familiare, anche se d’altra parte si prova un timore “sacro” davanti a questa realtà, che si desidera tuttavia familiare: è più comoda.

Il sacro era dunque una realtà familiare ed in particolare la pastorale era fatta di comportamenti, di istituzioni e di ricette molto provate. Ancora oggi negli ambienti in cui bisogna fare un ripensamento si sente dire: “ma infine! Da sempre si sa coosa bisogna fare…questo mondo ha sempre dato dei risultati!”. E’ assolutamente vero. Non c’è da mettere in causa il valore di ciò che è stato vissuto dai nostri predecessori. Il problema è semplicemente di sapere se questa prospettiva non può essere inserita in una prospettiva molto più integrale.

In questa prospettiva, l’Autorità era detenuta da quelli che ne avevano ricevuto il potere dall’alto e la missione dell’autorità era di manifestare l’ordine stabilito nella volontà del Padre e di farlo rispettare. Quanto all’obbedienza, essa si riduceva ad una sottomissione. Si trattava di entrare in quell’ordine di cose che esprimeva in modo immutabile e praticamente definitivo la volontà di Dio.

Oggi le cose si presentano molto differenti. In un universo dal regime profano l’intervento di Dio nella storia appare come una realtà essenzialmente misteriosa, da scoprire continuamente. Una realtà che non ha i contorni precisi e determinati d’altri tempi.

Parlando della Chiesa il Vaticano II si è messo in questa nuova prospettiva. La cosa più importante non è l’istituzione (Istituzione, per definizione, è qualcosa di chiaro, un linguaggio preciso, delle leggi, delle regole, delle organizzazioni. Dio sa se le istituzioni che la Chiesa ha visto nascere in questi ultimi tempi rischiano di divenire dei valori assoluti. Tutti i movimenti d’Azione Cattolica Francese hanno i loro uffici amministrativi che sono concepiti, soprattutto dai responsabili, come istituzioni divine o quasi!

La cosa più importante è il Popolo di Dio. Non è un linguaggio stabilito e stereotipo una volta per tutte. Sono degli uomini e delle donne concrete, impegnate con altri uomini e donne in un’avventura storica, dove dove si tratta di mettersi insieme all’ascolto dello Spirito che lavora nel cuore del mondo; dove si tratta di interpretare i segni dei tempi, (secondo la formula di Giovanni XXIII che ha fatto il giro della Chiesa nella misura stessa in cui rispondeva esattamente ad una aspirazione fondamentale del Popolo di Dio oggi.

Dunque si tratta di interpretare i segni dei tempi, cercando instancabilmente di realizzare il disegno misterioso del Padre. Non facendo come in certe riunioni di laici e di preti, certe revisioni di vita, dove non si è contenti sin quando non si è fatta una lettura dei segni dei tempi determinata e precisa: “Se c’è stato questo avvenimento, significa che Dio vuol dire così”. Non è per niente così!

Mai nessuno può dire, soprattutto a titolo individuale, ciò che Dio vuole, in una maniera precisa e determinata. E’ insieme che si cerca e che instancabilmente in ricerca, poiché non c’è nessun giorno in cui si può dire: “ora abbiamo in tasca la volontà di Dio”. Non è per niente così. Ciò è tanto più importante che ripeto la frase: la cosa più importante non è l’istituzione, è il Popolo di Dio. Non è il linguaggio della fede stabilito una volta per tutte e stereotipato. Sono degli uomini e delle donne concrete, impegnati con degli altri, in una avventura storica dove si tratta d’essere insieme all’ascolto dello Spirito che lavora nel cuore del mondo, dove si tratta d’interpretare i segni dei tempi cercando instancabilmente di realizzare il disegno misterioso del Padre.

In questo modo di concepire le cose l’autorità non può più avere lo stesso viso. Essa è innanzitutto servizio. Nello volgere il disegno del Padre, più nessuno, nemmeno il Papa, gode di un monopolio qualsiasi perché tutti i membri del Popolo di Dio hanno di diritto la loro parte. Il servizio reso dall’autorità è solamente un servizio di autentificazione, di discernimento. Qui parlo particolarmente dell’autorità gerarchica, dell’autorità apostolica nella Chiesa, nel senso che il primo dovere dell’autorità è d’essere in ascolto. Il primo dovere non è di comandare. E’ d’essere in ascolto del lavoro dello Spirito nel Popolo di Dio in crescita, di partecipare alla ricerca di tutti, e di raccogliere i frutti.

Quanto all’obbedienza, non si presenta più come la sottomissione a delle direttive. Di questa sottomissione il Vaticano II dirà volentieri che è una dimissione. L’obbedienza – tanto del superiore che del subordinato è innanzitutto fede allo Spirito. Una fedeltà in profondità che impegna la persona tutta intera e che la chiama a prendere una parte attiva all’edificazione del Corpo di Cristo. E’ qui che interviene la corresponsabilità. Essa costituisce per tutti i membri del Popolo di Dio il mezzo per eccellenza per essere fedeli allo Spirito. La modalità concreta è l’esercizio tanto dell’autorità quanto dell’obbedienza religiosa, che è una coppia interna all’obbedienza religiosa richiesta a tutti, come fedeltà comune allo Spirito.

In questo senso inutile dire che la corresponsabilità è sorgente d’esigenze profonde. Promuovere la corresponsabilità è darsi i mezzi per una fedeltà attiva ad un’Opera che è quella del Signore. Mentre i membri del Popolo di Dio mettono in pratica la loro corresponsabilità, fanno sorgere una decisione comune che non appartiene a nessuno in particolare. Ciò suppone un’umiltà profondamente evangelica.

Non bisogna nascondersi le difficoltà proprie del periodo di transizione che stiamo attraversando. Numerosi sono i preti e i laici che, davanti all’avvenire della Chiesa oggi in gestazione, hanno l’impressione di una degradazione. Si ha l’impressione che la Chiesa di domani sarà meno fedele al Vangelo che non lo sia stata quella di ieri: tutto si degrada, si corrompe…l’autorità, l’obbedienza, la fede e la morale!

Questa impressione si comprende molto facilmente quando si considera fino a qual punto tutto era stabile fino ad oggi. Il rimedio è chiaro: si tratta di prendere sul serio la nuova soluzione. Prenderla sul serio!

Quello che mi colpisce è che la nostra reazione riguarda la nuova soluzione non presenta la stessa società che c’è stata fino ad oggi. Non la si prende sul serio. Si dice: “Bene! Bisogna essere alla moda, esercitiamo la corresponsabilità”. E in fondo non si prendono sul serio le esigenze che essa comporta… Allora non bisogna meravigliarsi se si ha l’impressione che tutto si degradi.

Questa nuova soluzione, l’esercizio di una autentica responsabilità, non appare immediatamente con lo stesso peso di necessità che l’obbedienza alla Regola… che l’obbedienza all’autorità come la si concepiva in altri tempi.

Ora quello che è chiesto di vivere nella Chiesa attuale è tanto esigente, e forse ancor più, di quello che si viveva ieri! Io stesso provo questa impressione di degradazione certi giorni, fino a dirmi: “Ma dove andiamo a finire su certi punti?”.

Ma quando rifletto, è evidente che mi dico: “In fondo, tu non sei serio, poiché non prendi sul serio la nuova soluzione…”

Una difficoltà propria della transizione che viviamo oggi, è molto spesso quella sorta di incoerenza che accettiamo nella nostra vita. Da un lato siamo entrati in un mondo nuovo: non sopportiamo più di essere dei puri strumenti; ci vogliamo responsabili! Ma, da un altro lato, siamo condizionati dalla formazione ricevuta; siamo sempre legati a delle strutture e delle categorie valevoli oggi. In realtà siamo come a cavallo su due sedie, e accettiamo, così come si può, questa situazione strana.

Ma i più giovani tra noi – lo constato sempre più – non sopportano di vivere nell’incoerenza, poiché cercano di unificare la loro esistenza in funzione dei bisogni attuali.. In fondo, la nuova soluzione è una soluzione coerente.

Non so se ve ne siete accorti, ma è veramente l’obiettivo più profondo che perseguo in tutte le conferenze che posso fare attraverso il mondo: proporre una nuova soluzione coerente. Io non tento di ottenere un po’ da due estremità, non tento di conservare i valori umani e i valori evangelici… Evito le soluzioni di compromesso (senza naturalmente evitarle in tutti gli aspetti della mia vita!) Perché anc’io sono stato formato diversamente da come si forma oggi nei seminari, è normale che mi trovi in una situazione di incoerenza.

I giovani d’oggi – lo sento nei seminaristi di 25-30 anni – non accettano più questa incoerenza. Non possono più viverci dentro. Hanno bisogno di una visione coerente, che infine è anche esigentissima, come avete visto. Ne hanno bisogno quasi ontologico; e accettano di lavorare con i più anziani, e siamo noi…se facessimo uno sforzo nella nostra vita, uno sforzo di lucidità e di coerenza! E bisogno che questo sforzo sia sentito come tale, a qualsiasi età.

Questo sforzo di coerenza è uno sforzo possibile per tutti e ciascuno di noi. Conosco delle persone di 70 anni che, dopo un’evoluzione straordinaria, sono entrate in una visione coerente…Vestito che non si porta senza difficoltà, ma che si porta tuttavia, è necessario, con disinvoltura!.

Il dialogo diventa facile a partire dal momento in cui i giovani si accorgono che noi non accettiamo più di vivere in questa incoerenza. Il rimedio alle difficoltà è d’intraprendere uno sforzo di lucidità e di coerenza, ciascuno al suo livello e secondo le sue possibilità. Entrare nel gioco della corresponsabilità fa parte di un tale spirito.

Proviamo ancora un’altra difficoltà: un sentimento profondo di insicurezza. Anche se le difficoltà non sono mancate, l’istituzione ecclesiastica era fino ad oggi fonte di sicurezza per tutti coloro che si mettevano più direttamente al suo servizio. Ma un giorno i muri sono apparsi crepati…C’è il pericolo del crollo.

Ma il Popolo di Dio non va in rovina…esiste…vive! Lo credo e ne sono convinto sempre più: alla fine, la Chiesa del nostro tempo apparirà come la giovinezza del mondo, data la straordinaria convergenza di tutto ciò che sta capitando nel mondo. Il rimedio è chiaro: si tratta di unificare profondamente le nostre vite nella missione che oggi ci è affidata e che più che mai fa appello all’autenticità della nostra fede. Ciò vuol dire che la nostra unica vera sicurezza è la nostra vita di fede, è Dio. Come diceva uno dei miei vecchi professori, P. Charles: “Ci sono dei predicatori che dicono alle religiose: avete scelto Dio; dunque avete tutto! Ebbene, io dico loro: avete scelto Dio, dunque non avete altro che Lui, ossia niente del tutto!”. Con questa frase voleva dire che la sicurezza fondamentale della fede non è una proprietà, non è un capitale che si mette in tasca!

E’ una sicurezza ben più forte, ben più solida che tutte le altre sicurezze, compresa quella dell’Istituzione ecclesiastica.

In fondo, stiamo vivendo una svolta nella storia della Chiesa in cui non sarà più possibile vivere la fede che mettendo la propria sicurezza in Dio: E in questo processo d’unificazione della nostra vita l’esercizio della corresponsabilità può giocare un ruolo capitale. (P. J. Frisque)

La condivisione arricchisce la fede – di Ermes Ronchi

LA CONDIVISIONE ARRICCHISCE LA FEDE

 

di Ermes Ronchi

Avvenire 09/07/2009 

XV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B  

“In quel tempo, Gesù chiamò a sé  i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.

E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».

Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. “

Partono i discepoli a due a due. Nient’altro che un bastone a sorreggere il cammino, e un amico a sorreggere il cuore.

 Un bastone per appoggiarvi la stanchezza e un amico per appoggiarvi la solitudine. È importante questo andare a due a due, avere uno su cui contare, nelle cui parole cercare l’evidenza che esisti, che sei amato, che sei capace di relazioni positive.

Se è solo, l’uomo è portato a dubitare perfino di sé stesso. La fede si arricchisce se la condividi. Infatti l’annuncio è fatto a due voci e la prima parola è questo legame, questo germe nuovo di comunione. «Non arriveremo / alla meta ad uno ad uno, / ma a due a due. / Se ci ameremo a due a due / ci ameremo tutti. / E i figli rideranno / della leggenda nera / dove l’uomo piangeva / in solitudine» (P. Eluard).

Non portate nulla per il viaggio.

  • Perché tutto ciò che non serve, pesa; perché ogni possesso ti separa dall’altro.

  • Perché l’uomo non è fra le cose.

  • Perché vivrai dipendente dal cielo e dagli altri, di pane condiviso e di fiducia.

  • Perché l’abbondanza di mezzi non spenga la tua creatività e la fiducia nella potenza della Parola. L’annunciatore deve essere così: infinitamente piccolo, solo allora l’annuncio sarà infinitamente grande. 

Tutto in noi domanda la vicinanza di un amico. Niente in noi postula questa nudità di croce, Vangelo che consola e poi sgomenta: non portate nulla.

Come Gesù, povero di tutto, ma non di amici; senza un luogo dove posare il capo, ma non senza case amiche dove confortare il cuore. Entrati in una casa lì rimanete.

Il punto di arrivo è la casa, non la sinagoga o il tempio. Nella casa, dove è naturale la sincerità del cuore, lì Dio ti sfiora, ti tocca.

  • Lo fa in un giorno di festa, quando dici a chi ami parole stupefatte e che si vorrebbero eterne.

  • Lo fa in un giorno di lacrime, quando l’amarezza soffoca la speranza. Il cristianesimo deve essere significativo lì, nella casa, nei giorni della festa e in quelli del dramma, nei figli prodighi, quando Caino si alza di nuovo, quando l’amore sembra finito e ci si separa, quando l’anziano perde il senno o la salute.

  • Là dove la vita celebra la sua festa e piange le sue lacrime, scende come pane e come sale, sta come roccia la Parola di Dio.

  • L’annuncio è fatto di poche parole e di molto stile di vita. Per farsi credere il Vangelo ha bisogno ancora oggi di un anticipo di corpo, di un capitale di incarnazione: è lo stile dei

 

(Letture: Amos 7,12-15; Salmo 84; Efesini 1,3-14; Marco 6,7-13)

VANGELO E CULTURA NEL CAMMINO DELL’UOMO – ZENON GROCHOLEWSKI

Posted on Giugno 8th, 2009 di Angelo

zenon-grocholewski-cardinale-150x150CONFERENZA DELL’ARCIVESCOVO GROCHOLEWSKI
ALL’INCONTRO DELLE UNIVERSITÀ CATTOLICHE D’EUROPA

Santiago de Compostela, luglio 2000

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grocholewskiZENON GROCHOLEWSKI
Card. Arcivescovo titolare di Agropoli
Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica

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Ringrazio sentitamente per l’invito rivoltomi a partecipare al presente Incontro qui a Santiago di Compostela.

Il  tema  Il  Vangelo  e  la  cultura nel cammino dell’uomo:  il Grande Giubileo e  il  rinnovamento  dell’Università  è, oltre che estremamente attuale, certamente ampio  e  complesso,  per  cui  non  mi  è  possibile  affrontarlo  sotto tutti  i  punti  di  vista.

Mi limiterò, quindi, ad alcune considerazioni di ordine generale, le quali possono aiutare a comprendere meglio e a vivere il significato del Giubileo dei docenti universitari.

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A. La realtà che c’interpella

1. È noto a tutti che il nostro tempo è caratterizzato da profonde trasformazioni che incidono direttamente o indirettamente anche sulla realtà universitaria e la sua finalità. Tra i diversi aspetti che toccano gli studi accademici si constata sempre più un interesse crescente per le discipline produttive, cioè di ambito tecnologico ed economico, a scapito delle discipline umanistiche, con la conseguente tendenza a ridurre la conoscenza dell’uomo e anche la verità stessa a tutto ciò che è visibile e immanente.

2. La ricerca disinteressata della verità in questo contesto – che si potrebbe definire tecnologico-scientifico – pare riscontrare la mancanza d’attenzione. Infatti, non si può negare che nella realtà odierna sono in crisi sia il concetto della verità che l’interesse per essa, per quanto riguarda le cose sostanziali della vita (1).

Ma senza la passione per la ricerca della verità ogni cultura si sfalda nel relativo e nell’effimero. La verità è il vero fondamento dell’umanesimo.

3. Con queste osservazioni è strettamente connessa quella circa la relazione tra progresso scientifico-tecnico e progresso etico-morale.

Il vero progresso, particolarmente oggi, esige che lo sviluppo scientifico-tecnico si realizzi di pari passo con quello etico-morale. Senza ciò, il solo sviluppo della tecnica e della scienza – come palesemente dimostrano, a livello mondiale, non pochi eventi del secolo appena trascorso – conduce a ingiustizie sempre più evidenti, ad oppressioni sempre più raffinate e addirittura a conflitti sempre più orribili. Dobbiamo, purtroppo, constatare che sono stati proprio i mezzi economici e le moderne conquiste della scienza e della tecnica ad offrire gli strumenti idonei per compiere i crimini più orrendi.

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A riguardo vale la pena menzionare il pensiero di un conoscitore dell’educazione occidentale e della sua crisi, Christopher Dawson, il quale rilevava:  “La civiltà moderna nonostante le immense mete raggiunte in campo tecnico è moralmente debole e spiritualmente divisa [...]. La scienza e la tecnica sono soggette ad essere usate da qualsiasi potere de facto che si trova a controllare la società per fini particolari. Possiamo così vedere [...] come le risorse della scienza siano state usate dagli Stati totalitari come strumenti di potere, e come l’ordine tecnologico sia stato applicato nel mondo democratico occidentale al servizio della ricchezza e dell’appagamento dei bisogni materiali, anche se questi bisogni sono stati stimolati artificialmente dagli stessi poteri economici che trovano il proprio guadagno nel loro appagamento” (2).

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Si tratta della preoccupazione espressa da uomini di prestigio che hanno a cuore la finalità dello studio. Si pensi, ad esempio, a quanto scrive Romano Guardini:  “In maniera sempre più chiara si fa avanti quel valore che intende sostituire la verità:  il potere” (3).

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Lo  sviluppo  della  tecnica,  per  poter realmente servire gli uomini, esige un proporzionato  sviluppo  della  vita  morale (4).

“Il senso essenziale [... del] dominio dell’uomo sul mondo visibile, a lui assegnato come compito dallo stesso Creatore – ha osservato perspicacemente Giovanni Paolo II – consiste nella priorità dell’etica sulla tecnica, nel primato delle persone sulle cose, nella superiorità dello spirito sulla materia” (5).

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Altrimenti si corre il rischio che lo sviluppo della tecnica si rivolga contro l’uomo stesso, non renda la vita umana sulla terra in ogni suo aspetto più umana, non la renda più degna dell’uomo; in tal caso, l’uomo, proprio in quanto uomo, non si sviluppa né progredisce, ma piuttosto regredisce e si degrada nella sua umanità (6).

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In questa prospettiva, il Pontefice scorge il pericolo reale “[...] che, mentre progredisce enormemente il dominio da parte dell’uomo sul mondo delle cose, di questo suo dominio egli perda i fili essenziali, e in vari modi la sua umanità sia sottomessa a quel mondo, ed egli stesso divenga oggetto di multiforme [...] manipolazione, mediante tutta l’organizzazione della vita comunitaria”.

Invece “l’uomo non può rinunciare a se stesso, né al posto che gli spetta nel mondo visibile; non può diventare schiavo delle cose, schiavo dei sistemi economici, schiavo della produzione, schiavo dei suoi propri prodotti. Una civiltà dal profilo puramente materialistico condanna l’uomo a tale schiavitù” (7), subordina l’uomo alle sue esigenze parziali, lo soffoca e disgrega la società (8).

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B. La risposta della fede a livello universitario

4. Questo discorso non significa affatto che le varie scienze debbano perdere la loro autonomia e il loro oggetto specifico; esso intende, invece, sottolineare la necessità di far sì che l’attuale progresso scientifico-tecnologico così vertiginoso sia umanizzato al fine di essere veramente a vantaggio dell’uomo e della società.

La fede ha la capacità di arricchire questo sviluppo scientifico e tecnologico in diversi modi:

  • - Prima di tutto provocando al suo interno la riflessione sul significato e la finalità ultima della ricerca e della tecnologia.Infatti, la sola scienza non è in grado di dare la piena risposta al riguardo, e si tratta di una questione vitale nel coltivare le scienze (9).

  • - La fede inoltre ci permette di cogliere il concetto di umanesimo – che, con lo sforzo di tutti, occorre riportare in seno all’università facendole ritrovare la sua vocazione originaria, luogo segnato da “humanitas” -, come campo della coltivazione di un sapere volto a sviluppare l’uomo nella sua integrità e quindi anche nella sua dimensione spirituale-religiosa. Non per nulla, nelle prime università, noi troviamo presente la Facoltà di Teologia.

In questo senso – con riferimento al Concilio Vaticano II (GS, 43 ss.) – la Cost. Ap. Sapientia christiana (10) all’inizio osserva:  “La sapienza cristiana [...] è di continuo incitamento ai fedeli perché si sforzino di raccogliere le vicende e le attività umane in un’unica sintesi vitale insieme con i valori religiosi, sotto la cui direzione tutte le cose sono tra loro coordinate per la gloria di Dio e per l’integrale sviluppo dell’uomo, sviluppo che comprende i beni del corpo e quelli dello spirito”.

  • - In questa prospettiva la fede necessariamente c’impegna a sollecitare l’università a scrutare più profondamente il mistero dell’uomo e nel medesimo tempo a far sì che l’università formando l’uomo promuova l’autentico bene della società.

In questo contesto mi permetto di ricordare quanto Giovanni Paolo II nota con insistenza:  “Non si può [...] comprendere l’uomo fino in fondo senza il Cristo. O piuttosto l’uomo non è capace di comprendere se stesso fino in fondo senza il Cristo. Non può capire né chi è, né quale è la sua vera dignità, né quale sia la sua vocazione, né il destino finale. Non può capire tutto ciò senza il Cristo. E perciò non si può escludere Cristo dalla storia dell’uomo in qualsiasi parte del globo, e su qualsiasi longitudine e latitudine geografica” (11).

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Il Cristo è “la chiave per la comprensione di quella grande e fondamentale realtà che è l’uomo” (12). Citando le parole del Concilio Vaticano II, Giovanni Paolo II sottolinea:  “In realtà, solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo [...] Cristo [...] svela [...] pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (13), e la piena verità sulla libertà umana (14), sul suo vero bene (15). Anzi, “attraverso l’Incarnazione Dio ha dato alla vita umana quella dimensione che intendeva dare all’uomo sin dal suo primo inizio, e l’ha dato in maniera definitiva” (16). In lui si è rivelata in modo nuovo e più mirabile anche “la fondamentale verità sulla creazione” intera (17). L’uomo quindi “che vuole comprendere se stesso fino in fondo – non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e perfino apparenti criteri e misure del proprio essere - deve [...] avvicinarsi a Cristo” (18).

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  • - Servire l’uomo significa – secondo l’umanesimo cristiano – anzitutto cercare disinteressatamente la verità, la quale ha la sua pienezza in Cristo. Il consacrarsi senza riserve alla causa della verità significa servire “la dignità dell’uomo e la causa della Chiesa, la quale ha “l’intima convinzione che la verità è la sua vera alleata… e che la conoscenza e la ragione sono fedeli ministre della fede” (Card. Newman)” (19). “La nostra epoca [...] ha urgente bisogno di questa forma di servizio disinteressato, che è quello di proclamare il senso della verità, valore fondamentale senza il quale si estinguono la libertà, la giustizia e la dignità dell’uomo” (20).

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C. Dialogo tra fede e cultura

5. In questa prospettiva, la parola della fede appare come interlocutore culturalmente significativo e rilevante nell’ambito universitario. Infatti, “una fede che non diventa cultura [nel senso di modo di esistere e di essere dell'uomo] è una fede non pienamente accolta, non intensamente pensata, non fedelmente vissuta” (21).

Le scienze tecniche, aiutate a superare una riduzione culturale che le mortificherebbe circoscrivendole a sapere meramente funzionale e pragmatico, possono così riprendere la loro fisionomia di ricerca posta a servizio della qualità della vita, mai slegata dalla verità totale sull’uomo e sul mondo.

Le scienze umane, a loro volta, vengono provocate a quasi riscattarsi da una visione del sapere strumentale e calcolatore, che tende a relegarle a ruoli secondari, e a mostrare la loro capacità di scrutare l’uomo nella sua profondità, e quindi di saper cogliere in esso il desiderio vivo di Dio e nel medesimo tempo l’idoneità dell’intelletto umano di saper arrivare, con la sua acutezza, a Dio stesso (22).

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6. In questo orizzonte, si comprende come fede e cultura non siano estranee l’una all’altra; esse sono indissolubilmente connesse in radice:  “nella sua base ontologica il fenomeno della cultura possiede una intrinseca dimensione religiosa, giacché in molti modi manifesta quel desiderium naturale videndi Deum che è presente in ogni uomo” (23).

La dimensione religiosa appare, dunque, punto d’incontro naturale e fecondo tra la concezione dell’uomo e il concetto di cultura:  “È tempo di comprendere più profondamente che il nucleo generatore d’ogni autentica cultura è costituito dal suo approccio al mistero di Dio, nel quale soltanto trova il suo fondamento incrollabile un ordine sociale incentrato sulla dignità e responsabilità personale” (24).

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7. Un eventuale tentativo di infrangere questo connubio porta l’uomo e la cultura stessa a ripiegarsi su di sé, su interessi puramente egoistici e a non aprirsi ad orizzonti più vasti che sono indispensabili perché l’uomo possa veramente essere compreso ed esprimersi nella sua totalità.
In tale dialogo ha una grande rilevanza la riflessione teologica in seno all’università. Essa, infatti, promuove proprio un dialogo costruttivo nella verità, contribuendo ad evitare una concezione dualistica del sapere umano e quindi una separazione tra Vangelo e cultura, tra fede e ragione.

Il carattere di scientificità che la riflessione teologica assume impedisce ogni confusione di piani. Attraverso un uso critico della ragione, essa tende a illustrare la coerenza, la struttura intelligibile, il significato perenne dell’asserto di fede nel confronto con il mutamento delle culture, lasciandosi provocare da esse e al tempo stesso provocandole per un’intelligibilità sempre più profonda della verità. Unendo in sé l’audacia della ricerca e la pazienza della maturazione, l’orizzonte teologico può e deve interessarsi di tutti i problemi che tormentano gli uomini; può e deve valorizzare tutte le risorse della ragione.

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8. Comunque, occorre sottolineare in questo contesto che la questione della Verità e dell’Assoluto – la questione di Dio – non è una investigazione astratta, avulsa dalla realtà del quotidiano; ma la domanda cruciale, da cui dipende radicalmente la scoperta del senso (o del non senso) del mondo e della vita.

9. Quindi, il dialogo tra fede e cultura, l’attenzione costante al significato della ricerca e della tecnologia, la preoccupazione di un sapere che abbracci la visione e la formazione integrale dell’uomo, la ricerca disinteressata della verità:  tutto ciò costituisce un servizio all’uomo stesso e al vero progresso.

La sensibilità cristiana è chiamata ad inserirsi in questo dialogo, senza avanzare pretese egemoniche di nessun tipo. Non solo per rispetto delle legittime libertà d’espressione e convinzione, ma per fedeltà alla sua missione specifica.

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Venti anni or sono, Giovanni Paolo II, rivolgendosi ai professori e agli studenti in Germania, sottolineò:  “Una soluzione sicura, capace di rispondere alle urgenti questioni relative al senso dell’esistenza umana, ai principi che guidano l’agire, alle prospettive di una speranza aperta al futuro è possibile soltanto in una rinnovata unione del sapere scientifico con la forza della fede dell’uomo, la quale cerca la verità. La lotta per un umanesimo, sul quale si può fondare lo sviluppo del terzo millennio, porterà al successo soltanto quando in esso la conoscenza scientifica di nuovo si unirà in maniera vitale con la verità che è stata rivelata all’uomo come dono di Dio” (25).

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10. Vorrei aggiungere una parola circa il ruolo dei docenti e degli studenti cattolici in questo dialogo. Anche dove non è possibile parlare esplicitamente di Dio si può operare perché si crei quello spazio spirituale e culturale dove Dio possa parlare. Per creare questo spazio ovviamente occorre:

- una fede viva nella forza del Vangelo. Dobbiamo essere convinti anzitutto che nel Vangelo si dà “una concezione del mondo e dell’uomo che non cessa di sprigionare valenze culturali, umanistiche ed etiche da cui dipende tutta la visione della vita e della storia” (26);

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- una testimonianza di vita cristiana visibile. La potenza del Vangelo, pur essendo efficace in sé e per sé, richiede però quella testimonianza visibile da parte dei cristiani che vivono nell’ambito universitario e che hanno realizzato una sintesi esistenziale tra la loro fede e la loro professione accademico-scientifica. Infatti – come ha notato Paolo VI – “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, [...] o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (27).

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D. Il Giubileo degli Universitari

11. Il presente Incontro con la sua tematica s’inserisce nel contesto della celebrazione del Giubileo, nel quale ricordiamo il bimillenario dell’Incarnazione del Verbo di Dio. La nostra riflessione non può prescindere da questo avvenimento; anzi, deve inserirsi in esso. Siamo, pertanto, tutti chiamati a guardare a Cristo, Via, Verità e Vita (Gv 14, 6), il quale è venuto nel mondo per portarci la pienezza della verità e la salvezza. Il nostro discorso sull’umanesimo rischierebbe di restare astratto e incompleto senza questo sguardo, il quale è capace di cambiare il cuore dell’uomo e la visione con cui egli è chiamato a vedere la realtà e a risolvere i molteplici problemi che la vita presenta.

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Il Giubileo comporta necessariamente la conversione a Cristo; tale conversione per i docenti e gli studenti universitari cattolici significa anche uno sforzo continuo di armonizzare fede vissuta e insegnamento-ricerca, comporta una testimonianza chiara della loro vita cristiana.

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Senza l’apporto dei docenti cattolici e in un certo grado degli studenti in seno all’Università, volto a coniugare Vangelo e cultura, ogni discorso rischia di rimanere astratto. I docenti, infatti, svolgono una funzione primaria e delicatissima nel contesto della ricerca della verità e nell’aprire i cuori dei giovani e dei loro colleghi alla verità assoluta che è Cristo stesso. Questa loro attività la svolgeranno nella convinzione che la scienza e la cultura non devono avere paura di Cristo; anzi, occorre spalancare le porte a Lui,  che  sa  ciò  che  è  dentro  l’uomo, per permettergli di parlare all’uomo stesso e di svelargli la sua identità e missione (28).

Questo sguardo a Cristo deve essere talmente personale e forte da far attirare l’attenzione anche dei docenti e degli studenti non cristiani verso Gesù. La gioia della nostra celebrazione giubilare deve costituire un’occasione perché anche i non credenti siano provocati alla ricerca della verità assoluta che è Cristo stesso. Voglio ricordare quanto il Papa scrive nella Bolla d’Indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000 Incarnationis Mysterium:  “In occasione di questa grande festa sono cordialmente invitati a gioire della nostra gioia anche i seguaci di altre religioni, come pure quanti sono lontani dalla fede in Dio. Come fratelli dell’unica famiglia umana, varchiamo insieme la soglia di un nuovo millennio che richiederà l’impegno e la responsabilità di tutti” (29).

. Di tutto cuore mi auguro che il presente Incontro sia un’occasione per tutti di riflessione, di conversione e d’impegno. Il futuro della società si gioca in gran parte in seno alle Università, luoghi dove si preparano coloro che avranno responsabilità di rilievo nei vari settori del sapere, della scienza e della tecnica. Il momento attuale è carico di tensioni e incertezze, ma è anche aperto a grandi speranze. Tocca a noi tutti, particolarmente in questo Giubileo che ricorda la nascita di Gesù, orientare queste speranze verso l’autentico bene dell’uomo e della società.


Note:

(1) Cfr ad es. P. Poupard, La ricerca della verità nella cultura contemporanea in Studi Senesi 106 (1994) I, 108-133; C. M. Martini, Renderò gloria a Chi mi ha concesso la sapienza, Milano 2000,  20-22.  Questa  crisi  è  stata,  del resto,  spesso  rilevata  anche  dal  Magistero.

(2) La crisi dell’educazione occidentale, Brescia 1965, 175.

(3) R. Guardini, Tre scritti sull’università, Brescia 1999, 79.

(4)  Cfr  Enc.  Redemptor  hominis, 15d, 16a.

(5) Enc. Redemptor hominis, 16a; cfr Sollicitudo rei socialis, 27-34.

(6) Cfr Enc. Redemptor hominis 15b 15d, 15e.

(7) Ivi, 16b.

(8) Ivi, 16g.

(9) Cfr al riguardo Giovanni Paolo II, Allocutio ad professores et alumnos publicarum Universitatum in Coloniensi metropolitano templo habita, 15 novembris  1980,  n.  3,  in  AAS  73 (1981) 52-53.

(10) Del 15 aprile 1979, in AAS 71 (1979) 469-499. Traduzione italiana in Enchiridion Vaticanum, vol. VI, nn. 1330-1454.

(11) Varsavia, 2 giugno 1979, in AAS 71 (1978) 738, n. 3a. Traduzione italiana in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 2 (1979) I, 1388.

(12) Ivi.

(13) Enc. Redemptor hominis, 8b; cfr anche ivi, 13a, dove Giovanni Paolo II parla della “potenza di quella verità sull’uomo e sul mondo, contenuta nel mistero dell’Incamazione e della Redenzione” e della “potenza di quell’amore che da essa irradia”.

(14) Ivi, 21e.

(15) Ivi, 13b.

(16) Ivi, 1b.

(17) Ivi, 8a.

(18) Ivi, 10a.

(19) Cfr Cost. Ap. Ex corde Ecclesiæ, 15 aprile 1990, 4.

(20) Ibidem.

(21) Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti al Congresso nazionale del movimento ecclesiale di impegno culturale, 16 gennaio 1982, 2, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 5 (1982) I, 131.

(22) In fondo si tratta di quella visione metafisica che potrà aiutare a superare visioni parziali della realtà. Al riguardo mi piace ricordare quanto osserva Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Fides et Ratio:  “L’importanza dell’istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per l’intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione di scoprirne l’essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le capacità della ragione?” (n. 84).

(23) Giovanni Paolo II, Messaggio alla Pontificia Università Lateranense, 7 novembre 1996, n. 3, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 19 (1996) II, 656.

(24) Giovanni Paolo II, Discorso al Convegno ecclesiale di Palermo, 23 novembre 1995, n. 4, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, 18 (1995) II, 1199.

(25) Allocutio ad professores et alumnos publicarum Universitatum in Coloniensi  metropolitano  templo  habita, 15 novembris 1980, n. 5, in AAS 73 (1981) 57.

(26) Giovanni Paolo II, Discorso al Forum dei Rettori delle Università Europee, 19 aprile 1991, n. 7, in AAS 84 (1992) 55.

(27) Esort. Ap. Evangelii nuntiandi, 8 dicembre 1975, n. 41, in AAS 58 (1976) 5-76.

(28) Cfr Discorso inaugurale del Pontificato di Giovanni Paolo II, 28 ottobre 1978, in AAS 70 (1978) 947.

(29) N. 6.

Posted on Giugno 8th, 2009 di Angelo

Per una spiritualità della comunione: unità nella diversità


Per una spiritualità della comunione: unità nella diversità

Scritto da Enzo Bianchi

Cari Vescovi e Padri,
fratelli e sorelle,

Bianchi Enzo 1_vi chiedo di perdonare l’insipienza con cui ho risposto affermativamente all’invito di offrirvi una riflessione sul tema della spiritualità di comunione. Sono soltanto un monaco, un semplice laico che tenta di vivere quotidianamente in una comunità ecumenica questa spiritualità di comunione: aprirò allora la bocca con molta semplicità e, spero, in obbedienza alla parola del Signore che “vuole che tutti gli uomini siano salvati” (1Tm 2,4) e che i credenti siano uno, partecipi della comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.

Nell’autorevole relazione conclusiva del Sinodo dei Vescovi del 1985 si è detto che “l’idea centrale e fondamentale nei documenti del Concilio Vaticano II deve essere individuata nella ecclesiologia di comunione” e questa constatazione è ormai ampiamente condivisa nella Chiesa cattolica: possiamo dire che su di essa molti sono stati i contributi teologici, tra i quali paiono decisivi quelli di Jérome Hamer, di Jean-Marie Roger Tillard, di Ioannis Zizioulas, di Walter Kasper…


Ma un’autentica teologia è capace di generare anche una spiritualità o, per meglio dire, un’autentica teologia è sempre spirituale, pneumatica, capace cioè di incidere sulla vita interiore e sull’esperienza del cristiano e della comunità. D’altronde, la parola “koinonia” nel Nuovo Testamento indica innanzitutto la vita della chiesa nata dalla discesa dello Spirito santo, quella vita “epì tò autò” (At 2,44), perseverante nella didaké apostolica, nella frazione del pane, nella preghiera. La parola “koinonia” riassume le perseveranze essenziali alla chiesa nascente e le conferisce un volto, sicché la chiesa è epiphaneia della koinonia trinitaria, una koinonia partecipata nella dynamis dello Spirito santo attraverso la comunione apostolica (cf. 1Gv 1,3.6), una koinonia che è compimento della salvezza annunciata dal Vangelo.

Quando noi cristiani diciamo comunione, designiamo il mistero eterno della comunione che è la vita stessa di Dio, ma diciamo anche – essendo noi “syn-koinonoi” (cf. Fil 1,7; Ap 1,9), compartecipi – che a questa comunione noi partecipiamo nel corpo di Cristo, nel sangue di Cristo: la koinonia è dunque “essenza”, non “nota” della chiesa. Se la vita del cristiano e della chiesa è vita secondo lo Spirito santo, originata dallo Spirito e vita in Cristo, allora la spiritualità non può che essere spiritualità di comunione. La vita del cristiano e della chiesa deve essere dunque plasmata dalla comunione, la quale non è opzionale, non è una scoperta recente della teologia, ma è forma ecclesiae. Certamente, la comunione dei cristiani tra loro e con Dio nel pellegrinaggio della chiesa verso il Regno sarà sempre fragile, continuamente messa alla prova e sovente anche contraddetta; sarà una comunione che tende a essere piena ma che tale non sarà mai, se non nel Regno eterno. La comunione che ogni cristiano e ogni chiesa deve vivere risulta ferita, offesa, già nel Nuovo Testamento (cf. 1Gv 2,18; 3Gv 9-10…), ma allora come adesso nella chiesa è custodita e perseguita la volontà di Dio che chiede la realizzazione della comunione visibile del corpo di Cristo, l’essere uno (hén einai) come il Padre e il Figlio sono uno (Gv 17,11).


I cristiani sono consapevoli di questa necessità radicale della comunione quale forma della loro vita e della vita ecclesiale? Per questo a me pare importante che nella Novo millennio ineunte papa Giovanni Paolo II sia riuscito non solo a indicare la forza della koinonia, ma abbia chiesto una spiritualità della comunione, specificandola nelle sue manifestazioni e realizzazioni e riprendendo il lessico caro ai padri medievali che parlavano della comunità cristiana come “casa di comunione”, capace di essere “scuola di comunione” (NMI 43). Sì, l’ecclesiologia di comunione deve inverarsi in strumenti e strutture, ma questo è possibile e autentico solo se si percorre un cammino spirituale, solo se si riesce a instaurare nel tessuto quotidiano delle chiese una spiritualità di comunione.


E Giovanni Paolo II delinea questa spiritualità da contemplarsi innanzitutto nel mistero della Trinità di Dio che abita in noi e fa del cristiano la sua dimora. Si tratta perciò, dice ancora Giovanni Paolo II, di far nascere e crescere una capacità di sentire il fratello nella fede (anche il fratello con il quale la comunione non è piena) come un appartenente al corpo di Cristo, un mio fratello, con cui deve esserci conoscenza reciproca e condivisione. Nello spazio cristiano, infatti, l’altro non è “l’inferno” (cf. J.-P. Sartre), ma è “dono di Dio”, è ciò che mi manca e che mi rivela la mia insufficienza.

Sì, non è possibile essere cristiani e non solo non volere l’unità, ma non fare tutto ciò che è possibile per la comunione. Chi agisce e vive per la comunione con Cristo non può simultaneamente, non agire e non vivere per la riconciliazione e la comunione con i suoi fratelli, membra del suo stesso corpo.

A queste indicazioni lasciateci dalla Novo millennio ineunte vorrei aggiungere alcune urgenze per una spiritualità della comunione che sia veramente ispirata dalla ecclesiae primitivae forma.

  

Innanzitutto, l’esigenza che la comunione sia plurale. Non si dimentichi mai che la pluralità, la diversità è attestata dagli e negli scritti fondatori della nostra fede. Dell’unico Signore Gesù Cristo – “lo stesso ieri, oggi e sempre” (Ebr 13,8) – ci sono stati dati quattro vangeli, quattro annunci diversi, perché non la fissità di un libro, di uno scritto, bensì la dinamicità dello Spirito santo è all’origine del cristianesimo. C’è fin dall’inizio pluralità di espressioni scritturistiche, di ecclesiologie, di concezioni cristologiche, di prassi liturgiche, di testimonianze e forme della missio, di accenti spirituali… Questa pluralità – che riflette la policromia, la multicolore Sophia di Dio – e l’inesauribilità del mistero di Cristo accolto in culture diverse, è ricchezza di doni, ma è anche negazione di ogni fondamentalismo e di ogni integralismo cristiano. Fin dalle origini, l’unico Gesù Cristo dà spazio a diversi cristianesimi – giudeo-cristiano, etno-cristiano… – perché il Cristo creduto è connesso a comunità diverse di credenti, che si aprono a una conoscenza diversa e a un’attuazione diversa del mistero. Nelle Scritture neotestamentarie, nelle liturgie, nella vita delle chiese le diversità non sono negate ma assunte, e così l’unica verità, che è Gesù Cristo, è detta, celebrata, pensata in modi differenti.

  

C’è un limite alla diversità, che conosciamo come ricchezza ma a volte anche come possibile tentazione che conduce alla divisione, all’opposizione reciproca? Questione delicata – riconosce il metropolita Zizioulas – che concerne soprattutto la problematica ecumenica. E con sapienza egli dichiara che “la condizione più importante della diversità è che essa non distrugga l’unità”: questa è l’applicazione ecclesiale della parenesi paolina sull’unità del corpo, sulla possibilità di scandalizzare un membro, sulla carità che deve sempre prevalere. Il rapporto “uno – molti”, “unità – diversità” è sempre da viversi nell’obbedienza dell’unico corpo e della diversità dei doni dello Spirito santo. Non c’è vita “en Christo” senza la koinonia dello Spirito santo. Nel linguaggio di san Massimo il Confessore, la “differenza” (diaphoria) è positiva, ma non deve mai diventare “divisione” (diairesis).


Oggi, grazie anche agli apporti filosofici di Martin Buber e di Emmanuel Lévinas, siamo culturalmente più preparati ad accogliere la logica della koinonia, perché l’alterità è da noi compresa come essenziale all’esistenza. Mai senza l’altro, mai senza l’altro fratello, mai senza l’altra chiesa, mai senza il riconoscimento dello statuto teologico dell’altro. L’appartenenza di un cristiano a un’altra confessione deve poter ritrovare la forma della koinonia ecclesiale, ma deve apparire anche legittima: né assolutizzata, né demonizzata, altrimenti l’altro diventerebbe un nemico e non più “un fratello per cui Cristo è morto” (cf. 1Cor 8,11). Si tratta di imparare che ciò che unisce è molto di più di ciò che divide, e che il bene grande dell’incontro e della comunione può richiedere la rinuncia a ricchezze non essenziali. Qui la spiritualità di comunione diviene anche ascesi, ovvero capacità di discernere e scegliere sempre l’essenziale.


Spiritualità di comunione significa allora esercizio dell’arte dell’ascolto: non per cercare nell’altro, nell’altra chiesa ciò che vi è di più simile, ma per accogliere l’alterità anziché cancellarla. Nell’incontro ecumenico, l’ascolto appare allora soprattutto condivisione della vita e dei beni spirituali, frequentazione reciproca per imparare i rispettivi idiomi, apprendimento di ciò che può ferire l’altro o risultargli irricevibile. Così cadono i pregiudizi, è sconfitta la paura dell’altro, la tentazione di identificare differenza e divisione: si apre la possibilità di pensare con l’altro la fede, il suo futuro, la sua trasmissione, l’evangelizzazione di quel mondo che Dio ha tanto amato da dargli il suo unico Figlio (cf. Gv 3,16).


E, certamente, questa assunzione della diversità e dell’alterità non apre lo spazio al relativismo se si accetta che in ogni incontro e confronto regni, come terzo salvifico, Gesù Cristo, il Kyrios. E’ Lui, il Kyrios, che fa stare insieme mentre distingue, che accomuna mentre personalizza, che tutti conduce verso il Regno veniente. E in questa spiritualità di comunione il riconoscimento del Kyrios ricorda e assicura che la diversità dei doni si compone anche nella preghiera: la preghiera gli uni per gli altri, la preghiera comune, vera epiclesi di un’unica eucaristia. E’ nella preghiera che noi portiamo tutto ciò che siamo e anche tutto ciò che ancora non siamo, ma che dobbiamo diventare secondo la volontà e la chiamata del Signore.

La preghiera che possiamo fare con insistenza è che il Signore ci conceda di vivere come indicava Anselmo di Havelberg:


Unum corpus Ecclesiae, quod Spiritu sancto vivificatur, regitur et gubernatur… unum corpus Ecclesiae uno Spiritu sancto vivificari… semper unum una fide sed multiformiter distinctum multiplici vivendi varietate (Dialogi I, PL 188,1144).


Nella storia noi già partecipiamo al raduno escatologico dei figli dispersi di Dio, e alla sequela di Gesù Cristo vediamo cadere i muri divisori dell’inimicizia e siamo invitati a partecipare alla sua pace (cf. Ef 2,18). Se siamo autentici discepoli di Gesù Cristo, tutto dobbiamo predisporre, sentire e operare in vista della comunione con Lui che tutto vuole reintestare a sé, perché Dio sia tutto in tutti (cf. 1Cor 15,28).


Sì, ogni spiritualità cristiana può solo e sempre essere una spiritualità di comunione: lotta spirituale contro Babele, epiclesi di rinnovata Pentecoste!