CONVERSIONE INTELLETTUALE E PREGHIERA CONVENIENTE – C.M. Martini

Posted on Marzo 20th, 2009 di Angelo | Edit

CONVERSIONE INTELLETTUALE E PREGHIERA CONVENIENTE – C.M. Martini

di S. Em. Card. Carlo Maria Martini

Riportiamo due meditazioni ai sacerdoti della diocesi di Milano del Cardinal Martini – che ha compiuto da poco gli ottanta anni – tenute la prima a Triuggio il 18 ottobre 1991 e la seconda il 30 ottobre 1991 a Rozzano diocesi di Milano. Il cuore di questo grande Pastore continua a battere al ritmo del cuore di Cristo, e illumina con la sua spiritualità e la testimonianza della sua fede le coscienze di tanti cristiani e uomini di buona volontà in cerca della verità nella carità.I testi che seguono sono tratti da: Carlo Maria Martini, Briciole dalla Tavola della Parola, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1996, pp.46- 54, e 55-61 Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

04/03/2007


L’importanza della conversione intellettuale

Le diverse tappe dei vangeli

La festa liturgica di san Luca, che oggi celebriamo, mi ha suggerito di meditare su quella «conversione» che possiamo chiamare «intellettuale».

Essa infatti è bene espressa nell’insieme dell’opera lucana – vangelo e Atti degli apostoli -.

A modo di premessa, ci domandiamo: come si collo­cano i due libri di Luca rispetto agli altri tre vangeli?

Ricordo che nel 1980, all’inizio dunque del mio epi­scopato, avevo presentato, negli incontri di zona con i presbiteri, la figura globale del cristiano attraverso i quattro vangeli.

E dicevo che Marco è il vangelo del catecumeno, per­ché contiene l’essenziale per introdurre al battesimo; Matteo è il vangelo del catechista, perché introduce alla vita della comunità, della Chiesa; Luca è il vangelo del testimone, ín quanto prepara il cristiano all’evangelizza­zione; Giovanni è il vangelo del presbitero, perché mo­stra la sintesi spirituale cui giunge un cristiano maturo che, dopo essere passato per le tre precedenti esperien­ze, diventa capace di assumere responsabilità di una co­munità, come prete o come padre o madre di famiglia.

Di queste quattro tappe lungo le quali si snoda il cammino cristiano, esaminavo poi alcuni aspetti particolari chiedendomi, per esempio: Qual è lo stato di preghiera proprio di ciascuna tappa? Perché, evidente­mente, non é lo stesso pregare come catecumeno o pre­gare come catechista o come evangelizzatore o come cristiano perfetto, illuminato. E quali sono i ministeri delle singole tappe? Quali le forme di intelligenza della fede, di cultura cristiana?

Oggi, supposta la quadruplice divisione dei vangeli secondo diversi livelli della vita cristiana, desidero aggiungere un’ulteriore riflessione sulla conversione.

La conversione è un evento molto importante, fon­damentale per l’uomo. Cristiano è chi si converte dagli idoli a Cristo Gesù rivelatore del Padre e vive la, sua esi­stenza in modo nuovo, con quel modo nuovo di guar­dare la realtà tipico di colui che si riconosce peccatore, ma salvato, figlio di Dio, amato e perdonato.

Se tuttavia esaminiamo da vicino l’evento della con­versione ci accorgiamo che comporta diversi volti, aspetti – non propriamente delle tappe – che storica­mente si presentano talora anche separati.

Possiamo così parlare di conversione religiosa, di conversione morale, di conversione intellettuale e di conversione mistica. A titolo puramente esemplificati­vo (e nell’intento di illuminare meglio il tema della conversione intellettuale, che ci siamo proposti come centro della nostra riflessione) vorrei contemplare quattro figure di santi – Agostino, Ignazio di Loyoia, Newman e Teresa d’Avila – per cogliere, in ciascuno di essi, un volto della conversione cristiana. Tenendo tuttavia presente che questo volto, in loro, non è 1′u­nico. Ogni cristiano, infatti, dopo la prima conversio­ne, quella battesimale, dovrebbe giungere gradual­mente anche alle altre.

La conversione religiosa

Agostino ci mostra chiaramente il passaggio dalla non conoscenza del Dio della Bibbia alla conoscenza del Dio di Gesù Cristo.

Egli era molto confuso sull’idea di Dio e pensava ad­dirittura a una duplice divinità, al principio del Bene e del Male. Dunque, prima ancora di una conversione morale e di una conversione mistica, Agostino ebbe una radicale conversione religiosa, grazie al contatto con Cicerone.

La racconta nelle Confessioni, quando parla della sua lettura dell’Ortensio: «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire, mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspira­zioni e nuovi desideri, svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza im­mortale con incredibile ardore di cuore. Così comincia­vo ad alzarmi per tornare a te». Il ritorno, il cambia­mento di direzione del cammino, è l’inizio della conver­sione religiosa. «Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a te, pur ignorando cosa volessi fare di me» (1II, 4. 7-8).

Era ancora incerto sul futuro, viveva ancora un’esi­stenza disordinata, però aveva intuito che in ogni ca­so Dio è tutto, è al di sopra di tutto, che Dio ha il primato.

E se ci domandiamo dove questo è espresso nelle tappe della predicazione evangelica e dei vangeli scritti, rispondiamo che si trova indubbiamente nel libro di Marco: esso proclama la «Buona notizia di Gesù Cristo, figlio di Dio» (1, 1) e chiama l’uomo a una scelta irrevo­cabile del Padre di Gesù Cristo, di questo Dio di Gesù morto sulla croce.

Il vangelo di Marco rappresenta il livello della conver­sione religiosa cristiana.

La conversione morale

Ignazio di Loyola ci permette di vedere un secondo volto della conversione. Credeva in Dio, era stato edu­cato alla fede cristiana, si dedicava anche a qualche pra­tica religiosa, ma gli piacevano le vanità del mondo e la sua vita era piuttosto disordinata.

Trovandosi infermo a seguito di una ferita alla gam­ba, si mise a leggere una «Vita» di Cristo e alcune bio­grafie di santi, che lo posero a confronto con se stesso. Riflettendo seriamente sul suo passato, comprese che pur riconoscendo già il primato di Dio, per essere de­gno dell’amore di Gesù, morto per salvarci, doveva cambiare modo di comportarsi. Da quel momento in­comincia un cammino che lo porterà ad essere un vero uomo di Chiesa, profondamente obbediente alla realtà e all’istituzione ecclesiastica.

La sua è una conversione morale anche negli aspetti so­ciali, perché sfocia nel servizio alla comunità ecclesiale.

A tale aspetto della conversione richiama il vangelo di Matteo rivolto in particolare a quei fedeli che, avendo già accettato Cristo come la pienezza della legge e il predetto dai profeti, devono convertirsi alla Chiesa quale corpo di Cristo, devono accoglierla nella sua di­sciplina, nelle sue regole, nella sua struttura dogmatica.

La conversione intellettuale

E vengo a quel livello di conversione intellettuale su cui vorrei più precisamente concentrare la vostra atten­zione, una conversione sottile e difficile da definire. La leggiamo nella figura del cardinale Newman.

Egli credeva profondamente in Dio e in Gesù, era moralmente molto retto, di grande austerità e santità

di vita. Intellettualmente, però, era molto confuso. Non sapeva quale Chiesa rappresenta veramente la Chiesa istituita da Gesù. Ed è interessante vedere nella sua autobiografia, la fatica mentale che ha dovuto com­piere. Non dunque una fatica morale, e nemmeno reli­giosa, ma proprio la fatica di cogliere tra i diversi ragio­namentí, le diverse argomentazioni, le molteplici teolo­gie e filosofie, quella giusta.

A un certo punto del suo cammino, riflettendo atten­tamente sulle eresie del IV secolo, su come la Chiesa ave­va superato 1′aríanesímo e il donatismo, intuì il principio di unità e la centralità di Roma. In proposito, Newman parla di «illuminazione» che cambiò la sua vita.

Si tratta di una conversione intellettuale; tocca, infat­ti, l’intelligenza che, dopo aver vagato attraverso opi­nioni e punti di vista confusi, diversi, contraddittori, fi­nalmente trova un principio per il quale riesce a deci­dersi e a operare, non sotto l’influenza dell’ambiente o del parere degli altri, bensì per una illuminazione chiara e profonda.

Mi preme sottolineare che la conversione intellettua­le è parte del cammino cristiano, pur se sono poche le persone che vi arrivano perché è certamente più como­do, più facile accontentarsi di ciò che si dice, di ciò che si legge, di come la pensano i più, dell’influenza del­l’ambiente anche buono.

Tuttavia il cristiano maturo ha assoluto bisogno di acquisire convinzioni personali, interiori per essere un evangelizzatore serio in un mondo pluralistico e segna­to da bufere di opinioni contrastanti.

In altre parole, la conversione intellettuale è propria, di chi ha imparato a ragionare con la sua testa, a coglie­re la ragionevolezza della fede grazie a un cammino, forse faticoso, che lo rende capace di illuminare altri.

L’opera di Luca – vangelo e Atti – rappresenta quel­lo stadio dell’itinerario cristiano in cui una persona, do­po la decisione religiosa di essere tutta del Dio di Gesù Cristo, dopo quella morale di vivere un’esístenza secon­do la disciplina e gli insegnamenti della Chiesa, vuole a ogni costo cogliere il cammino cristiano nel mondo, nell’insieme delle filosofie e delle teologie tra loro diver­se, con una chiarezza che deriva appunto dall’aver im­parato a orientarsi in mezzo a un contesto difficile.

Luca insegna a orientarsi nel mondo pagano, a para­gonare le tradizioni religiose pagane con quelle ebrai­che, a mantenere la fedeltà al Dio di Israele, al Dio creatore e, in Gesù, redentore, pur vivendo al di fuori del popolo ebraico. La comunità primitiva si trovava di fronte a gravi problemi intellettuali e teologici: per esempio, bisogna imporre le forme religiose ebraiche, anche disciplinari, ai pagani oppure occorre operare una nuova sintesi?

Gli Atti degli apostoli ci fanno capire che è possibile un’evangelizzazione planetaria, che non è necessario ri­produrre semplicemente il modello israelitico di pensie­ro e di pratica religiosa. Il grande merito di Luca consiste nell’aver affrontato in modo diretto ed esplicito il problema della cultura religiosa, della conversione intellet­tuale, quindi anche dell’evangelizzazione delle culture.

E la sua opera deve esserci particolarmente cara oggi, dal momento che viviamo in un universo culturale scomposto e confuso. Anche al tempo di Luca erano venute meno le ideologie e si assisteva a una mescolan­za di vecchie e di nuove filosofie, di riti che venivano dall’oriente, di religioni misteriche; la gente era perplessa­ inquieta, aveva bisogno di orientamento, di certezze,di imparare a cogliere l’unità del disegno divino.

Ispirato da Dio, Luca ci ha offerto un modello di ,comportamento missionario al quale riferirci ancora og­gi. Giovanni Paolo II lo riprende nell’enciclica Redemptoris missio, dove presta attenzione alle diverse religioni, al1e varie culture, al dialogo interculturale, ma con quella libertà, chiarezza e serenità che sono proprie di Luca.

Vorrei inoltre osservare che la stessa grande teologia di Paolo è uno sviluppo delle intuizioni di Luca. L’A­postolo costruisce una teologia che non si limita a rin­negare gli errori; essa tiene conto dei concetti buoni del rabbinismo sulla giustizia di Dio e delle riflessioni dello gnosticismo sull’unicità del cosmo. Per questo è molto importante leggere il vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli nell’approfondimento teologico di Paolo, in particolare nelle Lettere ai Romani, ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Colossesi.

Il Signore ha dunque provveduto alle colonne della sua Chiesa, a dirigere il consiglio e la scienza di questi uomini per insegnarci a meditare sui misteri di Dio, per permetterci di viaggiare tra genti straniere investigando il bene e il male, senza lasciarci contaminare, indagando la sapienza di tutti gli uomini e dedicandoci allo studio delle profezie (cf. Siracide 39).

Luca è riuscito a operare una sintesi tra visione giu­daica del mondo, a partire da Abramo e dalle profezie, e una visione cosmica che poteva anche essere compre­sa dai pagani, partendo dal Dio creatore e dal primo uomo, considerando quindi tutta la successione dell’u­manità chiamata a un unico disegno.

Lasciamoci perciò scuotere dal messaggio lucano verso una conversione intellettuale, nel desiderio di uti­lizzare la nostra intelligenza per valutare i fenomeni e gli eventi che si verificano intorno a noi, per non esser­ne emarginati o intimoriti.

Quello che propongo nella lettera pastorale Il lembo del mantello è proprio un aspetto della conversione in­tellettuale. Non chiedo di non guardare la televisione, bensì di imparare a giudicare, a criticare, a non essere succubi. Non guardarla sarebbe forse una buona con­versione morale, ma non ci metterebbe a raffronto con molte delle opinioni del nostro tempo. La mia è davvero la richiesta di un salto di qualità nella capacità di autocritica, di critica dei mass media, nella capacità di non lasciarci ipnotizzare da essi. Eliminarli del tutto equivarrebbe a non parlare con i nostri contemporanei.

So bene, ripeto, che il passaggio alla conversione in­tellettuale richiede sforzo, volontà, pazienza, tempo, ma vi invito a farlo. Rimango sempre perplesso quando in­contrando qualche comunità religiosa, anche contem­plativa, mi accorgo che pur conducendo una vita pia, devota, santa, sacrificata, questi uomini o queste donne non hanno l’intelligenza spirituale della situazione della Chiesa. I nostri Padri, come Agostino e Ambrogio, non si sono distinti solo per la pietà o per la moralità; essi avevano acquistato quell’intelligenza che può giudicare da sé ciò che è bene e ciò che è male, che può rendere ragione delle proprie opzioni di fede.

Di questa maturità cristiana, che nasce dalla conver­sione intellettuale, noi abbiamo bisogno oggi per evan­gelizzare un’Europa così sofisticata e attraversata dalle più strane correnti di pensiero.

La conversione mistica

Il vangelo di Giovanni delinea il quarto volto della conversione cristiana, quella mistica che è bene esem­plificata in Teresa d’Avila.

Teresa credeva in Dio, viveva una vita buona, e però lei stessa scrive che il monastero non l’aveva aiutata a compiere veramente un salto di qualità.

Dopo più di vent’anni di «mediocrità» ella entra, per grazia, in quello stato di semplificazione nel quale con­templa il Signore presente in lei, in ogni membro del suo corpo mistico, in ogni persona e in ogni situazione, e contempla tutta la realtà in lui.

La conversione mistica è infatti quella condizione che ci permette di cogliere immediatamente la presenza di Dio ovunque. E lo stadio contemplativo del IV vangelo, il più consono per chi ha responsabilità presbíterali. Perché il presbítero è l’uomo della sintesi, l’uomo che sa vedere sempre lo Spirito santo in azione nella storia, e tutta la storia in Dio. Non è soltanto 1′evangelizzatore che proclama la Parola, ma anche il responsabile e, co­me tale, deve cogliere l’unità nei frammenti, l’unità nel­le disparate attività, attraverso la preghiera continua e il senso dell’onnipresenza divina.

Conclusione

Gli evangelisti ci presentano un ideale di cammino cristiano da cui siamo certamente lontani, e tuttavia cí conforta sapere che Dio ci chiama a percorrerlo. Luca, in particolare, ci stimola a raggiungere una tappa estre­mamente importante per il nostro ministero.

Per il momento di silenzio, vi suggerisco di doman­darvi se provate gratitudine per il dono degli scritti di Luca. Pensiamo come saremmo poveri se non li avessi­mo, se mancassero alla nostra vita i racconti dell’annun­ciazione, della natività di Gesù a Betlemme! Luca arric­chisce grandemente la nostra sensibilità spirituale.

Come cerchiamo di trarre profitto dal suo vangelo e dagli Atti, per la nostra formazione a essere evangelizza­tori? Come ci sforziamo di arrivare alla conversione in­tellettuale, che ci introduce nella comprensione del mondo e della storia? Ci lasciamo aiutare anche dalle iniziative che portano avanti il discorso di attenzione al significato dell’ambiente culturale circostante, che Luca ha avuto così vivo, senza perdere nemmeno una virgola della forza straordinaria della buona notizia di Gesù?


La natura misteriosa della preghiera

Introduzione

Sono stato molto colpito dalla prima lettura della messa feriale di oggi, mercoledì della trentesima setti­mana «per annum», in particolare dove si dice: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito intercede con in­sistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, per­ché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Romani 8, 26-27).

È un brano che mi ha sempre affascinato, incuriosito anche inquietato, perché non facile da spiegare, in quanto si riferisce alla natura misteriosa della nostra preghiera. Possiamo farci aiutare nella nostra riflessione dalla spiegazione che Agostino dà delle parole di san Paolo.

Nella Lettera a Proba che viene proposta nell’Uffi­cio di Lettura delle settimane venticinquesima e venti­seiesima del tempo «per anno» – il Vescovo di Ippona risponde alla domanda: Che cosa vuol dire pregare?

A proposito dei vv. 26-27 della Lettera ai Romani po­ne l’obiezione fondamentale: Che cosa significa che lo Spirito intercede per i credenti? E risponde: «Non dobbiamo intendere questo nel senso che lo Spirito santo di Dio, il quale nella Trinità è Dio immortale e un solo Dio con il Padre e con il Figlio, interceda per i santi, come uno che non sia quello che è, cioè Dio»1.

Dunque, se san Paolo sembra non avere difficoltà ad affermare che lo Spirito santo, cioè Dio, prega Dio, noi però teologicamente l’abbiamo.

Possiamo capire che il Figlio, in quanto incarnato in Gesù, prega il Padre; ma lo Spirito come fa a pregare il Padre?

Dietro a questo problema dogmatico, affrontato da Agostino, c’è poi tutto il problema della preghiera con­scia e inconscia, della preghiera di cui ci accorgiamo o meno e quindi il brano della Lettera ai Romani costitui­sce una porta molto interessante per costringerci a en­trare in questo mondo immenso.

Vorrei cercare di socchiudere almeno un poco quella porta incominciando col porre due premesse, quindi ri­prendendo l’espressione: lo Spirito intercede, prega, geme per noi.

Le due definizioni della preghiera

In una prima premessa richiamo le due definizioni tradizionalí della preghiera, che non sembrano andare tanto d’accordo.

- La preghiera è elevatio mentis in Deum, un elevare la mente a Dio. Il riferimento è anzitutto alla preghiera di lode, di ringraziamento, di esaltazione, quella che troviamo bene espressa nel cantico di Maria: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore». O, ancora, nella recita del Padre nostro, quando diciamo: «che sei nei cieli», parole che indicano l’innalzamento degli occhi, la dimensione verticale del­l’orazione, che sale dal basso verso l’alto.

- L’altra definizione è petitio decentium a Deo, che probabilmente è complementare alla precedente. La ri­chiesta a Dio di ciò che conviene è una preghiera che si esprime soprattutto nella domanda, nella supplica, nel­l’implorazione, nella petizione. Se circa una metà dei salmi sono di lode e di esaltazione, l’altra metà sono di petizione, di supplica, di richiesta di perdono. Così pure il Padre nostro, se nella prima parte è elevatio mentis in Deum, nella seconda parte è petitio, richiesta di cose convenienti (il pane, la liberazione dalla tentazio­ne, il perdono). Anche l’Ave Maria incomincia con l’e­levazione della mente a Maria e a Gesù e poi si fa ri­chiesta di preghiera per noi peccatori.

Ci sono dunque due linee che si intersecano, quella orizzontale e quella verticale, e costituiscono nel loro insieme la preghiera cristiana. Può essere allora utile, parlando della preghiera, mettere a fuoco ora l’uno ora l’altro dei due elementi, che si alternano anche nella nostra esistenza: a volte siamo più portati a elevare la mente a Dio (nel «prefazio» della messa, per esempio), in altri momenti alla petitio decentium a Deo (come nel­le orazioni della messa).

Come si realizza questo secondo elemento della pre­ghiera, che è la richiesta di cose convenienti?

Scrive Agostino nella Lettera a Proba: «Il pregare consiste nel bussare alla porta di Dio e invocarlo con insistente e devoto ardore del cuore. Il dovere della preghiera si adempie meglio con i gemiti che con le pa­role, più con le lacrime che con i discorsi. Dio infatti “pone davanti al suo cospetto le nostre lacrime”(Salmo 55, 9), e il nostro gemito non rimane nascosto (cf. Salmo 37, 10) a lui che tutto ha creato per mezzo del suo Verbo, e non cerca le parole degli uominí»2.

Risuona la parola di Gesù: Quando pregate, non pensate di ottenere attraverso il vostro molto pregare, perché il Padre sa benissimo ciò di cui avete bisogno. Tuttavia Gesù stesso ci insegna a esprimere i nostri bí­sogni. Non tanto però – dice Agostino – con la molti­plicazione delle parole in quanto tale, bensì con una moltiplicazione che esprima il gemito del credente. Vie­ne così introdotta la nozione di «gemito» che ritrovia­mo nella pagina di san Paolo.

Concludendo, la preghiera di richiesta deve partire dal cuore, non va fatta superficialmente, deve essere un gemito, un desiderio profondo. Gemere, infatti, si­gnifica anelare a qualcosa di cui si ha estremo bisogno; anche fisícamente il gemito è l’espressione di chi, man­cando di aria, cerca di aspirarla.

Che cos’è conveniente chiedere nella preghiera

Una seconda premessa, limitandoci alla preghiera di petizione: che dobbiamo chiedere? La formula patristi­ca dice: decentium, cose conveníenti. E comincia il pro­blema: che cosa ci conviene? Perché Dio non ci dona ciò che non conviene, pur se lo domandiamo. Non a ca­so Matteo conclude la riflessione sulla preghiera con queste parole: «quanto più il Padre vostro celeste darà cose buone a coloro che gliele chiedono», cose che con­vengono (Matteo 7, 11).

Paolo insegna che noi non sappiamo che cosa ci con­viene («Nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare») e quindi dobbiamo istruirci sulle cose convenienti per poter pregare bene.

I Padri insistono soprattutto su una cosa convenien­te, che esprimono con un’unica parola, ben indicata nella Lettera a Proba: «Quando preghiamo non dobbia­mo mai perderci in tante considerazioni, cercando di sapere che cosa dobbiamo chiedere e temendo di non riuscire a pregare come si conviene. Perché non dícia­mo piuttosto col salmista: “Una cosa ho chiesto al Si­gnore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signo­re tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore e ammirare il suo santuario” (Salmo 26, 4)?».

E Agostino specifica: si tratta della «vita beata»3. Ta­le formula sintetica ha il vantaggio di una lunga tradi­zione filosofica: parte da Aristotele, è ripresa dallo stoi­cismo, riappare in Cicerone, è usata da Ambrogio.

La sola cosa che dobbiamo chiedere, l’unico oggetto fondamentale della richiesta è la vita beata, la vita feli­ce. Continua la Lettera a Proba: «Per conseguire questa vita beata, la stessa vera Vita in persona ci ha insegnato a pregare, non con molte parole, come se fossimo tanto più facilmente esauditi, quanto più siamo prolissi (…). Potrebbe sembrare strano che Dio ci comandi di fargli delle richieste quando egli conosce, prima ancora che glielo domandiamo, quello che ci è necessario. Dobbia­mo però riflettere che a lui non importa tanto la mani­festazione del nostro desiderio, cosa che egli conosce molto bene, ma piuttosto che questo desiderio si ravvivi in noi mediante la domanda perché possiamo ottenere ciò che egli è già disposto a concederci (… ). Il dono è davvero grande, tanto che né occhio mai vide, perché non è colore; né orecchio mai udì, perché non è suono; né mai è entrato in cuore d’uomo, perché è là che il cuore dell’uomo deve entrare (…). E perciò che altro vogliono dire le parole dell’Apostolo: “Pregate inces­santemente” (1 Tessalonicesi 5, 17) se non questo: desi­derate, senza stancarvi, da colui che solo può conceder­la, quella vita beata che niente varrebbe se non fosse eterna4.

La domanda che Dio esaudisce sempre, la domanda che è oggetto di gemito è la pienezza della vita, la vita eterna.

Ogni richiesta che non è orientata a questa non è con­veniente e non può né deve essere oggetto di preghiera.

E quando non sappiamo se ciò che chiediamo è o non è ordinato alla vita beata, allora lo è sotto condizio­ne, lo è se e in quanto ci è utile per tale vita.

Mi sembra molto importante capire qual è la cosa fondamentale nella quale si riassume ogni nostro desi­derio e ogni nostra richiesta. Noi, uomini e donne, noi persone umane storiche, siamo ciò che desideriamo; il nostro desiderio è il farsi della personalità. Se dunque il nostro desiderio culmina in questa pienezza di vita, di­ventiamo davvero in Cristo questa pienezza di vita.

Ma se i nostri desideri sono limitati, inferiori, noi stessi finiamo con l’essere persone limitate, blocchiamo il nostro sviluppo verso la pienezza della vita.

Forse a noi dice poco il termine «vita beata» che, in­vece, era tanto significativo per gli antichi. Lo stesso Nuovo Testamento usa un’altra espressione: «Regno di Dio»; le richieste «venga il tuo Regno», «sia fatta la tua volontà» sottolineano dunque che il desiderio e le invocazioni della seconda parte del Padre nostro sono subordinate al Regno, sono mezzi, condizioni per il suo avvento. E ancora, il Nuovo Testamento parla di «Spi­rito santo».

Gesù, conclude l’istruzione sulla preghiera nel vangelo secondo Luca, dopo aver esortato a cerca­re, a bussare, a chiedere, con queste parole: «Se dun­que voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vo­stri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spi­rito santo» (Matteo dice: «cose buone») «a coloro che glielo chiedono» (Luca 11, 13). L’oggetto della doman­da è lo Spirito santo, che significa la vita con Cristo, l’essere con lui, la pienezza della vita beata che consiste nell’essere incorporati per sempre a Gesù nella Chiesa.

Le diverse espressioni (vita beata, Regno, Spirito san­to) in realtà si completano, si integrano, si sovrappongo­no come l’oggetto fondamentale della preghiera di do­manda, e quindi come l’oggetto del gemito, dell’attesa.

Proclamando, per esempio: «nell’attesa della tua ve­nuta», esprimiamo il nostro desiderio di fondo, cioè che la pienezza del Regno si realizzi, che lo Spirito san­to venga e purifichi ogni realtà, che l’umanità si ritrovi presto nella vita beata, nella perfetta pace e nella perfet­ta giustizia. Sant’Ambrogio usa anche un altro termine: il bene sommo, summum bonum, che ha forse il vantag­gio di dire insieme l’essere di Dio e il suo comunicarsi a noi nello Spirito, nel Regno, in Gesù, nella Chiesa, nella Grazia, nella pienezza della redenzione.

Questo dunque è ciò che dobbiamo chiedere, con  assoluta certezza di ottenerlo, alla luce della Sacra Scríttura e dell’insegnamento dei Padri.


1 Lettera a Proba 130, 14, 27 – 15, 28; CSEL 44, 71-73.
2 Ibid., 130, 9, 18 – 10, 20: CSEI. 44, GO-63
3 130, 8, 15.17 – 9, 18: CSEL 44, 56-57.59-60

CARA SILVIA …ADESSO: Litterae communionis


Posted on Marzo 24th, 2009 di Angelo | Edit

ADESSO – Litterae communonis

Ciao. Vorrei ancora comunicare come in passato con la c.d.g.r. ma come ora è impostato il blog, si può solo leggere, o lasciare un commento. Non si può inserire un argmento, nè immagini…

E’ una scelta, o io non ho capito?

A parte tu, altri comunicano qualcosa?…

Silvia

Cara Silvia,

il nuovo blog prevede la possibilità di intervento, non solo nei commenti ma come AUTORE di articoli, con aggiunta di foto, ecc.

Fino a questo momento non avevo aperto questa possibilità, proprio perché non avevo le idee chiare sul come impostare il BLOG e perché non è  così duttile ed elementare come il precedente.

Poiché risulti iscritta al

http://compagniadeiglobulirossi.org/blog

adesso sei autorizzata a partecipare come AUTORE. Si tratta di provare e di superare, man mano le difficoltà pratiche.

Le cose da fare:

  1. Farsi riconoscere con la passwort

  2. Cliccare sulla voce “Amministratore”

  3. Si apre una Bacheca

  4. Cliccare su “Scrivi un articolo”

  5. Dargli un titolo

  6. Cliccare sull’icona “Attiva/disattiva schermo pieno”, un quadratino di colore azzurro.

  7. Scrivere il teso.

  8. Le foto si inseriscono cliccando sull’icona grigia “Aggiungi immagine”.

  9. Finito l’articolo, prima di salvarlo e pubblicarlo, stabilirgli la categoria dove dovrà figurare: “ADESSO – Inserzioni iscritti”. Si trova sotto l’articolo. Basta crocettare la casella e “Salvare”.

  10. Si “Visualizza l’articolo” e, se va bene, si “Pubblica”.

A questo punto il gioco dovrebbe essere fatto. Vogliamo provarci?

Sbagliando s’impara. Fammi sapere quali difficoltà incontri.

Buon divertimento!

RELIGIOSI E LAICI VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE FATEBENEFRATELLI 2007 – Di Angelo Nocent

capitolo-provinciale-2007

Padri Capitolari Provincia Lombardo-Veneta

HOSPITALITAS: UN PERCORSO PER DIRE L’UOMO

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di Angelo Nocent


In preparazione al Capitolo Generale Straordinario indetto per il mese di Novembre 2009 è utile ritornare sui propri passi e rivedere quanto si è detto e realizzato negli ultimi anni.

RELIGIOSI E LAICI VERSO IL CAPITOLO PROVINCIALE


nella gioia della fede e nella prospettiva della missione

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1. Collaborazione o corresponsabilità?

2. Collaboratori della verità

3. “Laici collaboratori”: un malinteso che perdura

4. I Laici al 66° Capitolo Generale

5. Prima del carisma viene il Fatto

6. Predicare e curare

Collaborazione o corresponsabilità?

Il 20 Gennaio 2007, ricorrenza della “conversione di san Giovanni di Dio”, incontro all’Università Cattolica di Milano il Direttore di questa rivista. E’ così buono che mi rinnova la collaborazione e mi  propone di orientare la riflessione sul carisma dell’ hospitalitas in direzione del binomio “Religiosi/Laici collaboratori”. E’ un tema emblematico perché, dopo gli approcci tentati in questi ultimi anni, sembra esservi in atto un timido fidanzamento che, tuttavia, stenta ad approdare alle nozze. Spero che mai e poi mai assuma il significato di un matrimonio “riparatore”, dovuto alla carenza di vocazioni. Oggi si tratta di passare dagli “ammiccamenti” ad un rapporto non tanto di collaborazione quanto di “corresponsabilità” che è poi la lezione che ci viene dalla Chiesa italiana convocata a Verona proprio in concomitanza del LXVI Capitolo Generale.

Nel confermare gli altri nella fede, testimoniando le ragioni “della speranza che è in me” (cfr. 1Pt 3,15), più che di essere arguto e brillante scrittore, qui mi viene primariamente chiesto di essere “credente”. Ciò che ha animato l’apostolo Paolo nella lettera ai Galati, deve ispirare ogni cresimato che si metta al servizio della Parola: “Dinanzi ai vostri occhi non ho presentato se non Cristo e Cristo crocifisso” (1Cor 2, 2). Cosa mi giustifica d’essere qui a mostrare Cristo con la penna? L’aver fatto l’esperienza di Gesù, l’averne avvertito esattamente il Suo sguardo personale d’amore, così ospitale, accogliente, nonostante le mie debolezze e ingratitudini.

Scrivere di hospitalitas non è facile. Lo faccio nella convinzione condivisa dai Fatebenefratelli, che anche questo è un servizio che rientra nel carisma del Fondatore. Egli infatti che fu pure venditore di libri, dapprima ambulante e poi stabile in Granada fino alla conversione, ha questuato, organizzato, assistito, curato…e perfino scritto e dettato lettere. Le poche rimaste, non solo ne rivelano il temperamento e la statura ma evidenziano il variegato carisma: anche “la carità della verità” rientra nel suo piano di attenzione all’uomo, nell’ottica delle opere di misericordia spirituali. Egli, apertosi totalmente all’azione dei Sette Santi Doni, reso partecipe della fantasia di Dio, si colloca tra i più benemeriti “collaboratori della verità ” (3 Gv, 8) del suo tempo. Ed è su questo tema che vorrei soffermarmi.

Collaboratori della verità

I laici che si mettessero in mente di camminare sulle orme di San Giovanni di Dio, prima o poi saranno colti di sorpresa dalla stessa domanda che un giorno si sentirono rivolgere due fratelli, Andrea e Simone:

“Gesù si voltò e vide che lo seguivano. Allora disse:- Che cosa volete? Essi gli dissero:- Dove abiti, rabbì? (rabbì vuol dire: maestro). Gesù rispose:- Venite e vedrete. Quei due andarono, videro dove Gesù abitava e rimasero con lui il resto della giornata. Erano circa le quattro del pomeriggio” (Gv 1, 38-39)

Con l’invito a rileggere il testo evangelico parola per parola, perché fondamentale per chi intende mettersi in viaggio, mi auguro che la reazione personale sia identica. Ma vorrei portare velocemente ad un’ulteriore fondamentale considerazione che raccolgo da un carissimo amico, parroco di san Vigilio all’EUR, che ha appena pubblicato sul tema un poderoso volume di mille pagine sul vangelo di Giovanni di cui è innamorato: “L’altra grande immagine della Chiesa in Giovanni – che assomiglia molto a quella di Paolo – è al Cap. XV, quello della vite e dei tralci: “Chi è in me porta molto frutto, altrimenti viene tagliato e viene gettato via”. Paolo dirà che il l cuore della Chiesa è Cristo, che è il capo, mentre noi siamo le membra, e tutti facciamo un corpo solo. Giovanni riporta questa poderosa immagine della vite e Gesù che dice: “Chi è in me porta frutto”. Noi possiamo veramente vivere la nostra fede, la speranza e la carità nella Chiesa nella misura in cui siamo in Cristo. E guardate che tutte le grandi crisi che la Chiesa vive nei secoli, è perché forse viene meno qualche volta questa centralità di Cristo: magari un papa può pensare di essere lui il grande, ma è Gesù il Pastore e questo guardate dà una grande libertà, nella misura in cui noi siamo comunità in Cristo e da lui abbiamo l’acqua della vita eterna” (d. Enrico Ghezzi).

Le applicazioni nel nostro campo più ristretto sono identiche: tutto funziona “nella misura in cui siamo in Cristo”. Diversamente la “baracca” crolla addosso. Nella foga del dibattito di questi anni, forse è sfuggito un particolare che, se recepito, potrebbe ribaltare il rapporto non ancora ben definito religiosi/laici. L’apostolo Giovanni in una sua lettera parla dei discepoli come di “collaboratori della verità” (3 Gv, 8). E ne spiega le ragioni. E’ importante osservare che questa formula esprime la partecipazione di tutti i credenti all’opera di evangelizzazione e, insieme la dimensione “cattolica” della fede. Lui, che si definisce l’anziano, esorta all’ospitalità verso chi annuncia la fede. A tal proposito ho trovato sapienti e preziose considerazioni dell’ allora Card.  Ratzingher nella prefazione di un suo libro. Esse ci permettono di estendere gli orizzonti del nostro intendere l’ hospitalitas, quasi sempre esclusivamente legata al malato.


” Egli [l'Apostolo] mette così in guardia dal ripiegamento in sé e dall’isolamento di quelle comunità che si concepiscono come ambiti chiusi.

Negare ospitalità a  coloro che recano la buona novella del Vangelo è per lui espressione di un rinnegamento dell’autenticità cattolica e in questo modo è’ anche un atto di chiusura nei confronti della verità.

All’opposto, l’amore, la premura con cui i credenti offrono cibo e ricovero agli apostoli e missionari, nelle loro peregrinazioni, è già di per sé servizio alla verità.

Mediante la carità, essi rendono possibile la predicazione e in questo modo divengono a pieno titolo collaboratori del Vangelo.

Dunque, in questa breve formula ["collaboratori della verità "] già traluce l’intimo legame tra verità e amore, tra fede personale e cattolicità che e’ tipico della Chiesa, ma anche la correlazione vicendevole tra chi esercita un ministero e i semplici fedeli: essi, pur nella diversità del loro servizio all’unità, raggiungono insieme l’onere e la grazia della proclamazione del Vangelo”.


Queste indicazioni magisteriali cadono a proposito: esse illuminano quella difficoltà che si fa ormai sempre più evidente: sincronizzare il rapporto tra religiosi e laici collaboratori. Se il concetto venisse recepito, l’orizzonte si amplificherebbe fino a coinvolgere non solo gli ospedali ma anche le Chiese locali. Se in esse palpita il cuore della collettività intera, si vivono le gioie e i problemi, si celebra la vita e si ritrova la speranza di fronte alla morte, si fa festa per una nuova famiglia, si condivide la responsabilità e la preoccupazione del giovane che diventa adulto, si vive la pietà popolare che ha plasmato generazioni intere, che ha dato risposta alle domande più profonde e speranza di fronte alle difficoltà, sarà mai possibile estraniarle dal ministero sanante dell’ hospitalitas, percorso obbligato ”per dire l’uomo” nella veste di nuovi Samaritani?

. Dove ognuno si trova collocato nelle 24 ore della sua giornata, lì è presente un “collaboratore della verità”, lì salta fuori il profeta-servo di Dio inviato a portare la buona notizia ai poveri, a predicare l’anno della misericordia, a sanare ogni infermità. Volendo stilare un elenco, si rischierebbe di tralasciare qualche umile figura che ne farebbe parte a pieno titolo. Ma si può benissimo schematizzare:  il vescovo, i presbiteri e i diaconi, i religiosi, i laici nella molteplice espressione dei movimenti…Ed in posizione privilegiata: i sofferenti. Tutti nella Chiesa di Dio ed in modo davvero personale, siamo dei cooperatori.


Più che una curiosa divagazione, ritengo che quella della cooperazione sia una premessa necessaria e fondante l’ hospitalitas. Ciò  significa che nella fortezza apparentemente inespugnabile della sanità,  bisogna starci con le mani sul malato, gl’occhi sulla Parola e questa consapevolezza:

nessun cristiano parla e agisce a titolo proprio, bensì nell’ “appartenenza” e nella “comunione” con un Altro da sé.

  • Io faccio quello che devo fare, solo quando opero “con” Cristo e “con” l’intera tradizione vivente della Chiesa di ogni tempo e di ogni luogo.

  • Il mio compito non è di costruire un ambiente che fa per me, ma di edificare a Cristo la sua Chiesa.

  • Il votato all’ospitalità è paragonabile a una guida di montagna che aiuta nella scalata a raggiungere la vetta. Ma Cristo è la via perché è la verità (Gv 13,34).

  • La profondità dell’annuncio recato dai “collaboratori della verità ” sta proprio nell’intima correlazione tra verità e amore.

  • Il “Comandamento nuovo” (Gv 13,34) lasciatoci dal Maestro richiede accoglienza ed ospitalità vicendevoli, riflessione e fede, apertura e sguardo fisso e penetrante sulla verità del Vangelo.

Epperò, “… la verità della vita cristiana è come la manna nel deserto: non la si può mettere da parte e conservare; oggi è fresca, domani è marcia. Una verità che continui solo ad essere trasmessa, senza essere ripensata a fondo, ha perso la sua forza vitale. Il vaso che la contiene – per esempio la lingua, il mondo delle immagini e dei concetti – s’ impolvera, si arrugginisce, si sbriciola. Ciò che è vecchio resta giovane solo se, con il più giovanile vigore, viene riferito a ciò che è ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. (Hans Urs von Balthasar, Abbattere i bastioni, 1962)

Poiché ad essere cristiani s’impara giorno dopo giorno, – così Giovanni di Dio, così Riccardo Pampuri e tutti gl’altri -, religiosi o laici, non resta che rimboccare le maniche e procedere con l’ardore del santo Papa Giovanni Paolo II: “E’ l’ora della fantasia della carità ” (Novo millennio ineunte). Senza dimenticare però che “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme” (1 Cor 12,26).

“Laici collaboratori”: un malinteso che perdura

Devo confessare che l’idea dei cosiddetti collaboratori laici, almeno quella emersa nel dibattito di questi anni, non mi ha mai convinto più’ di tanto, Men che meno, dopo aver letto la petizione che la rappresentanza internazionale ha espresso al 66° Capitolo Generale. Ho appena finito di sfogliare il Documento Finale elaborato dalla Provincia Lombardo Veneta nel 1994 per il Sinodo dei Vescovi ed il Capitolo. Trovo che gli Autori (Quattrocchi, Faustini o.h., Merlo, Inzoli, Pulici, Ferrara, Santini o.h., Fiume, Bresciani, Giuliani) abbiano avuto valide intuizioni ed elaborato utili proposte. Un solo torto: l’eccessiva dose di ottimismo. Infatti, l’ “Allenaza” stipulata allora con i Collaboratori, ha subìto negl’anni successivi forti sbalzi di tensione, forse legata all’instabilità dell’animazione locale. Ma non solo. Segno evidente, dunque, che le buone intenzioni non bastano.


Il termine “collaboratori” è stato frettolosamente coniato dagli Istituti Religiosi per definire i laici presenti nelle rispettive attività ospedaliere, scolastiche, assistenziali, ecc. Sarebbe stato necessario guardare più scrupolosamente alle origini semantiche del termine perchè il rischio di moltiplicare la confusione, secondo me esiste, eccome!  Ciò emerge proprio quando si va a rileggere la “Christifideles laici” che parla appunto di laici discepoli di Cristo. Laico è un termine funzionale; teologicamente non significa nulla. E’ come il generico impiegato o il generico esaurimento nervoso: se non si precisa, si specifica, si qualifica, se ne sa quanto prima. E il Papa non ha lasciato nell’incertezza: laici discepoli di Cristo.


La questione dei collaboratori andrebbe presa da lontano. Quando si parla dei laici che partecipano al carisma dei Fondatori – nel nostro caso di hospitalitas e di san Giovanni di Dio – coloro che intendono aderirvi (e l’adesione non deve essere estorta o scontata), hanno tutto il diritto di sapere il più concretamente possibile di cosa si tratta. Comincerei col dire che per i col-laboratori dev’essere l’inizio di una scoperta che porta la firma di San Giovanni di Dio: la letizia e la libertà dell’incontro con Cristo, per seguirlo, senza stanchezze sproporzionate e faticosi programmi culturali, nel Suo cammino in mezzo agli uomini. In altre parole, io accetto di collocarmi come servitore della verità sull’uomo.


Ciò significa che io aderisco, vengo a far parte di un movimento. Ma devo sapere che l’innesto nel movimento dell’hospitalitas può attecchire e posso partecipare al carisma nella misura in cui anch’io mi pongo in movimento, ossia mi apro allo Spirito. E’ lodevole aspirare ai carismi ma è solo Lui che può donarli. Inoltre il movimento ha per definizione una sua originalità di cui devo rendermi consapevole scoprendone le ragioni della speranza che racchiude in sè.(1 Pt 3,15) Allora va benissimo che si usi la terminologia di “collaboratori laici”, a patto che si viva coscientemente lo stato di un’appartenenza stabile: entro a far parte di un movimento carismatico che traduce nel linguaggio  ecclesiale e sociale del nostro tempo l’aforisma latino “Ubi caritas et amor, Desu ibi est”. Che è poi l’equivalente Juandediano: “Dio sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesu’ “. E proprio perché questo Dio, questa voce fuori campo che mi chiama e sollecita ad uscire dall’isolamento non é un Solitario ma la Trinità nell’Unità, trovo la mia identità nella misura in cui anch’io scopro ad attendermi una Fraternità nell’unità con la Trinità. Diversamente, sono un disorientato.

La tentazione dell’utopia è sempre in agguato: vi si cade quando, magari involontariamente, si riduce Gesù Cristo a puro pretesto. Come dice il termine stesso,  che significa non-luogo, cedere alla tentazione dell’utopia significa non partire dalla realtà ma imporre alla realtà una teoria fabbricata a tavolino e costringerla nella gabbia della nostra limitata misura. La gabbia è l’imprigionarsi dentro l’utopia che basti lanciare ai laici che lavorano nei Centri FBF, un messaggio che li classifica d’ufficio “collaboratori”, ossia partecipi del carisma di San Giovanni di Dio. Nessuna disposizione legislativa, per quanto animata da buone intenzioni, può dichiarare sano di mente uno che non lo è. Nella storia recente della psichiatria abbiamo assistito anche a questa forzatura e subìto poi le conseguenze.


Bisognerà evitare di scivolare in due fuorvianti semplificazioni:

  • quella di non passare dal cuore di ogni uomo e donna che lavorano nei Centri FBF;

  • quella di ignorare totalmente la grande massa  dei laici Christifideles che operano nelle Istituzioni Pubbliche e nel sociale, quasi fossero “altro da noi”, cosa che non ci riguarda, frangia del Popolo di Dio assegnato alla Pastorale Sanitaria dei cappellani ospedalieri.

La paura porta a sacrificare il grande obiettivo di estendere e dilatare al massimo il grande carisma Giovandiano, giustificato da una considerazione ritenuta più realistica: meglio cominciare a guardare in casa propria prima di pensare alle espansioni.

Le conclusioni degli scettici sono penalizzanti; l’avvilimento li porta ad esclamazioni note: ” sono cambiati i tempi…non c’è via d’uscita…chi vivrà, vedrà…” E’ un’ insinuazione diabolica e bisogna reagire investendo: in preghiera, adorazione, riflessione, ricerca, mobilitazione, formazione permanente… Il percorso esiste. Solo che è arduo perché passa per la via del cuore e non dell’ideologia né dell’utopia, che immaginano ciò che non è.

L’hospitalitas passa attraverso l’educazione alla fede, lavoro personale e di gruppo. L’hospitalitas non è carisma condivisibile se non attraverso un cammino ed un’esperienza di forte appartenenza alla “fraternita’” del Centro FBF, vitale, concretamente incontrabile. Le Fraternità o sono luogo di educazione permanente alla carità, al giudizio sulla realtà (cultura), a vivere le dimensioni del mondo (missione) o non sono.

Forte delle indicazioni suggerite dalla CEI, una proposta pratica che mi sentirei di suggerire è questa: fare del castello di Monguzzo un C.O.V.O. ossia un Centro Orientamento Pastorale Ospitalità, aperto agli operatori sanitari di ogni estrazione, agli addetti alla pastorale dei malati, dei carcerati, degli stranieri, alle Caritas…, coinvolgendo Diocesi e Chiese locali. I docenti dovrebbero essere sacerdoti, religiosi e laici esperti nelle diverse discipline. In questo orientamento vocazionale all’hospitalitas potrebbero nascere anche chiamate sacerdotali e religiose. La parola d’ordine del momento è: investire!

I Laici al 66° Capitolo Generale

Presente per la prima volta una rappresentanza così numerosa di collaboratori laici, dagli stessi è stato interpretato come un segno di apertura e di speranza e sembra che il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi sia stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Invito a cogliere subito la sfumatura che considero preoccupante: “Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio”.

Leggendo e rileggendo il documento elaborato dagli stessi, nasce un fondato sospetto che già ci si stia muovendo, più o meno consapevolmente, nell’ottica del “potere”.  Essi vogliono contare. Perfino “in materia di dottrina”. E lo chiedono formalmente nelle seguenti dieci formulazioni che mi limito a citare per titoli. Per quanto legittime, sono rivelatrici di una sintomatica povertà propositiva che non andrebbe sottovalutata.

” Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

1) Riconoscimento del carisma.
2) Consultazione dei laici.
3) Messaggio di fiducia.
4) Apprezzamento dei collaboratori.
5) Condivisione e integrazione.
6) Coraggio del rischio.
7) Valorizzare l’umanizzazione.
8) Incontri internazionali.
9) Opere gestite da laici.
10) Scuola dell’Ospitalità.

Per il testo integrale dove i titoli vengono sviluppati, invito a prendere in mano l’inserto contenuto nell’ultimo numero. Forte del punto 6, “Il rischio del coraggio”, mi permetterò alcune pungenti salutari provocazioni del tipo ago-puntura:

  1. Il documento precisa: “Richiesti di formulare…” Vuol dire che la ventina di rappresentanti dei 43 mila operatori laici che operano nelle strutture dell’Ordine, si sono presentati al Capitolo a mani vuote. Ciò è molto grave.

  2. Le spiegazioni fornite non sono convincenti sia per ragioni di forma che di sostanza. Come si fa a collocare la “Scuola di Ospitalità” al decimo posto e poi mettere al primo “Il riconoscimento del carisma” che si dà per posseduto ?

  3. Non si parla di conversione né di “disposizione a testimoniare con la fede e col sangue che c’è un Cielo”, come direbbe Teresa di Gesù Bambino;

  4. Non emerge un carisma sapienziale come il “gusto di Dio”, l’ardore per il suo Regno, la Parola, la Chiesa…

  5. Non emerge la profezia: un amore che discende verso la miseria, la povertà umana, compresa quella dei “poveri ricchi”;

  6. Non emerge il cuore di donne e uomini, normalmente coniugati, che sono anche genitori, educatori…

  7. Non emerge l’affidamento alla Provvidenza ma alle capacità manageriali.

  8. Al punto 3 si equivoca: il laicato sembra inteso, in ultima istanza, come un superamento della vita religiosa, salvandone il carisma: ”l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale futura penuria dei religiosi, fino a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno”.

  9. Prendo la palla al balzo. Io non ho dubbi: l’Ordine non si estinguerà, a prescindere dalle buone intenzioni di salvataggio dei laici.

  10. Poi ci sono alcuni punti non facili da digerire senza bicarbonato, perché intaccano la sostanza:p. 5) CONDIVISIONE E INTEGRAZIONE: “Chiediamo che siano definitivamente superate le logiche proprietarie”. La motivazione non è certamente francescana. Qui affiora il vero problema: la borsa, i soldi. Domanda:i laici vogliono diventare comproprietari, soci in affari? E cosa portano, solo il capitale lavoro? Coniugati o meno, a nessuno viene in mente di allegare una “cambiale di matrimonio” con “Madonna Povertà”, di farsi una sola carne con Lei nel senso autentico ed originale che sarebbe rivoluzionario anche per il nostro tempo: mi voto alla libertà? Va detto per inciso che questa aspirazione moderna Francesco la chiamava povertà. Che non aveva il concetto capitalista, pauperista, economico che abbiamo noi della povertà. Per noi il povero è colui che non possiede, perché il nostro riferimento è l’avere. Il ricco, invece, possiede molto. Per il Santo universale, povertà è la capacità di dare, dare e dare ancora una volta, dare e darsi. Quanto più ti dai, tanto più libero ti rendi e tanto più possiedi. Nella logica dell’essere, quanto più dai e ti dai, tanto più sei e ricevi, in umanità e cordialità.L’Hospitalitas è una scelta, un voto, un impegno…di povertà, ossia di libertà. Vale per laici e consacrati.

  11. p. 8) INCONTRI INTERNAZIONALI:“Istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per collaboratori laici… anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali confrontarsi e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province”. Si badi: non in prospettiva evangelica.

  12. 9) OPERE GESTITE DAI LAICI: mentre s’invoca una formazione adeguata – non si comprende perché solo di alcuni – subito si chiede “che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine”. Non solo si chiede ma si sollecita “fin da adesso”.Me lo si permetta: questa è  farneticazione pura! Sono proposte all’insegna dell’improvvisazione, non della sofferta meditazione. La piena realizzazione umana ha un nome evangelico: santità. Che non si trova nella linea del fare ma dell’essere, quell’essere che si rivela, ovviamente, nel fare. Sembra che nessuno abbia mai letto due documenti importanti: la lettera dell’uscente Generale, Fra Pasqual Piles, “Lasciatevi guidare dallo Spirito” ed il recente volume voluto dallo stesso, “Spiritualità dell’Ordine”. Possono sembrare parole esagerate le mie e me ne scuso perché sono certo che i redattori della petizione sono meno maliziosi di me ed hanno operato in buona fede. Ma per chi legge, le parole talvolta possono tradire le intenzioni. Il guazzabuglio di idee confuse che sono emerse potrebbero essere il risultato anche di una malintesa interpretazione dell’ “umanizzazione”  che ha il suo eroico paladino nell’ uomo psichico, il cosiddetto ‘ “animalis homo”, secondo la traduzione latina della Vulgata, che ognuno si porta dentro. Lo spazio tiranno non permette di aprire subito un capitolo chiarificatore sull’argomento, appena riproposto anche in un convegno alla Cattolica. Ciò che era chiaro nella mente propositiva del Padre Marchesi, non è detto che lo sia altrettanto in quella dei suoi nuovi lettori e discepoli. Se personalmente m’infiammo è perché in un momento di transizione così delicato, non è permesso partire con il piede sbagliato: una solenne cantonata iniziale equivarrebbe a infilare il primo bottone nell’asola sbagliata: i successivi farebbero la stessa fine. Mi sovviene la figura di Francesco inginocchiato davanti a Papa Innocenzo III° a chiedere l’approvazione della regola. Si noti: “Regola dei Frati Minori che è questa: osservare il Santo Vangelo di Nostro Signore Gesù Cristo”. Capite cosa Francesco va a chiedere a Roma? Come si avverte che le richieste dei nostri amici non sono prima state sottoposte, in ginocchio, allo Spirito Santo!

Perché non appaia che si tratti di mie idee cervellotiche, invito a riflettere sul cap. X del Vangelo di Giovanni. Se c’e’ un testo dove appare la Chiesa è proprio quello del Buon Pastore: “Io sono il buon pastore, questo è il mio gregge”. Secondo il mio amico parroco, le cose stanno così:

  • c’è il gregge di cui Gesù è il pastore e, attenti bene,

  • di questo gregge che è la Chiesa, è Gesù il buon pastore, non altri,

  • noi siamo tutti al servizio di questo buon pastore che è Gesù,

  • nessuno di noi – né il papa, né i vescovi, né i sacerdoti, nessuno nella Chiesa – deve avere il potere, se non l’autorità nella carità e il servizio che provengono dal seguire Gesù e fare la Sua volontà.“ (d. Enrico Ghezzi)

Sembrano parole di scoraggiamento le mie? Vorrei sperare di no . Bramerei che fossero recepite nel segno dello stupore dei primi cinque seguaci di Giovanni di Dio, Anton Martin, Pedro Velasco, Simon de Avila, Domenico Piola e Juan Garcìa e della loro prima Impresa Missionaria; che stimolassero a quella comunione, di collegialità e di Spirito Santo che è stato possibile vivere durante il Concilio Vaticano II e che ormai non è più memoria viva se non per pochi testimoni.

Perciò:

  • Se non prendo come archetipo centrale la santa umanità di Gesù,

  • se non voglio imitare il Maestro in tutta la sua grandezza,

  • se non passo attraverso la “stigmatizzazione” delle mani e del costato che equivale al dono del carisma dell’hospitalitas, ossia l’accettazione del dare la vita, di metterla a disposizione di Dio, identificandomi con Cristo e Cristo crocifisso, il Vivente nei crocifissi della terra…

  • se non nascono gruppi al maschile e al femminile di “folli” ossia di pazzi che sognano la regola del Vangelo prima degli Statuti giuridici e canonici, lievito e fermento sul posto di lavoro, cellule che si moltiplicano, “ponti” tra ospedale e Chiesa locale, con una travolgente forza interire che viene dalla dimensione contemplativa della vita, alla Scuola della Parola…

  • se non possiedo la libertà del mio fratello Gesù, se non abbandono i miei feticci per mettermi a Sua completa disposizione, senza interessi, senza niente che si interponga tra me e gl’altri, sarebbe meglio lasciar perdere! Perché si va incontro ad un fallimento annunciato. E, dall’esperienza negativa, una sfiducia contagiosa nel “Cristifidelis laicus”, il laico discepolo di Cristo che invece è un segno dei tempi.

Ma come far emergere un’intesa realistica e compatibile?

Ribaltando il problema: più che formulare ai laici la richiesta di offrirsi come collaboratori dei religiosi, ogni progetto dovrebbe mobilitare entrambe le parti su un terreno di parità accettato e condiviso: “collaboratori della verità” (3Gv 8). Questo concetto supera di gran lunga il concetto ristretto e asfittico di “collaboratori alle dipendenze” ed apre spazi di cooperazione, che potrebbe essere anche statutaria, ai laici non solo dei Centri FBF ma della Chiesa locale, della Salute Pubblica, dell’Università, della Politica, della Sofferenza…Tale proposta ha un pregio: quello di essere parola di Dio. Il proponente e Lui. A chiederlo sono proprio i Vescovi: le Istituzioni devono superare l’isolamento, rendendosi sempre più visibili nelle comunità ecclesiali (n.22).

Vogliamo esempi di concretezza? Porto un’esperienza che vivo. Tre volte la settimana la Comunità di Sant’Egidio che è in Milano, quella che conosco io, convoca i suoi membri, donne e uomini di ogni estrazione di età e culturale, nella restaurata ma non riscaldata chiesa di San Bernardino alle Monache, in via Lanzone, a due passi dall’Ospedale San Giuseppe dei Fatebenefratelli. Si ritrovano ogni martedì, mercoledì e sabato alle ore 20,30. Abitando io nel cremasco, quando posso, vi partecipo per ossigenarmi. L’Eucaristia non viene conservata perché, normalmente il tempio è chiuso al pubblico. Non presenzia né un presbitero né un diacono. Cantano i salmi accompagnati da un’organista, leggono la Parola di Dio, una donna preparata la commenta, si prega per la Chiesa e si chiude in bellezza. Poi si passa allo scambio dei saluti e si fa ritorno a casa. Alcuni prendono le borse depositate all’ingresso, piene di viveri, bevande, indumenti e vanno a distribuire in tre punti diversi della Milano-notte. Più che per offrire ristoro, ben gradito, l’occasione è per “parlare” con coloro che vivono emarginati e attendono questo momento unico. Un signore sulla cinquantina mi ha detto che lo fa da tre anni. Verso mezzanotte rincasa, fa la doccia e si prepara la cena.

Cosa mi preme sottolineare? Che i carismi non cadono dagl’alberi come le foglie né possono essere assegnati d’ufficio con un attestato o una benemerenza. Necessita un processo di ri-conversione individuale maturato nel contesto di una Fraternità, una compagnia… Se non sono inserito in una comunità, sono destinato a perdermi, sopraffatto dagli impegni e dalla noia. Chi vuol appartenere alla “Chiesa sanante”, partecipare all’Hospitalitas, deve lasciarsi coinvolgere in un cammino impegnativo, più che pensare subito ai convegni internazionali o ad amministrare le Istituzioni religiose. Senza basi solide , prima o poi la casa crolla. Bando alle illusioni! Se ai discepoli di Gesù tre anni di scuola ad alta specializzazione tenuta dal Maestro stesso non sono bastati a farli restare sul campo al momento della prova e sono tutti fuggiti, perché il miracolo dovrebbe compiersi ora, sulla base di così fragili premesse?

La richiesta dei Laici Collaboratori termina con un proposito: “Saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo”. Si riferivano all’elezione canonica del Priore Generale. Nulla di più lodevole. Mi si dice che Fra Donatus Forkan sia uomo di grande spiritualità. Ha posto nello stemma generalizio i tre amori: la croce, al centro, il melograno dell’Hospitalitas, l’icona dell’ in-yang, simbolo della Corea dove è vissuto a lungo, ossia la missionarietà. E c’è anche un motto: “Hospitality always”. Ci uniamo in quel “sempre”, da vivi e da morti. E gli auguriamo di far attraversare alla grande comitiva che lo segue, il Mar Rosso della sofferenza umana, additandoci il nome della terra promessa che é la “divinizzazione” dell’uomo. Non in contrapposizione all’ ”umanizzazione” che ha pieno diritto di cittadinanza, ma come traguardo di una via già indicata dai Padri della Chiesa delle origini.

Senza offesa per nessuno, in questo preciso momento, l’ottimismo sui laici e dei laici sa più di scaramantico che di fondato, di malcelata paura, di auspicio più che evento di spessore, utopistico dunque, nella misura in cui, mancando di “profezia”, resterà inchiodato nell’immobilismo degli slogan e delle frasi ad effetto. Auspico un “foglio” di collegamento, snello, quindicinale o mensile, un blog… per comunicare nella fede e per la circolazione delle idee. L’alternativa al movimento è la staticità di cui nessuno avverte il bisogno.

Prima del carisma viene il Fatto


Non s’è mai chiesto nessuno come abbia fatto Don Giussani ad aggregare migliaia di giovani e non in tutto il mondo?

La Chiesa riafferma con forza che i laici non sono cristiani di “serie B”, ma discepoli del Signore chiamati a testimoniare la fede nella realtà di tutti gli uomini e di tutti i giorni: famiglia, società, scuola, lavoro, economia, politica, sanità…) “Essere laici è dunque una chiamata, una vocazione, un dono che viene da Dio e che invia a un compito alto e difficile: incarnare la fede e darle forma nelle realtà quotidiane”.


Senza la preoccupazione formativa e di un suo cammino permanente, metodico, integrato e completo, coloro che si ripropongono di testimoniare la loro fede nel sociale, e che desiderano educare altri a questo fondamentale compito, rischiano di cadere in un pragmatismo di cui oggi soffre la nostra società . Il Papa della Centesimus annus è molto esplicito: “51. Tutta l’attività umana ha luogo all’interno di una cultura e interagisce con essa. Per un’adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l’uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini. Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autoominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo, ed il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino”.


Vorrei citare La Pira, Lazzati, laici che hanno insegnato a volare alto. Ma veniamo a noi. L’ hospitalitas prima di essere un carisma è un Fatto, un Avvenimento, un’ Esperienza, una Persona: l’incontro con Gesù di Nazareth, il Figlio del Dio vivente, la folgorazione del Suo sguardo, il “vieni e seguimi”, il “ti farò pescatore di uomini”, il “se vuoi…”
Sarebbe fuorviante pensare che sono parole rivolte solo ai chiamati al sacerdozio o alla vita consacrata…Si tratta delle scelte battesimali di coloro che divengono adulti in Cristo e, dopo aver chiesto responsabilmente alla Chiesa la fede, ricevono con la sacra unzione crismale, il mandato di andare oltre i confini della terra, di prendere il largo. Lui, l’Ospitante, farà di me una persona capace di ospitare, accogliere;  una casa, una porta aperta, una dimora… Se manca questa premessa, possiamo fare tutti i convegni del mondo, partecipare a tutte le Assise Capitolari: tempo perso. Non lo dico per scoraggiare ma come stimolo per non illudersi  e illudere. Quella che si vede nascere è una pianta selvatica che non potrà fruttificare se non innestata nell’albero buono. Già Paolo VI nella Octogesima adveniens esprimeva la sua preoccupazione: ” Ciascuno esamini se stesso per vedere quello che finora ha fatto e quello che deve fare. Non basta ricordare i principi, affermare le intenzioni, sottolineare le stridenti ingiustizie e proferire denunce profetiche: queste parole non avranno peso reale se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità e da un’azione effettiva. È troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale”.

Predicare e curare

Sopra ho accennato alla CEI. Per il momento non si può che procedere schematicamente. Cosa chiedono i Vescovi col documento “Predicate il Vangelo e curate i malati” ?  Una svolta storica fatta di gesti concreti, di segni credibili: essere tralci di un’unica Vite

  • per promuovere la salute (coinvolgimento di tutte le componenti del popolo di Dio nella pastorale della salute) n. 4

  • per dare voce alle chiese locali (sostenere l’integrazione della pastorale sanitaria nella pastorale d-insieme delle comunità cristiane) n. 4

  • per educare alla “speranza che non delude” (progettualità…itinerari formativi) n.4

Si tratta di mettere in evidenza le coordinate:

  • La grande tradizione, nata nella Chiesa “quale espressione del suo amore per l’uomo” (40).

  • La Chiesa “profezia della speranza”…(21).

  • Una comunità ospitale “che si prende cura”…(22) affinché la presenza delle istituzioni sanitarie cattoliche possa esercitare un influsso positivo sulla comunità ecclesiale e sulla società, occorre che vengano compiuti alcuni passi. Il primo porta le istituzioni a superare l’isolamento, rendendole sempre più visibili nella comunità ecclesiale.

  • La popolazione del territorio deve poter riconoscere in esse un punto di riferimento, uno strumento di sensibilizzazione ai problemi della salute, della morte, della vecchiaia e della disabilità.

  • Ciò costituisce il compito carismatico dei religiosi che le gestiscono: la missione loro affidata di servire i malati e di promuovere la salute appartiene a tutta la Chiesa.

  • A loro incombe il dovere di aiutare la comunità ecclesiale a diventarne maggiormente consapevole” (42)

Da dove cominciare? Il primo segnale di un cambiamento di rotta potrebbe essere la creazione di “gemellaggi”. I primi saranno timidi, poi si faranno più arditi. Se ogni ospedale o struttura sanante confessionale adottasse un ospedale, una struttura pubblica, nascerebbe una proficua sinergia d’intenti e di carismi che finiranno per stimolare e coinvolgere anche la comunità ecclesiale. Solo così sarà in grado di maturare nel suo seno la consapevolezza e l’importanza di ospitare i collaboratoti del vangelo che “predicano e curano”.

Il nuovo governo provinciale: fra Kristijan, economo; fra Guido, 3° consigliere; fra Pierangelo, 4° consigliere; fra Giampietro Luzzato, superiore provinciale; fra Salvino 1° consigliere e segretario; fra Massimo, 2° consigliere.

IL SASSO NELLO STAGNO

Salvino Leone è uno dei delegati laici al 66° Capitolo Generale dei Fatebenefratelli che si è svolto quest’anno. Con e-mail del 23/05/2007, mi ha manifestato il suo sostanziale dissenso su quanto ho avuto modo di scrivere nell’ultimo numero della rivista sui “laici al Capitolo Generale”. Autorizzato, “…Nessun problema a inserire questa (o parte di questa) corrispondenza sul prossimo numero della rivista. Cordiali saluti, Salvino Leone”, ho ritenuto di riportare il testo integrale della lettera, nella speranza che le considerazioni espresse del medico di Palermo suscitino dibattito. Resta aperta la possibilità di ritornarci sopra.

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“Preg.mo Angelo Nocent,

ho letto il suo articolo sui “collaboratori laici” pubblicato sulla rivista Fatebenefratelli e devo dire che sono rimasto sinceramente addolorato per la violenza e la durezza di alcune sue critiche nei confronti del documento da noi prodotto. Certo nessuno ritiene che questo non possa essere esente da critiche ma quelle che lei formula mi sembrano non solo ingiustificate ma anche offensive, per più di un motivo.
1) Innanzitutto perchè il documento è stato redatto da persone che da numerosi anni (qualcuno anche da più decenni) lavorano fianco a fianco con i Fatebenefratelli condividendone pienamente il carisma e le quotidiane fatiche. Conoscono molto bene, quindi e condividono lo spirito di umiltà, povertà ecc. del quale, a suo avviso sembrerebbero privi.
2) Non sono certo arrivati con “povertà di idee” ma le ricordo che canonicamente non avevano alcuna “voce in capitolo” essendo lo stesso riservato ai Religiosi. Per cui è stato un atto di grande apertura e profezia, da parte dei Religiosi, l’averci chiamato a presentare un documento.
3) La Scuola dell’Ospitalità era una semplice e opinabile proposta operativa e, come tale, giustamente collocata alla fine. Il carisma “già posseduto” non si riferisce di certo a  tutti i laici ma a quelli che, non per loro scelta ma per dono dello Spirito, lo incarnano già. Riconosciuto o meno.

4) I laici non “vogliono contare” (ma non è laico anche lei?) ma solo servire insieme ai FBF e stanno dando alcuni possibili suggerimenti per farlo. Il riferimento all’aspetto dottrinale non è nostro ma del card. Newmann e della teologia conciliare. D’altra parte un Ordine non fa affermazioni dottrinali.
5) Tutti gli aspetti religiosi (affidamento alla Provvidenza, profezia, dimensione sapienziale ecc.) appartengono all’essere dei laici e il Capitolo non ci chiedeva una trattazione sulla teologia del laicato ma “cosa chiedono i laici all’Ordine”.
8) Mi consenta di dirle che tutti noi non equivochiamo, sappiamo bene cos’è il laicato e il suo rapporto con la vita religiosa. Peraltro mi permetto ricordare che dai tempi del Decretum di Graziano che prevedeva “duo genera Christianorum” alla Christifideles laici e alla Vita Consecrata sono passati  più di 8 secoli e la teologia del laicato e della vita religiosa è molto cambiata. Peraltro quanto detto è stato pienamente condiviso dai religiosi che non hanno ravvisato alcuna “volontà sostitutiva” ma solo un fraterno aiuto a venire in soccorso con una forte presenza carismatica laddove la penuria di religiosi avrebbe fatto chiudere una casa.
9) Ancora più offensivo e calunnioso mi pare il dubbio sul superamento delle logiche “proprietarie” che, contrariamente a quanto lei dice è proprio…francescana. Tutti i laici presenti e i tanti altri che rappresentavamo erano persone che con spirito di sacrificio e abnegazione hanno dato e danno il loro contributo. Certo anche come operai degni della giusta mercede ma ben al di là di quello. Nessuno vuol diventare proprietario o alcuna rivendicazione in tal senso.
10) Quanto alla “farneticazione pura” delle opere gestite da laici è quanto ormai da parecchi anni avviene in molte parti dell’Ordine, con la piena approvazione del Consiglio generale e l’auspicio che questo possa anche ampliarsi consentendo una piena sopravvivenza e diffusione carismatica, quindi caritativa ed evangelizzatrice. Se questa è farneticazione !!
Ci sarebbero molte altre cose da dire ma mi fermo qui  augurandomi che il suo sincero desiderio di una diversa e migliore presenza dei laici possa trovare le più consone vie di espressione. Forse non saranno le nostre ma proprio perché non abbiamo alcuno spirito di protagonismo o prevaricazione l’importante è che si realizzino per il bene dei bisognosi e la gloria di Dio.
Fraternamente, Salvino Leone “

ECCO LA PETIZIONE DEI LAICI PRESENTATA AL 66° CAPITOLO GENERALE

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Contributo al discernimento da parte dei collaboratori laici

“Su richiesta del Governo generale è stato chiesto al gruppo dei collaboratori laici invitati al Capitolo di formulare alcune indicazioni come contributo al discernimento dei Padri Capitolari nella elezione del nuovo Superiore generale e del suo Consiglio. Innanzitutto noi collaboratori vogliamo ringraziare il Padre generale e il Consiglio generale per l’opportunità che ci ha dato di partecipare a questo Capitolo. È la prima volta che un Capitolo generale ha una partecipazione così numerosa di collaboratori laici e già questo è un segno di apertura e di speranza. D’altra parte il tema del rapporto tra collaboratori e religiosi è stato forse quello più dibattuto al Capitolo. Prendiamo atto di questo irreversibile cambiamento culturale che certamente segnerà il futuro dell’Ordine. Inoltre se oggi ci troviamo qui e siamo sensibili ai problemi che stiamo affrontando lo dobbiamo a voi che siate stati a vario titolo, per noi, mediatori del carisma di San Giovanni di Dio. E anche di questo vogliamo ringraziarvi.

Dopo esserci confrontati tra noi sono emerse alcune indicazioni specifiche. Al nuovo Superiore Generale e al suo Consiglio chiediamo:

1) Riconoscimento del carisma.

Chiediamo di riconoscere la partecipazione di alcuni laici al carisma di San Giovanni di Dio come già presente e attuale. Il carisma, com’è stato detto, è dono fatto alla Chiesa dallo Spirito che “soffia dove vuole”. Pertanto vi sono già alcuni laici che partecipano di esso. Si tratta solo di darvi più piena accoglienza, attuazione e condivisione con i religiosi nei modi e nelle forme che il prossimo governo dell’Ordine riterrà

opportuno, riconoscendo per alcuni di essi, in modo ufficiale, una vera e propria “vocazione all’ospitalità”.

2) Consultazione dei laici.

Come afferma uno dei testi più importanti della teologia del laicato successiva al Vaticano II (“La consultazione dei fedeli in materia di dottrina” del card. Newmann) consultare i laici anche in questioni dottrinali ma molto più in quelle pastorali non è un optional o una concessione ma un preciso dovere. Si tratta di riconoscersi tutti come popolo di Dio in cammino sulle vie dell’ospitalità sia pure con diversità di vocazioni e stati di vita. Già è stato fatto molto, nell’Ordine, in tal senso. Chiediamo al nuovo governo di continuare su questa strada rendendola ancora più feconda.

3) Messaggio di fiducia.

Al nuovo governo generale giustamente preoccupato per il futuro dell’Ordine e il calo delle vocazioni vorremmo inviare un messaggio tranquillizzante. Forse non si tratta di deficienza umana nel sapere individuare un’adeguata pastorale vocazionale ma della volontà di Dio. Proprio per questo vorremmo inviare un messaggio di fiducia: l’Ordine non si estinguerà, anche con l’attuale e futura penuria di religiosi, fino

a quando ci saranno laici che responsabilmente parteciperanno al suo carisma, lo custodiranno e lo attueranno.

4) Apprezzamento dei collaboratori.

Il nuovo governo dovrà certamente testimoniare la vicinanza dell’Ordine ai malati ma anche a chi se ne prende cura con stima, apprezzamento, incontro, parole di incoraggiamento, vicinanza nei momenti difficili, ecc. I collaboratori laici potranno così vedere il volto della carità non solo nell’aiuto al bisognoso ma anche nella prossimità alle proprie esistenze trascorse per gran parte proprio nei luoghi di lavoro. Tutti, poi, collaboratori e religiosi dovremo imparare a lodare non solo a criticarci o biasimarci reciprocamente.

5) Condivisione e integrazione.

Chiediamo che siano definitivamente superare le logiche “proprietarie”: S. Giovanni di Dio voleva avere un ospedale “suo” non per sé ma per il malato. Occorre passare dalla logica della proprietà a quella della condivisione e compartecipazione. Tutti coloro che, a vario titolo e con vari livelli di impegno esistenziale partecipiamo al carisma di San Giovanni di Dio dobbiamo sentire il dover di far progredire la nostra opera con un senso di vera appartenenza ad essa. E’ tempo, per i laici, che siano pienamente integrati nella vita dell’Ordine sia pure con diverso grado di partecipazione e coinvolgimento.

6) Coraggio del rischio.

Occorre che l’Ordine sappia riconoscere e accogliere le novità, anche rischiando. Anche se l’agiografia ci tramanda solo i “successi” di S. Giovanni di Dio vi sono stati molti insuccessi nella sua vita. Fino all’ultimo quando si getta nel Genil per salvare un ragazzo che stava affogando. Anche questo un insuccesso sul piano umano: non ha salvato il ragazzo ed è morto anche lui. Ma ha rischiato senza pensarci due volte, anche a costo di sbagliare. Anche il coraggio del rischio, di aprire nuove vie, di essere creativi è dono di Dio che invochiamo da Lui sull’Ordine e sulle sue scelte, in modo particolare quelle che coinvolgeranno i collaboratori laici.

7) Valorizzare l’umanizzazione.

Come è stato detto occorre un particolare apprezzamento per il collaboratore che è vicino al malato più che per quello che porta soldi alla struttura e insieme a quello che è più preparato. Questo non significa sottovalutare la competenza professionale che è il primo requisito di un’autentica umanizzazione ma valorizzare, se è il caso anche con veri e propri sistemi di valutazione, quella specificità umanizzatrice che deve essere requisito indispensabile delle nostre opere.

8) Incontri internazionali.

È importante istituzionalizzare momenti di incontro internazionale per i collaboratori laici, anche al di là di questi brevi scambi capitolari, durante i quali e portare avanti le problematiche dell’Ordine in una prospettiva laicale, guardando da un lato alla mondialità dell’Ordine, dall’altro alla specificità regionale delle sue Province.

9) Opere gestite da laici.

Come già avviene in alcune Province occorre che in tutto l’Ordine si affidi l’intera gestione di alcune opere a laici preparati e partecipi del carisma in nome e per conto dell’Ordine. Sarà una presenza moltiplicatrice delle attività apostoliche dell’Ordine e, riteniamo, a lungo andare anche una feconda risorsa vocazionale. Questa

prospettiva non può ritenersi solo relativa al futuro dell’Ordine: in alcune parti del mondo vi è già l’urgente bisogno di realizzare tutto questo in breve tempo. Pertanto occorre da un lato una visione strategica generale, dall’altro l’attuazione in loco, per alcune realtà, fin da adesso.

10) Scuola dell’Ospitalità.

Proprio al fine di avere un gruppo di laici preparati e partecipi del carisma che possano, così come ha fatto finora l’Ordine, dare senso unitario alla sua molteplice diffusione nel mondo si potrebbe pensare alla costituzione di una vera e propria “Scuola dell’Ospitalità” da attuarsi a livello centrale (con successive espressioni periferiche) che costituisca la fucina dei nuovi collaboratori laici in grado di gestire le opere secondo lo spirito e nel nome di San Giovanni di Dio. Quello che noi chiediamo ai Padri Capitolari per il prossimo momento elettorale è contenuto nelle indicazioni che abbiamo esposto. Tra poco vi lasceremo alle adempienze canoniche ma prima di andarcene vogliamo dirvi che, anche in questo momento elettivo, saremo in comunione con voi, accompagnandovi con il nostro affetto e la nostra preghiera allo Spirito Santo.”


Da “Farebenefeatelli” 1 TRIM 2007

n.1 Gennaio-Marzo 2007
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ALLA SEQUELA DI GESU’: DONNE LIBERE PER IL VANGELO – Di Elena Bosetti

Alla sequela di Gesù:

donne libere per il vangelo

Bosetti Suor Elena - Cong. delle Pastorelle Docente Esegesi N.T alla Gregoriana.Di Elena Bosetti

Di Elena Bosetti I vangeli parlano poco delle discepole di Gesù, si ricordano di loro soltanto quando non possono farne a meno, quando la loro testimonianza è l’unica possibile circa gli eventi supremi della morte e risurrezione del Maestro.

In effetti i primi due evangelisti escono dal silenzio concernente il discepolato femminile solo in occasione della passione e morte di Gesù. Ma, ovviamente, le donne c’erano anche prima. Non fanno la loro prima comparsa sotto la croce! Fortunatamente Luca ricorda che fin dagli inizi alla sequela di Gesù c’erano anche le donne. Non erano soltanto gli uomini a seguire stabilmente il profeta di Nazareth.

Contro le usanze del tempo Gesù accettava al suo seguito anche le donne (Lc 8,1-3). Le riteneva capaci di ascoltare e annunciare la Parola di Dio. Sfidava la cultura dominante non solo perché si lasciava toccare da donne peccatrici, ma ancor più perché le associava alla sua opera di evangelizzazione. Nei suoi viaggi missionari a fianco dell’apostolo Paolo, Luca deve avere sperimentato ripetutamente l’accoglienza e la generosa disponibilità di alcune donne cristiane. Deve avere incontrato donne intelligenti, capaci, generose, che aprivano la propria casa ai missionari itineranti e si coinvolgevano con passione nella causa del vangelo, come suggerisce il racconto di Lidia (At 16,15).

I tempi dello Spirito aprono decisamente orizzonti nuovi sia per l’uomo che per la donna. Invochiamo lo Spirito dell’unico Maestro affinché ci renda testimoni e annunciatori del Vangelo. IN ASCOLTO Discepole itineranti La notizia di un gruppo femminile itinerante è data nel contesto di un sommario” che intende informare sull’attività evangelizzatrice di Gesù: “In seguito egli se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio.

(Camminavano) con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni” (Lc 8,1-3).

La menzione della presenza di donne nel gruppo itinerante di Gesù costituisce un’assoluta novità nella cultura del tempo, in particolare nell’ambiente palestinese (si ricordi il dialogo con la Samaritana dove gli stessi discepoli “si meravigliarono che stesse a parlare con una donna” (Gv 4,27). Va sottolineato che qui le donne non compaiono in un contesto periferico, ma nel cuore stesso dell’attività di Gesù: l’annuncio del Vangelo.

Cerchiamo di “entrare” nel testo.

• L’attività di Gesù per evangelizzare Israele si fa più sistematica, oggi diremmo a tappeto: “se ne andava di città in città e di villaggio in villaggio”. Tutti devono avere la possibilità di ascoltare la buona novella e di convertirsi.

• Gesù non va solo. Sono con lui i Dodici e le donne. I Dodici rappresentano l’intero popolo di Dio: da un lato, sono il segno che Gesù intende rivolgersi a tutto Israele (le dodici tribù), dall’altro, indicano l’Israele che ha creduto e accolto l’appello di Gesù alla conversione.

Questo Israele in nuce, congregato attorno a Gesù, è mandato a evangelizzare l’intero popolo. Gesù è dunque il fulcro di un’intensa attività evangelizzatrice, che viene organizzata ulteriormente con l’invio dei settantadue discepoli (Lc 10,1; cf. Es 24,9).

• Qual è la posizione e il ruolo delle donne in questa fervida attività? Come i Dodici, queste donne seguono Gesù. Lo seguono in tutti i sensi: materialmente, camminando sui suoi passi, e spiritualmente, condividendo il suo progetto. Se egli predica, loro che gli stanno accanto, lo ascoltano. Inoltre, camminando con lui, vedono quello che fa, come si comporta.

Luca (8,1-3) informa che queste donne avevano fatto personalmente esperienza del potere terapeutico di Gesù: “erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità”. E forse anche per questo “lo servivano (diekonoun) con i loro beni”.

Sono donne che la grazia ricevuta ha reso capaci di amare fattivamente, capaci di una diakonia sollecita alle varie necessità di un gruppo itinerante. Tre di queste donne sono menzionate per nome: Maria chiamata Maddalena, Giovanna, moglie di Cusa, e Susanna.

Maria di Magdala

Al primo posto è menzionata Maria Maddalena, un primato riconosciutole anche nell’annuncio della risurrezione da tutti e quattro gli evangelisti. Indubbiamente doveva essere una donna di grande spicco nella comunità primitiva.

Prima di mettersi al seguito di Gesù, Maria di Magdala era stata esorcizzata “da sette demoni”. La possessione di sette spiriti è un caso particolarmente grave, come è esplicitamente detto in Luca (11,26). È possibile dare un nome a questi “sette demoni” cacciati dalla Maddalena? È giusto interpretarli in chiave sessuale e, conseguentemente, vedere nella Maddalena la peccatrice (= prostituta) di cui parla Luca (7,37-50)?

Per sé peccato e possessione diabolica non sono la stessa cosa nel Nuovo Testamento. Ma già nella chiesa antica si è fatta una sovrapposizione tra il racconto della peccatrice perdonata, di cui peraltro Luca tace il nome, e Maria di Magdala da cui erano usciti “sette demoni”. Si è letto tale indicazione come equivalente di tutta la diavoleria che si esprime nel sesso, ovvero il demone della porneia.

Ecco allora l’immagine tradizionale della Maddalena ex prostituta, che scioglie i suoi lunghi capelli (ovviamente biondi!) per asciugare le sparse lacrime sui piedi di Gesù. (Per una storia della problematica rimando al volume di Carla Ricci, Maria di Magdala e le molte altre, D’Auria, Napoli 1991, 32-55).

Luca (8,2) non consente tali sovrapposizioni. Invece offre un aspetto rilevante circa l’identità psicologica di Maria di Magdala: è indubbiamente una donna restituita a se stessa, riconsegnata alla propria libertà attraverso l’esodo di sette demoni. Ebbene, questa donna vive oramai la sua libertà quale servizio d’amore.

Perciò è modello della libertà cristiana che si esprime nel servizio (Gal 5,1-15). Giovanna e Susanna

La seconda donna menzionata da Luca (8,3) è Giovanna. Nessun accenno alla sua figura negli altri due sinottici e neppure in Giovanni.

Luca invece ne parla ancora in 24,10 ed anche in quel caso la pone al secondo posto, subito dopo Maria di Magdala. Di lei ci riferisce la posizione civile e sociale: è la moglie di Cusa, amministratore di Erode. Proviene dunque da una situazione sociale elevata. Se era sposata, come mai peregrinava con Gesù? Luca non lo spiega e perciò questa notizia complica la comprensione dei dati e apre varie ipotesi.

Era forse vedova? In tal caso perché Luca, che della vedova cristiana ha particolare ammirazione, non lo dice? “Se poi Cusa era vivente e aveva una eminente posizione come funzionario di Erode, la situazione appare ancora più complessa.

Era d’accordo con la scelta della moglie mettendo così a repentaglio la sua carriera? Oppure Giovanna, oltre l’abbandono del suo ambiente, dovette sopportare anche il peso dell’ostilità e della perdita affettiva del marito?

Dell’eventuale presenza di figli non si parla” (Ricci, Maria di Magdala, 165). Quale può essere stata la causa che ha spinto Giovanna a seguire Gesù? Luca non lo dice esplicitamente. Perciò possiamo supporre che valga anche per lei quanto detto per tutte: l’esperienza di guarigione e di amore liberante.

La terza donna menzionata da Luca (8,3) è Susanna, di cui, oltre il nome, non sappiamo però altro. Ma è già molto. Sufficiente per concludere che insieme a Gesù c’è un gruppo di donne concrete, tanto che di alcune la comunità ricorda ancora i nomi. Queste donne hanno il coraggio di vivere una vita austera come doveva comportare la sequela di Gesù nel suo infaticabile itinerare.

Dalla Galilea a Gerusalemme Ci ambientiamo sotto la croce. Gesù ha già consegnato il suo spirito nelle mani del Padre (Lc 23,46). La folla è ritornata in città battendosi il petto. Ma c’è un gruppo che non dà segno di andarsene. Sono gli amici e le compagne fedelissime provenienti dalla Galilea, facilmente identificabili dalla loro parlata (si ricordi ciò che capita a Pietro nella notte del tradimento).

Luca le menziona tre volte: in riferimento alla morte, alla sepoltura e alla risurrezione (vedi Lc 23,49.55-56; 24,1-11). Oltre ad essere presenti sotto la croce, queste donne sono anche le prime ad accostarsi al suo sepolcro, confermandone così la morte.

La loro testimonianza avrà coronamento nel mattino di Pasqua, quando dagli angeli sono ricondotte alla memoria delle parole di Gesù: “Ricordatevi come vi (hymin) parlò quando era ancora in Galilea… Ed esse si ricordarono”. La memoria equivale in certo senso al cuore, luogo in cui la parola va custodita. Con la Risurrezione la memoria delle parole di Gesù riaffiora alla coscienza. E le prime a “ricordarsi” sono proprio le donne. Esse sono ricondotte dai due uomini-angeli alle parole che il Maestro ha detto loro detto “quando era ancora in Galilea”. Nei vangeli non si trova una predizione della morte e risurrezione di Gesù rivolta esplicitamente alle donne. Ma forse non c’è neppure bisogno. Avendo Luca informato all’inizio del capitolo 8 che il gruppo itinerante di Gesù comprendeva alcune donne, il lettore può facilmente capire che le cose dette strada facendo (come gli annunci della passione) le udivano anche loro. Esse dunque sanno, non meno dei Dodici. È solo questione di “ricordare”. Ed è ciò che avviene appunto al sepolcro il mattino dopo il sabato. I due uomini-angeli contribuiscono a far risorgere nelle donne di Galilea “la memoria” delle parole di Gesù. E a far risorgere, con la memoria, la fede. Per approfondire l’ascolto L’attenzione che Luca mostra di avere nei confronti delle donne trova continuità negli Atti degli Apostoli. L’esperienza della Pentecoste vede unita la comunità cristiana, rappresentata dagli Apostoli “con le donne e Maria, la madre di Gesù, e con i fratelli di lui” (At 1,14). Questa composizione ideale del nucleo originario vuole sottolineare la continuità spirituale tra il tempo di Gesù e quello della Chiesa. L’effusione dello Spirito si rivela come il superamento di ogni barriera di sesso, razza e cultura. Tale è l’interpretazione che fa Pietro della profezia di Gioele 3,1-5 nel suo primo discorso: “Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno” (At 2,17-18). Il dono di profezia caratterizza l’intera comunità, i figli come le figlie, tutti ormai abilitati all’annuncio della bella notizia.

Paolo ha espressioni elogiative per l’impegno missionario dei suoi collaboratori, tra cui diverse donne. Si pensi a Priscilla (detta anche Prisca), moglie di Aquila. Paolo incontra questa coppia a Corinto e benefica della loro ospitalità per circa un anno e mezzo (vedi At 18,1-11).Nei saluti conclusivi della lettera ai Romani li ricorda con profonda gratitudine (si noti che il nome di Prisca precede quello del marito, un aspetto piuttosto insolito, che sembra confermare la posizione di rilievo di questa donna): “Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa” (Rom 16,3-5).

L’elenco della persone da salutare si apre con il nome di Febe, diaconessa della chiesa di Cencre (Rom 16,1-2). L’apostolo ricorda inoltre Maria, che ha lavorato molto per la comunità di Roma, la coppia Andronico e Giunia “compagni di prigionia e apostoli insigni”, Trifena e Trifosa “che si danno da fare per il Signore” e “la carissima Perside, che faticò molto per il Signore”, la madre di Rufo e ancora Patroba e Giulia.

La menzione delle collaboratrici prosegue con la sorella di Nereo, Olimpia, e tutti i santi che sono con loro. Impressiona questo fitto elenco di collaboratori e collaboratrici. Dietro questi nomi ci sono volti e ruoli, soprattutto c’è amore e fatica: l’evangelizzazione fin dall’inizio è attività che vede le donne coinvolte in prima persona, con tutta la loro dedizione.

Testi biblici

• Rivisita la vocazione profetica di Miriam (Es 15,20-21), di Debora (Gdc 5,4) e di Culda (2Re 22,14-20).

• Il discepolato rende fratelli e sorelle di Gesù: vedi Mt 12,46-50; Mc 3,31-35; Lc 8,19-21

• Paolo afferma la fine di ogni discriminazione tra uomo e donna: Gal 3,28 IN DIALOGO E CONFRONTO Passiamo dall’ascolto alla meditazione con l’aiuto di alcune domande. Ci lasciamo interpellare personalmente dalla Parola e confrontiamo la nostra vita con Gesù Cristo, Verbo del Dio vivente.

• La vita cristiana si esprime essenzialmente nella sequela di Gesù, nel “seguire le orme del Cristo” (1Pt 2,21). Le donne dei vangeli, prima fra tutte Maria di Magdala, percorrono la strada di Gesù dalla Galilea fino a Gerusalemme. Ascoltano la sua parola, osservano il suo comportamento, si lasciano formare dal suo modo di vivere.

* Come vivo la sequela di Gesù Cristo? Mi confronto giornalmente con la sua Parola? Mi lascio educare dai suoi sentimenti, dalla sua preghiera, dalla sua dedizione all’evangelo del regno di Dio? Sono suo testimone in ogni ambiente di vita?

• La sequela di Gesù è vissuta dalle donne di Galilea in termini di diakonia, di servizio generoso.

* Come vivo la diakonia nella chiesa e nella società? Mi sento onorato di poter mettere a servizio del Vangelo e della comunità ecclesiale e civile i vari doni che il Signore mi ha dato (salute, tempo, intelligenza, preparazione, intuizioni…)? O mi premuro troppo di salvaguardare me stesso, la mia salute, il mio tempo, i miei beni?

• Paolo si rivela capace di amicizia e di affetto sincero nei confronti dei suoi collaboratori e delle sue collaboratrici. Mostra gratitudine e apprezzamento per la dedizione al vangelo e per le varie forme di diakonia espresse dalle donne. · Come sono le mie relazioni con gli altri operatori pastorali? So ascoltare le idee degli altri? Apprezzo il loro lavoro? Comunico con lealtà e umiltà i miei punti di vista, le intuizioni? So riconoscere i miei errori e sbagli? IN PREGHIERA Contempliamo l’icona della nuova famiglia di Gesù (Mt 12,46-50; Mc 3,31-35; Lc 8,19-21). Tra i discepoli e le discepole di Gesù c’è un legame di “parentela” generato dalla Parola di Dio.

L’adesione comune al volere del Padre, crea “famiglia”, nuove relazioni di fraternità e sororità. Il discepolato si realizza come comunità di coloro che ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica. A questa nuova relazione vitale, basata sull’efficacia generatrice della Parola, fa riferimento la risposta di Gesù a quella donna che in mezzo alla folla esclama: “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!”. Ma egli disse: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!” (Lc 11,27-28).

Vogliamo ringraziare il Signore Gesù di questa beatitudine e per aver fatto di noi la sua famiglia, suoi fratelli e sorelle:

· Grazie Gesù per averci chiamato a stare con teper averci chiamato a seguirti nella tua obbedienza amorosa al progetto del Padre.

·Grazie per l’onore che ci fai associandoci alla tua missione di evangelizzazione e di salvezza.

· Aiutaci a non indietreggiare.

· Non permettere, Signore Gesù, che dopo averti seguito ci ripieghiamo sui nostri piccoli problemi e interessi.

· Liberaci dal vivere per noi stessi.

· Aiutaci a restare aperte all’ascolto della tua parola,

· disponibili alle provocazioni del nostro tempo,

· capaci di discernere il tuo volere nei segni tempi,

· nelle domande, spesso inespresse, del popolo a cui ci mandi.

· Insegnaci a parlare con il Padre · e a parlare del suo amore ai nostri fratelli.

· Ravviva in noi il dono del tuo Spirito

· affinché ci lasciamo da lui pienamente guidare nella vita e nella missione.

· Affidiamo a Maria, Madre e discepola del Signore, l’impegno di vita suscitato in noi dall’ascolto e confronto con la Parola.

PIANETA DONNA: L’ORA DEL RISCATTO

LE SORELLE DI SAN GIOVANNI DI DIO

Lunedi notte (13 Ottobre 2008) mi sveglio di scatto. Convinto di essere in ritardo per il lavoro, cerco l’orologio: sono appena le quatro del mattino. Mi alzo perché non riesco più a riaddormentarmi, mi faccio il caffè e comincio a sfogliare un vecchio libro del Padre Gabriele Russotto: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – Anno 1950.

Guardo le foto delle distruzioni belliche che hanno colpito anche diversi ospedali dei Fatebenefratelli d’Italia, Austria, Germania, Francia…Mi soffermo più a lungo sull’Ospedale San Giuseppe di Milano: la documentazione del bombardamento aereo della notte 15-16 Agosto 1943 è desolante. A pagina 151 mi soffermo, tra l’ncredulo e lo stupito, su questo titolo: “COSTRUZIONI DELLA CARITA’ “.

Leggo: “Malgrado i danni e le distruzioni subìte e le gravi difficoltà nelle quali l’Ordine si trovò durante la tremenda parentesi bellica, tuttavia il suo cammino, guidato dalla mente illuminata e dal cuore grande del Generale P. Efrem Blandeau, non si arrestò. Durante il periodo della guerra furono fondate complessivamente altre 22 Case, come segue: 2 in Italia; 2 in Irlanda; 5 nella Spagna; 2 nel Portogallo; 2 in Africa; 2 in Argentina; 2 nel Cuba; 1 nel Perù; 3 negli Stati Uniti; 1 nel Venezuela. In qualcuna di queste  Nazioni l’Ordine è entro per la prima volta”.

Cosa pensare? “La c’è la Provvidenza!”, il Manzoni fa dire a Renzo. E i frati non hanno mai dubitato. Ma, se allora, perché non ora? 

Proseguo la mia consultazione e finisco a pagina 179. Ciò che segue – escluso il titolo che è mia deduzione –  è fedelmente riportato.  

LE  SORELLE di san Giovanni di Dio nella PAGINA DIMENTICATA DAI FRATELLI  

“Le Costituzioni dell’Ordine, anno 1585 per “L’OSPEDALE DI GIOVANNI DI DIO” in Granada, prescritte da Mons. Giovanni Mendez Salvatierra, Arcivescovo di Granata, furono la base delle prime Costituzioni dell’Ordine e delle altre edizioni successive. Se ne conserva copia stampata – mancante però di più pagine – nell’Archivio Generale dei Fatebenefratelli in Roma. Il titolo intero è: Regla y Costituciones, para el Hospital de Juan de Dios desta ciudad de Granada, Por el Illustrissimo Reverendissimo Senor don Joan Mendez de Salvatierra, Arcobispo della…, del consejo de su Majestad, etc. (Granada , 1 gennaio 1585, pp. 17-18)

TITOLO XV delle COSTITUZIONI 1585

DEL MEDICO, DEL CHIRURGO E DEL BARBIERE

Prima Costituzione, che tratta delle ore in cui debbono trovarsi nel detto Ospedale, a chi spetta la loro nomina e da chi debbono dipendere dentro l’Ospedale. 

  1. Il medico e d il chirurgo… 
  2. Come debbono essere multati…
  3. Dell’ordine, che devono osservare nella visita ai malati…
  4. Quando il medico deve ispezionare la farmacia…
  5. Della carità e diligenza, con cui debbono visitare i detti infermi…
  6. Dell’ora, in cui il barbiere deve essere presente alla visita insieme col medico…  “

 IN COSTRUZIONE (Appena possibile, verrà riportato integralmente il testo di ogni paragrafo) 

 (1587)

Queste Costituzioni – delle quali è giunto fino a noi solo il Capitolo XV – furono approvate dal primo Capitolo Generale, celebrato in Roma nei giorni 20-29 giugno 1587, e sono la documentazione scritta del metodo assistenziale introdotto nel 1537 da san Giovanni di Dio nel suo Ospedale in Granada e poi continuato fedelmente dai suoi Figli nella Spagna e nelle altre nazioni.

Il Capitolo XV è riportato nella prima biografia del Santo – più volte citata – del P. Francesco de Castro: Vita et opere sante di Giovanni di Dio…, tradotta dallo spagnolo dal P. Francesco Bordini (Firenze, 1589) p. 196.

  • Dell’ordine che tengono li Fratelli di Giovanni di Dio  in governare li poveri infermi nelli loro spedali, estratto brevemente, et sommariamente dal Capitolo XV delle loro Costitutioni.  Conviene  grandemente…
  • Dell’ordine che si tiene nel ponere li poveri infermi nel letto. S’ha da procurare…
  • Del modo che si tiene nel visitare gli poveri infermi con il medico, et chirurgico.  Nelle due visite…
  • Ordine che si tiene nel dar da mangiare a’ poveri infermi. Venuta l’hora…
  • Della guardia che s’ha da tenere, così nel giorno, come nella notte dell’infermeria; et la maniera che s’ha da tenere in licentiare i poveri, di poi che sono risanati.  Et acciò… 
  • Della gran cura che s’ha da tenere degll’infermi, che stanno nell’agonia della morte.  Et perché importa…
  • Come si sepeliranno l’infermi, che sono morti nel nostro spedale, e delle messe de’ defunti ogni lunedì. Quando per voluntà di…
  • Degli esercitij spirituali, che si fanno nelle i infermarie. Nelle infermarie si dirà Messa ogni mattina,…

Delle sorelle del nostro habito, che hanno da medicare le povere inferme.    

 ”In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini: ha parso al capitolo che si faccia il medesimo da qui innanzi ne’ luoghi commodi, et ritirati dove si possa fare, procurando sempre di andare  innanzi di perfettione, et s’intenda che non ha da essere con ogni picciola commodità; ma dove possino stare molto appartate, et raccolte, et che non possa entrare in esse niuna sotre d’huomini; eccetto che i medici, et che siano in istanze molto commode, e per questo effetto si terrà particolar cura in questo esercitio”.

  

Della infermiera maggiore, facendosi spedale di donne.   

“Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini, nella visita de’ medici, et in tutti gli altri esercitii, così spirituali, come corporali, et così anco  tenirà particolar cura nello spedale si viva con ogni modestia, et non lasci uscire niuna fuora se non sarà sana, er licentiata dal medico, et farà che tutte le cose le siano provedute, et convenienti atte: di maniera che non si manchi niente di quello che dal medico fu ordinato, et per quest’effetto sarà una ruota per dove le si diano tutte le cose necessarie, et per la porta non entrerà se non l’inferme, et li medici quando anderanno a visitare, et il fratello maggiore si troverà sempre presente alla visita, et se sarà bisogno il barbiero, et lo spetiale, et l’infermiera maggiore farà che si faccia la visita con ogni modestia et honestà, et che alle inferme non le manchi cosa niuna, come sìè detto nella infermità degli uomini, et nella porta della infermeria delle donne saranno due chiavi differenti una dall’altra, et una la tenirà il fratello maggiore, et l’altra la sorella infermiera maggiore; di maniera che non possa aaprire l’uno senza l’altra”.

DA: “L’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO” – ROMA – ISOLA TIBERINA . Anno Giubilare 1950 – P. GABRIELE RUSSOTTO O.H.

Fina dalle origini è evidente che vi è già una fondazione religiosa al femminile, analoga a quella dei frati, sorretta dalle medesime norme: 

“In alcuni delli nostri spedali si ha usato, et usa ricevere  donne inferme, et medicarle in luogo distinto, et separato, et lontano dalle infermarie degli huomini, servendo le sorelle del nostro habito con la carità possibile, et questo perché le donne siano rimediate come gli huomini:..”

  • “Sarà una infermiera maggiore d’età di anni 40 poco più, o meno, la quale sarà religiosa del nostro habito, diligente et sufficiente per questo ministerio, dove sarà obedita da tutte le altre sorelle, et farà l’infermiera maggiore, che nel spedale delle donne si osserva quell’ordine, che s’è detto nello spedale degli huomini…”

 

L’argomento meriterebbe di essere approfondito. E, se vi sono dei ritardi storici, andrebbero recuperati.

Sono tentato di credere che certe crisi celino l’accorato desiderio di Dio: far emergere e riconoscere nel nostro tempo quella diaconia delle donne che da sempre esse hanno esercitato, nella riservatezza tipica di Maria.

Nulla di nuovo sotto il sole. 

Mi domando: e se un giorno fossero le donne a prendere in mano la situazione di alcune postazioni dell’Ordine? Fino a prova contraria, Fatebenefratelli vuol dire anche Fatebenesorelle. O no ?

La carità di Giovanni di Dio è stata sostenuta sia dalla ricchezza delle nobildonne che dagli spiccioli e dalla scontata fatica delle donne del popolo. E tra esse, alcune di quelle sottratte dal Santo alla schiavitù della prostituzione. Tutto fa pensare che San Giovanni di Dio, sul ruolo della donna, pur nei condizionamenti legati alla mentalità del tempo, abbia visto più lontano di noi che ci consideriamo emancipati.

 
 Cap 3  -  Il Signore manderà il suo spirito       

Dal libro del Profeta Gioel

1“Dopo questo,
io manderò il mio spirito
su tutti gli uomini:
i vostri figli e le vostre figlie
saranno profeti,
gli anziani avranno sogni
e i giovani avranno visioni.

2In quei giorni manderò il mio spirito
anche sugli schiavi e sulle schiave.
3Farò cose straordinarie
in cielo e sulla terra:
ci saranno sangue, fuoco
e nuvole di fumo.

4 Il sole si oscurerà
e la luna diventerà rossa come il sangue,
prima che venga il giorno del Signore,
giorno grande e terribile. 

5Ma chi invocherà il mio nome sarà salvo.
Sul monte Sion e in Gerusalemme
sopravvivranno quelli che io ho scelto”. 

Come sembrano in atto le profezie! 

Ai tempi del profeta Gioele, Maria di Nazareth non era ancora nata. Ma nella mente di  Dio era presente dall’eternità. Le profezie del Magnificat di Maria, i sogni di Giuseppe ci appartengono: siamo chiamati a realizzarli.

Una ragazza che cerca Dio, mi ha spedito una mail proprio oggi, 21 maggio 2007, per farmi partecipe di una scoperta che ha fatto leggendo una biografia di Don Gnocchi.  

La riccetta che metto in circolazione è ottima e cercherò di utilizzarla per primo:“Volete diventare santi?  Ecco il sistema: prima di ogni vostra azione  chiedetevi sempre che cosa farebbe la Madonna al vostro posto e comportatevi come lei“.(Don Carlo Gnocchi)