L’AMORE VINCE TUTTO – Claudia Koll

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Claudia Koll: un modello di altruismo

 

2004-05-24_bg_a.jpg (18073 byte)L’AMORE VINCE TUTTO!

di Mauro Harsch


(tratto dalla rivista “Germogli” del 4/11/2004)

 

 

 

 

Una delle persone più straordinarie che ho conosciuto in questi ultimi anni è sicuramente Claudia Koll. Attrice di successo, affianca attualmente l’attività artistica ad un’intensa opera di volontariato a favore dell’infanzia e dei sofferenti.

Claudia Koll
Ho avuto modo di incontrarla in più occasioni, scoprendo in lei una sensibilità, una bontà d’animo e un amore per Dio e il prossimo decisamente fuori dal comune. Nell’intervista, con coinvolgente spontaneità, parla delle sue convinzioni morali e spirituali, di particolari esperienze di vita, svelando pure qualche segreto custodito nel suo cuore.

Recentemente si è molto parlato della tua conversione e del tuo impegno a favore dell’infanzia bisognosa. Cosa vuoi dirci in proposito?

 

Ho incontrato il Signore in un momento drammatico della mia vita, in cui nessun uomo avrebbe potuto aiutarmi; solo il Signore, che scruta negli abissi del cuore, poteva farlo. Ho gridato, e Lui mi ha risposto entrando nel mio cuore con una grande carezza d’amore; ha sanato alcune ferite e ha perdonato alcuni miei peccati; mi ha rinnovata e mi ha messa al servizio della Sua vigna. Mi sono sentita come il figlio della parabola del Figliol prodigo: accolto dal padre, senza essere giudicato.

Ho scoperto un Dio che è Amore e grande Misericordia. In un primo tempo ho cercato Gesù nei sofferenti, nel volontariato, negli ospedali, nei malati di AIDS e successivamente, in seguito ad un invito del VIS (organizzazione internazionale non governativa che rappresenta i missionari salesiani nel mondo), mi sono confrontata con grandi ingiustizie come la fame e la povertà. In Africa ho visto il volto di Gesù Bambino che ha scelto di essere povero fra i poveri: vedevo correre tanti bambini sorridenti, vestiti di stracci, e abbracciandoli e baciandoli pensavo a Gesù Bambino, vedevo in loro tanti Gesù Bambini.

Ricordi qualche esperienza di fede vissuta durante la tua prima giovinezza?


Nella prima infanzia sono cresciuta con una nonna non vedente, che però vedeva con gli occhi della fede. Era molto devota alla Madonna di Pompei e al Sacro Cuore di Gesù; grazie a lei ho respirato una particolare “presenza” di fede. In seguito il Signore ha permesso che mi smarrissi… Oggi però comprendo che Dio permette lo smarrimento, e il male, perché da esso può nascere un grande bene. Ogni “figliol prodigo” diventa testimone dell’Amore e della grande Misericordia di Dio.

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Dopo la conversione cos’è cambiato concretamente nelle tue scelte di vita, nel quotidiano?


La conversione è qualcosa di profondo e continuo: è aprire il cuore e cambiare, è vivere concretamente il Vangelo, è opera di rigenerazione basata su tante piccole morti e rinascite quotidiane. Nella mia vita cerco di ringraziare Dio con tanti piccoli gesti d’amore: occupandomi dei bambini, dei poveri, superando i miei egoismi… È vero che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. A volte, dimenticando noi stessi, si aprono nuovi orizzonti.

L’estate scorsa sei stata a Medjugorje. Che impressioni ne hai riportato?


È stata un’esperienza forte che mi sta trasformando e donando nuovi incentivi, tuttora in fase evolutiva. La Madonna ha svolto un ruolo importante nella mia conversione; è stata davvero una mamma, e io mi sento Sua figlia. In ogni appuntamento importante La sento vicina, e quando ho bisogno di riappacificarmi è sempre il Rosario la preghiera che riporta la pace nel mio cuore.

Tu sei testimone della fede cattolica vissuta nella pienezza e nella gioia. Che cosa vorresti dire ai giovani lontani dalla fede e a coloro che hanno abbandonato il cristianesimo e la Chiesa per abbracciare magari altre religioni o altre filosofie di vita?

Vorrei dire loro che l’uomo ha bisogno del Trascendente, della presenza di Gesù Risorto che è la nostra speranza. Rispetto ad altre religioni noi abbiamo un Dio che ha anche un volto; un Dio che ha sacrificato la vita per noi e che ci insegna a vivere in pienezza e a conoscerci. Fare esperienza di Dio significa anche entrare nel profondo del nostro cuore, conoscerci, e crescere quindi in umanità: questo è il grande mistero di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo. Oggi, amando Gesù non posso non amare l’uomo, ho bisogno dell’uomo. Essere cristiani significa amare il fratello e ricevere il suo amore, significa sentire la presenza del Signore attraverso i nostri fratelli. L’amore per Gesù ci fa vedere il prossimo con occhi diversi.

 Qual è secondo te il motivo per cui molti giovani abbandonano la Chiesa?


La nostra società non ci sostiene in un cammino spirituale, è una società molto materialista. L’anelito dell’anima tende verso l’alto, ma poi in realtà il mondo ci parla di tutt’altro e non ci sostiene in una ricerca autentica di Dio. Anche la Chiesa ha le sue difficoltà. Non dobbiamo in ogni caso dimenticare che Essa è il Corpo mistico di Cristo e va quindi appoggiata, dobbiamo rimanere nella Chiesa. Non bisogna identificare la persona con Dio: a volte le colpe di una persona diventano motivo per cui non si crede o si smette di credere… Questo è sbagliato e ingiusto.

Cos’è per te la felicità?


La gioia! La gioia di sapere che Gesù esiste. E la gioia nasce dal sentirsi amati da Dio e dagli uomini, e nel contraccambiare questo amore.

I valori più importanti nella tua vita?

L’amore, l’amore, l’amore…

Cosa ti ha spinta a voler diventare attrice?


Subito dopo la mia nascita, mia mamma ed io abbiamo rischiato di morire e, come accennato prima, sono stata affidata a mia nonna, non vedente. Più tardi, quando lei stava dinnanzi al televisore e ascoltava gli sceneggiati, io le raccontavo cosa vedevo. L’esperienza di raccontarle quello che accadeva, e vedere il suo volto illuminato, ha generato in me la voglia di comunicare con le persone e di regalare emozioni. Penso che sia da ricercare in questo vissuto il seme della mia vocazione artistica.

Un’esperienza particolarmente viva fra i tuoi ricordi…

Sicuramente l’esperienza più grande è stata quella d’avvertire nel mio cuore il grande amore di Dio, che ha cancellato tante mie ferite. Nel volontariato, ricordo l’incontro con un malato di AIDS che aveva perduto la facoltà della parola e non riusciva più a camminare. Ho trascorso un pomeriggio intero con lui; aveva la febbre alta e tremava dalla paura. Gli ho tenuto la mano per tutto il pomeriggio; ho condiviso con lui le sue sofferenze; vedevo in lui il volto di Cristo… Non scorderò mai quei momenti.

Progetti futuri? Nel volontariato e nella vita artistica?


Ho in programma un viaggio in Angola, per il VIS. Continuo inoltre la collaborazione con un’associazione che si occupa di donne immigrate in Italia in condizioni di difficoltà. Mi sento chiamata ad aiutare chi è più debole: il povero, il sofferente, lo straniero. In questi anni di volontariato con gli immigrati, ho vissuto molte storie di grande poesia. Vedendo situazioni di povertà anche dentro le nostre città, ho scoperto persone con grandi ferite morali, culturalmente non pronte a trovarsi in difficoltà; persone che hanno bisogno di ritrovare la propria dignità, il senso più profondo della propria esistenza. Attraverso il cinema mi piacerebbe raccontare alcune di queste realtà molto toccanti. In dicembre, in Tunisia, inizieranno anche le riprese di un nuovo film per la RAI, sulla vita di San Pietro.

Come vedi oggi il mondo della televisione e del cinema?

Ci sono degli elementi positivi e ho molta speranza nel futuro. Credo che siano tempi maturi perché nasca qualcosa di diverso. Sogno un’arte che porti luce, speranza e gioia.

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Qual è, secondo te, la missione di un artista?


Sicuramente quella di essere un po’ profeta, di illuminare il cuore degli uomini. Oggi, il male enfatizzato dai mass-media ferisce la nostra anima e la nostra speranza. L’uomo ha bisogno di conoscersi anche nelle proprie miserie, ma deve confidare nella Misericordia di Dio, che apre alla speranza. Bisogna guardare al bene che nasce anche laddove c’è il male: il male non può essere negato, ma va trasfigurato.

Nella sua Lettera agli Artisti, il Papa invita gli artisti a “cercare nuove epifanie della bellezza per farne dono al mondo”. Il nostro nuovo movimento “Ars Dei” è nato anche con l’obiettivo di riscoprire nell’arte un canale privilegiato di trasmissione di messaggi e valori che contribuiscano a richiamare alla mente e al cuore dell’uomo la sacralità della vita, il Trascendente, l’universalità di Cristo. Un movimento quindi in netta controtendenza con l’arte contemporanea. Un tuo commento in proposito.

Penso che la bellezza sia importante. Un bel tramonto ci parla di Dio e ci apre il cuore; un bel brano musicale ci fa sentire migliori. Nella bellezza incontriamo Dio. Dio è bellezza, è amore, è armonia, è pace. Mai come in questo periodo l’uomo ha bisogno di questi valori. Secondo me l’arte contemporanea è un po’ in ritardo rispetto a quello che l’anima dell’uomo cerca, ma penso che il nuovo millennio aprirà nuovi orizzonti. Credo che l’Ars Dei sia davvero un movimento nuovo e spero che possa fiorire come dice il Papa.

Per concludere, un messaggio, una citazione per i nostri lettori.


“Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio suo Unigenito, affinché chiunque crede in Lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. (Gv 3-16) L’Amore vince tutto!

Grazie Claudia e arrivederci in Svizzera!

Roma, 4 novembre 2004

La rivista Germigli è edita dalla fondazione “Medjugorje per l’Infanzia”: www.medjugorje.ch 

CLAUDIA KOLL MAMMA A DISTANZA

L’attrice romana sostiene la campagna di adozione a distanza dei bambini Saharawi celiaci promossa dall’Aic (Associazione Italiana Celiachia).

Mercoledì 28 agosto la Koll è a Empoli per incontrare alcuni dei ragazzi, ospiti in questi giorni in Toscana, e sottoscrivere un’adozione. L’iniziativa si propone di aiutare le famiglie Saharawi a garantire ai figli celiaci una dieta senza glutine “Sono celiaca anch’io e so bene cosa significa convivere con un’intolleranza che non ti permette di avvicinarti agli alimenti più comuni, come il pane e la pasta. Per questo mi impegno in prima persona per i piccoli Saharawi celiaci, che già vivono in condizioni di grande disagio nel deserto, e anche io sottoscrivo un’adozione”.
Così Claudia Koll spiega la sua decisione di fare da madrina alla campagna nazionale di adozione a distanza dei bambini Saharawi celiaci promossa dall’Aic, di cui la Koll è presidente onoraria. L’attrice partecipa oggi ad Empoli all’incontro, organizzato dall’Aic, dall’amministrazione comunale e da associazioni di volontariato, con i bambini celiaci ospiti in questi giorni in Toscana. L’appuntamento è alle 11.30, presso il Chiostro degli Agostiniani, in via de’ Neri.

 

L’incidenza della celiachia nel popolo Saharawi è altissima: tra i bambini la percentuale è del 5,6% e i casi già diagnosticati sono oltre 300. Il dato emerge da uno screening effettuato nell’ambito di un intervento di cooperazione con la consulenza scientifica del dottor Carlo Catassi dell’Aic. Le analisi proseguiranno e si stima che su una popolazione infantile di 43 mila soggetti si possa arrivare a 2400 diagnosi di celiachia.

Obiettivo della campagna è far sottoscrivere l’adozione a distanza di tutti i 300 bambini Saharawi celiaci diagnosticati, in modo da permettere loro di alimentarsi in modo corretto, con frutta e verdura e altri alimenti che non contengono glutine.
L’adozione a distanza comporta un impegno economico di soli 186 euro all’anno e può essere sottoscritta anche da più persone: amici, colleghi di lavoro, una classe scolastica. Chi aderirà potrà mettersi direttamente in contatto con il bambino adottato, del quale saranno fornite foto ed indirizzo.


Ulteriori notizie sulla campagna di adozione si trovano sul sito dell’Aic www.celiachia.it, dove sono disponibili i moduli per l’adesione al progetto.
L’iniziativa è riportata anche nel sito di Claudia Koll: www.claudiakoll.it.

Referenti: Roberta Castellani, Aic Empoli, tel. 0571 591091


Associazione Livornese di solidarietà con il popolo Saharawi, tel.fax 0586 579202, saharawi@interfree.it

 

 

 

 

 

 

 

2004-05-24_bg_a.jpg (18073 byte)Claudia Koll e il VIS premiati al Mayfest dell’Opera salesiana di Caserta

Martedì 25 maggio al Teatro Don Bosco di Caserta nell’ambito della Settima Edizione del Mayfest si terrà “Abito il mondo”, una manifestazione culturale rivolta alle scuole medie inferiori e superiori promossa dalla Casa Salesiana di Caserta che si svolgerà dal 22 al 30 maggio, Claudia Koll, testimone del VIS, riceverà il “Premio della Pace”.

Nella stessa serata al VIS verrà consegnato un Premio Speciale per l’impegno che da quasi vent’anni l’ONG attua in oltre 30 Paesi del Sud del mondo, realizzando, secondo il carisma di Don Bosco, progetti di sviluppo educativi e formativi. In particolare si sottolinea la realizzazione dei Centri professionali organizzati a Tirana e Scutari in Albania e a Pristina in Kosovo, missioni che fanno parte dell’Ispettoria Salesiana Meridionale.

Con questa edizione del Mayfest abbiamo voluto offrire ai ragazzi una visione approfondita e consapevole delle minoranze, storiche e recenti, insediatesi in Terra di Lavoro. – Spiega il direttore dell’Opera don Emilio Laterza – Far comprendere che l’obiettivo della pacifica convivenza può essere raggiunto con un’educazione aperta alla diversità ossia di carattere interculturale, capace comunque di porre in primo piano i diritti umani”.

In un momento come questo, in cui molti popoli soffrono a causa dei conflitti, della fame, della sete e per gravi malattie, tutti gli strumenti educativi possono incidere positivamente sulla sensibilità delle persone, soprattutto dei giovani e trasmettere quei valori indispensabili per costruire la Pace per tutti gli uomini della Terra. – Ha dichiarato Claudia Koll – È importante che si organizzino eventi come il Mayfest perché diffondono un messaggio di apertura ed integrazione con un mondo diverso dal nostro ricordando le parole di Papa Paolo VI – La pace non si gode, si crea. La pace non è un livello ormai raggiunto è un livello superiore, a cui sempre tutti e ciascuno dobbiamo aspirare.” 

  Un libro e un’attrice

 

Una folla incontenibile ha assiepato l’11 maggio l’Auditorium Giovanni Paolo II del Seminario Arcivescovile per la presentazione del mio ultimo libro “Il cammino della speranza: itinerario ecclesiale tra testimonianza e profezia” e la testimonianza della notissima attrice Claudia Koll. La recente pubblicazione, con la prefazione del cardinale Renato Raffaele Martino, raccoglie gli atti che hanno condotto la Chiesa beneventana attraverso un intenso itinerario culturale-spirituale-pastorale sulle orme dei grandi testimoni della speranza in terra sannita: il protovescovo San Gennaro, l’evangelizzatore della Polonia San Benedetto da Benevento ed il frate delle stimmate San Pio da Pietrelcina.

La storia dimostra che la Chiesa di Benevento può essere giustamente definita la città della testimonianza per il martirio cruento di alcuni suoi figli (Gennaro a 1700 anni dal martirio e Benedetto a 1000 anni dal martirio) e quello incruento di Francesco Forgiane che ha versato goccia a goccia tutto il suo sangue immolandosi sull’altare della volontà di Dio realizzata in ogni situazione. Il volume raccoglie gli interventi di relatori illustri che oltre ad essere grandi maestri sono insieme formidabili testimoni: Oreste Benzi, Pierino Galeone, Zenon Grocholewski, Sabino Palumbieri, la comunità di Nomadelfia, Luigi Renzo, Lorenzo Saraceno, Mario Pedicini, Angelo Montonati, i grandi cantori della devozione alla Madonna in terra sannita, gli esperti della storia-tradizione-culto-arte riguardanti San Gennaro, i testimoni dell’amore (Giovanni Paolo II) e della verità (Benedetto XVI), Annibale Pizzi, Angelo Comastri, Renato Martino e Claudia Koll. Una ricchezza di contenuti e messaggi da non disperdere dopo tanto lavoro.

Nella prefazione il card. Martino afferma: “Sono convinto che l’Occidente soffra di una grave crisi culturale e che questa crisi rischi di  toccare, se non la dottrina, la predicazione della Chiesa cattolica. E poiché, né per laici né per credenti, c’è Occidente senza cristianesimo, ritengo che il cristianesimo contribuisca in maniera decisiva a curare la sofferenza dell’Occidente. La Chiesa non deve temere scelte forti e decisive. Il timore delle scelte può indurre i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio affievolire la fede, indulgere al dialogo a qualunque costo o abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto. Ma il cristiano debole, come il pensatore debole, alla fine, diventa un cristiano arrendevole”.

Dopo la presentazione del libro la testimonianza dell’attrice Claudia Koll ha letteralmente catturato l’attenzione dei presenti e soprattutto dei tantissimi giovani intervenuti. La Koll con linguaggio pacato, umile, semplice e convincente ha raccontato la sua storia personale e l’intensa attività artistica nel mondo del teatro, del cinema e della televisione.

Una storia travagliata e confusa fatta di fragilità, vizi e insoddisfazioni, fino alla ricerca di un Dio smarrito lungo i sentieri della superficialità. Il desiderio di un serio cammino di conversione e l’approdo felice alla Bibbia, al Rosario, alla Divina Misericordia, all’Eucaristia quotidiana ed il bisogno urgente di servire Cristo presente nei poveri e nei sofferenti, soprattutto in Africa. Un intenso itinerario di preghiera e carità che diviene ora testimonianza al servizio dell’evangelizzazione.

Tra i tanti avvenimenti, il più toccante, il ricordo della nonna non vedente che con la sua fede semplice e convinta diviene testimone di luce e di speranza per la piccola Claudia che anche nel buio della notte rimane legata alla nonna attraverso un tenue filo di lana che unisce i due polsi. La delicatezza di una presenza che ama senza imporsi.

(“Benevento — La libera voce del Sannio” n.10/ del 26/5/2006)  

Nella prefazione il card. Martino afferma: “Sono convinto che l’Occidente soffra di una grave crisi culturale e che questa crisi rischi di  toccare, se non la dottrina, la predicazione della Chiesa cattolica. E poiché, né per laici né per credenti, c’è Occidente senza cristianesimo, ritengo che il cristianesimo contribuisca in maniera decisiva a curare la sofferenza dell’Occidente. La Chiesa non deve temere scelte forti e decisive. Il timore delle scelte può indurre i cristiani a pensare che, se il cristianesimo comporta oneri gravosi, allora è meglio affievolire la fede, indulgere al dialogo a qualunque costo o abbassare la voce piuttosto che rischiare un conflitto. Ma il cristiano debole, come il pensatore debole, alla fine, diventa un cristiano arrendevole”.

Dopo la presentazione del libro la testimonianza dell’attrice Claudia Koll ha letteralmente catturato l’attenzione dei presenti e soprattutto dei tantissimi giovani intervenuti. La Koll con linguaggio pacato, umile, semplice e convincente ha raccontato la sua storia personale e l’intensa attività artistica nel mondo del teatro, del cinema e della televisione.

Una storia travagliata e confusa fatta di fragilità, vizi e insoddisfazioni, fino alla ricerca di un Dio smarrito lungo i sentieri della superficialità. Il desiderio di un serio cammino di conversione e l’approdo felice alla Bibbia, al Rosario, alla Divina Misericordia, all’Eucaristia quotidiana ed il bisogno urgente di servire Cristo presente nei poveri e nei sofferenti, soprattutto in Africa. Un intenso itinerario di preghiera e carità che diviene ora testimonianza al servizio dell’evangelizzazione.

Tra i tanti avvenimenti, il più toccante, il ricordo della nonna non vedente che con la sua fede semplice e convinta diviene testimone di luce e di speranza per la piccola Claudia che anche nel buio della notte rimane legata alla nonna attraverso un tenue filo di lana che unisce i due polsi. La delicatezza di una presenza che ama senza imporsi.

(“Benevento — La libera voce del Sannio” n.10/ del 26/5/2006) 

 

Claudia Koll

L’attrice, da tempo coinvolta in iniziative di volontariato e solidarietà, è da qualche mese testimonial del VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo), un Organismo Non Governativo, senza scopo di lucro, che affianca i Salesiani di Don Bosco e che opera nei paesi poveri del Sud del mondo.

Attualmente è impegnata nella campagna “Cibo per l’Etiopia”. Oggi l’Etiopia sta morendo di fame a causa della più grave e devastante carestia, che ha colpito il Paese.

Il 26 novembre Claudia Koll è andata in Etiopia, con il presidente del Vis Antonio Raimondi, per portare i primi aiuti. Un viaggio coraggioso di 7 giorni che ha toccato Addis Abeba, Dilla e Zway. Il toccante diario del viaggio sta uscendo a puntate sul settimanale Gente.
E’ importante considerare che anche un piccolo aiuto è vitale perché, per esempio, un quintale di biscotti multivitaminici costa solo 57 euro e un biscotto equivale a un pasto di un bambino.

www.claudiakoll.it

www.volint.it

 

“Cibo per l’Etiopia” call center 199445588

Claudia Colacione (Koll) nasce a Roma nel 1964. Ha il suo primo ruolo importante nel film erotico di Tinto Brass “Così fan tutte” del 1992. Da anni alterna le esperienze teatrali (“Uomini sull’orlo di una crisi di nervi”, “Alle volte basta un niente”, “La professione della Signora Warren”, “Ninotchka”). a quelle televisive (“Cuore di Ultrà” ,”Il Giovane Mussolini”, “Linda e il Brigadiere”, “Valeria Medico Legale”). Appassionata di tango, è anche interprete dello spettacolo teatrale Teatro Fantastico di Buenos Aires.

 

Foto Claudia Koll: 7 settembre 2006 a Maria Ausiliatrice S. Cataldo

seguito foto:

http://www.maxso.135.it/ 

 COME MAI ?

 

Ho incontrato il Signore in un momento drammatico della mia vita, in cui nessun uomo avrebbe potuto aiutarmi; solo il Signore, che scruta negli abissi del cuore, poteva farlo.

Ho gridato, e Lui mi ha risposto entrando nel mio cuore con una grande carezza d’amore; ha sanato alcune ferite e ha perdonato alcuni miei peccati; mi ha rinnovata e mi ha messa al servizio della Sua vigna.

 

 

 

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CARLO MARIA MARTINI: FELICE DI ESSERE ANCORA PASTORE – Intervista di Giuseppe Rampa

Martini  Carlo Maria guarda lontano

FELICE DI ESSERE ANCORA PASTORE

Intervista esclusiva al card. Martini

di Giuseppe Grampa

A 25 anni dalla consacrazione episcopale, l’arcivescovo emerito ricorda gli anni del suo magistero milanese: il terrorismo e Tangentopoli, ma anche la “fame” della Parola da parte dei giovani e l’attenzione ai non credenti.

«Sento di avere il mio gregge come prima, perché ogni giorno prego a lungo per i preti, i laici, le parrocchie, le iniziative diocesane. Mi sento ancora pastore solo che è cambiato il modo di esserlo: adesso il mio compito, importante, è quello dell’intercessione».

Quando non è a Gerusalemme, per quattro mesi l’anno il cardinal Martini vive a Galloro, cittadina sui Colli a sud di Roma, nella casa dei Padri Gesuiti. Qui lo incontro nel suo studio tappezzato di libri, sotto lo sguardo di una statua della Madonnina del Duomo di Milano. Dalle finestre, nei giorni limpidi si vede il mare.

La nostra conversazione inizia con il ricordo del giorno dell’Epifania, giorno della sua consacrazione episcopale, 25 anni fa…

“Di quel giorno ho un ricordo un po’ vago perché tante erano le emozioni. Ricordo di esser stato invaso da una grande esperienza dello Spirito, fonte di gioia e fiducia. Ricordo la preghiera prostrato a terra e l’invocazione dello Spirito e l’omelia del Papa Giovanni Paolo II: l’episcopato come sacramento della strada. Allora non capivo bene, poi l’ho compreso come impegno a percorrere le strade degli uomini, ascoltando e portando la fede e la speranza che è in noi”.

Nei primi tempi a Milano lei ha davvero percorso le strade della città…

Sì, avrei voluto una maggiore libertà di manovra nell’andare liberamente per le strade, nei negozi, a fare gli acquisti, visitare i miei preti in casa.  Poi vidi che non era possibile, perché ogni mio movimento doveva esser previsto… Il ricordo che mi è rimasto fin dall’inizio è quello di un grande desiderio della gente di vedere, incontrare il vescovo. E quindi da parte mio lo sforzo di rendermi il più possibile presente. Per questo ho dedicato molto tempo alla visita pastorale, percorrendo una volta l’intera diocesi e una seconda volta una buona metà. Ma in certi luoghi sono tornato spesso. Il prevosto di Sesto San Giovanni ha contato circa 50 mie visite in quella città.

Fin dai suoi primi giorni a Milano si è confrontato con il terrorismo…


Il giorno dopo il mio ingresso, era l’11 febbraio 1980, mi recai nella chiesa della Madonna di Lourdes e incontrai centinaia di malati. Alcuni giorni dopo, mentre ero in riunione, ricevetti la notizia dell’assassinio in Università Statale del giudice Galli. Decisi di recarmi subito e mi inginocchiai in quel corridoio dove giaceva a terra il corpo coperto da un lenzuolo. Fu il primo impatto diretto. Poi, purtroppo, l’esperienza si è ripetuta. Ricordo l’assassinio di Walter Tobagi.

Ricordo il clima di paura e di incertezza perché chiunque poteva esser colpito. Quello che apprezzai di Milano in quei giorni fu il coraggio, la resistenza civile, la voglia di non cedere. Di quegli anni ricordo un episodio che allora fece molto scalpore: la consegna al vescovo delle armi da parte dei terroristi. Quell’anno, per Natale avevo visitato i carcerati a San Vittore, anche alcuni dei cosiddetti irriducibili. Uno di loro mi chiese di battezzare il suo bambino che era nato in carcere in circostanze eccezionali. Dissi subito di sì, contro il parere di chi mi stava vicino e credo che quel gesto fu per loro molto significativo. Poco dopo numerose armi vennero consegnate in arcivescovado. Da allora l’attività dei terroristi si affievolì fino a ridursi a nulla.


Nei suoi anni Milano ha cambiato nome: è diventata Tangentopoli…


Furono anni molto difficili soprattutto per i casi di suicidio in carcere. Ricordo che quando fu arrestato Mario Chiesa ero in Terra Santa e dissi: “Si è aperto un tombino, ora si troverà una fogna”. Non avevo nessuna prova diretta di questa rete di corruzione, ma c’erano nell’aria segnali inquietanti. Fu un momento duro sia per la corruzione sia per certe forme di reazione alla corruzione. Parlando ai magistrati ricordo d’essermi chiesto se la reazione fosse stata sempre nei limiti della legge.

Quegli anni hanno conosciuto anche una singolare fame della Parola di Dio da parte dei giovani…Ricordo che un gruppo di giovani di Azione cattolica mi chiese di spiegare loro come pregare partendo dalla Scrittura. Proposi loro di ritrovarci in Duomo e io avrei risposto alla loro domanda. La prima sera scesi in Duomo con molto timore perché pensavo di trovare cento persone. Erano molte di più. La seconda sera, pensavo, saranno la metà. E invece erano il doppio e così crebbe il numero. Ogni volta che scendevo in Duomo non osavo guardare perché pensavo fosse vuoto, poi mi accorgevo che era pieno e prendevo coraggio. Imparai a capire quanto i giovani sono capaci di pregare e fare silenzio.


Nel suo magistero episcopale lei ha privilegiato l’ascolto della Parola rispetto alle prescrizioni. Il vescovo deve essere prescrittivo?

Certamente, ma il suo primo compito è quello indicato da san Tommaso là dove parla dell’obbedienza del Figlio al Padre nella Passione. Non comandò al Figlio di andare alla Passione, ma gliene infuse la grazia. Così il vescovo, prima di comandare deve ricolmare di Spirito Santo e dare le motivazioni profonde così che l’obbedienza diventi spontanea e gioiosa.

Il suo episcopato è stato caratterizzato anche da una singolare attenzione ai non credenti. Pensiamo alla Cattedra dei non credenti…

Mi sono sempre chiesto dove sono quelli che non vedo, quelli che non vengono in chiesa e ho cercato di arrivare a loro sia attraverso la Cattedra, ma anche con tanti scritti sulla stampa laica così da far sentire la voce del vescovo anche a coloro che non credono o non praticano. E mi ha stupito il fatto che tra le molte lettere che ho ricevuto lasciando la diocesi molte erano di non credenti o non praticanti che riconoscevano un qualche legame spirituale con il mio ministero. Questo mi ha molto confortato.

Lei non è stato certo un vescovo “notaio” che si limita a prendere atto delle più diverse esperienze che si ritengono suscitate dalla libertà dello Spirito. Lei ha proposto cammini precisi per la Chiesa diocesana non sempre recepiti dai diversi movimenti presenti in diocesi…

Non ho per nulla una concezione “notarile” del servizio episcopale. Mi pare che il vescovo deve anzitutto guardare Gesù e in Lui la Chiesa e da qui trarre il discernimento per la sua Chiesa. I cammini particolari dei diversi movimenti sono anch’essi sottoposti allo sguardo complessivo e unificatore del vescovo. Per me, vescovo, è sempre stato importante questo sguardo di sintesi secondo lo spirito del Vangelo giudicando ogni cosa alla luce del Discorso della Montagna.

Si ripete spesso, come uno stereotipo, che lei è persona schiva e riservata. Eppure ha saputo comunicare con efficacia…


E’ vero che sono persona schiva e riservata e vivo volentieri anche nella solitudine. Però quando c’è da incontrare la gente mi piace farlo. Forse il dono di comunicazione che mi viene attribuito è dovuto al fatto che non mi reputo molto intelligente, sono un po’ lento nel comprendere e faccio fatica. E quando parlo ad altri comunico loro il mio cammino di intuizione. Chi è troppo intelligente lancia le sue idee sulla gente come se le avessero già capite. Chi fa personalmente fatica sa comunicare agli altri questa fatica e quindi forse si spiega meglio.

Anche per lei, come per il beato cardinal Ferrari, fare il vescovo è stato «abisso di sofferenze»?


Ci sono certamente sofferenze soprattutto quando non si sa camminare secondo il Vangelo, ma sono stato molto aiutato, dai miei collaboratori e dalla gente. Mi sono sempre sentito un vescovo educato dal suo popolo. E’ stato un cammino arduo, in salita, ma come una bella salita in montagna dove si godono, con la fatica, grandi orizzonti.

Come vive adesso il suo essere vescovo “senza gregge”?

Sento di avere il mio gregge come prima, perché ogni giorno prego a lungo per i preti, i laici, le parrocchie, le iniziative diocesane. Mi sento ancora pastore solo che è cambiato il modo di esserlo: adesso il mio compito, importante, è quello dell’intercessione.

Martini abbraccia il successore Tettamanzi


«RICORDATEVI DEI VOSTRI CAPI…»

Lettera alla Diocesi

Nel 25° dell’Ordinazione episcopale e dell’Ingresso in Diocesi del cardinale Carlo Maria Martini e nel 50° dell’ingresso in Diocesi del cardinale Giovanni Battista Montini – Paolo VI

Card. Dionigi Tettamanzi

Carissimi presbiteri, diaconi, consacrati e fedeli laici della nostra Chiesa ambrosiana,

venticinque anni fa, il 29 dicembre 1979, l’indimenticato cardinale Giovanni Colombo così annunciava la nomina del suo successore: «Sedici anni or sono, Paolo VI, il nostro papa, volle affidarmi la cura di questa Chiesa, che fu sua, da lui appassionatamente amata… Un altro pastore adesso subentra nella stessa fatica. Gli uomini si succedono, ma “Gesù Cristo è lo stesso, ieri e oggi e nei secoli” (Ebr. 13, 8).

Chi è il vescovo che da questo momento attendiamo? Voglio essere il primo ad annunciarne il nome. Ce lo manda il papa Giovanni Paolo II e noi dal suo cuore lo riceviamo. È il Padre Carlo M. Martini, s.j., nato a Torino, il 15 febbraio 1927, rettore della Università Gregoriana. Riceverà l’ordinazione episcopale dalle mani del Santo Padre il 6 gennaio 1980, solennità dell’Epifania del Signore. Viene a noi col prestigio di una profonda cultura, specialmente biblica, e di una riconosciuta saggezza di governo».

Il venticinquesimo di episcopato del cardinale Carlo Maria Martini

Da quel momento, il nome dell’arcivescovo e poi cardinale Carlo Maria Martini – noto agli studiosi, ma sconosciuto ai più del popolo di Dio anche ambrosiano – divenne un nome familiare e il suo volto e la sua voce divennero “di casa” tra noi.

Ordinato vescovo nella Basilica di San Pietro il 6 gennaio 1980, dopo poco più di un mese, il 10 febbraio dello stesso anno, monsignor Martini fece il suo Ingresso nella nostra Diocesi. Da allora – come egli stesso ha scritto nel Messaggio per il giorno dell’Ingresso –, ricevendo l’Ordine episcopale, «la grazia del sacramento ha legato indissolubilmente la [sua] esistenza alla predicazione del Vangelo e al servizio della Chiesa, specialmente di questa Chiesa particolare» che è in Milano.

Così è stato davvero: dei suoi venticinque anni di episcopato, più di ventidue sono trascorsi interamente tra noi, come nostro pastore e mio amatissimo predecessore, e anche ora, nel volontario e orante ritiro di Gerusalemme, egli continua ad essere, a pieno titolo, figlio e padre della nostra Chiesa Ambrosiana, di cui è “Arcivescovo emerito”.

Con vero affetto di figli, in questo giubileo del suo episcopato, al carissimo cardinale Martini vogliamo esprimere tutta la nostra commossa e sincera gratitudine.

Lo ringraziamo per il servizio intelligente, appassionato e generoso vissuto tra noi; per averci aiutato a crescere come Chiesa degli Apostoli, come comunità cristiana tutta centrata sull’Eucaristia, chiamata a “ritornare a Dio”, a riconoscerne e a viverne il primato, a lasciarsi animare da una profonda dimensione contemplativa, totalmente dipendente dalla Parola del Signore, sollecitata e interiormente spronata dall’urgenza della missione, aperta alle esigenti e universali dimensioni della carità, in dialogo con il mondo e con tutti gli uomini di buona volontà.

Lo ringraziamo anche – e non meno! – per il legame che tuttora vive con la nostra Chiesa: un legame invisibile, ma reale e quanto mai forte e fedele, come è il vincolo di quella preghiera di intercessione, che anche in questi giorni sta vivendo nella città santa di Gerusalemme. Su questa sua preghiera, che ce lo fa sentire quanto mai vicino, noi tutti – e io per primo – contiamo molto, certi che, accompagnati da questa amorevole intercessione, potremo più speditamente camminare sulle strade del mondo, come pellegrini nella storia e testimoni di Gesù e del suo Regno, partecipi dell’unica missione della Chiesa.

Su questa stessa strada, il cardinale Martini è stato nostra guida e nostro pastore, fedele al mandato del Papa che, nell’omelia dell’Ordinazione episcopale, aveva presentato l’Episcopato come «il sacramento della strada… il sacramento delle numerose strade, che percorre la Chiesa, seguendo la stella di Betlemme, insieme con ogni uomo». È lo stesso Giovanni Paolo II che così lo ha mandato a Milano, tra noi, venticinque anni fa, quale «nuovo testimone della stella, di quella stella che conduce infallibilmente a Betlemme», per intraprendere insieme con tanti uomini la strada della vita, «per far loro vedere la stella, che in qualche parte ha cessato di splendere, in qualche parte si è smarrita… per mostrarla ad essi di nuovo!».

Il cinquantesimo dell’ingresso a Milano dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini

Era ed è questa la strada percorsa con intrepido ardore apostolico anche dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, che proprio cinquant’anni fa, il 6 gennaio 1955, faceva il suo solenne Ingresso in Diocesi, mandato a noi dalla benevolenza del papa Pio XII.

Giungendo da Roma ed entrando nel territorio della Diocesi a Melegnano, il 4 gennaio di quell’anno, monsignor Montini volle iniziare pubblicamente il suo personale incontro con la comunità che il Signore gli affidava con il gesto umile e grande del bacio della terra.

In questa terra – erede di un immenso patrimonio spirituale, irrorata dal sangue dei martiri e arricchita nel corso dei secoli dalla testimonianza dei suoi santi e pastori e di tanti uomini e donne dalla fede limpida e operosa – egli venne e visse animato da una profonda e instancabile passione: quella di essere annunciatore e testimone del Vangelo, perché ogni uomo e donna riconoscesse in Dio il volto del Padre e facesse della fede in Cristo il fortunato e indiscusso criterio orientatore di tutta la propria esistenza.

Così, infatti, – dopo aver attraversato la Città in macchina scoperta «in piedi, sotto alla pioggia, per vedere bene in viso tutti, per essere visto bene da tutti, per indicare, con gesto semplice, la sua spirituale dedizione a tutti», come si legge sulla cronaca del “Corriere della Sera” del giorno seguente – si era presentato ai milanesi il nuovo Arcivescovo in un Duomo gremito all’inverosimile: «Io non ho altro titolo al vostro interesse e alla vostra confidenza che il mandato della Chiesa che fra voi mi conduce, e di questo solo, su cui la mia fragilità e la mia debolezza trovano sostegno e riparo, io mi varrò. Apostolo e Vescovo io sono; Pastore e padre, maestro e ministro del Vangelo; non altra è la mia funzione fra voi; non diverso sia il giudizio che la vostra pietà mi riservi».

Così – per più di otto anni come nostro Arcivescovo a Milano e poi, per poco più di sedici anni a Roma come Pastore universale – ha vissuto Giovanni Battista Montini – Paolo VI. Unico – sono sempre sue espressioni, prese dal Discorso di Ingresso in Diocesi – è stato «l’oggetto delle sue fatiche pastorali, amministrative, culturali e sociali; quello di difendere e di diffondere la religione cattolica; quello cioè di fare salire da questa terra avventurata la lode e l’ossequio a Dio, e da Dio far discendere i doni che salvano le anime e la società che li riceve».

Da autentico innamorato di Cristo, appassionato “costruttore” di Chiesa, indomito amante dell’uomo e del mondo, il cardinale Montini si è fatto compagno di strada per ciascuno di noi.

A tutti ha indicato Cristo, come colui che è tutto per noi e che ci è necessario. Con la sua parola, la sua vita, la sua testimonianza, ci ha insegnato ad amare la Chiesa. Con la sua presenza e la sua disponibilità all’ascolto e all’accoglienza, con il dono di sé senza riserve, si è fatto prossimo ad ogni uomo: ai piccoli, ai deboli, ai sofferenti, agli ultimi, alle vittime dell’odio e dell’ingiustizia, come pure ai responsabili del progresso umano e della convivenza sociale, agli uomini della cultura e a quelli del lavoro, ai credenti come anche a coloro che sono in ricerca e a quanti sono indifferenti o lontani. A questi ultimi, fin dal giorno del suo ingresso, così egli si rivolse, con «un solo sentimento, un solo proposito… di paterno amore»: «Venite; ancora le braccia di Cristo sono a voi aperte; non temete».

Queste stesse parole sono anche per ciascuno di noi e ci indicano di nuovo la strada. È la strada di Cristo che si è fatto nostro fratello, che prendendo carne umana dal grembo della vergine Maria si è per sempre imparentato con noi, si è fatto nostro cibo di vita eterna, si è lasciato inchiodare sulla Croce per garantirci che il suo amore per noi non finirà mai.

Momenti per “fare memoria” e crescere in una fede missionaria

Lungo questa strada, risuona benefica per noi l’esortazione della Lettera agli Ebrei: «Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (13, 7-8).

Tra questi “capi” ci sono i miei due amatissimi predecessori: il cardinale Montini, che è stato mio padre nel sacerdozio, e il cardinale Martini, mio padre nell’episcopato.

Noi tutti vogliamo ricordarli, con vero affetto filiale, nelle celebrazioni eucaristiche della prossima solennità dell’Epifania, cinquantesimo anniversario dell’Ingresso in Diocesi dell’arcivescovo Montini e venticinquesimo anniversario dell’Ordinazione episcopale del cardinale Martini. Per questo, chiedo che, nella preghiera dei fedeli di tutte le Messe di giovedì 6 gennaio 2005, vengano inserite le due invocazioni riportate in calce a questa mia lettera.

Del cinquantesimo dell’Ingresso di monsignor Montini in Diocesi io stesso farò memoria durante l’omelia del Pontificale che celebrerò in Duomo alle ore 11 della prossima solennità dell’Epifania.

Per il venticinquesimo di episcopato del cardinale Martini e del suo Ingresso in Diocesi, avremmo tanto voluto riunirci intorno a lui in Duomo nello stesso giorno dell’Epifania. Ma il cardinale Martini, che in questi giorni è a Gerusalemme, da me invitato, ha manifestato il desiderio che la celebrazione del suo giubileo episcopale venisse rimandata di qualche tempo. Essa avverrà nel prossimo mese di maggio in due momenti distinti, ai quali fin d’ora invito tutti a partecipare numerosi, come sono certo farete.

Il primo momento è domenica 8 maggio 2005, solennità dell’Ascensione del Signore, alle ore 19, nel Duomo di Milano: sarà lo stesso cardinale Carlo Maria Martini a presiedere una solenne Concelebrazione eucaristica per tutta la comunità diocesana, alla quale – secondo le indicazioni che verranno date a tempo opportuno – parteciperanno rappresentanze di tutte le parrocchie e delle diverse realtà ecclesiali della Diocesi.

Il secondo momento, particolarmente riservato ai Presbiteri e ai Diaconi, si svolgerà con una celebrazione, sempre presieduta dal cardinale Martini, alle ore 10.30 di martedì 10 maggio 2005, presso il Seminario di Venegono Inferiore, in occasione della tradizionale “Festa dei Fiori”.

Ciascuno di questi momenti è per “fare memoria”, con riconoscente gratitudine, del servizio svolto tra noi da questi nostri amati Vescovi e per imitarne la fede.

È questo che il Signore attende da noi. Il nostro, infatti, è un tempo, nel quale l’evangelizzazione e la fede sono il “caso serio” della Chiesa: lo sono per la nostra comunità ecclesiale nel suo insieme; lo sono per ciascuno di noi personalmente. È, dunque, un tempo nel quale – facendo tesoro anche degli insegnamenti e della testimonianza degli Arcivescovi che mi hanno preceduto su questa Cattedra di sant’Ambrogio e di san Carlo – siamo chiamati a rendere più matura la nostra fede e a rinnovare il nostro slancio missionario.

+ Dionigi card. Tettamanzi

Arcivescovo di Milano

Milano, 29 dicembre 2004.

Invocazioni per la Preghiera dei fedeli nella Solennità dell’Epifania 2005

Per il cardinale Carlo Maria Martini, che oggi ricorda il venticinquesimo anniversario di Ordinazione episcopale: il Signore continui ad accompagnarlo e a sostenerlo nel suo cammino e a noi, grati per il suo ministero nella nostra Chiesa, doni di accogliere il suo ripetuto invito a “ripartire dalla Parola”, così da «servire con amore e con gioia il nostro tempo “prendendo il largo” verso i mari aperti della storia» e da progredire, tutti insieme, nella via della santità, preghiamo.

Perché gli insegnamenti, gli scritti e la testimonianza del cardinale Giovanni Battista Montini – Paolo VI continuino a nutrire e ad accompagnare la nostra Chiesa e a farla crescere nell’amore a Cristo e all’uomo e ci inducano tutti a costruire la “civiltà dell’amore” e perché alla nostra Chiesa Ambrosiana e alla Chiesa intera sia presto concessa la gioia di poterlo venerare come beato, preghiamo.

GIOVANNI PAOLO II

CONSACRA VESCOVO

PADRE CARLO MARIA MARTINI S.J.


gennaio 1980 Messa per l’ordinazione episcopale
di mons. Martini

1. « Offrirono i doni…».

Con questo gesto i tre re magi dall’oriente portano a compimento lo scopo del loro viaggio. Esso li ha condotti per le vie di quelle terre verso le quali anche gli avvenimenti contemporanei spesso richiamano la nostra attenzione. La guida su queste vie per i tre re magi fu quella misteriosa stella «che avevano visto nel suo sorgere» (Mt 2,9), e che «li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino» (Mt 2,9). Proprio a questo bambino andarono quegli uomini insoliti, chiamati fuori dalla cerchia del popolo eletto verso le vie della storia di questo popolo.

La storia d’Israele aveva dato loro l’ordine di fermarsi a Gerusalemme e di porre – dinanzi a Erode – la domanda: «Dov’è il re dei Giudei che è nato»? (Mt 2,2). Infatti le vie della storia d’Israele erano state tracciate da Dio,e perciò era necessario cercarle nei libri dei profeti: di coloro cioè che a nome di Dio avevano parlato al popolo della sua particolare vocazione. E la vocazione del popolo dell’alleanza fu proprio colui al quale conduceva la via dei re magi dall’oriente.

Appena essi ebbero posto quella domanda dinanzi a Erode, egli non ebbe nessun dubbio di chi – e di quale re – si trattasse, perché, come leggiamo «riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia» (Mt 2,4).

Così dunque la via dei re magi conduce al messia, a colui che il Padre «ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10,36). La loro via è anche la via dello Spirito. È soprattutto la via nello Spirito Santo. Percorrendo questa via – non tanto sulle strade delle regioni del medio oriente, quanto piuttosto attraverso i misteriosi cammini dell’anima – l’uomo è condotto dalla luce spirituale proveniente da Dio, raffigurata da quella stella, che seguivano i tre re magi.

I cammini dell’anima umana, che conducono verso Dio, fanno sì che l’uomo ritrovi in sé un tesoro interiore. Così leggiamo anche dei tre re magi, che giunti a Betlemme «aprirono i loro scrigni» (Mt 2,11). L’uomo prende coscienza di quali enormi doni di natura e di grazia Dio lo abbia colmato, ed allora nasce in lui il bisogno di offrirsi, di restituire a Dio ciò che ha ricevuto, di farne offerta come segno della elargizione divina. Questo dono assume una triplice forma – così come nelle mani dei tre re magi: «Aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra» (Mt 2,11).

2. L’episcopato, che oggi, venerati e amatissimi fratelli, riceverete dalle mie mani, è un sacramento in cui si deve manifestare in modo particolare il dono.

L’episcopato infatti è la pienezza del sacramento dell’ordine, mediante il quale la Chiesa apre sempre davanti a Dio il suo più grande tesoro – e da questo tesoro offre a lui i doni di tutto il Popolo di Dio.

Il più grande tesoro della Chiesa è il suo sposo: Cristo. Sia il Cristo deposto sul fieno in una mangiatoia, come pure il Cristo che muore sulla croce. Egli è un tesoro inesauribile. La Chiesa continuamente stende la mano a questo tesoro per attingere ad esso. E attingendo non lo diminuisce, ma lo aumenta.

Tali sono i principi della economia divina. Stende la mano, dunque, la Chiesa al tesoro della natività e della crocifissione, al tesoro della incarnazione e della redenzione. Ed attingendo ad esso, non impoverisce quel tesoro ma lo moltiplica.

Il Vescovo è l’amministratore, nello stesso tempo, di quell’attingere e di quel moltiplicare.

«E’ amministratore dei misteri di Dio» (1Cor 4,1). Non è soltanto un mago che cammina per le strade impraticabili del mondo verso la soglia del mistero. E’ collocato nel suo stesso cuore. Il suo compito è di aprire questo mistero ed attingere ad esso. Più generosamente attinge, più grandemente moltiplica.

Ricordate, carissimi, che lo Spirito Santo vi costituisce oggi in mezzo alla Chiesa affinché, attingendo abbondantemente al tesoro della natività e della redenzione, lo moltiplichiate con la vostra vita e il vostro ministero.

3. Da questo tesoro si trae sempre oro, incenso e mirra. Di tale triplice dono deve rivestirsi la vostra vita, dato che siete chiamati per offrire a Dio in Cristo e nella Chiesa il vostro amore, la vostra preghiera e la vostra sofferenza.

Tuttavia, essendo voi costituiti in mezzo al Popolo di Dio come Pastori ed insieme come servi, il vostro dono personale deve crescere in questo popolo. Fecit eum Dominus crescere in plebem suam. La vostra vocazione è il dono di tutto il popolo.

Ognuno di voi deve rimanere il pastore ed il servo di quest’amore, della preghiera e della sofferenza, che si elevano da tutti i cuori a Dio in Cristo. Tali doni non debbono essere sprecati né andare perduti. Essi debbono invece trovare la strada per Betlemme come i doni nelle mani dei magi, che seguirono la stella dall’oriente.

Ogni Vescovo è l’amministratore del mistero e il servo del dono che si prepara incessantemente nei cuori umani. Questo dono proviene dalle esperienze della generazione alla quale il Vescovo stesso appartiene. Proviene dalla vita di centinaia, migliaia e milioni di uomini, suoi fratelli e sorelle. Egli stesso, il Vescovo, è il servo del dono. Colui che custodisce e che moltiplica.

Dovete penetrare profondamente in tutta la complessità della vita degli uomini contemporanei, affinché ciò che la costituisce non si scomponga nelle loro opere, nei cuori, nelle relazioni sociali, nelle correnti di civilizzazione, ma ritrovi costantemente il suo senso come dono. E’ Cristo stesso Pastore e Vescovo delle nostre anime, di tutto ciò che è umano. che vuole fare di noi un sacrificio perenne gradito a Dio (cf. Prex Eucharistica III ), un dono al Padre.

Il Vescovo è colui che custodisce il dono, è colui che risveglia il dono nei cuori, nelle coscienze, nelle esperienze difficili della sua epoca, nelle sue aspirazioni e nei suoi smarrimenti, nella sua civilizzazione. nell’economia e nella cultura.

4. Oggi vengono a Betlemme i tre magi dall’oriente. Giungono per la strada della fede. Dell’episcopato non si può forse dire che esso è un sacramento della strada? Voi ricevete questo sacramento per trovarvi sulla strada di tanti uomini, ai quali vi manda il Signore; per intraprendere insieme con loro questa strada, camminando, come i magi, dietro la stella; e quanto spesso per fare loro vedere la stella, che in qualche parte ha cessato di splendere, in qualche parte si è smarrita… per mostrarla ad essi di nuovo!

Entrate anche voi, cari fratelli, su questa grande strada della Chiesa, che è tracciata dalla successione apostolica alle singole sedi vescovili.

E che cosa dire qui della meravigliosa, ricca successione alla sede di sant’Ambrogio, e poi di san Carlo a Milano? Essa risale, press’a poco, ai primi decenni del cristianesimo e abbonda in vescovi martiri… e, solo nel nostro secolo, ha dato alla Chiesa due papi: Pio XI e Paolo VI.

E’ qui presente il cardinale Giovanni Colombo, che ha ricevuto questa sede di Milano proprio dopo Paolo VI, l’allora cardinale Giovanni Battista Montini, per trasmetterla oggi, quando si affievoliscono le sue forze, al suo successore. Con gioia la Chiesa di Milano saluta questo successore, degno figlio di sant’Ignazio, stimato rettore del Biblicum e poi dell’Università Gregoriana a Roma.

Con gioia e fiducia la Chiesa di Milano saluta colui che deve essere il suo nuovo Vescovo e Pastore, il nuovo amministratore del dono, di cui ho parlato, e il nuovo testimone della stella, di quella stella che conduce infallibilmente a Betlemme. [...]

5. L’episcopato è il sacramento della strada. È il sacramento delle numerose strade, che percorre la Chiesa, seguendo la stella di Betlemme, insieme con ogni uomo.

Entrate su queste strade, venerati e cari fratelli, portate su di esse oro, incenso e mirra. Portateli con umiltà e con fiducia. Portateli con prodezza e con costanza. Mediante il vostro servizio si apra il tesoro inesauribile a nuovi uomini, a nuovi ambienti, a nuovi tempi, con l’ineffabile ricchezza del mistero che si è rivelato agli occhi dei tre magi, venuti dall’oriente, alla soglia della stalla di Betlemme.

ALZATI E VA’ A MILANO, LA GRANDE CITTÀ

Il primo giorno nei ricordi di mons. De Scalzi

di Erminio De Scalzi
Vescovo ausiliare e vicario episcopale Milano città

Ricordo come fosse ieri quel 10 febbraio del 1980. Era una giornata invernale, fredda, ma ricca di tanto calore e di sincera accoglienza. Fu un ingresso singolare: a piedi, dal Castello al Duomo, tra la gente, col Vangelo in mano.

A 25 anni di distanza l’icona di un vescovo che percorre la sua città con il Vangelo in mano resta fissa nella mente e nel cuore di ciascuno di noi e definisce, sopra ogni altra cosa, l’azione pastorale del cardinal Martini.

Don Giuseppe Dossetti, in quel giorno, scriveva all’amico padre Martini, divenuto arcivescovo di Milano, questo biglietto d’auguri: «Milano, ascolti da Lei il Vangelo, nient’altro che il Vangelo». Fu profeta. Il primo incontro con la città avvenne in Sant’Eustorgio. L’Arcivescovo vi arrivò in auto dopo alcuni giorni di ritiro spirituale a Rho nella Casa dei Padri Oblati. Fu una accoglienza semplice, ma molto affettuosa quella della gente del Quartiere Ticinese.


Il nuovo Arcivescovo, in un breve ed emozionato saluto, rispose rifacendosi al Libro degli Atti al cap. 28: «I cristiani appena avvertiti del nostro arrivo ci vennero incontro. Paolo, appena li vide, ringraziò il Signore e si sentì incoraggiato».


Pochi minuti dopo, in Duomo, nella sua prima omelia, aggiungerà: «Ora la mia vita è legata in maniera indissolubile a quella del generoso popolo ambrosiano, gente che lavora sodo e che dentro di sé ha una grande potenzialità di amore».


L’arrivo in piazza Castello fu salutato da tantissime persone, fra queste moltissimi giovani che hanno camminato con lui fino al Duomo. Tantissimi gli sguardi incuriositi, fissi sul nuovo Arcivescovo, sulla sua figura di uomo imponente e fine, raccolta in un mantello nero che lo avvolgeva tutto facendolo sembrare ancora più grande. Le cronache di allora parlano di decine di migliaia di milanesi accorsi a salutare il nuovo Arcivescovo.


Il cammino fu di meditazione e di preghiera. Nel sussidio preparato per l’occasione si leggeva: «La Chiesa di Milano, che accoglie il suo nuovo Arcivescovo monsignor Carlo Maria Martini, chiede a Dio di essere benedetta nella sua laboriosità, nella sua apertura alla sofferenza, nella sua volontà di costruire la pace».


Le tre soste di riflessione lungo il cammino anticipavano già alcune linee di fondo del suo ministero: l’attenzione alla città. A Milano che dà lavoro a tanta gente, anche di Paesi lontani, perché rispettosa dei diritti di tutti, non perda il suo volto umano e si sviluppi nella giustizia e nella fraternità; la vicinanza ad ogni sofferenza. L’invito era a uscire dal proprio egoismo per farsi prossimo a chi è povero, malato, disoccupato, carcerato, emarginato; la passione per la pace.

«Dobbiamo – diceva l’Arcivescovo – diventare tutti operatori di pace, ripercorrere la strada dell’amore e della fratellanza e contribuire alla ricostruzione di questa città». Queste ultime parole sembravano presagire l’esplosione dell’emergenza-terrorismo che, a pochi giorni dal suo ingresso, avrebbe portato l’Arcivescovo accanto a numerose vittime della violenza.


L’arrivo in piazza Duomo fu salutato da un fragoroso applauso. Poi tutto si fece più raccolto, più intimo, in quella prima Eucaristia celebrata dall’Arcivescovo. I milanesi si accorsero subito della serietà che il loro Arcivescovo avrebbe sempre annesso a ogni momento di preghiera.

Da quel giorno, infatti, l’Arcivescovo ci ha sempre educato a pregare, anche con il suo atteggiamento. Quella stessa sera ci fu un incontro, fuori programma, con i giovani. Chiamando a gran voce l’Arcivescovo, riuscirono a farlo apparire ad una finestra di piazza Fontana. Uno di loro gli regalò un paio di pantofole per riposarsi della camminata dell’ingresso.

La notte scese presto sulla città: il Duomo si illuminò come succede per le occasioni più solenni. I milanesi erano felici di avere un nuovo Arcivescovo così affabile, così umano. Anche l’Arcivescovo, quella sera, avrà avuto tante cose da confidare al Signore nel raccoglimento della sua preghiera.

Chi vi racconta queste cose era alla sua prima giornata di segretario personale dell’Arcivescovo. Anche lui aveva vissuto tante emozioni. Due mi avevano colpito: entrando in Milano, l’Arcivescovo mi aveva chiesto che gli mostrassi il carcere di San Vittore. Da lì volle partisse la sua prima visita pastorale: questa sua attenzione agli ultimi sarà una delle preoccupazioni pastorali che avrebbe accompagnato il suo ministero fra noi.


La seconda richiesta fu di chiamare al telefono, quella stessa sera, il cardinale Giovanni Colombo, lontano da Milano per un periodo di riposo. Non so cosa si siano detti, posso solo immaginarlo. In quel momento ebbi però chiara la percezione della finezza d’animo del nuovo Arcivescovo.

Quanto avvenne nei 22 anni successivi fu la conferma di quanto i milanesi avevano intuito già da quel primo incontro.

Grazie, Eminenza, non scorderemo mai!

UN VESCOVO MAI STANCO DI ASCOLTARE

La Parola di Dio e quella degli uomini in modo benevolo, paziente e misericordioso

Paolo Cortesi
già segretario del cardinal Martini

Stendere alcune impressioni “a caldo” dopo la visita del Cardinale nel decanato di Legnano, appena conclusa e che è stata anche l’ultima, non è facile. Questo aspetto del ministero del vescovo è il più importante: egli è coinvolto in vario modo, ma sempre totalmente nel contatto con la vita delle parrocchie, sta in mezzo alla sua gente: laici, sacerdoti; incontra varie realtà ecclesiali: consigli pastorali e degli affari economici, catechisti, educatori fino al momento culminante della visita che è la celebrazione dell’Eucaristia.

Nel desiderio di far fronte ai numerosi impegni, di non trascurare nessuno e essere sempre più il Pastore che cammina con il suo popolo, l’Arcivescovo ha cambiato in questi anni il modo di condurre la visita pastorale.

Come segretario dal 1983 al 1990 ho avuto il dono e l’incombenza di programmare e preparare la visita in centinaia di parrocchie completando 22 decanati. In quegli anni l’Arcivescovo presiedeva personalmente tutti gli incontri in ogni parrocchia.

Nell’esperienza vissuta però da me dall’altra parte delle “barricata”, non come, in certo qual modo, visitatore, ma da visitato, mi sono accorto del cambiamento quanto al tempo della sua presenza, ma non all’intensità e alla profondità del suo personale coinvolgimento.

Infatti fin dalla prima sera (9 novembre 2001), all’apertura della visita pastorale nell’incontro con tutti i consigli pastorali del decanato, ho subito percepito di essere davanti a un uomo che, mentre spiegava il senso e la modalità di preparazione della visita, fondandola con abbondanza di testi della Scrittura e proponendola, perciò, come un evento innanzitutto spirituale, manifestava una freschezza, una vivacità interiore, direi quasi un entusiasmo, come se fosse alla sua prima visita.

Mi sono accorto che egli ha saputo mantenere viva la fiamma interiore della gioiosa consapevolezza di compiere un servizio come risposta a una chiamata, di amare il Signore dedicandosi, senza risparmio, alla crescita del suo popolo.

Alcuni mesi dopo quel primo incontro ho visto in televisione l’intervista di Enzo Biagi all’Arcivescovo. Alla domanda del giornalista: «Cos’è la virtù più grande di un prete?», l’Arcivescovo rispondeva: «Per me, direi: è l’ascolto; l’ascolto della Parola di Dio, l’ascolto degli uomini, l’ascolto benevolo, paziente e misericordioso».

Credo di trovare proprio in queste parole, che rivelano un costante atteggiamento interiore, la sorgente di quella freschezza e vivacità. L’Arcivescovo è l’uomo che non si è mai stancato di ascoltare. L’ascolto è oggi la forma forse più richiesta di prossimità e quella più difficile da trovare. Ascoltare è accogliere in sé l’altro, la sua storia fatta di gioie e di croci. Ascoltare è calarsi senza preconcetti nelle situazioni per sapervi scorgere la mano e il disegno di Dio. Ascoltare è accostarsi con il cuore e con gli occhi di Dio, che sa vedere le ferite nascoste dei singoli e delle comunità, ma che nello stesso tempo le sa guarire e sa invitare a guardare avanti facendo crescere, senza scoraggiamenti, il bene, il positivo presente ovunque.

E’ questo l’ottimismo che nasce dall’ascolto della Parola di Dio a lungo studiata, meditata, pregata e che conduce e forma all’ascolto dell’uomo. Ottimismo che si è percepito presente nell’incontro, in modo particolare per quel che riguarda la mia comunità, con il consiglio pastorale, durante il quale l’Arcivescovo ha dato prova di saper cogliere il bene e stimolarlo, e tuttavia indicare anche mete ancora da raggiungere e ritardi da eliminare non nascondendo le difficoltà, rivelandosi così capace di cogliere prontamente e animare il vissuto di una comunità.

Sono certo che sia proprio da questo costante esercizio di sintesi tra ascolto di Dio e ascolto dell’uomo e delle urgenze di una comunità, che nascono quelle proposte e intuizioni spirituali e pastorali caratterizzanti il magistero dell’ Arcivescovo, come un continuo richiamo a camminare fiduciosi e a guidare la vita di una comunità su sentieri di santità.

L’Arcivescovo come maestro di vita interiore, che esorta alla santità, alla «misura alta della vita cristiana ordinaria» (ha usato le parole di Giovanni Paolo II nella Novo millennio ineunte), la gente l’ha percepito non solo durante l’omelia, ma direi soprattutto attraverso il suo modo di pregare, di celebrare, un modo che educa all’incontro con Dio e che introduce nella profondità del mistero. È ciò che deve fare ordinariamente un parroco in mezzo alla sua comunità. È ciò che l’Arcivescovo, come semplice parroco che passa di parrocchia in parrocchia, ha fatto nei molti, fecondi e non sempre facili anni del suo ministero a Milano.

Così tutti lo abbiamo sentito, accolto e amato. E proprio maestro di vita spirituale l’Arcivescovo si è rivelato ancora una volta nell’incontro con i sacerdoti concludendo la visita pastorale a Busto Garolfo. Commentando Giovanni 21, in modo particolare i versetti dal 13 al 23, siamo stati nuovamente invitati a camminare verso la santità, vista come meta da raggiungere non a forza di braccia, ma attraverso la purificazione che Dio opera anche mediante le difficoltà e talora le aridità del ministero.

In quel periodo ho lasciato la parrocchia per un altro incarico, e l’Arcivescovo mi ha detto: «Lasciamo insieme». Sì, lasciamo insieme. Ma ciò che egli mi ha posto nel cuore, e non solo nel mio, in questi lunghi anni di consuetudine di vita, è un seme che ha messo radici profonde e perciò continuerà a portare frutto.

Ratzinger: così conobbi Martini…

«UN INSTANCABILE MAESTRO DELLA “LECTIO DIVINA”»

Il testo del cardinal Ratzinger è ripreso da “Carlo Maria Martini da 15 anni sulla cattedra di Ambrogio”, Edizioni S. Paolo, Milano 1995, pp. 101-103

Pubblichiamo un testo scritto nel 1995 dall’allora Card. Joseph Ratzinger sul cardinale Carlo Maria Martini, allora Arcivescovo di Milano, in occasione del suo 15° anniversario di ordinazione episcopale.

di Joseph card. Ratzinger

Conobbi per la prima volta Carlo Maria Martini come specialista di critica testuale neotestamentaria. Accanto a Kurt Aland e altri, l’attuale arcivescovo di Milano figura, infatti, tra i curatori della ventiseiesima edizione del testo Nestle del Nuovo Testamento apparsa nel 1979. Ricordo ancora che Heinrich Greeven, professore di Nuovo Testamento presso la facoltà evangelica di Bochum ed egli stesso autore di una sinossi greca del Nuovo Testamento, mi manifestò il suo grande stupore per il fatto che un uomo tanto colto come Martini avesse accettato il ministero di vescovo. Era per lui incomprensibile che uno specialista di quel livello, esperto conoscitore di lingue e manoscritti biblici, potesse dedicarsi al compito di pastore, con le esigenze tanto nuove che questo incarico comportava, andando così perso per il mondo scientifico, che pure non poteva contare su molti altri specialisti tanto qualificati in questo difficile settore. Non riusciva a capire come una simile specializzazione potesse aprire una strada per l’annuncio e, dunque, per l’attività pastorale.

D’altra parte, se penso a diversi nostri esegeti della prima metà di questo secolo, posso comprendere pienamente il senso di queste riflessioni. Non raramente, infatti, si è avuta una riduzione dell’esegesi alla critica testuale e alla filologia, che a malapena lasciava qualche spazio all’autentico messaggio della Bibbia. La problematica del linguaggio, sicuramente importante, faceva passare in secondo piano la questione del senso. La parola della Bibbia, proveniente dal passato, restava così prigioniera del passato. La sua attualità non era messa a tema: porre delle domande al riguardo era considerato non scientifico.

Due anni più tardi, in occasione della Pasqua del 1981, quando mi capitò tra le mani la traduzione tedesca del libro di Martini “Vita di Mosè-Vita di Gesù. Esistenza pasquale”, ebbi modo di capire come, al contrario di posizioni di quel genere, nel caso di Martini l’esegesi e la pastorale fossero tra loro congiunte. In quel piccolo libro trovai quella capacità di rendere attuale la parola biblica, che sempre avevo auspicato. Gli aspetti più propriamente specialistici dell’esegesi erano stati messi da parte, tuttavia non si poteva non riconoscere che essi erano ben familiari all’autore.

La competenza dello specialista veniva però sottratta a quel suo isolamento che, non di rado, fa sì che la Scrittura non riesca a risalire la china dei secoli. In tempi recenti, quando ci si è resi conto di questa carenza, si sono spesso tentate attualizzazioni arbitrarie e prive di adeguato fondamento. Si percepisce così solamente la voce dello studioso; la Bibbia finisce con l’illustrare solo le sue opinioni, invece di offrire qualcosa di proprio e di nuovo, che non proviene da noi stessi. Nelle sue letture della storia di Mosè, Martini recepisce le interpretazioni dei Padri e dei rabbini. In questa storia della recezione si rispecchiano interpretazioni applicative del testo che, indubbiamente, non sempre reggono dal punto di vista storico-critico; esse, tuttavia, sono in grado di rivelare qualcosa di quel dinamismo spirituale che si cela nella storia.

Così si apre il messaggio interiore della figura di Mosè: la guida di Israele durante l’esodo parla con noi; nel suo itinerario e nei suoi destini si rispecchiano le grandi domande dell’esistenza credente. La tipologia Mosè-Cristo perde ogni carattere artefatto; corrispondenze e analogie interiori si rendono manifeste. Il contesto vitale cristiano e giudaico, a partire dal quale Martini coglie quella figura, viene contemporaneamente a porsi come un contesto mediato in modo fortemente personale: le tentazioni e le sofferenze, il cammino e gli smarrimenti di questo grande testimone di Dio si rivelano come esperienze originarie dell’uomo, che hanno a che fare con la nostra personale lotta per la fede e che ci mostrano la via che dalla “vita inautentica” conduce alla gioia: Mosè diviene così, in modo molto personale, la guida per questo esodo dall’inautentico all’autentico.

Ecco perché mi sono rallegrato di poter finalmente conoscere di persona l’autore di queste meditazioni sulla Sacra Scrittura, che erano divenute per me una compagnia del mio personale cammino spirituale. Non ricordo bene quando ci siamo incontrati per la prima volta. In ogni caso, dopo essere divenuto prefetto della Congregazione per la Fede, ho ritenuto indispensabile che Martini diventasse membro di questo dicastero. Così, per partecipare alle riunioni dei cardinali di questa congregazione, che si svolgono il mercoledì, egli viene da Milano, ogni volta che vi si discute un tema importante.

Nessuno si meraviglierà se dico che noi non siamo sempre stati dello stesso parere. Per temperamento e per formazione siamo senza dubbio molto diversi l’uno dall’altro. Le mie prime esperienze religiose risalgono al periodo in cui Romano Guardini riteneva a buon diritto una priorità assoluta il “distintivo cristiano”, l’ Unterscheidung des Christlichen (così si intitolava una sua opera del 1935). Negli anni della ricostruzione, subito dopo la guerra, questo compito poteva sembrare meno necessario. Si richiedeva allora la collaborazione di tutti; la fede cristiana doveva anzitutto dimostrare di saper offrire delle solide fondamenta a un nuovo sistema di vita in un mondo che era cambiato; doveva, inoltre, dimostrare la propria capacità di offrire un contributo per il cammino verso il futuro a una società in cui il pluralismo era divenuto un fatto irreversibile.

Tuttavia, dopo che a partire dal 1968 era sorto il pericolo di fondere l’escatologia con l’utopia, riducendo così la fede a una prassi di trasformazione del mondo, si rendeva nuovamente necessaria la ricerca del tratto distintivo del cristianesimo (Unterscheidung des Christlichen), non per rinchiuderlo tra le mura del ghetto ma per salvaguardare il suo dinamismo, che supera il tempo per giungere all’eterno. Fu questa l’esperienza da me vissuta negli anni Settanta all’interno delle università tedesche, in cui mi incontravo con colleghi di tutte le facoltà, anche con quelli che non erano cattolici o forse nemmeno cristiani credenti.

Mi pare che le esperienze di Martini nella formazione di giovani sacerdoti provenienti da tutti i continenti fossero di altra natura: qui si rendevano maggiormente possibili forme diverse di mediazione, sintesi d’ampio respiro; si trattava di scandagliare le possibilità ancora inesplorate della realtà cattolica.

In ogni caso, queste due posizioni non si escludono affatto; al contrario, esse si integrano e completano a vicenda. Ecco perché ho sempre considerato un arricchimento e un aiuto i voti del Cardinale Martini, anche laddove io non potevo condividerli senza riserve: posizioni e accenti differenti sono necessari per permetterci, a partire da aspetti diversi, di avvicinarci al compito complesso della Chiesa in questo tempo e di tentare, più o meno, di svolgerlo.

Del fatto che, pur da differenti punti di partenza, vogliamo la stessa cosa, siamo divenuti ambedue pienamente consapevoli quando, circa tre anni fa, io parlai a un corso per vescovi da poco ordinati, su invito del cardinale Martini, allora presidente della conferenza dei vescovi europei. Dovevo dire qualcosa su come un vescovo possa tenersi aggiornato dal punto di vista teologico e mantenere la propria capacità di giudizio, anche di fronte al sovraccarico di impegni pratici che grava su di lui e malgrado il fatto che l’ambiente teologico sia oggi caratterizzato da trasformazioni rapide e da un pluralismo che possono generare confusione. Cercavo anche di mostrare che il vescovo non può certo essere un “tecnico” della teologia, un esperto di tutte le sue complesse problematiche, dato che, in ogni caso, non è nemmeno questo ciò che davvero importa ma, piuttosto, qualcosa di totalmente diverso: che egli sappia distinguere tra fede e mancanza di fede. Il suo compito non è quello di giudicare le teorie teologiche. Deve però possedere il “senso della fede” e saper riconoscere dove la teologia parla a partire dalla fede e dove essa si distacca dalla fede. Ciò implica che, in primo luogo, sia lui stesso un uomo di fede e “impari” sempre più profondamente la fede.

D’altra parte, l’aiuto essenziale per tutto ciò è la “lectio divina”: una confidenza sempre nuova e sempre da approfondire con tutta la Sacra Scrittura, letta nel contesto della fede e della preghiera, che si nutre della liturgia della Chiesa. Con questo accento posto sulla “lectio divina” come cuore della formazione sacerdotale (ed episcopale) mi incontrai appieno con l’Arcivescovo di Milano, che è per i suoi sacerdoti e per la sua diocesi un instancabile maestro della “lectio divina” e che, con i suoi libri, riesce a introdurre noi tutti in essa in modo sempre nuovo.

Per questa guida spirituale vorrei oggi esprimere il mio ringraziamento, e insieme il desiderio che egli continui a indicarci la strada di un accostamento credente alla parola di Dio nella Bibbia.

SANT’AGOSTINO VESCOVO – Carlo Maria Martini

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Omelia del cardinale Carlo Maria Martini (30.8.1986)

 

Quando, poco fa, sono entrato a visitare il museo di S. Agostino, mi è stata mostrata una firma che io avevo scritto otto anni fa, quando venni pellegrino una giornata per venerare le memorie di S. Agostino. Mi trovavo a predicare gli esercizi nella casa di Triuggio.

Era la festa di S. Agostino, l’agosto del 1978 e sentii vivissimo il desiderio di un pellegrinaggio di preghiera e di silenzio per venerare questi ricordi. E quindi oggi ritorno a voi per la seconda volta e questa volta non più soltanto come pellegrino, ma con in mano un messaggio: è il messaggio che il Papa ha mandato mediante il telegramma, che è stato letto. E c’è un messaggio ancora un po’ più lungo, che è stato mandato alla Chiesa e soprattutto a voi devoti di S. Agostino: è la lettera che è stata appena pubblicata su questo grande Stato.


Ed è appunto da questa lettera che io voglio ora ricavare qualche pensiero per voi. Esporrò solo qualche pensiero perchè la lettera è molto lunga. Certamente la leggerete e la commenterete durante quest’anno. Ora io voglio sottolineare qualche pensiero che ci aiuti questa sera a rendere viva la memoria di S. Agostino.


Anzitutto il Papa dice una parola che è una lode per quello che voi fate per la conoscenza di S. Agostino. Ricorda infatti il papa: “… così la conoscenza esatta e affettuosa della vita di S. Agostino, suscita la sete di Dio, il fascino di Cristo, l’amore alla sapienza e alla verità, il bisogno della grazia, della preghiera, della virtù, della carità fraterna, l’anelito dell’eternità beata”… Tutte cose bellissime, la sete di Dio, il fascino di Cristo, l’amore alla sapienza, e tutte queste cose ci vengono attraverso la conoscenza esatta e affettuosa della vita di S. Agostino.

Ecco dunque una lode per tutti voi. Soprattutto per tutti coloro che si impegnano non soltanto per una memoria generica, ma per una conoscenza, dice il Papa, affettuosa. Fate quindi una lettura, una rilettura delle sue opere, in particolare delle Confessioni, una conoscenza approfondita della sua dottrina, un imparare da lui a meditare e a gustare la Parola di Dio; ecco già un programma per la vita della vostra parrocchia.


Un’altra cosa importante, una seconda cosa dice il Papa in questa lettera ed io lo sottolineo in particolare per voi. Il Papa ricorda che tra i grandi meriti di S. Agostino c’è soprattutto quello del coraggio e della perseveranza nel ricercare la verità.


Il Papa scrive: “… S. Agostino insegna a cercare con coraggio, con fatica, con perseveranza, la verità. Bisogna cercarla con umiltà, disinteresse, diligenza, superare le difficoltà, sciogliere i dubbi, andare a fondo, perchè la verità divina apre il cuore, apre la mente, illumina l’uomo”. “Ma cosa vuoi dire per noi questa ricerca della verità?” Vuol dire innanzitutto sapere che di questa ricerca della verità siamo ancora molto indietro, conosciamo poco la dottrina di Cristo, conosciamo poco la Sacra Scrittura, abbiamo bisogno di catechesi. La catechesi non è soltanto per i bambini, per i ragazzi, per i sacramenti, ma anche e soprattutto per i giovani, per gli adulti.


Essa è una conoscenza ragionata, approfondita di Dio e della dottrina cristiana che ci permette di saziare la nostra sete di verità. AI cristiano non basta quindi accontentarsi di qualche rapida nozione, di qualche memoria delle cose imparate da ragazzi. Oggi noi dobbiamo e voi dovete con coraggio e con coerenza sotto la giuda del vostro parroco e dei vostri sacerdoti progredire nella conoscenza ordinata e approfondita della verità di Dio.


Dice il papa che questa conoscenza ordinata di Dio è quella che ci fa conoscere profondamente la verità di noi stessi. L’uomo afferma il papa ripetendo la dottrina di S. Agostino, non si capisce, non intende se stesso, se non in ordine a Dio. L’uomo capisce Dio, lo intuisce, lo comprende impara a rientrare in se stesso nel silenzio, nei momenti di meditazione. Così l’uomo sempre più intuisce la luce di Dio che è dentro di lui, capisce Dio e comprende sè stesso.


Ecco dunque un altro mezzo per camminare nella conoscenza della verità. Dovete desiderare non soltanto l’ascolto della dottrina e la catechesi ordinata e sistematica nella comunità per tutti i battezzati, ma anche la meditazione.


S. Agostino è venuto qui in questi luoghi molto belli perchè voleva trovare la pace, il silenzio, il verde. Ma questo non è soltanto un ricordo del passato, è un insegnamento per ciascuno di noi, perchè ci domandiamo: ‘”E io, so cercare nella mia vita momenti di silenzio, di raccoglimento, di meditazione? Oppure mi accontento di sapere che Agostino ha fatto così?”. Se ha fatto così, e così facendo ha trovato la via della conversione, vuoi dire che anch’io ho bisogno di silenzio, di preghiera, di contemplazione. Così devo fare nei momenti che passiamo in chiesa durante le liturgie, così pure nei momenti in cui da solo veniamo in chiesa ad adorare il Signore. Oppure quando siamo nella nostra casa, nella nostra camera alla sera e leggiamo una pagina del Vangelo prima di addormentarci ed eleviamo a Dio una preghiera.
Ecco che cosa faceva qui S. Agostino, leggeva in silenzio la Parola di Dio e la meditava nel suo cuore. Ecco ciò che dovete fare per essere seguaci veri e quindi per commemorare la vostra vita, la vita e la conversione di questo grandissimo Santo.


Ricordatevi questa parola del Papa, che chiede per tutti la ricerca della verità. E ancora un’ultima paro- la vorrei dedicare insieme col Papa ai giovani. La lettera del Papa, termina con un appello ai giovani che è opportuno leggere.


Dice il Papa: “…infine vorrei dedicare una parola ai giovani che Agostino molto amò, come professore prima della conversione e come pastore dopo. Egli ricorda ad essi, il suo grande trinomio: VERITA-AMORE-LIBERTA’; tre beni supremi che stanno insieme e li invita ad amare la bellezza.


Non solo la bellezza dei corpi che potrebbe far dimenticare quello dello spirito, nè solo quella dell’arte, ma la bellezza interiore della virtù e soprattutto la bellezza eterna di DIO…” Ecco il richiamo di Agostino ai giovani: Verità, Amore, Libertà.


Noi queste tre cose le vogliamo: ci piace la libertà, siamo attratti dall’amore, vogliamo anche la verità. Però dobbiamo desiderare queste tre cose tutte insieme. Infatti non c’è libertà senza verità, non c’è verità senza amore e non c’è amore senza verità e libertà.
E tutto questo cosa significa?


Significa ascolto della parola evangelica, presenza di Dio nel nostro cuore che ci apre alla verità, ci fa scoprire l’amore vero e ci fa scoprire la vera libertà. Senza queste tre cose, l’amore può essere falso, la libertà può essere ingannevole, perchè non c’è la verità che le guida.
E la verità discende dall’ascolto della parola di Dio e dalla riflessione profonda nel silenzio del cuore. Ecco dunque un programma per i giovani: so che alcuni dei giovani hanno seguito la scuola della parola in Duomo.


Perchè non trasportate la scuola della parola nella Parrocchia?
È importante perchè verità, amore e libertà insieme possano essere coltivate soprattutto da parte degli adolescenti e dei giovani proprio come fece Agostino.


Lasciatevi dunque infiammare da questo esempio e cercate imitandolo di gustare la gioia che lui ha gustato.


In giornate come queste, quando lontano svettavano le montagne, quando splendevano i colori della natura e i canti degli uccelli; Agostino si sentiva nel cuore pieno di Dio, di verità, di amore e di libertà. Questa gioia è riservata anche a noi quando seguiamo il suo esempio. Ecco dunque un programma per queste celebrazioni, non soltanto un programma di festività, ma un programma di cammino pastorale per voi e per la vostra parrocchia soprattutto per i giovani. Ecco le grazie che io chiedo per voi in questa Eucarestia.

 

+ CARLO MARIA card. MARTINI
Arcivescovo di Milano

“IL PARE NOSTRO NON POTA…LIBERA!” – P. Alberto Maggi osm

Maggi Alberto dei servi di maria -jesus22

“IL PADRE NON POTA … LIBERA!”

 

 

Aula Magna – Facoltà Teologica Valdese

Roma – 16 ottobre 2009

 

Brani commentati: Gv 15, 1-15

 

trasposizione da audioregistrazione non rivista dall’autore

Nota: la trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione sono dovuti alla differenza fra la lingua scritta e la lingua parlata e la punteggiatura è posizionata a orecchio. 

Introduzione. 

Buonasera a tutti e benvenuti a questa serata speciale del programma di Nuova Proposta. Per chi non ci conoscesse, noi siamo un gruppo, un gruppo cristiano di donne e uomini omosessuali, che da circa venti anni sono presenti a Roma e fanno un percorso di aiuto reciproco e di condivisione su tutto ciò che riguarda l’esperienza di coniugare fede ed omosessualità.  

Per molti di noi Alberto Maggi, che è qui alla mia destra, è stato molto importante perché ci ha aperto una visione della Parola molto concreta e molto illuminante e quindi ogni tanto chiediamo ad Alberto di farci il regalo, di venirci a trovare e di organizzare per noi, appunto, una conferenza.  

Presento meglio Alberto Maggi che, forse conoscete già tutti, ma per chi fosse la prima volta … Alberto Maggi è frate dell’Ordine dei Servi di Maria, un biblista che ha studiato per moltissimi anni all’Ecole Biblique di Gerusalemme e direttore del Cento Studi Biblici “G. Vannucci” di Montefano. Il Centro Studi Biblici è nato 14 anni fa, con l’obiettivo specifico di mettere a disposizione della gente normale, come noi, il patrimonio di esegesi che loro hanno accumulato in tutti questi anni di studio, utilizzando un linguaggio divulgativo, rendendolo appunto accessibile anche a noi che non siamo addetti ai lavori.  

La conferenza di questa sera si inserisce nel programma 2009-2010 di Nuova Proposta che è ispirato al tema della fecondità; ci siamo ispirati in particolare al brano che Alberto oggi tratterà e sviscererà in ogni aspetto, anche il più recondito. Il brano è al capitolo 15 di Giovanni, il famoso brano della vite e i tralci. E’ un brano che ci guiderà un po’ tutto l’anno e tratteremo il tema della fecondità in tutti i suoi aspetti.

Per chi fosse interessato, noi siamo su internet, abbiamo un sito che si chiama www.nuovapropostaroma.it oppure siamo anche su facebook, Nuova Proposta sia some pagina che come gruppo. Quindi ci potete trovare ovunque.  

Lascio subito la parola ad  Alberto e buon ascolto a tutti.

 

 

p. Alberto Maggi OSM

 

Buonasera, grazie agli amici di Nuova Proposta per questa occasione, in cui cercheremo di condividere insieme uno dei brani più belli del Vangelo di Giovanni. Questo è un brano – capitolo 15, ne faremo soltanto la prima parte – che se compreso e accolto, lo vedrete, cambia radicalmente la nostra relazione con Dio e, di conseguenza, la nostra relazione con gli altri.

 

Giovanni, sapete, è l’unico tra gli evangelisti che non ha la narrazione dell’ultima cena come la riportano Matteo, Marco e Luca, cioè con le parole e le azioni di Gesù sul pane e sul vino. Ma è, in realtà, l’evangelista che, più degli altri, ne esplora la ricchezza del significato. Praticamente tutto il Vangelo di Giovanni è in chiave eucaristica, cioè di spiegazione e comprensione di questo passo essenziale nella vita di Cristo e nella vita del credente.

 

Nel capitolo 15, che è il discorso che prosegue al momento dell’ultima cena, secondo Giovanni – l’ultima cena di Giovanni inizia al capitolo 13 con la famosa lavanda dei piedi che vedremo adesso andando avanti di comprendere nel suo significato – l’evangelista parla degli effetti della eucaristia e di questa comunione con Dio. Allora leggiamo e commentiamo questo brano del Vangelo, capitolo 15 dei Giovanni, versetto 1.

 

Gesù comincia rivendicando la pienezza della condizione divina. Il problema che Gesù ha con i suoi discepoli è che loro sono arrivati a capire che Gesù è un profeta, che indubbiamente è un inviato di Dio, che è anche Messia, ma accettare che in Gesù ci sia la pienezza della divinità, questo no, questo è troppo difficile per loro.

 

Nel capitolo precedente, il capitolo 14, Filippo arriva a dire “Signore mostraci il Padre e ci basta”. E Gesù dice “Ma Filippo, non hai capito che chi vede me vede il Padre?”

L’evangelista qui si rifà a quanto ha scritto all’inizio del suo Vangelo, al termine del Prologo, con una affermazione perentoria, “Dio nessuno l’ha mai visto, solo il Figlio ne è la rivelazione”. Cioè l’autore fa un invito al lettore: centra la tua attenzione su tutto quello che adesso leggerai in Gesù. Tutto quello che coincide con quello che sai di Dio lo mantieni, tutto quello che si distanzia o lo contraddice, lo abbandoni. E sono molte le cose da abbandonare.

 

Quindi la comunità di Gesù non è arrivata ancora a comprendere l’identità di Gesù. Siccome la religione ha messo un abisso tra Dio e gli uomini, la religione di fatto ha distanziato Dio dagli uomini, che in un uomo ci sia la pienezza della divinità, questo è incomprensibile. Allora Gesù non perde occasione per rivendicarla, dicendo “Io sono”.

 

Non è soltanto una affermazione di esistenza, è il nome divino. Conoscete l’episodio di Mosè, quando si trova di fronte al roveto ardente, di fronte a quel fatto misterioso con la divinità che pensa di avere davanti, chiede “Chi sei?” E questa divinità non risponde con un nome, perché il nome indica l’identità, ma con un’attività che lo renda riconoscibile, “Io sono”.

 

Da quel momento, dal Libro dell’Esodo, “Io sono” è passato a significare il nome di Dio. Allora Gesù si presenta nella pienezza della condizione divina. “Io sono la vera vite”. Perché dice Gesù che è la vera vite? Se Gesù è la vera vita significa che ce n’è un’altra falsa. L’evangelista prosegue nelle sostituzioni che Gesù fa nel suo Vangelo. Già Gesù si è dichiarato il vero pane che scende dal cielo, quindi non la manna. Gesù si è dichiarato la vera luce che illumina il mondo.

 

Adesso si dichiara “la vera vite”. La vite era la pianta che rappresentava, simbolicamente, il popolo di Israele. Ebbene, per Gesù, si sta per proclamare una nuova alleanza: mentre l’antica alleanza era riservata a un popolo, al popolo di Israele, la nuova alleanza di Gesù ha un respiro universale, il suo orizzonte si allarga a tutta l’umanità.

 

Allora, appartenere al popolo di Dio, al popolo di Gesù, non dipende dalla razza, dalla religione, ma dall’adesione a Gesù. Allora Gesù dice “Io sono la vera vite”, quindi il vero popolo di Dio, “E il Padre mio è il vignaiolo”. Quindi Gesù stabilisce molto bene i ruoli specifici: lui è la vite e il Padre e il vignaiolo.

 

Poi Gesù dichiara “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie”. Naturalmente questa immagine della vite e dei tralci vuole significare la relazione che Gesù ha con i suoi. Allora dice Gesù “ogni tralcio”, quindi ogni discepolo, e sottolinea “Che in me”. Cosa significa “Che in me”? Una persone, un componente di questa comunità che “in me”, e che quindi partecipa a questa eucaristia, cioè si ciba del pane della vita, ma poi non si fa pane per gli altri, non porta frutto, “questo lo toglie”.

 

Secondo Gesù e, come ripreso dagli evangelisti, la vita dell’individuo ha due aspetti e sono due i termini che gli evangelisti adoperano per significarli. Uno è il termine “bios” da qui la nostra parola “biologia”, che indica la vita fisica, una vita che ha un inizio, ha un suo massimo sviluppo e poi comincia purtroppo il declino fino al disfacimento totale, ma c’è un’altra vita che gli evangelisti indicano con il termine “zoe” che invece è quella vera, quella che continua per sempre.

 

Anche questa ha un inizio, ma, quando l’altra comincia il declino, questa continua a vivere per sempre. Ebbene cos’è che unisce e distingue queste due vite? La vita biologica, per crescere, ha bisogno di essere nutrita, la vita interiore, quella che dura per sempre, quella che gli evangelisti chiamano “vita eterna”, per crescere deve nutrire gli altri.

Quindi nella vita dell’individuo, nella vita del credente, sono necessari questi due aspetti, in equilibrio fra di loro: essere nutriti per poi nutrire gli altri.

 

C’è il rischio, e il rischio ci può essere, che nella comunità – Gesù sta parlando alla sua comunità – ci siano degli individui talmente centrati su sé stessi, persone che vedono soltanto i propri bisogni e le proprie necessità, che si nutrono degli altri, si nutrono di questa linfa vitale che scorre attraverso Gesù e che scorre attraverso la comunità, ma poi non pensano a farsi pane per gli altri.

 

Sono magari persone pie, persone religiose, tutte preoccupate della propria santità, della propria perfezione spirituale, talmente presi e occupati dal Signore, che poi non hanno tempo di occuparsi degli altri.

Allora la sentenza di Gesù ora è drammatica, “ogni tralcio che in me”, quindi uno, pur appartenendo alla comunità cristiana e pur cibandosi della linfa vitale, che è Gesù, chi prendendo questo pane poi non si fa pane per gli altri “ questo lo toglie” perché è un parassita, un tralcio inutile. Quindi pur ricevendo la linfa, non la traduce in amore per gli altri, questo è un parassita.

 

Attenzione, però, è il Padre che compie questa azione. Non compete agli altri tralci, i discepoli, neanche compete a Gesù. Gesù è colui che comunica questa linfa vitale senza condizioni. E’ il Padre. Il Padre sa se questa linfa vitale poi la traduce in amore e in vita per gli altri. Quindi il compito di eliminare il tralcio inutile non compete alla comunità, ma al Padre.

 

Ecco questa seconda parte del versetto è importantissima, come dicevo prima. Se capiamo questo, la nostra vita cambia, perché cambia il rapporto con Dio e cambia il rapporto con gli altri. E vedremo quanto delle inesattezze, se non proprio errori di traduzione o di interpretazione, hanno mistificato il pensiero di Gesù.

 

E ogni tralcio che porta frutto lo purifica perché porti più frutto”. Qui l’evangelista fa un gioco di parole nella lingua greca, che non è possibile rendere in italiano. Potremmo dire, forzando il testo, che il tralcio che non porta frutto il Padre lo epura, quello che porta frutto lo depura. Perché sottolineo questo fatto della purificazione?

 

Perché una inesatta traduzione e una errata interpretazione, hanno portato a tradurre questo verbo con “potare”, “il Padre lo pota”. E da qui si è dato l’avvio a tutta una mistificazione dell’azione di Gesù. Quante volte nei momenti difficili della vita, quando si entra in contatto con quelle persone che sono da evitare in quei momenti, le persone pie, le persone devote, quelle che sanno tutto su quello che fa il Signore, e su quello che non fa, ci si è sentiti dire “E’ il Signore che ti ha potato; E’ il Signore che ha dato una potatura alla tua vita”. Nulla di tutto questo.

 

L’evangelista non sta parlando di “potare”, il verbo che adopera è il verbo “purificare”. Quello che l’evangelista sta dicendo ha un raggio d’azione straordinario. L’unica preoccupazione del discepolo di Gesù, l’unica preoccupazione del credente è: nel ricevere questa linfa vitale, cioè l’amore del Signore, tu traducilo in altrettanto amore, in fonte di vita per gli altri. Quelle impurità che appartengono al tralcio, cioè quei difetti, quegli elementi negativi, quelle tendenze, che credi che possano impedirti di portare frutto – attenzione – non sei tu che le devi eliminare, e neanche gli altri tralci le devono far osservare. Il Padre ci pensa, perché è interesse dell’agricoltore che il tralcio porti più frutto.

 

Allora, è il Padre che individua in un tralcio quelle impurità, quella sporcizia o quella escrescenza, ed è lui, con la delicatezza che soltanto il Padre sa usare, che elimina in maniera progressiva, crescente e continua, tutto quello che al tralcio può impedire di portare frutto affinché il tralcio stesso porti più frutto.

 

Sapete che questo significa un cambio radicale nella nostra esistenza e nei rapporti con Dio. Ma non ci avevano insegnato che bisogna fare l’esame di coscienza per individuare i nostri difetti, le nostre colpe, gli elementi negativi e centrare tutta la nostra attenzione per sforzarci di sradicare quel difetto, di soffocare quella tendenza, di eliminare quello che credevamo che fosse nocivo? E chi lo ha fatto lo sa, e l’esperienza di chi lo ha fatto sa che è vero: tutti gli sforzi per eliminare un difetto, per soffocare un elemento o un aspetto della nostra vita che si credeva nocivo, tutti questi sforzi sono falliti perché il difetto si irrobustiva, la tendenza nociva o il male che pensavamo d’avere si irrobustiva.

 

Perché? Perché l’uomo si centra su se stesso. Non c’è nulla di più tremendo per una persona che centrarsi su se stesso, sulla propria idea di perfezione spirituale, sulle proprie virtù. Non bisogna centrarsi su se stessi; questo è sempre nefasto qualunque siano le intenzioni con cui lo si fa. Bisogna orientarsi verso gli altri e centrarsi sugli altri.

 

Allora questo dà piena tranquillità. Io ho degli aspetti che indubbiamente sono negativi, ho dei limiti, ho dei difetti, ho delle tendenze che probabilmente sono nocive nella mia esistenza, ma io non me ne devo occupare, perché dal momento che me ne occupo mi distraggo da quello che è l’unico mio compito, preoccuparmi degli altri.

 

Se sto guardando dentro me stesso non posso vedere gli altri, quindi mi distraggo, spreco energie che andrebbero usate a favore degli altri, per cercare di individuare la parte negativa che è in me, e poi rischio di fare dei danni irreversibili. Perché se io individuo nella mia vita un elemento che ritengo – perché così dice la società, la morale o la religione – che sia nocivo e impiego tutti i miei sforzi per eliminarlo, attenzione perché posso sfilare quel tessuto, quella trama che era l’asse portante della mia esistenza e squilibrarla in maniera definitiva.

 

Allora Gesù ci invita a non preoccuparci, abbiamo tutti quanti delle imperfezioni, degli elementi negativi, il nostro unico impegno è: vivi per rendere felici gli altri, per il bene degli altri. Se ci sono questi elementi che possono impedire di portare frutto o di comunicare vita agli altri, sarà il Padre che li eliminerà, non tu. E se il difetto, l’elemento negativo rimane? Nonostante la mia vita orientata al bene degli altri, come mai questo aspetto negativo rimane? Si vede che agli occhi del Signore non è di impedimento per portare più frutto.

 

C’è un’espressione molto bella nella Prima Lettera a Giovanni dove dice “anche se il tuo cuore” – il cuore nella cultura ebraica non è la nostra sede degli affetti, il cuore è la mente, la coscienza – “ti rimprovera qualcosa, ma stai tranquillo, stai in pace perché Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa”.

 

Ci sono degli aspetti che la morale corrente e la religione ci fanno credere nocivi, peccati, ma siamo sicuri che sia così anche agli occhi del Signore? A volte l’occhio del Signore e la morale non coincidono. E noi vediamo – e quelli della mia età lo possono testimoniare – che quello che era negativo cinquanta anni fa oggi è permesso, quello che sembrava peccaminoso cinquanta anni fa, oggi è normale. Allora c’è da chiedersi “quante cose oggi giudichiamo negative e tra un secolo non lo saranno?

 

Quanti aspetti che noi giudichiamo peccaminosi tra cinquanta anni non lo saranno più?

 

Allora non sprecare energie per tutto questo! L’unico impegno: vivi per il bene degli altri. Se c’è in te un aspetto negativo, è il Padre che, in maniera continua, crescente e progressiva, te lo eliminerà perché è suo interesse che tu porti più frutto. Sapete cosa significa questo?

 

E’ la fine dell’idea – e uso il termine in maniera appropriata – diabolica di perfezione spirituale.

 

Non c’è nulla di più devastante, di più satanico per una persona dell’idea della perfezione spirituale. Cos’è l’idea di perfezione spirituale? Nessuno di noi si accetta per come è. Ognuno di noi si immagina di essere un altro. Ognuno di noi si crea un piedistallo dove mette il proprio “io” e tutti gli sforzi, tutte le tensioni, tutte le energie sono utilizzate per arrivare a quel piedistallo dove avevamo messo la nostra persona. Ma poi dopo ci pensa la realtà quando commettiamo uno sbaglio, quando commettiamo un peccato, quando c’è quella caduta che ti apre gli occhi che ci fa vedere che siamo ben lontani da quell’ambizioso progetto della perfezione spirituale.

 

E sapete cosa creano la caduta e il peccato quando c’è un’immagine di perfezione spirituale – per questo sto parlando di idea satanica di perfezione spirituale – provoca una rabbia omicida verso gli altri. Mentre in una sana relazione con il Signore il peccato, la colpa, vengono visti in maniera tranquilla “Signore ho sbagliato, va bene, ricominciamo da capo”, quando uno ha l’immagine si sé messa su un piedistallo, non accetta di aver sbagliato, non accetta di essere caduto, inizia a fare un processo a sé stesso e agli altri.

 

Ma come è stato? Ma non è possibile, come è stato? Si individua in un altro quei difetti, quegli elementi che noi non riconosciamo in noi per poi aggredirlo. Allora, mentre l’idea di perfezione spirituale è tanto lontana e illusoria quanto grande è la nostra ambizione, Gesù invita, al contrario, al dono di sé.

 

Il dono si sé è totale e immediato quanto grande è il proprio cuore. Quindi via l’idea della perfezione spirituale, lontana e irraggiungibile quanto grande è la nostra ambizione, ma sì all’idea del dono immediato di sé che è immediato, completo e totale.

 

Quindi Gesù ci dà grande serenità. Quegli aspetti della nostra vita che noi reputiamo negativi, lasciamo che ci pensi lui a eliminarli perché è suo interesse eliminare dalla nostra vita tutto quello che ci impedisce di portare più frutto. E se il Padre non lo elimina, si vede che agli occhi suoi questo non è negativo. “Ma la religione, la società…”, “Va bene, la religione, la società cambiano come le mode, ma Dio non cambia mai”.

Allora questo dà al discepolo, al credente, una enorme serenità. Quindi in una dimensione di serenità costante e crescente sa che non deve preoccuparsi di niente se non di comunicare vita agli altri.

 

Ma aggiunge Gesù “voi siete già puri, per il messaggio che vi ho annunziato”. Questo messaggio che Gesù ha annunziato non è una dottrina, ma è stato un gesto.

 

Perché Gesù dice “Siete già puri per il messaggio che io vi ho annunziato”? Cosa ha fatto Gesù? Anche questo è uno di quegli aspetti del Vangelo e di tutto l’insegnamento dei Gesù che, se compreso, anche questo cambia completamente il rapporto con Dio. Voi sapete che nelle religioni, in tutte le religioni, la dignità è all’interno dell’alone della purezza e soltanto le persone che sono pure ci si possono avvicinare, escludendo di fatto gran parte dell’umanità che per scelte, per situazioni, si trova in una perenne condizione di impurità. Comunque, anche quelli che vogliono avvicinarsi, devono attraversare dei riti di purificazione per entrare in contatto con questa divinità.

 

Ebbene, con Gesù tutto questo cambia. L’insegnamento di Gesù, che adesso vedremo, è che non è vero che bisogna essere puri per accogliere il Signore, ma è l’accoglienza del Signore che ci purifica.

 

E’ un cambio radicale; quindi non è vero che devo essere puro per avvicinarmi al Signore, e questa è la credenza che allontanava tante persone dal Signore perché “io non sono degno di avvicinarmi”. Gesù dice “No. Non è vero che tu ti devi purificare per accogliermi, ma accoglimi perché così sarai purificato”.

 

Allora dice Gesù “Voi siete già puri per il messaggio che vi ho annunziato”. Il capitolo 13 dice che Gesù – non prima della cena, ma durante la cena, ed è l’ultima cena, la cena Eucaristica – si alza da tavola per lavare i piedi dei discepoli. I piedi sono la parte del corpo quella più sporca, quella più sudicia. Provate a immaginare, la gente andava scalza, cos’erano i piedi a quell’epoca. Erano la quintessenza dell’impurità.

 

Ebbene Gesù, per far partecipare i discepoli alla cena in cui lui si offre come pane e come vino, il suo corpo e il suo sangue, non pretende che si puliscano i piedi prima di partecipare alla cena, e neanche lui lava loro i piedi prima di partecipare. Se Gesù lo avesse fatto all’inizio, significava che bisognava essere puri per partecipare alla cena.

 

Scrive l’evangelista che fu durante la cena, quindi Gesù interrompe la cena e si mette a lavare i piedi ai discepoli. Cosa significa questo? E’ la partecipazione alla cena quella che purifica il discepolo, il partecipante. Non è vero che ti devi purificare per partecipare alla cena, ma è partecipare alla cena ciò che ti purifica.

 

Voi capite che questo è un orizzonte completamente nuovo. Pensate a quante persone sono state tenute e vengono tenute lontane dal Signore per una falsa comprensione del suo messaggio e per una inesatta comprensione del suo insegnamento. Il Signore – ed è questo il succo potremmo dire di tutto il Vangelo – non si offre come un premio per la buona condotta, ma come un regalo.

 

Se il Signore si concede come un premio significa che chi lo riceve ha compiuto qualcosa per meritarlo. No, Gesù non si offre come un premio, ma come un regalo. Il regalo non dipende dai meriti di chi lo riceve, ma dal cuore del donatore. Allora dice Gesù “Voi siete già puri”, quindi c’è una purezza iniziale che è dovuta a questo fatto del messaggio, e il messaggio è che Dio si fa amore e si mette a servizio.

E poi Gesù continua con quello che è un verbo importante adoperato una decina di volte, quello del “rimanere”, cioè del “dimorare”. “Rimanete in me e io in voi”. E’ qualcosa di inaudito quello che Gesù ci sta dicendo e che – sembra strano – sono duemila anni che è stato scritto questo messaggio, perché ancora non lo capiamo? Perché ancora non ci crediamo?

 

Rileggo: “rimanete in me e io in voi!” Gesù – e Gesù è Dio – non è una realtà esterna all’uomo verso la quale l’uomo deve orientare la propria esistenza, ma una realtà interiore. Il Dio di Gesù chiede di essere accolto nella nostra vita per fondersi con noi e dilatare la nostra capacità d’amore. Più noi amiamo e più lui ci dona quest’energia per dilatare la nostra capacità d’amore.

 

Non c’è più un santuario dove andare per incontrare Dio, ma l’uomo è l’unico vero santuario dove si realizza l’amore di Dio. Questi brani di Giovanni, non solo non sono stati compresi, ma sono stati mistificati. C’è un’espressione adesso – si va con le mode anche per i manifesti funebri, per gli annunci funebri – specialmente per le persone religiose, adesso è molto in voga, se era una persona pia, religiosa, leggere “è tornato alla casa del Padre”.

 

Quanto piace alle persone religiose questo “è tornato alla casa del Padre”. Dove è tornato? Alla casa del Padre? Anzitutto dimmi quando era venuto, perché se c’è tornato … significa che era venuto via. E poi che cos’è questa casa del Padre? Dov’è? Questa è la mistificazione del messaggio di Gesù. Noi non andiamo nella casa del Padre, ma è il Padre che prende dimora in noi. Noi siamo la casa di Dio. Non dobbiamo andare nella casa di Dio.

 

Quando Giovanni, nel capitolo 14 dice “Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore e io vado a prepararvi un posto”, non sta dicendo che va a preparare gli appartamenti per noi, ma sta dicendo che attraverso la sua morte e il dono dello Spirito, renderà ognuno di noi capace di diventare la casa di Dio.

 

Perché molte dimore? Perché Dio è immenso. Dio non si può manifestare in una sola persona, ma nell’insieme delle persone si manifesta la realtà di Dio. Noi siamo la casa di Dio, non ci sono case di Dio dove andare! Ma è Dio che viene in noi. Capite che tutto questo cambia completamente la realtà. E capiamo anche Ah, caspita! Ecco perché l’hanno ammazzato Gesù.

 

Sapete, una frase che chi legge i nostri scritti o partecipa agli incontri, sente pronunciare tutte le volte: non c’è da meravigliarsi che Gesù sia stato ammazzato, ma come ha fatto quest’uomo a campare così tanto. Se è vero quello che Gesù sta dicendo, e la gente ci crede, è il crollo dell’istituzione religiosa.

 

L’istituzione religiosa era riuscita a separare Dio dagli uomini. “Voi non potete avvicinarvi a Dio, avete bisogno di una categoria speciale di persone, i sacerdoti, che fanno da mediatori tra voi e Dio, avete bisogno di un luogo particolare, il tempio, di un giorno particolare, un giorno di culto, e di un rituale, la liturgia, non è che uno si può rivolgere a Dio come vuole”. Quindi, tutta una serie di elementi di mediazione per entrare in comunione con Dio.

 

Se è vero – ed è vero – che invece Dio non è esterno all’uomo, ma che Dio chiede di prendere dimora in ognuno di noi, tutto questo, uno dopo l’altro, crolla. “Ma perché devo andare dal sacerdote per dirgli qualcosa da riferire a Dio, quando Dio è dentro di me!” “Ma perché mi devo recare in un luogo particolare per parlare con Dio quando Dio mi è intimo!” “Perché devo osservare dei gesti, dei rituali, o addirittura delle formule quando Dio è intimo a me stesso!” .

 

Quindi quello che Gesù sta dicendo è qualcosa di straordinario che cambia la relazione con Dio. Quindi “rimanete in me e io in voi”, cioè ognuno di noi diventa l’unico vero santuario dal quale si irradia l’amore di Dio. E sapete qual è la differenza? Che nel vecchio santuario, quello costruito dai sacerdoti, quello costruito dalla religione, le persone dovevano andare con alcune condizioni, ma non a tutte era possibile accedere.

 

C’erano determinate categorie di persone che, per la loro condotta, la loro situazione morale o religiosa, erano escluse. Il nuovo santuario, invece, non attende che le persone vengano, ma il nuovo santuario è in cammino. Verso chi? Verso gli esclusi dalla religione. Questo è il compito della comunità cristiana, non verso le persone del tempio, ma verso quelle che sono escluse dal tempio. Sono questi gli affamati e gli assetati di questa vita.

 

E continua Gesù “Come il tralcio non può portar frutto da sé stesso, se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me”. E’ necessario che questo flusso continuo di linfa vitale che scorre da Gesù nella nostra vita, non conosca interruzione, perché ogni interruzione rischia di bloccarla o diminuirla.

 

E, ripete Gesù “Io sono”, rivendica di nuovo il nome divino, “la vite e voi i tralci, chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto”. Ecco la fecondità, ecco la vera fecondità: portare molto molto frutto. Ma questo frutto – l’abbiamo visto – non è soltanto il nostro sforzo. C’è tutta una collaborazione, Gesù che ci comunica la sua linfa, il Padre attento, che quando vede qualcosa che ci impedisce di portare più frutto, subito lo elimina, noi che, ricevendo questa linfa, contenti di portare più frutto, sappiamo che la volta successiva questo frutto porterà ancora nuove capacità di frutto, questo in un crescendo, questa è la fecondità e la vita del credente.

 

Perché senza di me”, aggiunge Gesù, “non potete fare nulla”. E qui Gesù si rifà al famoso testo del profeta Ezechiele. Dice Gesù “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si inaridisce, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano”. Perché Gesù, tra i tanti esempi che poteva fare, fra i tanti alberi che poteva prendere, per questo esempio della linfa che scorre tra i rami e produce frutto, ha preso proprio quello della vite?

 

Indubbiamente perché rappresentava il popolo di Israele, ma perché la vite è l’unico – chiamiamolo albero da frutto – il cui legno non serve assolutamente a niente. Dice il profeta Ezechiele “Che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa? Può essere utile a qualche lavoro anche quando era intatto?” Non serviva a niente.

 

Quindi il legno della vite non serve a niente, serve soltanto a portare i grappoli, a far frutto. Sapete che – questa è la tradizione delle campagne –del legno della vite che andava bruciato, neanche la cenere era buona. Quando una volta le lenzuola si lavavano con la cenere, si lavavano con tutti i tipi di cenere, ma non con la cenere della vite perché li macchiava.

Quindi è un legno che o porta frutto, o altrimenti è completamente inutile. Allora Gesù sta indicando che nella nostra esistenza o portiamo frutto o siamo delle persone completamente inutili, ci inaridiamo, cioè siamo senza Spirito e veniamo eliminati.

 

E promette Gesù “se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato”. E’ incredibile – e lo dico per esperienza, ogni volta che si chiede – come siamo abili nel manipolare il Vangelo e a selezionare la parte che ci interessa e ci fa comodo, e dimenticare o cancellare quella che si ritiene impegnativa. Quando si chiede a qualcuno qual è l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, tutti sanno “chiedete quel che volete e vi sarà dato”. Ma dimenticano le condizioni!

 

E’ vero che Gesù ha detto “chiedete quel che volete e vi sarà dato”, ma, attenzione, dice “se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi”, forse è per questo che molta gente rimane male, chiede e non ottiene.

 

Gesù ha messo due condizioni:

 

  1. se rimanete in me, cioè dando adesione a questa linfa vitale, quindi in un impegno di opere che comunicano vita senza escludere nessuno da questo raggio d’azione

  2. se le mie parole rimangono in voi, non soltanto Gesù, ma tutto il suo messaggio.

 

Perché Gesù dice “chiedete quello che volete e vi sarà dato”? Perché il Padre vede in questi individui il prolungamento dell’azione del Figlio, e il Padre collabora con il figlio perché porti più frutto.

E dice Gesù “In questo è glorificato il Padre mio”. Anche qui cosa non è stato fatto in passato, a maggior gloria di Dio? A maggior gloria di Dio si sono costruite cattedrali sempre più ambiziose, sempre più lussuose; a maggior gloria di Dio si sono compiute azioni efferate; a maggior gloria di Dio si sono ammazzate le persone. Come si è potuto fare questo tradimento delle parole di Gesù?

 

In questo è glorificato il Padre mio”: che portiate molto frutto. “Glorificare” significa “manifestare visibilmente”. Dov’è che Dio si manifesta visibilmente? Là dove c’è una crescita traboccante d’amore; lì si manifesta Dio, non nel lusso, non nella grandezza, che sono proiezioni delle ambizioni e delle frustrazioni degli uomini.

 

E così sarete miei discepoli. Come il Padre ha amato me”, il Padre ha amato Gesù attraverso il dono dello Spirito, “così ho dimostrato il mio amore. Rimanete nel mio amore”. Gesù ci invita a una identità e comunione con Dio che è quella che, dicevamo prima, produce una fusione con la divinità. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio.

Non c’è più un Dio a cui andare, ma con Dio e come Dio andare verso gli altri. Quindi, rimanendo in quest’amore, ma non per rimanere in una misura contemplativa, ma in una misura dinamica verso gli altri.

 

E qui Gesù dice “Se osserverete i miei comandamenti”. E quali sono i comandamenti di Gesù? Perché Gesù parla di osservare i suoi comandamenti? Nella cena, capitolo 13, Gesù ha detto “Vi lascio un comandamento nuovo”, uno. Perché adesso Gesù parla di comandamenti? Anzitutto vediamo cos’è che Gesù lascia. Gesù non lascia un nuovo comandamento, ma un comandamento nuovo.

 

Il termine “nuovo” nella lingua greca si esprime in due maniere: una che indica ciò che aggiunto nel tempo, e lo adoperiamo anche nella lingua italiana, che è “neos”. Neos significa nuovo nel tempo. Poi c’è un altro termine greco che è “kairos”, che non indica un qualcosa aggiunto nel tempo, ma una qualità migliore che sostituisce tutto il resto.

 

Allora Gesù non dice “vi lascio un nuovo comandamento”, cioè avete già quelli di Mosè, adesso vi aggiungo il mio, ma “vi lascio un comandamento nuovo”, cioè un comandamento migliore che eclissa tutti gli altri. E qual è questo comandamento? “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato”.

 

Ma questo è strano. Come mai Gesù comanda l’unica cosa che non può essere comandata all’uomo? Gli uomini potete comandare di tutto: di obbedirvi, di servirvi, ma non potete comandare di amare, perché l’amore è un fatto interiore. Tu potrai comandarmi di obbedirti, ti dovrò obbedire, di servirti, tutto quello che vuoi, ma non potrai comandarmi di volerti bene. Io ti obbedirò, ma ti odierò dentro di me, ti servirò, ma penserò che fai schifo.

 

Perché Gesù chiede di amare, e dice che è un comandamento? Non perché si un comandamento, ma per sostituirlo e anteporlo i dieci di Mosè. Nella comunità di Gesù c’è un unico comandamento che, per la qualità, annienta, sostituisce, eclissa tutti gli altri. Ma perché adesso Gesù qui non parla di un comandamento, ma dei “miei comandamenti”? Gesù non fa un elenco di comandamenti, c’è un unico comandamento “amatevi tra di voi” – avete notato Gesù non dice “come io vi amerò”, cioè l’amore totale definitivo della croce, ma “come io vi ho amato”.

 

E come ha amato? Lavando loro i piedi, cioè servendoli. Quindi l’amore non è reale se non si traduce in servizio verso gli altri. Ma perché Gesù dice dei comandamenti? C’è un unico comandamento: l’amore che si fa servizio, le traduzioni concrete, le traduzioni pratiche di questo unico comandamento, questi hanno valore di comandamenti. Ecco perché Gesù non li elenca; Gesù non fa un elenco di comandamenti, ma tutte quelle azioni che partono da questo unico comandamento – un amore che si fa servizio per gli altri – tutto questo per Gesù ha valore di “comandamento”.

 

Questo vi ho detto” – siamo ormai alla conclusione, ed è la prima volta che Gesù ne parla – “perché la gioia, quella mia, sia in voi e la vostra gioia sia piena”.

 

Ecco qual è la volontà di Dio. Vedete, purtroppo, in passato, per delle deformazioni del messaggio di Gesù, la parola “Dio” è stata associata più al dolore che alla felicità. La parola “Dio” è più facile associarla alla sofferenza che alla gioia. Sapete, a certi teologi, se togliete loro il dolore, la sofferenza e il dispiacere, non sanno più come parlare di Dio.

Lì all’ingresso, dopo guardatelo, c’è una cornice con un frase di Karl Barth, questo famoso teologo, che dice che “un teologo senza gioia non è un vero teologo”. E’ molto bella quella frase, dopo rileggiamola. Ebbene, dai Vangeli appare che la gioia, cioè la felicità dell’uomo, appartiene alla volontà di Dio. Dio vuole che l’uomo sia nella gioia. Ma non un gioia normale, una gioia raggiungibile con i mezzi umani.

 

Dice Gesù “questo vi ho detto”, quindi tutto questo insegnamento, “perché la gioia” – e sottolinea, non dice soltanto la gioia – “quella mia”. Gesù è Dio!

 

Sia in voi e la vostra gioia sia piena”, cioè talmente colma che poi possa traboccare. Questa è la volontà di Dio, quindi la volontà è che noi qui, in questa esistenza terrena, raggiungiamo una pienezza di gioia talmente completa, talmente grande, che possa traboccare, per poi comunicarla agli altri.

 

Potremmo dire con un termine semplicistico, ma reale, che l’incontro con il Signore ci renda ancora più felici di essere al mondo. L’unica cosa che lui ci chiede è “adesso fa che ogni persona che incontri si senta ancora più felice di essere al mondo”.

Allora, non la sofferenza, non la penitenza, no la mortificazione, tutte parole che non appartengono al vocabolario di Gesù, ma la gioia! Non è possibile essere seguaci di Gesù e avere certe facce lugubri, certe espressioni tristi, certe figure tetre! Non è possibile. Se una persona è tetra, sia chi sia, significa che non è stata minimamente sfiorata dalla Buona Notizia di Gesù.

Perché Gesù, alla conclusione di tutto questo, dice “Questo vi ho detto perché la gioia, quella mia, sia in voi”? Perché ha risolto il problema con Dio. La religione faceva sì che l’uomo si sentisse sempre in colpa nei confronti di Dio. Perché? Era un Dio inflessibile, un Dio permaloso, un Dio che ti caricava con tutto un elenco di leggi, di precetti da osservare, e per quanto cercassi di essere in regola, c’era sempre qualcosa che non riuscivi ad osservare, c’era sempre una mancanza, c’era sempre una colpa e ti sentivi sempre in debito, sempre in colpa, con un grande senso di indegnità.

 

La religione rende le persone tristi, perché la religione, con il suo carico di leggi, di prescrizioni, fa sì che l’uomo non si senta mai all’altezza del Signore, gli manca sempre un qualcosa.

 

Con Gesù, nella fede, si rende l’uomo pienamente felice. Dice Gesù “Vi ho detto tutto questo”. Cosa ci ha detto? Non ti preoccupare, hai quel problema, hai quel difetto, hai quell’elemento che pensi negativo? Non preoccuparti, tu pensa ad amare gli altri; se questo che tu pensi negativo, è un vero problema, il Padre lo elimina.

 

Non l’ha eliminato? Si vede che agli occhi del Signore è indifferente. Voi capite che persone che per tutta la vita si sono sentite in colpa in base a certe norme religiose, persone che hanno schiacciato la propria vita, soffocato la propria affettività per delle interpretazioni erronee del messaggio di Gesù, quando sentono questo è una vera risurrezione!

 

E’ una vera rinascita, e veramente la Parola del Signore può compiere miracoli. Quindi, questa gioia nasce dal fatto che il credente si sente amato e accettato così com’è, non come lui vorrebbe essere, e neanche come gli altri lo vorrebbero. Ma il Signore lo ama così com’è. Perché quest’amore, lo abbiamo già detto, è un amore che non va meritato, ma è un amore che viene regalato.

 

E, concludendo, Gesù dice “Questo è il comandamento” – e sottolinea, tante volte non l’avessimo capito – “quello mio, che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”. La gioia di sentirsi tanto amati d Gesù conduce i discepoli a mettersi a servizio degli altri. Ed ecco la relazione nuova, inaudita, che Gesù, che è Dio, vuole avere con noi.

 

Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando”. E poi continua “non vi chiamo servi, ma amici”.

 

Amicizia”, è questa la relazione che Gesù vuole che abbiamo con lui. Amicizia! Non quel rispetto ossequioso verso una divinità. Perché queste parole di Gesù sono vere, e nessuno le mette in dubbio, però c’è sempre un’eccezione: sì però è sempre Dio, quindi amicizia, però con rispetto; amicizia ma con le dovute cautele, non prendiamoci troppa confidenza!

 

Gesù dice che la relazione che lui vuole con noi è di amicizia. L’amicizia presuppone un parità. Facciamo subito una prova se la nostra relazione con Gesù è di amicizia, in occasione di una caduta, di una colpa, di uno sbaglio, di un peccato, cos’è che facciamo? Quella è la prova se siamo in amicizia con lui. Quando si sbaglia con un amico, se è un vero amico, neanche attende che noi gli chiediamo scusa, ma è lui per primo che non tollera che tra di noi ci sia questa frattura, questa ruggine.

 

Se è un vero amico sarà lui a venirci incontro, a metterci una mano sulla spalla “và, lascia perdere, è passato, continuiamo ad andare avanti!” Se è un vero amico. Invece quante storie si fanno nei confronti di Gesù quando pensiamo di aver sbagliato, di aver peccato, di aver commesso una colpa. Significa che questo rapporto di amicizia fra di noi non c’è. L’amicizia rende la vita del credente serena, rende la vita del credente più ricca. Chi è l’amico?

 

L’amico è quella persona sulla quale in qualunque momento, in qualunque circostanza, uno sta di poter contare e, soprattutto, se è vero amico, è quella persona – l’unica forse – alla quale ci possiamo presentare senza le maschere, così come siamo, perché l’amico ci accetta così come siamo.

 

Bene, ho fatto una galoppata, credo che possa bastare così la parte della relazione. Come sempre, la parte più interessante di questi incontri è quella dei vostri contributi. Allora se non avete sonno e non dovete scappare a casa, abbiamo ancora dieci/quindici minuti ancora con i vostri interventi e le vostre domande. A voi la parola.

 

Domanda: io vorrei dire una cosa, vorrei capire un po’ meglio la relazione che abbiamo con Dio. Ho sentito che noi abbiamo un relazione di intimità, Gesù è Dio, però noi a volte siamo completamente chiusi e ci capita che non riusciamo a percepire questo messaggio. Come è possibile questo?

 

Risposta: perché siamo vittime e succubi della religione. Noi non abbiamo avuto una educazione alla fede in Gesù, abbiamo avuto un’educazione religiosa …

 

Domanda: ma se Dio agisce dall’interno, Dio agisce dall’interno … è in noi, è in intimità con noi … come può la religione superare questo …

Risposta: guarda Filippo! Filippo è uno dei primissimi discepoli di Gesù, fra i primi che Gesù ha chiamato. Dopo tanto tempo, lo stesso Gesù dice: “Filippo, dopo tutto questo tempo che stai con me, ancora non hai capito che chi vede me vede il Padre?”

 

Come è stato possibile? I discepoli a quell’epoca vivevano giorno e notte con il maestro, Filippo è stato il protagonista della condivisione dei pani e dei pesci, non era neanche un discepolo in seconda fila, era tra i primi. Eppure, la forza della religione è talmente nefasta che guardi ma non vedi, ascolti ma non capisci.

 

Domanda: ma l’intimità non è nel senso di convivenza … l’intimità è se noi siamo pieni di Dio, in qualche modo ci è connaturale …

 

Risposta: ma se si è stati educati alla paura di Dio, al timore di Dio, al fatto della purificazione nei confronti di Dio, come vuoi che si potesse capire che Dio è dentro di noi? Dio ci è sempre stato presentato distante, un Dio al quale bisognava andare, un Dio di cui bisognava avere paura, bisognava avere timore. Non è che Dio non c’era dentro di noi, ma la pressione, l’incubo della religione, era talmente potente che ci impediva di prenderne coscienza. Gesù, grazie al cielo, ce ne libera.

 

Domanda: però mi viene in mente un’altra cosa. Se c’è qualcosa in noi che non va, ci pensa Dio a toglierla. Allora questo com’è compatibile con il fatto che la religione imposta gli uomini qualcosa di così pesantemente sbagliato? Se effettivamente pensasse Dio a tutto, in maniera così sistematica e così risolutoria, come può …

 

Risposta: allora, questo lasciar fare a Dio non invita ad essere dei parassiti, o dei vagabondi. Qui si tratta di persone che hanno impegnato la propria vita per il bene degli altri. Quindi il tralcio che viene purificato non è il tralcio che sta lì buono tranquillo. Ha detto Gesù “il tralcio che porta frutto”. Quindi si parla di un credente, impegnato, che orienta la sua vita al bene degli altri. E’ un atteggiamento che non è passivo, ma è attivo. Quando c’è questo atteggiamento attivo, lì subentra l’azione del Signore.

 

Domanda: volevo collegarmi a quello che diceva lei … come si fa tante volte se di solito si mette al centro la forza di volontà, quello che l’uomo può fare, come si fa a passare da un concetto all’altro. Io lo trovo difficile, sinceramente. Non sono più abituata a sentirmi in colpa, ma a pensare al bene dell’altro. E’ un atteggiamento mentale, come si fa a scardinare questo sistema?

 

Risposta: ecco, dunque, abbiamo che questo discorso che Gesù sta facendo è per credenti che hanno accolto Gesù e il suo messaggio e si impegnano a viverlo per gli altri. Quello che bisogna eliminare dal nostro orizzonte è l’idea di perfezione spirituale, darsi l’obiettivo di quello che dobbiamo diventare, ma questo non toglie che ci sia un impegno, ma sereno.

 

Vedete in Dio, sapete ci sono i due aspetti della paternità, ma anche della maternità. E quali sono le caratteristiche della paternità e della maternità? Il padre è colui che vuole che il figlio sia simile a sé, quindi i padre è lo stimolo alla crescita del figlio; la madre è l’amore incondizionato che accetta il figlio così com’è.

 

Allora in Dio ci sono questi due aspetti, in perfetto equilibrio tra di loro, e guai quando uno dei due prevale sull’altro. Quindi da parte di Dio c’è il Padre che ci stimola ad assomigliargli nell’amore, ma dall’altra c’è un’accettazione incondizionata di noi così come siamo.

 

Se ci fosse prevalente l’aspetto della paternità, questo ci metterebbe l’ansia, l’angoscia, di non essere all’altezza delle aspettative del Padre, se prevale l’aspetto materno, questo ci porterebbe verso una sorta di lassismo.

 

Quindi noi abbiamo una certezza, siamo amati, accettati, così come siamo, ma siamo stimolati ad essere sempre di più come il Padre. Essere come il Padre non significa altro che un amore incondizionato dal quale nessuno viene escluso. Ma questo lo possono capire soltanto quelli che sono stati esclusi.

 

E’ difficile, sapete, che una persona religiosa possa capire questo. Una persona tutta per bene, tutta a puntino, è difficile che possa capire il messaggio di Gesù. All’epoca sono state le persone religiose quelle refrattarie; sono state le persone pie i nemici di Gesù, che è stato capito da chi? Dagli esclusi dalla religione.

 

Soltanto una persona che ha vissuto sulla propria pelle cosa significa sentirsi esclusa da Dio, soltanto questa persona poi sarà incapace di escludere qualunque individuo dalla sua esistenza, perché la gioia che ha provato quando ha incontrato Gesù e ha sperimentato che non è vero che era esclusa, ma era per una falsa idea della dottrina, della religione, e che mai era stata esclusa dall’amore di Dio, ebbene quella gioia è talmente incontenibile – e lo dico come una battuta – che vado in cerca degli esclusi della società per dire loro “anche te, anche te, anche te!”

 

Domanda: quello che hai detto l’ho visto proprio nella mia esistenza, e in quella di molte persone, perché io ho fatto parte per più di dieci anni di uno dei cammini più integralisti, nel quale ero anche catechista ed ho visto il 90% di persone della comunità devastate da queste cose. Personalmente, per mia fortuna, un giorno mi diedero da leggere un tuo libro ed era “Roba da preti”. Ma ho visto la paura di staccarsi, per paura di perdere quelle sicurezze.

 

La domanda che volevo fare era questa. Sicuramente anche tu ci hai fatto capire che Gesù era dalla parte dei reietti, degli ultimi, i pastori, i magi. Adesso Gesù non dovrebbe essere dalla parte degli omosessuali, dei clandestini, mentre non si sente la voce della chiesa forte in questo senso. Si sente ogni tanto, così flebile … Siamo oppressi da questo conservatorismo che, anziché diminuire, sembra aumentare sempre di più. Come è possibile una cosa del genere?

 

Risposta: io dico che, per fortuna, quando la sacra famiglia è fuggita dalla Palestina perché Re Erode voleva ammazzare il bambino, ed è scappata in terra straniera, in terra pagana dagli egiziani, dico sempre: “Fortunati che hanno trovato i pagani egiziani e non i nostri cattolicissimi legislatori!”

 

Perché li avrebbero respinti. Figuratevi, una famiglia irregolare, dove il marito della donna non era il padre del figlio – già questo… – senza lavoro, senza mezzi economici, c’erano tutte le condizioni per optare per un respingimento. Per fortuna che i pagani egiziani sono stati più umani dei nostri cattolicissimi legislatori. E’ una vergogna quello che sta accadendo in Italia, in tutti i sensi; una vergogna ancora più grande è il silenzio della chiesa.

 

Ogni tanto uno dice “Birichini!” Ma proprio solo “Birichini, birichini”, poi “scherzavo, scherzavo”.

Perché la posta in gioco è molto grande e questo è un tradimento del messaggio di Gesù. Ci sono parole di Gesù che non possono essere messe tra parentesi, non possono essere cancellate e nessuna legge al mondo potrà mai seppellire “Ero straniero e mi avete ospitato”. Non potremmo dire “Ma c’era Bossi che non voleva”. “Ero straniero e mi avete ospitato”, senza se e senza ma.

 

Quindi c’è una chiesa – quando si dice la voce della chiesa si intende la voce gerarchica – ma c’è un’altra voce nella chiesa ed è quella del popolo che è molto più potente e più efficace della voce della chiesa gerarchica, perché è la voce profetica dello Spirito. Allora è con questa che bisogna farsi sentire, anche a costo di rimetterci, anche a costo di pagare di persona.

 

Allora perché in queste situazioni in cui viene tradito il Vangelo di Gesù, in base a norme, a leggi, che si vogliono spacciare addirittura per cattoliche, noi per primi non gridiamo contro questa ingiustizia? Quindi se c’è una voce che si deve far sentire è la nostra.

 

Domanda: io volevo chiedere anche a chiarimento delle ultime domande. La cosa che forse risulta più difficile da capire è “Ma basta solo amare”?

Gesù dice che basta amare, no? Forse bisognerebbe ritornare su questo punto perché, secondo me, è fondamentale … ho l’impressione che uno si dica “Vabbè io sto fermo, statico, non faccio niente. E’ Dio che pensa a tutto”. In realtà no …

 

Risposta: ma l’amore è attivo. La nuova relazione che Gesù ci propone con il Padre non è più basata sulla legge. La legge è statica, e la legge è comoda. Quando io ho osservato quelle regole, quelle prescrizioni della legge, sono a posto. La nuova relazione che Gesù ci propone con il Padre è dinamica.

 

Perché è basata sull’accoglienza e somiglianza all’amore di Dio. E l’amore di Dio è dinamico, non c’è nessuna legge che lo potrà formulare. Perché Gesù prende le distanze dalla legge? Perché il Dio di Gesù è amore e l’amore non si può formulare attraverso le leggi, m soltanto attraverso delle opere che comunicano vita.

 

Se c’è un legge, io posso dire “va bene stasera ho fatto il mio dovere, sono a posto”. Se c’è l’amore, eh no, l’amore produce sempre – non un’ansia – ma un dinamismo, un desiderio di comunicarlo perché più tu lo comunichi e vedi le persone che sono gioiose e felici e più senti la gioia che cresce in te.

 

E quella di prima “Vi lascio la mia gioia perché in voi sia traboccante”. L’autore della prima lettera di Giovanni, dice una cosa a un certo punto che molti pensavano addirittura si fosse sbagliato, e hanno cercato di correggerla, dice “E vi diciamo tutte queste cose affinché… “ – e ci si aspettava “affinché la vostra gioia sia completa” – no “affinché la nostra gioia sia completa”. Nel comunicare vita agli altri si produce gioia in noi.

 

Questa gioia dà nuova capacità per comunicare vita agli altri, in un crescendo instancabile, senza fine.

Gli unici stop sono quelli dovuti anche al rispetto di noi stessi. Non si può vivere dando perché c’è bisogno anche delle pause; c’è bisogno del riposo, perché, ricordate all’inizio, la vita biologica deve essere nutrita, la vita interiore deve nutrire, ma bisogna che ci sia equilibrio. Non posso sempre nutrire senza essere nutrito.

 

Quindi è una vita completamente dinamica, attiva, non è un vita che ci porta alla pigrizia, anzi! E’ una vita che ci mette in sintonia con la fantasia del Padre Eterno. La fantasia del Padre Eterno qual è? Che nella vita non ci sono pietre, ma pani.

 

Le pietre sono situazioni che schiacciano l’individuo, pani sono situazioni che alimentano l’individuo, allora la fantasia del Padre Eterno si esercita in questo. Quando nella vita ti capita un avvenimento negativo, un episodio triste, un dolore che pensi che sia una pietra, ebbene la fantasia del Padre Eterno ti fa scoprire che non è una pietra che ti schiacciava, ma era pane che ti alimentava.

 

E noi siamo coinvolti in questo dinamismo, siamo portati anzitutto nella nostra vita a non confondere il pane con le pietre, e a far scoprire agli altri “guarda che la situazione che stai vivendo non è una pietra che ti è capitata e che ti schiaccia, ma è pane che ti alimenta e ti dà la vita”.

 

Domanda: non so se ho capito male, allora tutto quello che di negativo accade, la sofferenza, e il dolore che c’è nel mondo, è provvidenziale.

 

Risposta: ma io non ho detto questo, non farmi dire cose che non ho detto.

 

Domanda: che una pietra è un pane per forza!

 

Risposta: la fantasia di Dio trasforma la pietra in pane.

 

Domanda: … qualunque cosa ci accade di doloroso …

 

Risposta: allora noi abbiamo una certezza, dalla lettera di S. Paolo ai Romani che il Signore tutto trasforma in bene. La forza della vita è più forte di qualunque forza di morte. Dio non tollera che la nostra vita possa essere schiacciata dal dolore, dalla sofferenza, dalla morte.

 

E non è che viene la morte perché lui ci possa comunicare vita!

Ma laddove ci sono situazioni di morte, lì Dio si innesta con tutta la su fantasia e tutta la sua potenza, per trasformare in bene quello che era una situazione di male. Ma ti dispiace questo? E’ bellissimo!

 

Domanda: no, mi sembra .. io non riesco … quello che è male, infatti ci sono cose che non si comprendono …

 

Risposta: io ti assicuro, per la mia esperienza, che questa è storia quotidiana. Non c’è nulla di negativo nella propria esistenza che il Signore non trasformi poi in un vantaggio ancora più bello, ancora più grande.

 

Bene, vi ringrazio. Buonanotte.

“VANGELO E CRESCITA UMANA” – p. Alberto Maggi

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“Vangelo e crescita umana”

 Se vuoi essere perfetto … (Mt 19,2)

Alberto Maggi è il relatore della 13° festa dei fidanzati svoltasi il 15 marzo 2009 presso l’Oasi dello Spirito di Montesilvano (PE) ed organizzata dall’Ufficio Famiglia dell’arcidiocesi di Pescara-Penne.

 

15 marzo 2009

 

Ttrasposizione da audioregistrazione non rivista dall’autore

 

Nota: la trasposizione è alla lettera, gli errori di composizione sono dovuti alla differenza fra la lingua scritta e la lingua parlata e la punteggiatura è posizionata a orecchio.

 

p. Alberto Maggi OSM

 

Buongiorno e buona domenica a tutti.

 

E visto che è la festa dei fidanzati, faccio un augurio. L‟augurio che facciamo, è che speriamo sia l‟effetto di questo incontro, è quello che è l‟effetto dell‟incontro con la Parola di Gesù. Normalmente quando ci si incontra con il Signore, con la sua Parola, ci si sente ancora più felici di essere nati.

 

E l‟unica cosa che il Signore ci chiede è: adesso fa che tutte le persone che incontri si sentano ancora più felici di essere al mondo. Allora con questo augurio iniziamo questo incontro sulla Parola del Signore che, come accennava don Cristiano, sarà sul fattore di crescita.

 

Cioè l‟incontro con il Signore non diminuisce la persona, ma la potenzia, perché con Gesù, e lo vedremo durante questo incontro, c‟è un cambio radicale dell‟idea, dell‟immagine di Dio, e, di conseguenza, del comportamento dell‟uomo con Dio. Quando adopererò durante questo incontro il termine „religione‟ sarà sempre negativo.

 

Quando si cerca la parola „religione‟, nei vangeli non c‟è e quando si accenna alla religione è sempre in maniera negativa. Per religione si intende ciò che gli uomini fanno per Dio. Un Dio che spesso è la proiezione delle proprie paure, delle proprie ambizioni, dei propri desideri e delle proprie frustrazioni.

 

E all‟epoca di Gesù chi era Dio? Era un Dio esigente che chiedeva sempre all‟uomo, quindi il rapporto dell‟uomo nei confronti di Dio presentava un uomo che veniva diminuito per la grandezza di Dio. Era l‟uomo – così gli veniva fatto credere – che doveva privarsi del pane per offrirlo al suo Signore, era l‟uomo che doveva fare sacrifici per l‟onore di Dio.

Quindi l‟uomo nei confronti si sentiva diminuito, schiacciato dall‟onnipotenza e dalla presenza di questo Dio. Gesù cambia radicalmente l‟immagine di Dio, ecco perché Gesù e il suo messaggio non possono essere catalogati sotto la categoria della religione, ma della fede. Se per religione si intende ciò che gli uomini fanno per Dio, con Gesù tutto questo è finito. Con Gesù inizia l‟epoca dell‟accoglienza di ciò che Dio fa per gli uomini.

 

Quindi non sono più gli uomini che devono offrire a Dio, ma – ed è questa l‟importante novità portata da Gesù – accogliere un Dio che si offre agli uomini. Questo è inaudito, questo non era mai successo nella storia delle religioni. Da sempre, in tutte le religioni, si presentavano gli uomini che dovevano servire Dio, e invece Gesù presenta un‟immagine di Dio completamente diversa.

 

Non è vero che l‟uomo deve servire Dio, ma deve accogliere un Dio che si mette a servizio degli uomini. Naturalmente questo gli ha attirato l‟ira, l‟odio mortale, della classe sacerdotale al potere, perché se cambia il concetto di Dio, per loro è la fine. Loro erano riusciti a convincere le persone che Dio era lontano, e che le persone non potevano avvicinarsi direttamente al Signore, ma avevano bisogno di passare attraverso i sacerdoti.

 

E in un luogo particolare, nel tempio, osservando determinati riti. Ebbene, con Gesù tutto questo viene spazzato via. Gesù presenta un Dio che chiede all‟uomo di essere accolto per fondersi con lui e dilatarne l‟esistenza.

 

Allora se io accolgo Dio e Dio si fonde con me non ho più bisogno di andare da un sacerdote, da un mediatore per rivolgermi a Dio. Se Dio mi è intimo, ma perché per parlare con lui devo andare in un luogo particolare, nel tempio? Se Dio si fonde con me, ma perché io per rivolgermi a lui devo osservare delle regole o delle prescrizioni scritte da altri?

 

Quindi capiamo il pericolo di Gesù. Gesù è una mina vagante. Noi tratteremo il vangelo di Marco, il capitolo 4, ma già in tre capitoli è successo di tutto. Gesù ha rotto con la sua famiglia, ha rotto con il popolo e quello che adesso presentiamo qui stamattina è il primo insegnamento pubblico rivolto a tutta la gente.

 

Cosa è successo nel frattempo? Gli scribi – che erano il magistero infallibile dell‟epoca, i teologi ufficiali – quando per la prima volta le autorità religiose che dovevano far conoscere al popolo la volontà di Dio, si trovano di fronte a Gesù, che è Dio, sentenziano che bestemmia.

La denuncia che fa l‟evangelista è terribile: attenti alle autorità religiose! Vi ingannano, perché il dio che loro stanno presentando è fatto a loro immagine e somiglianza, che serve per dominare il popolo e quando incontrano Gesù che viene a liberare da tutto questo, pur di non perdere il proprio potere, diffamano Gesù e sentenziano che Gesù bestemmia.

 

Quindi Gesù è stato denunciato come bestemmiatore, non è soltanto un‟accusa – il bestemmiatore è colui che poteva essere e doveva essere ammazzato – quindi dicendo che Gesù bestemmia, significa che bisogna ammazzarlo. Quando le autorità religiose si incontrano con il Signore, lo rifiutano e lo ammazzano, perché il Signore va contro le loro mire di dominio e di prestigio sulle persone.

 

Ebbene, i farisei e gli erodiani, questo lo abbiamo visto ieri sera nell‟incontro che abbiamo fatto a Pescara, quando Gesù nella sinagoga restituisce la salute a un invalido,a anziché rallegrarsi, decidono di ammazzare Gesù. E questo episodio che adesso vedremo, c‟è un momento tragico, la madre e i parenti di Gesù, visto tutto questo, Gesù che è considerato un bestemmiatore, Gesù che è considerato un emissario di Belzebù, uno stregone, Gesù sul quale pende questo ordine di cattura per ammazzarlo, ebbene, il clan familiare da Nazaret parte per andare a Cafarnao, dove Gesù si ritrova, e prende una decisione drastica: bisogna catturarlo perché è andato fuori di testa.

 

Quindi è il momento della massima solitudine per Gesù. I suoi stessi familiari non credono in lui,ma pensano che sia impazzito. Allora poco prima del brano che adesso vedremo, c‟è il momento drammatico. Arriva il drappello dei parenti di Gesù, con la madre, ma non riescono a catturare Gesù perché Gesù è circondato dalla folla.

 

Il termine greco adoperato dall‟evangelista per „folla‟ indica che è una folla mista di pagani, di miscredenti. Allora i parenti di Gesù non vogliono contaminarsi, non vogliono compromettersi con quella gentaglia. Sapete a quell‟epoca si credeva che il contatto fisico con l‟abito di un pagano, rendesse impuri. Allora loro, stando fuori, lo mandano a chiamare.

E Gesù ha parole tremende. Dicono a Gesù “tuo madre e i tuoi fratelli là fuori ti vogliono”. E Gesù obietta “chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?” Cioè quelli là fuori, quelli che si vergognano di me, del matto di casa? E, volgendo lo sguardo attorno, quindi non vede la madre e non vede i fratelli e dice “Ecco mia madre, ecco i fratelli. Chiunque compie la volontà di Dio questo è mio padre, mia madre, fratello e sorella.”

Ecco, dopo questo Gesù – e questo è l‟argomento di questa mattina – fa il primo insegnamento pubblico che è fondamentale per la comprensione di tutto il vangelo. L‟abbiamo scelto sia perché qu3est‟anno è l‟anno liturgico di Marco, sia perché è il vangelo che più degli altri parla del fattore della crescita. Quando si accoglie la parola del Signore, questa non rimane neutrale nella nostra esistenza, ma incomincia a trasformarci e a modificarci nel modo di pensare e nel modo di agire.

Ebbene, l‟episodio, il capitolo 4 nel vangelo di Marco, conosciuto come la parabole del seminatore o dei quattro terreni. Allora leggiamo e commentiamo questa parabola, e vediamo che cosa vuol dire per la nostra vita.

Di nuovo cominciò a insegnare vicino al mare”. Ecco una prima indicazione che può essere utile a chi si appassiona del vangelo. Quando si legge il vangelo, occorre sapere che il messaggio degli evangelisti è un messaggio figurato. Noi già poco capiamo della geografia di quei luoghi, ma poi gli evangelisti di complicano le cose. Qui l‟evangelista scrive “mare”, invece poi vediamo dalla geografia che non si tratta di un mare, ma è il lago di Galilea. 5

Allora, benedetto evangelista, noi già abbiamo la testa confusa, tu ci confondi ancora di più. Perché parli di mare? In questo brano per ben 3 volte appare il termine “mare”. Perché l‟evangelista non adopera il termine “lago”, che per noi sarebbe più comprensibile, ma “mare”? Perché l‟evangelista non vuol raccontare un fatto, ma trasmettere della verità. L‟evangelista non fa cronaca, ma teologia, e perché allora anziché lago parla di mare?

Il mare raffigura il Mar Rosso, il mare che gli ebrei hanno dovuto attraversare per sfuggire dalla schiavitù egiziana e andare verso la libertà. Allora il cammino di Gesù è una proposta continua al popolo di andare verso la libertà. Ecco perché l‟evangelista presenta Gesù che è vicino al mare.

E il termine “mare” verrà ripetuto tre volte, quando nel mondo ebraico c‟è la cifra 3 o qualcosa viene ripetuto 3 volte significa che è qualcosa di definitivo. Quindi, la prima indicazione che Gesù ci dà è che il suo messaggio conduce alla piena libertà. Vedete il fascino della religione, da allora e da sempre, è questo: la religione ti priva della libertà, però ti dà sicurezza, ti priva della libertà perché quando stai all‟interno di un sistema religioso non puoi comportarti secondo i tuoi pensieri, quindi rinunci alla tua libertà, però hai sicurezza, perché devi soltanto ubbidire.

Ci sarà un‟autorità che tu riconosci, che ti dirà cosa devi credere, come devi credere, quando fare questo e quando non farlo. La religione mantiene le persone infantili. Chi è la persona infantile? Quella che ha sempre bisogno di un grande, di un papà o di una mamma che gli dica come fare. La religione ha il terrore chele persone diventino adulte.

La persona adulta è quella che non dipende più dal padre, dai genitori, ma che ragione agisce secondo il proprio comportamento. Allora Gesù alle persone che sono sotto la religione, offre un‟alternativa. La religione, ripeto, toglie la libertà, ma ti da sicurezza, perché da quel momento tu devi soltanto obbedire, ma non c‟p persona più nefasta e più pericolosa di una persona che obbedisce.

Quando una persona obbedisce – voi sapete che i grandi criminali della storia, quelli che hanno commesso le stragi più orrende, come si difendono? Ho eseguito gli ordini – Non c‟è nulla di più pericoloso di una persona obbediente, perché la persona obbediente non ragiona con la propria testa, ma diventa soltanto un esecutore. Gesù non vuole persone del genere.

Allora Gesù propone una piena libertà, che ti toglie la sicurezza della religione, ma ti rende pienamente adulto, consapevole delle tue azioni e del tuo pensiero. Ecco il perché vedete già da una parolina, il mare, quanti significati.

Il messaggio di Gesù conduce alla piena libertà. Se una persona non è pienamente libera, non c‟è lo Spirito, dirà San Paolo in una delle sue lettere. Là dove c‟è lo Spirito, c‟è la libertà. E‟ la condizione indispensabile per avere lo Spirito, cioè l‟energia del Signore, la libertà. Libertà cosa significa? Non avere nessuno al di sopra.

Non dover rendere conto a nessuno, non dover obbedire a nessuno. Neanche a Dio, perché Dio non chiede obbedienza. Nel mondo religioso l‟obbedienza era una virtù, gli uomini dovevano obbedire a Dio e obbedivano a Dio obbedendo ai suoi rappresentanti. Ebbene, è interessante notare nei vangeli che il verbo „obbedire‟ non appare mai. Mai Gesù chiede di obbedire a Dio, mai! Mai Gesù chiede obbedienza a se stesso, figuratevi se chiede obbedienza a uno dei discepoli.

Perché l‟obbedienza presuppone sempre una persona superiore che comanda e una inferiore che obbedisce. Allora Gesù non chiede l‟obbedienza, ma la somiglianza. Il credente per Gesù non è colui che obbedisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.

Allora Gesù incomincia a insegnare vicino al mare, “ma si congregò attorno a lui una folla grandissima”, nonostante le autorità religiose, le massime autorità religiose, quelle che quando parlavano si credeva fosse dio stesso che parlava, avessero condannato Gesù come un bestemmiatore meritevole di morte, le folle sentono in Gesù la risposta al desiderio di pienezza di vita che ognuno di noi porta dentro.

Vedete, le autorità religiose avevano imposto una dottrina, ma non avevano convinto la gente. La forza del messaggio di Gesù è che la sua parola è la risposta al desiderio di pienezza che ogni persona si porta dentro. Ecco perché Gesù mai impone, mai obbliga, lui offre. Sa che il suo messaggio è quello chela gente attende. Allora, nonostante Gesù sia stato considerato pazzo dalla famiglia, bestemmiatore dall‟autorità religiosa, considerato un emissario di Belzebù, le folle lo seguono, perché sentono in Gesù la risposta al loro desiderio di pienezza di vita.

Egli allora salì su una barca e si mise seduto in mare”. Quindi la folla va verso Gesù e Gesù li porta verso il mare, verso la libertà. Ma ecco il primo inciampo “ma tutta la folla rimase a terra di fronte al mare”. C‟era resistenza, la libertà mette paura. A gente che è stata sempre serva, a gente che è stata sempre schiava e, soprattutto, a gente che è stata ingannata e alla quale è stato fatto credere che essere servi è la migliore delle condizioni possibili, la libertà fa paura. 7

Allora Gesù li porta verso il mare, ma loro rimangono a terra. Non si fidano. Allora “Gesù si mette a insegnare con parabole”, vedremo dopo che Gesù insegna con parabole. “Nel suo insegnamento disse loro «Ascoltate!»” – è un invito molto chiaro per tutte le persone e c‟era nel credo di Israele l‟espressione „ascolta Israele‟, Gesù lo fa al plurale, ascoltate e omette Israele. Questo messaggio è rivolto a tutti. Il Dio che Gesù presenta, la novità che Gesù presenta, è che non è un Dio che discrimina tra meritevoli e no, puri e impuri, peccatori e no, è un Dio che è amore e il suo amore l‟ha offerto a tutti quanti.

Quindi, ascoltate tutti quanti, qualunque sia la vostra condizione, qualunque sia la vostra condotta, qualunque sia il vostro comportamento, questa è un‟offerta d‟amore che Dio fa a tutti.

Ecco uscì il seminatore a seminare. Accadde che, seminando, una parte cadde lungo la strada, vennero gli uccelli e la divorarono”. “Per strada” non si intende la nostra strada, il sentiero di campagna dove il seminatore passa gettando il seme; alcuni di questi semi cadono dove lui sta passando, dove sta calpestando, non nel terreno arato. Allora il seme non fa in tempo ad arrivare per terra che subito gli uccelli lo mangiano.

Un‟altra parte cade nel terreno roccioso, dove non aveva molta terra, e subito spuntò poiché la terra non era profonda. E quando sorse il sole bruciò per mancanza di radici”. Un‟altra parte del seme è caduta nel terreno roccioso e, quando il sole spunta, e il sole è un fattore vitale, la piante senza il sole non può crescere, quindi quello che doveva essere un fattore vitale, si trasforma invece in una azione mortale.

La colpa non è del sole che spunta, la colpa è del seme che non aveva radici profonde, e quindi la calura lo ha subito seccato.

Un‟altra cadde fra i rovi, spuntarono i rovi, la soffocarono e non arrivò a dar frutto”. Qui la terra è buona, la terra è profonda, ma ci sono le spine, ci sono i rovi, allora è cresciuta la pianta, ma sono cresciuti i rovi e l‟hanno soffocata. “Altri caddero nella terra buona e, germinati e cresciuti, diedero frutto, producendo …” – e qui Gesù ha esagerato.

A quell‟epoca, da un chicco di grano il raccolto normale, nella spiga, producevano massimo 13-15 chicchi. In annate eccezionali, ma si ricordavano negli anni, da un chicco di grano si produceva una spiga con ben 30 chicchi. Ebbene, quello che è considerato eccezionale, che è considerato straordinario, per Gesù è normale ed è soltanto l‟inizio. “Producendo 30 per uno, 60 per uno, 100 per uno”. 8

Quindi da un chicco di grano una spiga – esagerata l‟espressione di Gesù – con ben 100 chicchi. Perché? Il numero 100 indica la benedizione di Dio, la benedizione divina. “E aggiunse «Chi ha orecchie per udire, ascolti!»”

Gesù ha parlato a tutti, ma sa che non tutti comprendono, perché quando si è educati alla religione, quando si vede la libertà come un attentato alla propria sicurezza, quando si è incapaci di agire secondo il proprio pensiero, ma bisogna sempre domandare a un capo, a un‟autorità religiosa “Posso fare questo?” “E‟ permesso fare questo?” “E‟ peccato questo o quello?”, non si è pienamente liberi.

E se non si è pienamente liberi, non si può comprendere il messaggio di Gesù, tanto è vero che non l‟avevano capito neanche quelli che stavano con lui. “Quando rimase solo lo interrogavano quelli che stavano attorno a lui con i dodici sulle parabole”.

Lo interrogano sia perché … “ma perché parli in parabole?” e poi “perché questa parabola?” Ed ecco la spiegazione di Gesù. “Ed egli disse loro: «A voi è stato comunicato il segreto del Regno di Dio. Ad essi, invece, quelli di fuori»” – quelli di fuori, ricordate, sono la madre e tutto il clan familiare che erano andati a rapirlo – “«tutto questo lo stanno ricevendo in parabole”, cioè a voi è stato comunicato il segreto del Regno»”, quindi a voi io posso parlare liberamente, ma quelli lì fuori, vista l‟esperienza di Gesù che ha parlato e agito liberamente e la conclusione qual è stata? L‟ordine di cattura, l‟ordine di ammazzarlo.

Allora Gesù parla in parabole, lo racconta in modo che, chi è in sintonia con il messaggio di Gesù, lo afferra, chi è in cammino gli mette una pulce nel‟orecchio, chi è refrattario non capisce niente. Ma cos‟è questo mistero del Regno di Dio? Il mistero del Regno di Dio è una cosa inaudita. Quello che era inconcepibile era che l‟amore di Dio è universale. A noi questa parola potrà andare pure bene, ma a quell‟epoca era uno shock.

L‟amore di Dio non era universale, l‟amore di Dio era per il suo popolo, ma neanche per tutto il popolo, era per i puri, per i meritevoli. L‟amore di Dio, secondo la religione, bisognava meritarlo con i propri sforzi. C‟era una legge, chi la osservava meritava l‟amore di Dio, chi non la osservava o la trasgrediva era fuori dell‟amore di Dio. Ebbene, il segreto dell‟amore di Dio è che queste immagini di Dio che vi è stata presentata è falsa!

Il Dio che guarda i meriti, il Dio che premia, il Dio che castiga, il Dio che chiede l‟osservanza della sua legge, è un‟immagine falsa. L‟amore di Dio è universale. Non c‟è un individuo, qualunque sia la sua condotta, qualunque sia il suo comportamento, che possa sentirsi escluso dall‟amore di Dio. Il Dio di Gesù non si presenta come un premio per la 9

buona condotta, da ricevere, ma come un regalo. Il premio dipende dai meriti di chi lo riceve, il regalo dipende dalla generosità del donatore. E, prima che Gesù pronunciasse queste parole, ci sono stati almeno quattro episodi dove il segreto è venuto via via, svelandosi.

Il primo è quando Gesù ha purificato il lebbroso. Il lebbroso era considerato un maledetto da Dio, un colpito da Dio per i suoi peccati, e Gesù gli dimostra la falsità di questo. Ma non è vero che Dio ti esclude è la religione che ti ha fatto credere questo. Dio è un Padre e un Padre non esclude nessuno dei suoi figli, anzi! Più i figli sono bisognosi e più l‟amore del Padre si sente attratto da loro, perché il Dio di Gesù non è il Dio che guarda i meriti, ma è il Dio che guarda i bisogni.

Meriti non tutti li possono avere, bisogni li hanno tutti. Quindi Gesù purificando il lebbroso, dimostra la falsità di una religione che diceva che alcuni erano condannati per i loro peccati ed esclusi da Dio. Per il perdono dei peccati c‟era un cerimoniale ben preciso: bisognava andare al tempio, fare l‟offerta, recitare determinate preghiere. Gesù nulla di tutto questo. L‟accoglienza di Gesù cancella il passato peccatore.

E, per dimostrare ancor più la verità di questo, Gesù invita a far parte del suo gruppo, una persona intoccabile, i paria dell‟epoca, gli esattori del dazio, che loro ricevevano in appalto. Questo mestiere li rendeva degli imbroglioni, e soprattutto per essere al soldo dei romani, erano considerati impuri.

La loro presenza rendeva impura la casa e le persone con le quali si trovava ad aver contatto. Ebbene Gesù, per dimostrare che nessuno, qualunque sia la sua condizione, la sua condotta, si può sentire escluso dall‟amore di Dio, non va ad invitare proprio uno di questi? A Levi, il pubblicano, dice “vieni e seguimi”, esattamente come l‟ha detto ai primi discepoli.

E infine la trasgressione del sabato. Ecco questi sono i quattro passi che indicano il segreto del Regno di Dio. Qual è il segreto del Regno di Dio? Non c‟è una sola persona al mondo che, qualunque sia la sua condizione e il suo comportamento, la sua condotta, possa sentirsi esclusa dall‟amore di Dio. E‟ la religione che lo emargina, è la religione che lo esclude, ma non Dio. Dio è contro la religione. La religione separa gli uomini da Dio, e quindi Dio e religione non si possono tollerare.

L‟uno esige la scomparsa dell‟altro. E continua Gesù “perché da quanto vedono”, sta parlando di quelli di fuori, “non percepiscono, per quanto ascoltino, non capiscono, a meno che si convertano e vengano perdonati”. Per quelli che stanno fuori, i suoi familiari, il popolo, non 10

c‟è speranza? Sì bisogna che si convertano, che cambino orientamento mentale. Allora Gesù, ecco che spiega lui la parabola. “Disse loro inoltre «Non avete capito questa parabola?»” Gesù si meraviglia che i suoi discepoli, quelli che lo stavano seguendo, non capiscono questa parabola. “«Allora come comprenderete le altre parabole?»”

Questa non è una parabole qualunque, è la parabola che, se è compresa, fa comprendere tutto il messaggio di Gesù, ecco perché oggi abbiamo scelto questo brano importante. Quindi Gesù dice “se non comprendete questa parabola, come comprenderete tutto il resto?” E vediamo allora, è Gesù stesso che la spiega, noi suggeriremo soltanto l‟approfondimento di questa spiegazione.

Il seminatore semina la parola”. Il termine che traduciamo con „parola‟, in greco, è entrato anche nella lingua italiana è Logos, da cui teologo, geologo, che significa „studio‟, significa un parola che ha un contenuto. Il seminatore semina il messaggio, e qual è il messaggio? Dio è amore.

Non è il Dio della religione, il Dio giudice, il Dio che castiga, il Dio che ti esclude, Dio è amore. L‟amore non si offende, ricordate quando una volta si credeva che il peccato offendesse Dio? Il peccato offende l‟uomo che lo fa. Dio è amore, questa è la parola.

Quelli lungo la strada sono coloro nei quali si semina la parola, ma mentre l‟ascoltano, arriva il satana e toglie loro la parola seminata”. Abbiamo visto l‟esempio che Gesù ha fatto del seme gettato nella strada e adesso Gesù spiega che “quelli lungo la strada, mentre l‟ascoltano,”, quindi stanno ascoltando la parola, “questa parola non arriva in loro perché non fa in tempo ad essere pronunziata che subito il satana la rapisce”. Chi è questo satana?

Dio è amore che si fa servizio degli uomini, satana è il potere che domina le persone.

Allora la denuncia che fa l‟evangelista, il monito da terne presente è questo: quelli che appartengono, in qualunque forma, alla sfera del potere, sono completamente refrattari alla parola del Signore. Quindi, quelli che detengono il potere, quelli che ambiscono al potere, ma la categoria più tragica è la terza, quelli che sono sottomessi al potere, per questi non c‟è‟ speranza.

La parola di Dio non può niente contro la sfera del potere. Perché? Quelli che detengono il potere, vedono l‟annunzio di Gesù come una minaccia al proprio dominio, perché Gesù è l‟amore di Dio che si mette a servizio, chi intende dominare gli altri non accetterà mai un messaggio che è di servizio. E lo stesso questa parola di Gesù sarà vista come una minaccia alle ambizioni di coloro che non hanno il potere, ma ci vogliono arrivare. 11

Quindi, quelli che detengono il potere vedono una minaccia nella parola di Gesù, come hanno fatto scribi e farisei che hanno deciso d‟ammazzarlo; ma anche quelli che ambiscono, gli stessi discepoli di Gesù. I discepoli di Gesù lo seguono perché hanno sbagliato persona. Loro credono che Gesù sia il Messia, sì, ma il trionfatore, che va a Gerusalemme a conquistare il potere.

Siamo in quaresima, tra poco vedremo quell‟equivoco che noi festeggiamo, la domenica delle palme. Attenti! Perché quella folla che ha accolto Gesù osannante, “Osanna al Figlio di David”, attenti, sono tutti assassini. Perché, quando si sono resi conto di avere sbagliato persona, che Gesù non è il Figlio di Davide, cioè colui che, con il potere, va a conquistare Gerusalemme, quando si accorgono di aver sbagliato persona, la stessa folla che ha gridato “Osanna al Figlio di David”, è la stessa che poi griderà “crocifiggilo!”

Quindi attenti la domenica delle palme a dire “Osanna al Figlio di David”, perché non porta bene. Quelli che hanno osannato Gesù come il figlio di Davide, sono quelli che poi hanno detto “crocifiggilo!” E il problema Gesù ce l‟ha nel suo gruppo. Più volte, in questo vangelo Gesù parla e l‟evangelista dice “essi però non comprendevano la parola e avevano timore di chiedergli spiegazioni perché per la via avevano discusso tra di loro chi era il più grande”.

L‟ambizione, il desiderio di avere il potere, fa vedere la parola di Gesù come una minaccia. E questo rende sordi e ciechi all‟insegnamento di Gesù. C‟è nel vangelo di Marco un episodi che è tragicomico; Gesù per la terza volta, visto che i discepoli non hanno capito – ricordo il numero tre significa quello che è totale – spiega loro “avete capito cosa stiamo andando a fare a Gerusalemme?”

Gerusalemme ormai si vedeva, erano nei pressi. “A Gerusalemme vado ad essere ammazzato. Cro-ci-fi-sso. E‟ chiaro? Avete capito tutti?”

Sì, sì”. Il tempo di dirlo e due discepoli, di nascosto degli altri, Giacomo e Giovanni lo prendono da parte e gli dicono “Ah, mi raccomando sor Messia, quando sei a Gerusalemme, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra!” Cioè, dacci i posti più importanti!

Vedete, è l‟azione del satana. Gesù ha parlato, ma è arrivato il satana e ha preso la parola. Ma la categoria più tragica è la terza. Abbiamo visto che chi detiene il potere vede la parola di Gesù come una minaccia al proprio dominio, chi ambisce ad ottenere il potere lo vede come un attentato alle proprie aspirazioni, ma la categoria più tragica sono i sottomessi al potere.

Vedete, il potere ha tre armi: 12

 

- La prima – per potere si intende il dominio di una persona sulle altre, è la paura. Io ti domino perché tu hai paura di quello che ti posso fare. Ti posso nuocere, ti posso togliere la vita

- La seconda è la ricompensa. Io ti domino perché so che tu sei ambizioso e che posso darti titoli, onori, carriere e soldi.

- Ma dove il potere vuole arrivare è la persuasione. Io ti domino perché sono riuscito a convincerti che, per te essere schiavo ed essere servo è la migliore delle situazioni possibili.

 

Mentre chi viene dominato per paura, in un atto di coraggio si può ribellare, mentre chi viene dominato per l‟ambizione, in uno attimo di orgoglio può sfuggire a questo, la terza categoria no, quelli che credono che per loro è un bene essere servi, che per loro è bene essere schiavi, vedranno l‟offerta di libertà di Gesù come un attentato alla propria sicurezza.

Più la luce splende e più si rintanano nelle tenebre!

Questo è il satana. Quindi, attenzione, coloro che gravitano in qualche maniera nella sfera del potere, sono refrattari alla parola del Signore. La potranno anche annunziare, ma senza capirla.

Quelli seminati in terreno roccioso, sono coloro che, quando ascoltano il messaggio, subito lo accolgono con gioia. Ma non getta radici in loro, sono incostanti. Per questo, appena sorge una difficoltà o persecuzione a causa della parola, vengono meno”.

Cosa vuol dire Gesù? Quelli seminati nel terreno roccioso sono quelli che ascoltano il messaggio, è un messaggio bello, è un messaggio che entusiasma, dice “mi piace questo messaggio”, e lo accolgono con gioia, ma poi si accorgono quali sono le conseguenze di questo messaggio. Quando si accoglie questo messaggio e questo messaggio trasforma l‟esistenza dell‟individuo, scatena immediatamente la persecuzione.

Si scatena immediatamente l‟incomprensione, non dai nemici della fede, ma proprio dagli uomini della religione. Sono questi che perseguitano, perché vedono questo qualcosa di nuovo come una attentato alle proprie sicurezze. Allora Gesù dice che se questo messaggio non getta radici in loro, ma rimane in superficie, al momento della persecuzione vengono meno. 13

Abbiamo detto che, quando spunta il sole, e la pianta si secca, la colpa non è del sole. Il sole ha un‟azione vitale, se la pianta si secca è perché non ha radici profonde, non ha da attingere nell‟umidità del terreno. Allora Gesù sta mettendo in guardia le persone che vogliono accogliere il suo messaggio: attenti perché se questo messaggio che adesso accogliete non mette radici in voi, modificando nel profondo la vostra mentalità e il vostro comportamento, verrà il momento inevitabile in cui di fronte a una difficoltà, di fronte a un‟incomprensione, di fronte all‟ostilità, ignorerete questo messaggio.

Allora questo fa capire che il messaggio di Gesù non è come la legge di Mosè. Non c‟è un codice esterno che l‟uomo deve osservare, ma una realtà profonda che modifica il comportamento dell‟uomo. Possiamo fare subito una prova per vedere se questo messaggio ha messo radici in noi. Se, per amare, per perdonare, ci dobbiamo rifare a Gesù e al suo messaggio, attenzione che questa è una spia d‟allarme che significa che questo messaggio non ci ha convinto. E‟ rimasto qualcosa di superficiale.

E‟ come quelli che dicono “ti perdono per carità cristiana”, cioè, se fosse per me capirai, manco morto. Attenzione, quando nel comportamento, quando nell‟azione ci si deve rifare al messaggio di Gesù, ci si deve rifare al Vangelo, non è un fatto positivo. Significa che questo messaggio non l‟abbiamo fatto nostro. Quando io, per amare, mi devo far forte del messaggio di Gesù “Ti amo perché il Signore dice che ci dobbiamo voler bene”, quando io per perdonare ti perdono perché il Signore l‟ha detto, attenzione non è un fatto positivo.

Ma è un fatto allarmante. Significa che se tu ti rifai a questo messaggio come qualcosa di esterno, questo non ha messo radici in te. Non ti amo perché me l‟ha detto Gesù, ti amo perché ormai è diventata la mia natura volerti bene. Ma non ti perdono perché l‟ha detto Gesù, ti perdono perché non posso stare perdonarti.

Quindi attenzione, se il messaggio non radica profondamente nell‟individuo, quando arriva il momento della persecuzione, ecco che si manda via.

Questo momento della persecuzione viene espresso con la formula della croce. Siccome siamo in Quaresima e in Quaresima, nonostante ormai 50 dal rinnovamento liturgico, affiorano le vecchie idee dello stupidario religioso, della mortificazione, delle penitenze, dei sacrifici, tutti vocaboli assenti nel messaggio di Gesù. Mai Gesù invita a fare penitenza, mai Gesù invita a fare sacrifici, tutto il contrario!

Misericordia voglio e non sacrifici, questa è l‟immagine nefasta della religione, ma ce l‟abbiamo nel DNA e affiora. Una di queste immagini che affiorano è l‟idea della croce. Voi 14

sapete che, nel parlare comune, quando capita qualcosa, le persone pie, che sono sempre le più pericolose e vanno evitate accuratamente, quando capita nella vita, capita un rovescio, una malattia, un lutto, una disgrazia, attenti alle persone pie! Tenetele a distanza di sicurezza, perché sono quelle che sanno tutto. Ne sanno una più del Padreterno e ti vengono a dire che è la volontà di Dio, è il Signore che t‟ha dato la croce.

Dice “ma io non la voglio”; “attento a te! Come non la vuoi, attento che se rifiuti questa croce ce n‟è una più grande pronta per te”. Quindi questo Padreterno che fa le croci, questo Padreterno carnefice, ognuno ha la sua croce. E poi la più idiota di tutte, perché il Padreterno fa la croce secondo le spalle delle persone, prende le misure.

L‟ultima che ho sentito – perché sto raccogliendo tutto questo … lo chiamo lo stupidario religioso – è davvero geniale: c‟era una signora che vive il dramma di tanti, divorziata, risposata, ecc. che si lamentava con la sua guida spirituale di questa esclusione dalla chiesa, ecc. e il suo padre spirituale le diceva “è la croce che il Signore ti ha dato”, dice “ma io non la potrei alleggerire un po‟ questa croce?” Dice “No perché sai a cosa servirà questa croce che il Signore ti ha dato? Nel momento del giudizio, quando ti troverai di fronte al Signore, tra te e il Signore ci sarà un burrone, ebbene, tu metterai giù la croce ed è la misura esatta della distanza che ti separerà dal Signore”.

Pensate che sfiga! Se taglia cinque centimetri di questa croce, crolla giù con tutta la croce. E‟ il massimo della stupidaggine!

Mai Gesù parla della croce abbinandola al dolore, alle sofferenze, alle malattie. Cinque volte c‟è nei vangeli l‟invito di Gesù a caricarsi la croce, ma sempre rivolto ai discepoli, alla folla, come condizione per seguirlo. Mai Gesù dice che ognuno ha la sua croce, mai Gesù dice di accettare la croce, al croce va sollevata. A cosa si riferisce Gesù?

Quando il condannato veniva portato a questo supplizio, doveva mettersi sopra le spalle in tribunale l‟asse orizzontarle, l‟asse verticale era sempre conficcato nel luogo dell‟esecuzione, doveva caricarsela sulle spalle e poi passare tra due ali di folla, andare fuori della città nel luogo del supplizio, ed era il momento più tremendo. Perché?

Era un obbligo religioso che gli stessi familiari e gli amici insultassero e malmenassero il condannato, questa era la croce. Allora la croce significa la solitudine totale, la perdita della reputazione. Questo significa. 15

Allora dice Gesù “Attenti che se questo messaggio non radica in voi, quando arriva il momento di perdere la reputazione, vacillerete, perché ci terrete al vostro nome, ci terrete al vostro nome, ci terrete alla vostra reputazione più del seguire il Signore”.

Questa categoria che adesso presentiamo è anche tragica. “Altri sono quelli che vengono seminati tra i rovi, sono coloro che ascoltano la parola”, quindi questi ascoltano la parola, il terreno è buono, no ci sono pietre, la parola mette radici e ci si aspetta frutto, ma attenzione al crescendo – e questa è la festa dei fidanzati e credo che sia molto indicato, specialmente nei primi anni della formazione della famiglia, perché è quello che può mettere a rischio anche il nucleo famigliare, sentite Gesù con che finezza psicologica descrive il fallimento della sua parola – “ma le preoccupazioni del mondo e la seduzione della ricchezza e desideri di tutto il resto, penetrano poco a poco, soffocano la parola e rimane senza frutto”.

Gesù si sta riferendo a quella che è l‟esperienza di noi tutti. Siamo in condizioni economiche precarie, abbiamo un desiderio da realizzare e diciamo “Eh, se avessi un aumento di stipendio! Se vincessi al lotto potrei fare questo e quello!” Quindi la preoccupazione del mondo ci fa vedere la soluzione nella ricchezza.

Ma cosa succede? Io credo che questa è un‟esperienza che tutti quanti abbiamo fato o possiamo fare. Desideriamo qualcosa, legittimamente, e ci impegniamo per ottenerla, e l‟otteniamo attraverso il denaro. Quando poi l‟abbiamo ottenuto, dopo un po‟ suscitano nuovi desideri. E allora ci troviamo di nuovo in preoccupazioni economiche che ci fa vedere nella ricchezza la soluzione di questo.

Una volta riusciti a entrare in questa nuova condizione, di nuovo nascono nuovi desideri. Perché pensiamo che la felicità consista nell‟avere tanto, e non, come dice Gesù, nel dare tanto.

Questa è la categoria più tragica, perché? Per Gesù la persona vale se è generosa. Una persona che tutta la vita è in preoccupazioni economiche, non sarà mai una persona generosa. Allora Gesù dice “Attenti che se non mettete un limite allo stile della vostra vita è la fine, perché poco a poco i desideri entrano dentro di voi e soffocano questa parola”.

Quindi quello di Gesù è un monito da tenere ben presente ed osservare. Questa è una categoria che poteva portare frutto, ma non lo ha fatto perché ha visto nel denaro la soluzione ai suoi problemi. 16

Quindi ricordo, la preoccupazione del mondo fa vedere nella ricchezza la soluzione, arriva la ricchezza, nascono nuovi desideri e si ritorna di nuovo da capo.

E lo vedremo dopo nella conclusione, nella seconda parte, nell‟episodio del ricco, come è il fallimento.

Ma finiamo in bellezza. “E quelli seminati nella terra buona, sono coloro che ascoltano la parola, l‟accolgono e producono frutto”. Sono tre verbi: ascoltare, ma non basta ascoltare, accogliere, ed accogliere significa che questa parola deve mettere radici, ma non basta neanche accogliere, bisogna che questa parola si trasformi in atteggiamenti vitali.

Quindi sono tre gli atteggiamenti di fronte all‟annuncio di Gesù: ascolto, naturale, accoglienza, far sì che questo diventi parte della nostra vita, e poi la trasformazione in gesti concreti.

Producono frutto, trenta per uno”, ricordate che era considerato un raccolto eccezionale, per Gesù è la base, non è che qualcuno fa trenta, altri sessanta, altri cento. No, è un processo di crescita senza fine. “Poi sessanta per uno, e cento per uno”. Ma come si fa ad arrivare a questo cento? Lo dice Gesù a conclusione della parabola, dicendo “Attenzione a ciò che state per ascoltare. La misura con la quale misurate, sarete misurati anche voi, anzi vi sarà aggiunto in più.”

La parole del Signore ha bisogno, per manifestarsi, della nostra collaborazione. Noi per realizzarci pianamente abbiamo bisogno della sua parola, ci deve essere questa fusione tra la parola e l‟uomo. La parola diventa l‟uomo e l‟uomo diventa parola. Quando c‟è questo si innesca un processo di crescita progressivo, totale e traboccante. Quindi trenta, sessanta, cento, che corrisponde a quello che Gesù dà.

La misura con la quale misurate è il trenta, noi accogliamo questa parola e ne produciamo trenta; a chi produce vita, Dio regala vita. Quindi quando si vive per il bene degli altri, perché di questo si tratta, quello che si dà non viene perso, ma viene raddoppiato, quindi tu dai trenta e subito, dice Gesù, sarete misurati anche voi, e ti dà un altro trenta, e arrivi a sessanta. Ma Dio è generoso e non si lascia vincere in generosità.

La misura che misurate sarete misurati, ma vi verrà dato in aggiunta”, ecco il cento per uno. “Vi sarà aggiunto in più”. Cosa vuol dire il Signore? Più noi diamo agli altri e più riceviamo da lui. Dare non è perdere, ma è guadagnare. Chi orienta la propria vita per il bene degli altri, non la perde, non ci rimette e questo è il segreto – e l‟augurio che vi facciamo perché penso che tutti quanti desideriamo essere felici – della felicità. 17

Gesù l‟ha detto negli Atti degli Apostoli, c‟è maggior gioia – beati, letteralmente – nel dare che nel ricevere, questo è l segreto della felicità in questa vita. Siamo chiamati ad essere pienamente felici in questa vita; la gente pensa che la felicità consista nell‟accaparrare, nel prendere per sé. Gesù dice il contrario: la felicità non consiste in quello che tu prendi, ma in quello che dai.

Quindi l‟invito di Gesù nell‟accoglienza di questa parola, è una parola che viene accolta, viene fatta propria, e poi, nella misura in cui si traduce in atteggiamenti che comunicano vita agli altri, c‟è una esplosione, una crescita incredibile, traboccante, nella vita di ogni persona.

Questo è il messaggio di Gesù, nella seconda parte esamineremo il fallimento di questo messaggio che è proprio l‟attaccamento alla ricchezza.

Nella parabola di Gesù abbiamo visto che la stessa parola viene seminata in quattro terreni, su tre il fallimento è completo, ma in quello che accoglie, la prende e la produce, c‟è una trasformazione che va al di là di ogni possibilità per l‟uomo perché c‟è lì l‟azione divina.

Ma abbiamo visto che la categoria più tragica è il terzo terreno, quello in cui la terra era buona, il seme mette radici, spunta, ma poco a poco i frutti soffocano e Gesù diceva che questo terreno tragico è quello dove le preoccupazioni della vita fanno vedere nel denaro, nella ricchezza, la sua soluzione, ma poi dopo il denaro porta ad altri desideri.

E dicevamo, questa è un‟esperienza che abbiamo fatto tutti quanti, quante volte abbiamo detto “quando avrò finalmente un aumento di stipendio, finalmente potrò realizzare questo!” Poi arriva l‟aumento di stipendio, realizzi quello che era il sogno, ma di lì a poco tempo ecco che subentra già un nuovo desiderio. Allora la persona si trova sempre in condizioni economiche precarie e fa vedere nel denaro la soluzione.

Una persona che sta sempre in preoccupazioni economiche non può essere una persona generosa. Ebbene per Gesù il valore della persona sta nella generosità. O una persona è generosa o non vale niente.

Allora adesso vediamo la seconda parte, è un racconto amaro, drammatico nel vangelo. Gesù che è riuscito a risuscitare i morti, Gesù che ha purificato i lebbrosi, Gesù che ha liberato gli indemoniati, l‟unico grande fallimento lo fa con questo tipo che adesso vedremo. 18

Allora per chi vuole seguire, leggiamo il vangelo di Marco, capitolo 10, versetto 17. “Essendo uscito per la strada”, quando leggiamo il vangelo, l‟interpretazione ce la dà già lo stesso evangelista.

Ricordate la strada? Dov‟è che era venuta fuori la strada? Il seme seminato per strada. Abbiamo visto che era il seme seminato in persone che sono refrattarie e dicevamo quelli appartenenti al potere. Allora l‟evangelista, parlando di strada, ci sta dando già un‟indicazione: guarda, qui la semina sarà infruttuosa.

E vediamo. “Un tale gli corse incontro”. In oriente no esistono i tempi convulsi nostri e il mondo è tutto vissuto con più calma, e non esiste la fretta. Il correre è disonorevole, non si corre mai. Una persona che corre perde la propria reputazione, allora qui c‟è una persona che corre, una persona che,in qualche maniera, si disonora e chi ha corso, in questo vangelo, è stato soltanto l‟indemoniato, una persona impura. Quindi il fatto che corre ci fa capire che è una persona posseduta da una forza che non lo rende libero.

E, inginocchiatosi”; finora chi si è inginocchiato davanti a Gesù? Soltanto il lebbroso. Il lebbroso non era considerato un ammalato, ma un castigato da Dio. Quindi l‟indicazione che ci dà l‟evangelista è: attenzione che sarà un fallimento il seme gettato non verrà accolto, perché abbiamo una persona che è posseduta da una forza che non la rende libera e una persona che è esclusa da Dio.

Gli chiede”, vediamo cos‟era questa angoscia che lo ha spinto a correre, a inginocchiarsi. “Maestro buono, che devo fare per ereditare la vita eterna?” Ecco quello che lo angosciava. La vita eterna era un concetto relativamente nuovo all‟epoca di Gesù, era stata una creazione teologica dei farisei che pensavano che la vita eterna sarebbe stata un premio nel futuro soltanto per i giusti.

Si credeva, a quell‟epoca, all‟epoca di Gesù, che, quando si moriva, si finiva tutti buoni e cattivi, nella caverna sotterranea che era il regno dei morti, ma poi i farisei crearono questa nuova teologia, parlando di una risurrezione, all‟ultimo giorno, dei giusti.

Allora, questo individuo è preoccupato per questa risurrezione, anche perché i farisei non la facevano mica facile. Per appartenere al gruppo dei farisei, per essere considerati giusti, non bastava osservare alcuni precetti, loro avevano estrapolato dalla legge di Mosè ben 613 comandamenti da osservare. 365 proibizioni e 248 precetti. Allora costui si rivolge a Gesù per sapere cos‟è che deve essere sicuro di fare per ottenere la vita eterna. 19

E la risposta di Gesù lo fredda. “Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non Dio”. Cioè lui non deve andare alle dottrina dei farisei e neanche a Gesù, perché Gesù non è venuto ad indicare una maniera migliore o superiore per entrare nella vita eterna, a Gesù non interessa l‟aldilà, Gesù è venuto a inaugurare il Regno di Dio, la trasformazione di questa società qui. Quindi dice “perché lo chiedi a me, rifatti a Dio?”

Quindi “staccati da questa teologia dei farisei, e rifatti a Dio”. E gli dice “I comandamenti conosci”. Quindi Gesù lo richiama alla legge originaria, ma quello che è sorprendente è che Gesù adesso non enuncia tutti i comandamenti di Mosè, ma fa una scelta e sceglie soltanto i comandamenti per la vita.

Visivamente i comandamenti di Mosè erano raffigurati su due tavole che non erano di uguale importanza; nella prima c‟erano i tre obblighi assoluti verso Dio e questi erano il distintivo di Israele, perché erano i comandamenti che soltanto Israele aveva. Nell‟altra c‟erano i sette doveri verso gli uomini che erano comuni nelle culture dell‟epoca. Ebbene Gesù gli dice che, per avere la vita eterna, deve osservare i comandamenti, ma in maniera provocatoria in quel mondo, in maniera insultante per un pio ebreo, Gesù non annuncia gli obblighi verso Dio.

Per ottenere la vita eterna non importa se hai creduto o meno in Dio, come ti sei comportato o meno nei confronti della divinità, ma soltanto come hai agito nei confronti dell‟altro. Allora Gesù gli enuncia i cinque comandamenti che sono tutti in relazione alla vita: “Non uccidere”, non ammazzare fisicamente una persona, “non commettere adulterio”, l‟uccisione del matrimonio, “non rubare”, se togli le sostanze a un altro è come ammazzarlo, “non testimoniare il falso”, e testimoniare il falso non è la bugia, la bugiola che si può dire; la testimonianza falsa era quella che mandava a morte l‟imputato, come quando al processo di Gesù cercavano qualcuno che testimoniasse il falso contro di lui.

E poi, così, quasi come una mossa indiscreta, Gesù ci infila tra i comandamenti quello che non è un comandamento, è strano. Gesù dice osserva i comandamenti, arrivato al quarto comandamento, prima del quinti, infila quello che non è un comandamento, era un precetto, contenuto nel libro del Deuteronomio, “non frodare”. Dopo capiremo il perché. Quindi “non imbrogliare”. E‟ strano che Gesù a questo individuo abbia messo questo “non imbrogliare”, che è nel libro del Deuteronomio, dove indicava il proprietario che imbrogliava il suo salariato, il suo dipendente e non gli dava la paga.

E poi “onore tuo padre e tua madre”. L‟onore al padre e alla madre non implicava l‟ovvio rispetto verso i genitori, ma il mantenimento economico. Il figlio maschio primogenito era 20

obbligato a mantenere i propri genitori, non esistevano mica le pensioni, l‟assistenza sociale. Quindi onorare i genitori significava mantenerli in maniera decorosa; disonorarli, farli vivere nell‟indigenza.

Quindi Gesù gli indica i cinque comandamenti che riguardano la vita, ma in più ci ha infilato qualcosa che non è un comandamento, ma un precetto. Ed „ è “non imbrogliare”. Allora disse a Gesù – e lui è soddisfatto – si sente proprio l‟entusiasmo di questo individuo: “Maestro, tutto questo l‟ho osservato fino dalla mia giovinezza”, il testo greco indica proprio che questa persona si riempie la bocca dalla contentezza – “tutto questo” in greco si dice “tauta panta”, se provate a pronunciare questa parola “tauta panta”, sentite proprio che vi si riempie la bocca; “Tutto questo l‟ho fatto fin da sempre”, quindi è una persona osservante e una persona devota.

Allora Gesù lo fissò e lo amò”. La reazione normale di Gesù, che è Dio – e Dio è amore – è una proposta d‟amore, ma come abbiamo detto prima, l‟amore può essere soltanto offerto; l‟amore quando viene imposto non si chiama più così, ma diventa violenza, ecco perché tutto il messaggio di Gesù può essere soltanto offerto, proposto, ma mai imposto. E‟ la dottrina che viene imposta.

La dottrina viene imposta perché chi la impone non ci crede egli stesso; perché se qualcosa è buono non c‟è bisogno di obbligare, di imporre, ma basta offrirlo. Allora Gesù lo fissò – fissare significa entrare dentro nell‟individuo, vedere la sua profonda realtà – gli esprime tutto il suo amore e gli dice – traduco letteralmente – “ti manca uno”.

Spesso i traduttori completano l‟espressione di Marco e aggiungono “ti manca una sola cosa”. Come se Gesù gli facesse un complimento: “quanto sei bravo, sei veramente bravo, metti la ciliegina sulla torta, ti manca solo questo”. No! Quando nel mondo ebraico si dice che “manca l‟uno”, vuol dire che manca tutto. Quindi Gesù sta dicendo “non c‟è niente, sei un disgraziato”.

E adesso vedremo alla persona religiosa, devota, e poi è la sorpresa finale di che tipo è, e Gesù gli dice “ti manca tutto”. Nel vangelo di Matteo, nello stesso episodio, è l‟individuo stesso che rivolto a Gesù gli chiede: “che cosa mi manca?” Quindi avverte che gli manca. E nel vangelo di Matteo questo individuo viene presentato con „giovanetto‟ che è il diminutivo di „giovane‟ che incontra Gesù e Gesù gli dice “se vuoi essere adulto, se vuoi essere perfetto”. 21

Ma lui rifiuta e rimane giovanetto. L‟incontro con Gesù dà la possibilità di realizzare pienamente se stessi, la maturità dell‟individuo. Essere perfetto significa pienamente realizzato, completo e, come abbiamo visto prima, nella parabola dei quattro terreni, ci si realizza soltanto nel dono di sé.

E‟ nel dono di sé che la persona si realizza e si matura. Quindi Gesù gli dice “Ti manca tutto”, quindi gli manca tutto, non ha nulla. E allora Gesù gli dà anche indicazioni di come rimediare a tutto questo. “Va, vendi quanto hai, dallo ai poveri, così avrai un tesoro in cielo, poi vieni e seguimi”.

A questo individuo, che era preoccupato dell‟aldilà, Gesù lo invita a guardare l‟aldiquà. A questo individuo che era preoccupato per la vita eterna, Gesù lo invita a guardare la vita qui, quanti hanno bisogno di lui, del suo amore, della sua condivisione generosa. Quindi Gesù lo ha invitato a realizzare pienamente la sua esistenza, ma dice “Vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo”.

Cosa significa “tesoro in cielo”?

Gesù fa una proposta che è quella che poi gli altri evangelisti come Matteo formuleranno nelle beatitudini, che è questa: Chi vive per il bene degli altri, chi diventa responsabile della felicità degli altri, chi si occupa della vita degli altri, questo, permetterà a Dio di occuparsi della sua. Questo è il tesoro nel cielo.

Il cielo” significa Dio. E‟ un cambio meraviglioso quello che Gesù ci propone, e basta sperimentarlo, per confermare che le parole di Gesù sono vere e veritiere. Il giorno e il momento in cui tu non ti occupi più di te stesso, ma ti occupi degli altri, il giorno in cui tu, svegliandoti, ti chiedi “oggi cosa devo fare per rendere più felice e gioiosa la vita della persona che mi sta accanto, la vita delle persone che incontro” da quel momento preciso succede qualcosa si straordinario: il giorno che tu decidi di occuparti degli altri, senti che il Padre si occupa di te.

E il cambio è meraviglioso. Ricordate prima? La misura con la quale misurate sarete misurati, ma vi sarà dato in aggiunta. Più ci si occupa completamente del bene e del benessere, della felicità e della serenità degli altri, più sentiremo un Padre che si prende cura, non solo degli aspetti importanti della nostra esistenza, ma un padre talmente tenero e delicato, che va a pensare anche a quegli aspetti che noi consideriamo minimi e insignificanti, della nostra vita. E‟ la pienezza della felicità. 22

Quando non ci si preoccupa più per se stessi, ma ci si occupa degli altri, si sperimenta un Dio che si occupa di noi; allora la vita trascorre in un‟altra maniera. Ci si fida completamente di questo Padre, e l‟unico impegno che lui ci chiede: tu occupati degli altri, dei tuoi bisogni mi occupo io! E sapete che cosa si sperimenta? Non si sperimenta un Dio che va incontro ai bisogni dell‟individuo, ma un Dio che precede addirittura i bisogni dell‟uomo.

E questo è il massimo della serenità. Quindi il Signore non va incontro alle nostre necessità, ma le precede. Allora questa serenità piena e totale dà la forza e l‟energia di occuparsi degli altri. E‟ questo a cui Gesù invita la persona.

Occupandosi della felicità degli altri quest‟individuo otterrà la propria felicità, ma “incupito per la parola”, ma come è possibile? La parola di Gesù è una parola che è nata dal suo amore. Ricordate che Gesù l‟ha fissato e lo ha amato egli ha detto “ti manca tutto!” Se vuoi realizzarti, fai questo: occupati degli altri. Questa parola che doveva essere fonte di gioia e di allegria, diventa invece causa di tristezza.

Incupito per parola”. Ma come è possibile che la parola produca questo atteggiamento? “Se ne andò addolorato”. Non fa mica sempre bene incontrare Gesù; ha incontrato Gesù angosciato e se va addolorato. Ed ecco il colpo finale – quando leggiamo il vangelo, per gustare tutta la sua ricchezza – noi più o meno il vangelo lo abbiamo orecchiato e non ci prestiamo attenzione, ma provate ad immaginare i primi ascoltatori di questo brano, che non conoscevano il finale!

Ebbene Marco, al finale, ha messo la sorpresa. E la sorpresa qual è? “Infatti aveva molte ricchezze”. L‟incontro con Gesù è stato un fallimento per questo individuo. Gesù ha potuto purificare il lebbroso, ma non ha potuto niente per il ricco. La ricchezza è peggio della lebbra, anche il Signore è impotente di fronte alla ricchezza. Gesù, che ha potuto guarire l‟indemoniato, non può nulla contro i ricco. Essere posseduto dalle ricchezze è peggio che essere posseduto dal demonio.

Quindi è l‟unico fallimento di Gesù. Gesù, l‟unico fallimento che incontra nella sua vita, è con quest‟uomo. Perché? Il ricco crede di possedere le ricchezze, in realtà – eccone la prova – ne è posseduto. Lui credeva di servirsi dei suoi bene, in realtà lui era servo dei suoi beni. Ecco perché Gesù per la parabola ci ha messo “attenti al vostro livello di benessere!”

E‟ bene il benessere, ma quando questo benessere supera una certa soglia, diventa come una droga, che impedisce di accorgersi dei bisogni e delle sofferenze degli altri. C‟è un altro 23

ricco che nel vangelo fa una brutta fine, lo conosciamo tutti nel vangelo di Luca: il ricco e il povero Lazzaro. Vedete, bisogna diffidare dei titoli che ci sono nelle Bibbie … i titoli non sono dell‟autore, ma dell‟editore o del traduttore. Normalmente questo episodio veniva intitolato “il ricco cattivo e il povero Lazzaro” e il titolo dà un orientamento sul brano. Ma se noi leggiamo l‟episodio, del ricco non si dice mica che era cattivo; la descrizione fantastica che Luca fa dell‟individuo dice “c‟era un uomo ricco che vestiva di porpora e di bisso” , oggi tradurremmo vestito firmato da capo a piedi, “e tutti i giorni banchettava lautamente”.

Stop, tutto qui, non dice che questo ricco, quando incontrava Lazzaro gli dava un calcio nel sedere e lo malmenava. Il ricco non è cattivo nei confronti di Lazzaro, il ricco viene condannato in questa parabola, non perché sia stato malvagio nei confronti del povero, ma perché non si è accorto della sua esistenza.

I ricchi vivono a un livello tale che non incontrano mai il povero. Quando mai un ricco vede un povero? Non conosce la sua esistenza, allora ecco perché viene condannato. Allora Gesù, per il quale è stato più facile liberare una persona dai demoni che la possiedono che con questo dalla ricchezza, Gesù, per il quale è stato più facile purificare un lebbroso dalla lebbra, si trova impotente verso la ricchezza.

Il ricco è l‟unico personaggio in tutti i vangeli ad aver rifiutato l‟invito di seguire Gesù. Credeva di possedere i propri beni, ma ne era posseduto. Ecco perché Gesù, e concludiamo qui, ma l‟episodio continua, prosegue dicendo che “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel Regno di Dio”.

Non si tratta della salvezza eterna. Abbiamo visto che anche il ricco, se si comporta onestamente nei confronti degli altri, ha già la salvezza. Ma, per far parte della comunità del Signore, per sperimentare qui in questa esistenza la potenza della sua vita, non c‟è posto per i ricchi. Gesù, il Signore, vuole che nella sua comunità tutti siano signori. Signori sì, ma ricchi no.

Qual è la differenza tra il signore e il ricco? Il ricco è colui che ha, il signore è colui che dà. Allora nella comunità di Gesù, dove vige il principio della condivisione e del servizio, non ci può essere uno che ha e uno che non ha. Allora Gesù ci invita tutti quanti ad essere signori e signori possiamo esserlo tutti, perché il signore non dipende da quello che ha, ma quello che dà. 24

E, ricordate, l‟abbiamo visto prima, l„espressione e l‟invito di Gesù alla pienezza della felicità, “c‟è più gioia nel dare che nel ricevere”. E‟ possibile essere pienamente felici qui in questa esistenza. Come? Dando e non ottenendo.

E concludo con quella che è la morale di questo episodio importante, – questo lo offro come augurio per la vita di coppia e la vita di comunicazione con gli altri – un principio che chi lo sperimenta se ne accorge: si possiede soltanto quello che si dà. Quello che si trattiene per noi, attenzione, perché non si possiede, ma ci possiede.

La nostra ricchezza non è quella che conserviamo, ma quella che diamo; quello che diamo agli altri è quello che ci realizza, perché dare non è perdere, ma guadagnare.

 

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Fonte: studibiblici.blip.tv
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EREMO DI RONZANO dei Servi di Maria

ST. RICHARD PAMPURI UNIVERSITY – Un sogno e una proposta – Angelo Nocent

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CON-VOCAZIONE

è

PRO-VOCAZIONE

 

 

NOVA SANITAS O.H. 

St. RICHARD PAMPURI University 

Andate…guarite…annunciate…” (Mt 10,5ss) 

Per una cultura integrata dell’ Hospitalitas 

 

”Con queste mie mani”

 

PREMESSA 

Questa CON-VOCAZIONE sul blog che amo definire “St. Richard Pampuri University” è, in definitiva, una PRO-VOCAZIONE.

 

In entrambi i casi, il denominatore comune è la VOCAZIONE, ossia una chiamata divina per… ed allo stesso tempo, un fenomeno umano, nel significato che gli attribuisce il sacerdote psicanalista francese Marc Oraison nel suo libro Vocazione fenomeno umano EDB 1971.

Un discorso talmente rivoluzionario allora, che l’Editore cattolico ha dovuto mettere le mani avanti affidando l’ introduzione di 37 pagine a Tullo Goffi, allora presidente dei teologi moralisti italiani che ha sviluppato alcune considerazioni teologiche sulla vocazione per dimostrare che le tesi dell’Oraison non sono in conflitto con il pensiero biblico e con i documenti conciliari. 

In sintesi: quando un bambino o un adolescente manifesta certe predisposizioni, oppure dichiara che da grande farà questo o quello, si dice normalmente che ha la “vocazione”. Ma spesso poi la vita decide diversamente. Allora,

 

  • E’ posibile fare nella vita quello che si desidera?

  • Si ha i diritto di ritornare indietro quando si è presa una direzione?

 

Secondo lo studio che ne ha fatto M. Oreson, dobbiamo porci questi interrogativi e tutto il problema in termini diversi: la vocazione, tutto sommato, non è quella chiamata indefinita, segreta, religiosa, misteriosa o eccezionale che poi la vita piò o no realizzare. Vi è invece dapprima la presa di coscienza del raòpporto che ognuno di noli ha con il mondo e con gli altri. In seguitgo si valuta e si decide, con e tra gli altri

 - il posto che si vuol occupare

- il lavoro che si vuole svolgere

- la vita sociale, affettiva, politica da seguire.

 

La vocazione è quindi l’esperienza progressiva, dinamica e mutevole, dell’avventura di vivere con gli altri e per loro.

 

Per il cristiano poi, la scelta della propria vita significa anche il compierla entro il disegno divino, che Dio ha ideato e va attuando nel Figlio incarnato: il cristiano, che è inserito nel Cristo integrale, deve discernere tale vocazione attraverso la Chiesa e gli uomini.

 

Perché è soprattutto in una prospettiva comunitaria che la vocazione deve essere aperta e perché solo in tal modo una vocazione individuale si integra con quelle degli altri e acquista un proprio senso.

 

* * *

 Lo storico P. Gabriele Russotto o.h. ha scritto che “l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, dato il suo fine specifico di assistere gli infermi, si è dedicato con impegno e interesse, sebbene non esclusivamente, agli studi nel campo delle scienze mediche, e si è avvicinato, specie negli ultimi due secoli, al mondo medico, chirurgico, farmaceutico e infermieristico secondo il livello del progresso naturale e tecnico dei tempi”.

 

Nell’introduzione di un recente volume, “I GRANDI MEDICI FATEBENEFRATELLI NELL’ 800 MILANESE” (ed FBF), è detto che “non è ancora stato pubblicato uno studio completo sui grandi medici chirurghi e farmacisti di Milano e della Provincia LOmbardo-Veneta. Per avvicinarli, per apprezzare gli aspetti eccezionali della loro esistenza nell’Ordine di San Giovanni di Dio, occorre conoscere anche gli ambienti politici, culturali e scientifici in cui è nata e si è svolta la loro attività, spesso segnata dalla problematicità e dall’incertezza dei dei loro tempi. Questo si può fare solo allargando l’area della documentazione e riportando una fondata sintesi sull’evoluzione politico-culturale d’Italia”.

 

Gli autori, Giovanna della Croce o.c.d. e Mauro Zucchelli, precisano inoltre che “non si può comprendere il grande valore delle attività mediche dei Fatebenefratelli considerandole unicamente come espressioni di profonda carità religiosa. Occorre concretizzarle attraverso un’analisi della società nella quiale i religiosi si sono trovati a vivere e a lavorare per il bene dei malati”.

 

Naturalmente nel considerare questo spaccato che prende in considerazione solo una Provincia Religiosa dell’Ordine, va tenuto presente che è solo per l’impossibilità di evidenziare realtà diverse e plurime, espresse nei cinque continenti, ognuna calata nel suo contesto geografico e culturale. Ma è già quanto basta per affermare che, a cinque secoli dalla grande intuizione rivoluzionaria di San Giovanni di Dio, ritenuto a buon diritto il creatore dell’ospedale moderno, ai suoi discepoli non è più permesso vivere di rendita, rispolverando ogni tanto i medaglioni di Fatebenefratrelli illustri. Se è vero che la società è cambiata come non mai, è doveroso quanto meno porsi degli interrogativi su questo passaggio storico radicale che capovolge tante certezze date per acquisite e mette in discussione il modo di sare in questa società a tutti i livelli.

 

Recentemente il Presidente della Regione Lombardia Formigoni in un editoriale sulla sanità ha tracciato in liee sintetiche l’orientamento politico delle Istituzioni: “Più libertà di scelta. Più sicurezza sanitaria”. Ed ancora: “Ripensare la sanità a distanza di trent’anni dall’introduzione del Sistema Sanitario Nazionale significa pensare a un modello culturale nuovo, capace di rispondere alle mutate condizioni di vita che caratterizzano la società contemporanea e che ci impongono di guardare alla spesa sanitaria non più come a un costo da contenere, ma come a un investimento, oltre che per la salute, anche per lo sviluppo del nostro Paese”.

Libertà di scelta, innanzitutto. Poi il principio secondo cui un servizio di natura pubblica può essere garantito anche da un soggetto di diritto privato, oltre che dagli irrinunciabili meccanismi di controllo del sistema.

 

Altri punti forza:

 

  • Separazione tra enti che forniscono (le aziende ospedaliere) ed enti che acquistano (aziende sanitarie locali) le prestazioni sanitarie.

  • Valorizzazione della professionalità degli operatori del settore.

     

E una sfida: “E’ questo il momento di gettare le fondamenta per un nuovo Welfare, realizzando appieno una logica di sussidiarietà che veda il contributo di soggetti responsabilmente attivi e garantisca pari opportunità durante l’intero ciclo di vita a tutti i componenti della società”.

 

Nelle pagine seguenti, ripresi e sviluppati gli argomenti dibattuti in una tavola rotonda. Sotto la foto di una suora d’altri tempi, la didascalia: “Anche nella sanità negli ultimi anni si è assistito a un fenomeno di concentrazione economica. I principali concorrenti del servizio pubblico ora sono i gruppi privati nazionali e le grandi fondazioni”.

 

Sulla destra della foto invece, virgolettato ed a caratteri cubitali il messaggio: “Fino a 10 anni fa, esistevano i centri di cura religiosi. Oggi [maggiormente evidenziato] NON PIU’ ”.

 

L’articolista è Francesco Beretta che riferisce di una tavola rotonda costituita da

 

  • Luigi AMICONE (Direttore e Moderatore)

  • Carlo LUCCHINA (Direttore Generale Sanità Regione Lombardia)

  • Francesco BERETTA (Dir. Gen. A.O. Istituti Clinici di Perfezionamento)

  • Pasquale CANNATELLI (Dir.Gen. A.O. Niguarda)

  • Gabriele PELISSERO (Direttore Scientifico Irccs Policlinico San Matteo)

  • Costantino PASSERINO (Direttore Centrale Fondazione Maugeri).

 

Introduce il direttore di Tempi, Luigi Amicone, che spiega: “Da sempre il nostro giornale è molto attento a temi come l’educazione e la sanità. In genere il tema sanità risente purtroppo di un ritorno di ideologia, per cui il privato sembra “il male”.

 

Mentre leggo, mi si fa presente, visivo, il mendicante di Granada. Nella mente rivedo la figura di San Giovanni di Dio che sta sullo sfondo degli ultimi cinque secoli di storia, con i suoi discepoli sopravissuti a tante intemperie. Quella storia che conosco abbastanza, mi appare sempre più come una bella fiaba grottesca, da non raccontare più neppure ai nipotini perché parla di sofferenze patite e lenite, di frati questuanti, soccorritori di appestati, di feriti sui campi di battaglia, di malati psichici abbandonati ai loro destini. Chi sarà mai il Beato Olallo, di cui in questi giorni si è dovuta occupare perfino la stampa? E’ roba del passato il frate Cubano rimasto da solo sul campo, medicina dei poveri, a condividere lo stipendio d’infermiere, “facendosi tutto a tutti” ?

 

E visivo mi si fa pure il Giussani. L’espressione è quella di una foto che ne ritrae solo lo sguardo. Un Giussani pensoso…A meno che non si tratti di una proiezione della mia mente malata.

Ma riprendiamo la tavola rotonda. Com’è cambiato il settore sanitario? La risposta la fornisce il Direttore Generale degli Istituti Clinici di Perfezionamento, Dott. Francesco BERETTA:

 

“Dieci anni fa la realtà lombarda era diversa. Esisteva il settore pubblico e i privati convenzionati. Questi ultimi si dividevano essenzialmente fra istituzioni religiose, alcune fondazioni pubbliche, altre private e tante altre piccole realtà private”. Poi il cambiamento radicale. Oggi le istituzioni religiose sono quasi del tutto scomparse o svolgono attività marginale perché sono strutture che non riescono gestire al meglio le proprie realtà sia per le dimensioni (piccole) che per mancanza di una vera mentalità e capacità imprenditoriale e manageriale e quindi sono spesso realtà economiche in perdita.

 

Anche le piccole strutture private sono pressocché scomparse, quasi sempre assorbite dai grandi gruppi privati. Restano così il pubblico, alcune grandi Fondazioni, per esempio il San Raffaele e la Fondazione Clinica del Lavoro, la Don Gnocchi e, appunto, i grandi gruppi privati (in Lombardia soprattutto il gruppo Rotelli e Humanitas), che sono in crescita.

 

La sanità privata oggi è anche un grande business coinvolto nel processo della globalizzazione. Questo elemento ha sicuramente modificato la modalità di erogazione e di gestione di queste strutture, ed esige una riflessione. Per esempio, sul fatto che un gruppo privato di livello nazionale non solo compra meglio, ma acquisisce meglio professionisti di elevata qualità nazionale e imposta l’organizzazione delle proprie strutture in modo moderno e con elevate tecnologie. Il sistema lombardo appare come principio buono, tanto che altre regioni lo vogliono copiare. Penso che si possa lavorare su alcuni provvedimenti correttivi della Legge 31, senza però stravolgere la norma. Anzitutto perché la Lombardia è la Regione dove gli ospedali hanno i bilanci migliori e dove le persone si sentono assistite meglio. Un’osservazione, su cui chiedo una riflessione.

 

La realtà pubblica soffre del problema di non poter valorizzare al meglio i professionisti degli ospedali. Ce ne sono molti e bravissimi, ma non possiamo permetterci adeguate retribuzioni, così speso vediamo questi professionisti dover lasciare spesso l’ospedale per svolgere attività nel loro studio privato. D’altronde le varie riforme della sanità non consentono a noi direttori generali di premiare adeguatamente i nostri professionisti più bravi. Ci sono molti vincoli sulle assunzioni di personale, sulle remunerazioni differenziate anche per tutto il personale assistenziale che necessita di un ampio approfondimento”.

 

Nulla di nuovo. Ma è sintomatico.

 

 

E’ un bene che la sanità evolva. Ma…

 

Se simili affermazioni a prima vista fanno rimanere di stucco, è necessario superare l’impatto indigesto ed interrogarsi spietatamente. E non solo in termini economico-finanziari. Bisogna prendere in mano la Parola di Dio e lasciarsi condurre dallo Spirito. Che, se chiederà di fare l’Università o agganciarsi ad altra già esistente, bisognerà farlo senza esitare. Ad una svolta epocale si deve rispondere con una svolta culturale.

 

Epperò non vedo l’ora che questi appunti vengano presi in mano da qualcuno, calpestati, fatti a pezzi, perché considerati talmente superati da farsi prendere dal desiderio di ripensarli in modo superlativo, aprendo nuove dimensioni qui solo abbozzate o non previste.

 

Però vorrei tanto che non si fermasse lì come ho fatto io, ma cedesse alla tentazione di passare dall’attuale Universitas virtuale alla sua piena realizzazione. E’ un auspicio ed un augurio. Vorrebbe dire

 

  • che la PRO-VOCAZIONE non è risultata sterile;

  • che termini come hospitalitas ed umanizzazione, spesso parole logore, abusate, pie aspirazioni del cuore, sarebbero riusciti a sfuggire all’usura del tempo per reincarnarsi con l’ardore iniziale e la competenza e la completezza dei saperi attuali.

 

 

L’idea dell’ Universitas si è imposta partendo da un’altra riflessione derivante da un interrogativo: Perché non fondare la “Sànitas” su una “Economia di Comunione” e di “Solidarietà con i popoli” ?

 

In un baleno mi è apparsa evidente l’esigenza di colmare quella lacuna culturale che verrebbe a crearsi, ove non si disponesse di un’Università di supporto che sappia armonizzare i progetti di ricerca della medicina e della tecnologia moderna con le leggi dell’economia e che sia allo stesso tempo una finestra aperta sul “sapere interdisciplinare” (scienze psicologiche, sociologiche, filosofico-teologiche, arte, immagine, musica, ecc.) come pure una fucina di idee ed intuizioni in continua elaborazione ma sempre a partire dal Vangelo del Regno di Dio.

 

Per l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio l’adozione di entrambe a supporto dei propri Centri di assistenza e cura esistenti nel mondo, rappresenterebbe una sfida in linea con la sua storia, ribadire una rinnovata passione per l’uomo e contagiare la Sanitas mondiale, talvolta asfittica, per mancanza di un “supplemento d’anima”. Quando si assiste qualcuno provato nella sua persona, vale a dire nella sua complessità che va ben oltre la patologia organica, il livello di eccellenza non può essere misurato superficialmente col metro dell’efficienza clinica e dell’assistenza alberghiera, intesi come atti meccanicistici.

 

E’ impensabile esercitare la missione del curare senza allenarsi nella fatica dello studio, ostinarsi nella ricerca e promuovere la didattica, veicolo per trasmettere il sapere dai medici a tutte le figure presenti nell’organico del luogo di cura con svariate mansioni.

 

Ciò nonostante, alla carta di questi servizi, per quanto eccellente, mancherebbe ancora qualcosa: la garanzia che gli operatori esercitano una missione. Per i credenti è d’ispirazione cristiana, perciò confessionale, e punta alla divinizzazione dell’uomo. Per tutti, all’insegna della libertà, è di alta professionalità, rispettosa dell’etica naturale e dei diritti della persona.

 

Non trovo di meglio per il momento che menzionare una figura che ha fatto da battistrada: il medico PIERLUIGI MICHELI. Aggregato all’Ordine dei Fatebenefratelli, di lui ho avuto modo di scrivere ripetutamente. Sue sono queste considerazioni:

 

La medicina è un’arte, richiede un supplemento d’anima” (Cf P. Micheli f. 108).

La medicina moderna ha raggiunto un grado di tecnologia avanzatissimo, estremamente elevato, ma ha dimenticato in gran parte che possiedono virtù terapeutiche le energie che risiedono nella parola, nell’immagine, nelle arti, nella persona del medico e in noi stessi, in quella forza naturale che gli antichi chiamavano virtus ” (Cf P.Micheli f. 149).

L’UOMO E’ FATTO PER UN’ALTRA LUCE – Ermes Ronchi

L’uomo è fatto per un’altra luce

 

di Ermes Ronchi

Avvenire 22/01/2009

 

Terza Domenica Tempo ordinario Anno B

 

Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».

 

Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini». E subito lasciarono le reti e lo seguirono.

 

Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti. E subito li chiamò. Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.

 

Camminando lungo il mare di Galilea, Gesù vide” In un giorno qualunque, in un luogo qualunque Gesù cammina e guarda. Vede Simone e in lui intravede Cefa, la Roccia. Vede Giovanni, ma nel pescatore indovina il discepolo dalle più belle parole d’amore. Un giorno guarderà l’adultera e in lei vedrà non la peccatrice, ma la donna.

 Apostoli - Duccio

Il maestro ha camminato anche in me; mi guarda, e nel mio inverno vede grano che germina, una generosità che non sapevo di avere, intuisce melodie che non ho ancora espresso. Sguardo che rivela, crea, coinvolge: Venite dietro a me. Prima parola che contiene tutte le altre; doppia parola che contiene la strada e il suo perché.

 

I quattro del lago seguono Gesù non perché attratti dalla sua dottrina, ma perché sentono che di lui si possono fidare.

 

Come loro, io ho bisogno di un Dio affidabile. La mia fede si appoggia su una croce, incredibile (idiozia per i greci e follìa per i giudei) ma affidabile, in cui non c’è inganno.

 

Venite dietro a me.

 

Perché?

 

La ragione di tutto è nel pronome personale, dietro a me; il motivo oltre il quale è impossibile risalire è Lui.

 

Affidarsi precede la missione: diventare pescatori di uomini.

I quattro sapevano pescare. Ma «pescatori di uomini» è una frase inedita, un po’ illogica, nulla di simile nelle Scritture. E significa: vi farò cercatori di uomini, come se foste cercatori di tesori.

 

Mio e vostro tesoro è l’uomo. Voi tirerete fuori gli uomini dall’invisibile, come quando tirate fuori i pesci da sotto la superficie delle acque, come dei neonati dalle acque materne, li porterete dalla vita sommersa alla vita nel sole.

 

La vostra missione è intensificare la vita. Cercateli in quel loro mondo dove credono di vivere e non vivono, che credono vitale e invece è senza ossigeno. Mostrate che l’uomo, pur con la sua pesantezza, è fatto per un’altra respirazione, un’altra luce.

 

I pescatori che sapevano solo le rotte del lago, scoprono dentro di sé la mappa del cielo, del mondo, dell’uomo.

 

Come loro ti seguirò, Signore, perché tu avanzi verso la verità dell’uomo, accrescimento sei d’umano, e rendi sicuro ogni passo, non lasciandoti dietro altro che luce.

 

Ti seguirò, Signore, fammi diventare cercatore del cuore profondo, pescatore di luce sepolta.

 

Ti seguirò, anche percorrendo solo la strada tra il lago e la mia casa, continuando a fare il mio lavoro, ma lo farò in modo luminoso e così umano che forse parlerà di Te.

 

Ti seguirò, perché mi interessa solo un Dio affidabile che faccia fiorire l’umano. (Letture: Giona 3,1-5.10; Salmo 24; 1 Corinzi 7,29-31; Marco 1,14-20)

 

 

 

 

 

LA PAROLA DI DIO NEL FUTURO DELL’EUROPA – C. M. Martini

LA PAROLA DI DIO NEL FUTURO DELL’EUROPA

Carlo Maria Martini

Sono lieto di poter intervenire a questo incontro di studio di Camaldoli, che rappresenta uno dei pochi luoghi e momenti di riflessione del nostro tempo in cui ci si sforza di ripensare in maniera aperta e senza pregiudizi il tema dell’agire politico nel contesto europeo e mondiale con un rigoroso riferimento alla Parola di Dio.
     Il mio intervento vuole sottolineare appunto una delle premesse fondamentali per questo ripensamento. Esso si riallaccia a un «sogno» che avevo espresso durante il secondo Sinodo dei vescovi europei: il sogno cioè che attraverso una familiarità sempre più grande degli uomini e delle donne europee con la sacra Scrittura, letta e pregata da soli, nei gruppi e nelle comunità, si ravvivasse quella esperienza del fuoco nel cuore che fecero i due discepoli sulla strada di Emmaus (cf. Lc 24,32). E aggiungevo che, anche per la mia esperienza, mi sentivo certo che la Bibbia letta e pregata, in particolare dai giovani, sarebbe stata il libro del futuro del continente europeo.
     Riprendo ora questo tema partendo anzitutto da un’icona biblica, quella descritta da libro degli Atti degli Apostoli al capitolo 16,6-9. Suona così:
     «Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia di Asia. Raggiunta la Misia, si dirigevano verso la Bitinia, ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro; così, attraversata la Misia, discesero a Troade. Durante la notte apparve a Paolo una visione: gli stava davanti un Macedone e lo supplicava: “Passa in Macedonia e aiutaci!”. Dopo che ebbe avuto questa visione, subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore».

     Il brano è anzitutto caratterizzato da un accumulo di nomi geografici, di regioni dell’Asia Minore, che vogliono dare un’idea generale dello svolgimento della seconda missione di Paolo, quella iniziata subito dopo il concilio di Gerusalemme (At 15,36).
     Non è facile orientarsi in tale elenco di regioni dell’Asia. La direzione di marcia di Paolo è in ogni caso verso Ovest, con varie digressioni. Ma il tutto è raccontato con estrema rapidità per farci arrivare a ciò che sta a cuore al narratore: il passaggio della Parola in Europa.

     Paolo ha la certezza che Dio lo sta guidando e, invece di lasciarsi prendere dall’impazienza o dalla frustrazione per quello zigzagare nelle province dell’Asia, intuisce che egli si trova di fronte a un disegno provvidenziale. Esso gli diventa chiaro quando a Troade, durante la notte, ha la visione di un macedone, che lo supplica: «passa in Macedonia e aiutaci».
     È chiaro che questo macedone sta per un popolo, per una nazione, che chiede soccorso. Possiamo perciò dire che l’inizio dell’evangelizzazione dell’Europa da parte di Paolo viene presentato come l’attuazione di un disegno provvidenziale di salvezza. È Dio che ha guidato gli avvenimenti. Probabilmente già altri cristiani erano arrivati a Roma o altrove. Tuttavia l’unico inizio dell’evangelizzazione dell’Europa che ci viene descritto solennemente è quello presentato qui in Atti 16,6-9. Da quel momento la parola di Dio sarà proclamata di regione in regione fino agli angoli più remoti del continente europeo e a seguito di ciò anche i libri delle sacre Scritture entreranno fortemente nella cultura e nella mentalità dei popoli europei.

     Come nota uno studioso protestante contemporaneo (Giorgio Girardet, Bibbia perché, Claudiana, Torino 1993, 196) «è difficile sottovalutare il peso che la Bibbia ha avuto nella formazione e nell’elaborazione della civiltà occidentale, nella sua filosofia, nelle sue dottrine politiche, nell’etica e nella concezione del mondo: cioè per molti aspetti che rendono l’Occidente originale e diverso da altre culture e civiltà. Per oltre un millennio, dal IV ad almeno il XVII secolo, la Bibbia è stata il testo base della cultura sia religiosa sia secolare, dal quale si attingevano le verità da credere e spesso le norme da seguire e che, con la sua presenza nelle cattedrali, nei monasteri, nelle scuole e nella letteratura popolare, ispirava intellettuali, scrittori e artisti, influenzava la mentalità dei popoli europei e ne plasmava il linguaggio. Nata dall’incontro fra il mondo greco-romano e quello ebraico-biblico, la civiltà occidentale ha ricevuto dal primo i fondamenti della filosofia e delle arti, del diritto e della scienza; dal secondo le basi della religione e dell’etica, il senso della storia, la priorità della coscienza e un contributo originale alla laicità della politica. A questo si deve aggiungere un apporto della cultura ebraica post-biblica spesso indiretto e questo nonostante i suoi due millenni di esistenza come comunità perseguitata».

     Dal canto suo Giovanni Paolo II ha affermato in molte occasioni che «la cultura europea non potrebbe essere compresa fuori dal riferimento al cristianesimo (…) Plasmata dalla parola di Dio, l’Europa ha svolto nella storia del mondo un ruolo unico, e la sua cultura ha fortemente contribuito al progresso dell’umanità. Il dinamismo della fede cristiana ha suscitato, nella cultura europea, una creatività straordinaria. La storia del mondo è ricca di civiltà scomparse, di culture brillanti il cui splendore si è da tempo estinto, mentre la cultura europea si è continuamente rinnovata e arricchita in un dialogo talvolta scomodo, spesso conflittuale, ma sempre fecondo con il Vangelo; questo stesso dialogo è fondamento della cultura europea» (Discorso al Simposio pre-sinodale su «Cristianesimo e cultura in Europa: memoria, coscienza, progetto», 31 ottobre 1991).
     E ancora: «Della buona novella del Vangelo sono vissuti in Europa nel succedersi dei secoli, fino al giorno d’oggi, i nostri fratelli e le nostre sorelle. La ripetevano i muri delle chiese, delle abbazie, degli ospedali e delle università. La proclamavano i volumi, le sculture e i quadri, l’annunziavano le strofe poetiche e le opere dei compositori. Sul Vangelo venivano poste le fondamenta dell’unità spirituale dell’Europa» (Omelia per il millennio del martirio di sant’Adalberto, Gniezno, 3 giugno 1997).

Nella vita frammentata

    Se questa è la storia del passato, a partire da qui noi ci chiediamo anzitutto in quale situazione si trovi oggi il cristianesimo in Europa e più in generale quali siano le condizioni spirituali del continente europeo. Il tema ci porterebbe lontano, ma voglio solo accennare ad alcune caratteristiche tipiche del cristianesimo nel nostro continente oggi. Parlando di cristianesimo mi riferisco qui in generale a tutte le Chiese cristiane presenti in Europa, prescindendo per il momento dal problema ecumenico. Alcuni problemi esistenziali sono infatti comuni in Europa un po’ a tutte le confessioni. Sottolineo tra i molti i quattro seguenti.
  
Il primo potrebbe essere descritto come la frammentazione o la parcellizzazione della vita. Essa è causata dalle diversità tra luogo di residenza, luogo di studio, luogo di lavoro, luogo di svago, con una conseguente dispersione degli orari familiari, come pure dalla molteplicità delle appartenenze. Si appartiene insieme alla Chiesa e alla squadra di calcio, al partito e al sindacato, alla categoria lavorativa e alla categoria sociale, al gruppo di volontariato e alla compagnia del tempo libero: ma spesso non si appartiene in profondità a nessuno di questi ambiti e si vive in una grande e solitaria soggettività.
  
Vi sono dunque all’apparenza esterna molteplici appartenenze, ma molte di esse sono sbiadite e parecchie sono anche in contrasto tra loro. In Europa sono sempre meno i luoghi dove si conduce un tipo di vita contrassegnato dalla stabilità e dall’omogeneità delle relazioni. Tale frammentazione opera una divisione nella vita che la rende più faticosa. Per questo la gente è sempre più nervosa, stanca, divorata dalla fretta, bisognosa di stimoli e di eccitazioni crescenti. Basta considerare la differenza esistente tra la concezione del tempo quotidiano in Europa e la concezione del tempo in Africa o in altri paesi del terzo mondo.
 

 

 

 

     In secondo luogo il cristiano europeo vive convivenze logoranti e dirompenti. Designo con questa espressione la contiguità, nel mondo europeo, di ambienti vitali improntati ancora alla fede e ambienti vitali segnati da laicismo e indifferentismo. Per cui un cristiano dei nostri tempi può vivere magari per qualche ora alla settimana in un ambiente di tradizione religiosa ancora sentita e per tante altre ore in ambienti professionali o pubblici nei quali il nome di Dio è assente, la fede non influisce per nulla sulla vita e prevalgono modelli pratici di azione difformi dal Vangelo. La comunicazione di massa riflette per lo più l’ambito dell’indifferentismo e dell’agnosticismo. Così il credente vive la grossa fatica di passare, magari più volte al giorno, dall’uno all’altro ambito, ciò che determina un crescente logoramento religioso e spirituale.

 

 

     Come è stato ripetuto più volte nei simposi dei vescovi europei, l’Europa non si può ritenere del tutto secolarizzata. Specialmente in alcune regioni permangono ambiti e luoghi vitali con residui più o meno importanti di cristianesimo. Tuttavia viviamo un po’ tutti in una mistura di ambiti che confondono e smarriscono molte persone. C’è poi da dire che la parrocchia tradizionale perlopiù non è stata abituata a preparare i suoi fedeli al passaggio continuo da un ambito all’altro.

     Una terza caratteristica è rappresentata da appartenenze parziali, soggettivismo ed ecletticismo. A proposito di questa, mi permetto di richiamare un’inchiesta sui valori europei che è stata aggiornata periodicamente in questi anni. Vi si propone una divisione tipologica secondo diverse categorie di persone rispetto al loro legame con una Chiesa. Utilizzo un’immagine che a mio avviso illustra il senso dell’inchiesta: l’immagine dell’albero.

  • Ci sono i cristiani della linfa, i cosiddetti impegnati, coloro che partecipano abbastanza da vicino alle iniziative della parrocchia.
  • Ci sono i cristiani del midollo, che frequentano la messa con qualche regolarità, che contribuiscono magari economicamente alle necessità della Chiesa, però non collaborano direttamente alla costruzione della comunità.
  • Ci sono poi i cristiani della corteccia, che vivono marginalmente rispetto alla comunità cristiana.
  • In numero crescente ci sono gli allontanati della prima generazione, cioè coloro che sono stati educati cristianamente ma da tempo hanno abbandonato la Chiesa.
  • Ci sono infine i lontani della seconda generazione, pure in crescendo, che non sono stati educati cristianamente, non hanno mai avuto alcun contatto serio con la Chiesa e perlopiù non sono neppure battezzati.
  • È interessante notare che la percentuale delle diverse categorie è assai diversa da nazione a nazione. In Italia per esempio i cristiani della linfa sono calcolati all’8%, i cristiani del midollo al 44%, quelli della corteccia al 33%.
  • In Francia i cristiani della linfa sarebbero il 7%, i cristiani del midollo il 12%, quelli della corteccia il 45%, mentre il fenomeno dei lontani di seconda generazione, per ora poco presenti in Italia, caratterizza la Francia in misura assai maggiore.

Ovviamente tali statistiche hanno valore relativo. Ma è chiaro che in Europa convivono tipologie religiose diversissime, da cui derivano forme di appartenenza spesso soltanto parziale alla Chiesa o di adesione parziale alla stessa fede, con un crescente ecletticismo e soggettivismo in campo religioso.

     Un quarto aspetto è di origine più recente. Esso non riguarda soltanto il dialogo ecumenico, che in Europa ha segnato in questi ultimi decenni grandi progressi ed è uno dei fattori che contribuiscono al risveglio spirituale dell’Europa e alla capacità di dialogo a livello europeo e mondiale, ma si riferisce al fatto nuovo della presenza in Europa di un numero sempre più grande di seguaci di altre religioni, soprattutto musulmani. Il problema della capacità di convivenza, del dialogo reciproco, della collaborazione e del rispetto per le varie religioni, della ricerca di valori comuni si pone dunque sempre più fortemente, se vogliamo evitare o la ghettizzazione di questi gruppi o lo scontro di religioni e di civiltà.

Ci si domanda dunque che cosa sono chiamati a fare i cristiani rispetto a questa situazione. Giovanni Paolo II afferma a questo proposito: «Oggi, dinanzi alla moltiplicazione di correnti intellettuali, alla diversità di concezione della vocazione dell’uomo e anche alle delusioni di innumerevoli contemporanei, è importante che il dialogo prosegua nella chiarezza e nel mutuo rispetto tra i discepoli di Cristo e i loro fratelli e sorelle di altre convinzioni» (Discorso al Simposio presinodale, 31 ottobre 1991). E ancora: «Il traguardo di un’autentica unità del continente europeo è ancora lontano. Non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà nell’unità dello spirito» (Omelia a Gniezno, 3 giugno 1997).

     È dunque importante suscitare nei fedeli una profonda unità interiore di vita, convinzioni radicate, una coerenza tra fede pensata e fede vissuta e insieme una capacità di apertura, di dialogo, di valorizzazione dell’altro che permetta di guardare al futuro come a un futuro di pace e di collaborazione. Si pone dunque la domanda: come aiutare i nostri fedeli in questo cammino che appare sempre più arduo? Come educarli a vivere i loro valori e a esprimerli in maniera comprensibile ed efficace in un contesto così movimentato e difficile?

Il libro che educa

     È in questo quadro che emerge il significato e l’importanza educativa della sacra Scrittura per il futuro del continente europeo. Una delle esperienze che maggiormente mi hanno accompagnato in questi anni non solo nei miei contatti con gli episcopati e le comunità cristiane europee ma anche nelle missioni pastorali svolte in tante altre parti del mondo è che la Bibbia può essere a buon diritto considerata come il grande libro educativo dell’umanità.

     Lo è anzitutto come libro letterario, perché è un libro che crea un linguaggio comunicativo, narrativo e poetico di straordinaria efficacia e bellezza, un linguaggio che sta alla base di alcune almeno delle nostre lingue moderne europee, in particolare della lingua inglese e della lingua tedesca, nate insieme con le grandi traduzioni bibliche. Ma molte tracce dell’influsso del linguaggio biblico sono facilmente reperibili anche nella storia della nostra lingua italiana e di molte altre lingue parlate in Europa.

     Ma la Bibbia è un grande libro educativo non solo come libro letterario, ma anche come libro sapienziale, che esprime la verità della condizione umana in una forma così efficace, così attraente, così incisiva che ogni persona umana, di qualunque continente e cultura, può sentirsi specchiata almeno in qualche parte di essa. Ne ho fatto l’esperienza anche in questi decenni predicando sul testo biblico in tanti continenti e a tante culture diverse del nostro pianeta.

     La Bibbia è inoltre un grande libro educativo anche come libro narrativo, perché descrive le vicende di un popolo nell’ambito di altri popoli attraverso un cammino progressivo di liberazione, di presa di coscienza, di crescita di responsabilità del soggetto individuale, fornendo un paradigma storico valido per l’intera storia dell’umanità.

     Ma la Bibbia è per i cristiani di tutte le confessioni un libro educativo in particolare perché libro dello Spirito Santo, che muove il cuore al vero e al bene, che descrive le condizioni del cammino umano verso l’autenticità intellettuale, morale e religiosa, che stimola ogni energia positiva e smaschera le trappole e gli infingimenti che ostacolano il raggiungimento della verità e della libertà della persona.

     Essa è infine un grande libro educativo perché mette al centro Dio educatore, come ho cercato di descrivere in una delle mie lettere pastorali che porta appunto il titolo Dio educa il suo popolo (1987), dove richiamo le coordinate fondamentali del cammino che Dio ha fatto percorrere a Israele. Si tratta di un processo personale e insieme comunitario, graduale e progressivo, con momenti di rottura e salti di qualità, conflittuale, energico, progettuale e liberante, inserito nella storia, realizzato con l’aiuto di molteplici collaboratori, compiuto in maniera esemplare nella vita di Gesù, inserito nei cuori mediante l’azione dello Spirito Santo nell’uomo interiore (Programmi pastorali diocesani 1980-1990, EDB, Bologna 1990, 405-478). Questo processo è illuminante anche per ogni cammino educativo dei nostri tempi ed è capace di stimolare potentemente ogni attività di formazione non solo religiosa ma anche umana e civile, come pure una sana disponibilità al dialogo anche con altre culture e religioni.

     Di qui nasce anche il mio auspicio per il futuro dell’Europa, auspicio che ho espresso nell’ultimo Sinodo europeo, che cioè la Bibbia divenga il libro del futuro dell’Europa e dell’intero pianeta.

Di fronte a Dio che parla

  
    Ma come valorizzare in pratica questa potenza educativa della Bibbia e farla giungere alla gente semplice, alle grandi masse anche nelle nostre metropoli, aiutandole a superare le difficoltà sopra descritte della frammentazione della vita, delle convivenze dirompenti, delle difficoltà del dialogo interculturale e interreligioso?      Per quanto riguarda la mia esperienza pastorale, esprimo la seguente risposta: tra i mezzi che possono maggiormente aiutare i cristiani che vivono nel mondo contemporaneo a raggiungere quell’unità di vita e quella capacità di orientamento che è premessa a un vivere sociale costruttivo, v’è certamente l’esercizio paziente, metodico, tendenzialmente quotidiano della lectio divina.

     Con il termine lectio divina intendo la capacità di mettersi di fronte una pagina della Scrittura per leggerla in spirito di fede e di preghiera, così da smascherare le insidie della mentalità contemporanea e giungere a leggere tutte le realtà secondo la mente e il cuore di Dio.

     Mi rifaccio per questo all’ultimo capitolo (VI) della costituzione Dei Verbum del Vaticano II. In essa si raccomanda che tutti i fedeli abbiano accesso, anche diretto, alla sacra Scrittura; che la leggano frequentemente e volentieri; che imparino a pregare su di essa, per conoscere autenticamente Gesù Cristo.

     Tale progetto è qualcosa di nuovo nella storia della Chiesa, perché suppone una situazione culturale non presente nei secoli precedenti. Anzitutto la capacità della massa della gente di leggere e di meditare; inoltre la disponibilità a essere educati a un esercizio personale di riflessione e di preghiera, al di là del semplice ascolto di una predica. Mentre in una condizione culturale più omogenea i segni del divino presenti nell’ambiente quotidiano insieme con la predicazione e la catechesi domenicale potevano apparire sufficienti per la formazione di cristiani adulti, oggi non è più così. Non a caso dunque il Concilio ha proposto la lectio divina tendenzialmente per tutti, almeno come meta pastorale da raggiungere.

     Non entro nella metodologia della lectio, che è stata approfondita in questi anni e che supera l’ambito della mia esposizione. Mi preme tuttavia insistere sul fatto che non è lectio divina il solo prendere ogni tanto in mano, da soli o in piccoli gruppi, qualche pagina della Bibbia. La lectio è un esercizio ordinato, metodico, non casuale, fatto in un clima di silenzio di preghiera, con una lettura idealmente continua di tutta la Bibbia, secondo il modello che la liturgia ci propone nel triplice ciclo delle letture domenicali e nel duplice ciclo delle letture feriali. La lectio è dunque un atto che si compie nella Chiesa e in comunione con una Chiesa, ma con un’attivazione della soggettività orante e intelligente di ciascuno.

     Essa non sostituisce né la catechesi né altre iniziative di insegnamento e di aggiornamento culturale che aiutano un cristiano a divenire adulto nella fede. Tuttavia la lectio fa qualcosa che i discorsi, le prediche le catechesi non possono sempre fare: pone cioè ciascuno con la sua coscienza e responsabilità di fronte a Dio che parla, che invita, che chiama, che consola o rimprovera, il tutto in un’atmosfera di preghiera e di dialogo, di umile richiesta di perdono, di domanda di luce, con la disposizione a lasciarci guidare dallo Spirito Santo per realizzare l’offerta della propria vita.

     Voglio sottolineare che la lectio divina, così vissuta, propizia quella unità interiore, quella profondità di convinzioni, quella coerenza pratica di vita che contrasta con le forze di frammentazione operanti nella moderna società. È davvero un rimedio divino provvidenziale per il nostro tempo.

     Le indicazioni del Vaticano II sull’accesso diretto alla Bibbia da parte dei fedeli non devono dunque essere disattese. Nel mondo occidentale ci troviamo in un contesto pubblico che prescinde da Dio, in cui il mistero di Dio è quasi assente nei segni esteriori della vita della società. Siamo minacciati da un’aridità interiore che rischia di soffocare le coscienze, di non lasciar più emergere nell’esperienza quotidiana il senso e il gusto del Dio vivente.

Solo se alimentiamo la nostra fede con un contatto personale con la Parola, riusciremo a passare indenni attraverso il deserto spirituale della società contemporanea. Come si esprime Giovanni Paolo II, «più che mai l’Europa ha bisogno di ritrovare la sua identità spirituale, incomprensibile senza il cristianesimo (…) La ricostruzione dell’Europa esige dunque anzitutto questo sforzo per renderla nuovamente cosciente della sua identità tutta intera, della sua anima» (Discorso a un Simposio sulla pastorale familiare in Europa, 26 novembre 1982).

     Sono persuaso che il principio della lectio divina può ispirare tutta un’azione e un programma pastorale nelle grandi metropoli europee. Ci sono oggi molte premesse culturali e spirituali che possono far diventare la lectio parte di un programma organico. Essa può essere il luogo che suscita e vivifica iniziative valide per il cammino di una comunità cristiana.

Un atteggiamento dialogante

     Vorrei da ultimo ancora ricordare l’importanza della familiarità dei cristiani con la Scrittura per affrontare il dialogo interreligioso e interculturale. Tutta la Scrittura è pervasa da questo dialogo, perché essa racconta la storia del popolo di Dio che è entrato via via in contatto con nuove culture e correnti di pensiero e in parte le ha assorbite, in parte ha operato su di esse un discernimento illuminante.

     Un atteggiamento dialogante, rispettoso e insieme cosciente dei propri valori e delle proprie certezze è dunque quell’atteggiamento che la Scrittura promuove e che è tanto necessario per un dialogo fruttuoso in Europa con le altre religioni e con le altre culture. Vorrei anche sottolineare come, per esperienza personale, anche il dialogo con i non credenti, che ho proposto in questi anni a Milano con la cosiddetta «Cattedra dei non credenti» ci ha fatto comprendere che il terreno della Bibbia è quello di più facile confronto anche con coloro che non credono in Dio o che sono in qualche modo in ricerca.

     Ritengo dunque che la sacra Scrittura sia davvero il libro del futuro dell’Europa. Se vogliamo costruire un’unità di popoli cosciente dei propri valori e capace di promuovere dialogo, giustizia e pace nel mondo intero possiamo con sicurezza rifarci a quel libro che rappresenta tanta parte nella storia dei popoli europei, a partire da quel momento in cui Paolo accolse la richiesta di aiuto del Macedone e venne in Europa a portare il messaggio del Vangelo.

     Concluderò perciò con le parole del mio grande predecessore e vescovo europeo s. Ambrogio, che parlando della fortuna e della prosperità di una città, che le è assicurata anzitutto da una moltitudine di uomini giusti («Quam beata civitas, quae plurimos iustos habet!»), afferma: «Come dunque tutta la città è consolidata e resa più prospera dalla presenza di persone sagge o è rovinata dalla loro scomparsa, così un discorso austero e pieno di senile prudenza è in grado di rendere salda l’anima e ferma la mente di ciascuno.

Se riusciamo inoltre a utilizzare copiosamente la lettura dei testi sacri, vero e proprio senato di numerosi insegnamenti e di buoni consigli, essa rende addirittura perpetua la stabilità di quella città che è nel cuore di ciascuno» (De Cain et Abel,

SAN JOSEMARIA ESCRIVA’ – Govanni Paolo II

LITTERAE DECRETALES


Beato Iosephmariae Escrivá Sanctorum honores decernunturIOANNES PAULUS PP II
Servus Servorum Deiad perpetuam rei memoriamDomine, ut videam! (cf Lc 18, 41), Domina, ut sit!, Omnes cum Petro ad Iesum per Mariam!, Regnare Christum volumus! (cf 1 Cor 15, 25), Deo omnis gloria! (cf Canone Romano, dossologia). In queste giaculatorie si potrebbe racchiudere l’itinerario biografico del Beato Josemaría Escrivá. Le prime due prese a recitarle appena sedicenne, quando cominciò a sperimentare i presagi della chiamata del Signore. Esse esprimevano il desiderio più profondo del suo cuore: vedere quello che Dio gli chiedeva, per cercare di vivere sempre in amoroso compimento della Sua volontà. La terza compare con frequenza negli scritti di quando era ancora agli esordi del sacerdozio e mostra come l’ardente zelo per le anime confluisse in lui con una ferma volontà di fedeltà alla Chiesa ed una profonda devozione alla Madonna. Regnare Christum volumus!: queste parole riassumono il suo costante anelito di pastore: diffondere fra tutti gli uomini e le donne la chiamata a partecipare, in Cristo, alla dignità dei figli di Dio. Figli, che vivono solo per servirLo: Deo omnis gloria!.

E tutto questo, nel contesto delle normali occupazioni della giornata. Egli potrebbe a ragione essere definito come “il santo della vita ordinaria”. Infatti, la sua vita e il suo messaggio hanno insegnato a una inmensa moltitudine di fedeli — soprattutto laici immersi nelle più svariate professioni — a trasformare in preghiera, in servizio al prossimo, in via di santità, le attività più comuni.

Il Beato Josemaría Escrivá de Balaguer nacque a Barbastro (Spagna) il 9 gennaio 1902. Divenne sacerdote il 28 marzo 1925. Il 2 ottobre 1928 il Signore gli fece vedere la missione alla quale lo aveva destinato e, quel giorno, egli fondò l’Opus Dei. Si apriva così nella Chiesa un nuovo cammino mirante a diffondere fra gli uomini e le donne — senza distinzione di razza, di ceto o di cultura — la consapevolezza della vocazione universale alla pienezza della carità e all’apostolato, ciascuno nel posto che occupa nel mondo. Nelle circostanze della vita ordinaria, infatti, si trova il luogo nel quale il Signore ci chiama e la materia in cui si articola la nostra risposta d’amore. Nel messaggio di Josemaría Escrivá, dunque, il lavoro, compiuto con il sostegno vivificante della grazia, rivela una fecondità inedita: esso diventa strumento per innalzare la Croce al vertice di tutte le attività umane, mezzo per trasformare il mondo dal di dentro secondo lo Spirito di Cristo e riconciliarlo con Dio.

L’opera svolta da Josemaría Escrivá in favore dei sacerdoti, tanto personalmente come attraverso la Società Sacerdotale della Santa Croce, cui dette vita il 14 febbraio 1943, fa di lui un fulgido esempio di zelo per la santità e la fraternità del clero.

Nel 1946 si trasferì a Roma. Qui, sospinto da un infaticabile anelito apostolico, si adoperò per estendere il messaggio cristiano nei cinque continenti, sempre in piena adesione al Romano Pontefice ed al servizio delle Chiese locali. A lui si deve la nascita di una vasta gamma di iniziative di promozione umana, dotate di ampia proiezione sociale e di forte impronta evangelizzatrice.

Da Roma il Beato Josemaría intraprese numerosi viaggi, che lo portarono a percorrere l’Europa e l’America in un’instancabile catechesi. La sua fama di santità attirava ovunque moltitudini di anime ad ascoltarlo.

Il 26 giugno 1975, a mezzogiorno, a Roma, un attacco cardiaco troncò la sua esistenza terrena. Il suo corpo è custodito nella chiesa prelatizia dell’Opus Dei, intitolata a Santa Maria della Pace, ed è meta di raccoglimento e di preghiera per fedeli provenienti da tutto il mondo.

Dopo la morte, la sua fama di santità non ha fatto che incrementarsi. All’intercessione del Beato Josemaría vengono attribuite molte guarigioni scientificamente inspiegabili e centinaia di migliaia di altri favori spirituali e materiali.

Il 17 maggio 1992 Noi stessi celebrammo la solenne beatificazione del Fondatore dell’Opus Dei in Piazza San Pietro.

Da allora si è progressivamente esteso il numero dei favori attribuito dai fedeli all’intercessione del Beato Josemaría Escrivá; fra queste grazie, gli Attori della Causa hanno scelto una sanazione asserita miracolosa e l’hanno presentata allo studio della Sede Apostolica allo scopo di consentire così che il Beato venisse annoverato nel numero dei Santi.

Nel 1994 su detta sanazione fu istruito un processo presso la Curia Arcivescovile di Badajoz; in seguito vennero espletate con esito positivo le rituali procedure presso la Congregazione delle Cause dei Santi ed il 20 dicembre 2001 fu promulgato alla Nostra presenza il relativo decreto super miro. Quindi, ricevuti i pareri favorevoli dei Padri Cardinali e Vescovi da Noi convocati in Concistoro il 26 febbraio 2002, stabilimmo che il rito della Canonizzazione avesse luogo il 6 ottobre successivo.

Pertanto, oggi, in Piazza San Pietro, nel corso della Santa Messa, di fronte ad un’immensa folla di fedeli, abbiamo pronunciato la seguente formula: In onore della Santissima Trinità, per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana, con l’autorità di nostro Signore Gesù Cristo, dei Santi Apostoli Pietro e Paolo e Nostra, dopo aver lungamente riflettuto, invocato più volte l’aiuto divino e ascoltato il parere di molti Nostri Fratelli nell’Episcopato, dichiariamo e definiamo Santo il Beato Josemaría Escrivá de Balaguer e lo iscriviamo nell’Albo dei Santi e stabiliamo che in tutta la Chiesa egli sia devotamente onorato tra i Santi. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E ciò che abbiamo dichiarato vogliamo che abbia validità ora ed in futuro, senza alcuna deroga o eccezione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 6 ottobre 2002, ventiquattresimo anno del Nostro Pontificato.

Giovanni Paolo

 

Omelia del Papa Giovanni Paolo II

nel giorno della beatificazione, 17 maggio 1992

Vídeo “I giorni della Beatificazione”

 

 

 

1. “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio” (At 14, 22).

 

 

Ai due discepoli, lungo la strada per Emmaus, Gesù disse: “Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24, 26).

La prima lettura, inoltre, ci ha fatto ascoltare gli Apostoli – Paolo e Barnaba – che “rianimano ed esortano i discepoli a restare saldi nella fede” (cfr At 14,22). Essi annunziano la stessa verità di cui aveva parlato Cristo sulla strada verso Emmaus; una verità confermata dalla sua vita e dalla sua morte: “È necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio”.

I discepoli di Cristo crocefisso e risorto – attraverso il succedersi delle generazioni nel corso dei secoli sceglie la stessa via che Egli aveva loro indicato. “Vi ho dato infatti l’esempio” (Gv 13, 15).

2. Oggi ci è offerta l’occasione di fissare ancora una volta il nostro sguardo su questa via salvifica – la via verso la santità – soffermandoci sulle figure di due persone, che d’ora in poi chiameremo “beate”: Josemaría Escrivá de Balaguer, sacerdote, fondatore dell’Opus Dei, e Giuseppina Bakhita, Figlia della Carità, canossiana.

La Chiesa desidera servire e professare tutta la verità su Cristo, desidera essere dispensatrice di tutto il mistero del suo Redentore. Se la via verso il Regno di Dio passa attraverso molte tribolazioni, allora alla sua fine si trova anche la partecipazione alla gloria – quella gloria che Cristo ci ha rivelato nella sua Risurrezione.

La misura di tale gloria è data dalla Nuova Gerusalemme, annunziata dalle parole ispirate dell’Apocalisse di Giovanni: “Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro” (Ap 21,3).

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5) – dice il Signore glorioso. La strada verso quella definitiva “novità” di ogni cosa passa, qui sulla terra, attraverso il “comandamento nuovo”: “che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato” (Gv 13,34).

Tale comandamento fu al centro della vita di due esemplari figli della Chiesa che oggi, nella letizia pasquale, sono proclamati beati.

3. Josemaría Escrivá de Balaguer, nato in seno a una famiglia profondamente cristiana, già nell’adolescenza percepì la chiamata di Dio a una vita di maggior donazione. Pochi anni dopo essere stato ordinato sacerdote diede inizio alla missione fondazionale alla quale avrebbe dedicato 47 anni di amorosa e infaticabile sollecitudine in favore dei sacerdoti e dei laici di quella che oggi è la Prelatura dell’Opus Dei.

La vita spirituale e apostolica del nuovo beato si fondava sul sapersi, tramite la fede, figlio Dio in Cristo. Di questa fede si alimentavano il suo amore per il Signore, il suo zelo evangelizzatore, la sua allegria costante, anche nelle grandi prove e difficoltà che dovette superare. “Avere la croce è trovare la felicità, la gioia”, ci dice in una delle sue Meditazioni; “avere la Croce è identificarsi con Cristo, è essere Cristo e, per questo, essere figlio di Dio”.

Con soprannaturale intuizione, il beato Josemaría predicò instancabilmente la chiamata universale alla santità e all’apostolato. Cristo convoca tutti a santificarsi nella realtà della vita quotidiana; pertanto, il lavoro è anche mezzo di santificazione personale e di apostolato quando è vissuto in unione con Cristo, perché il Figlio di Dio, incarnandosi, in certo modo si e unito a tutta la realtà dell’uomo e a tutta la creazione (cfr Dominum et vivificantem, n. 50). In una società nella quale la brama sfrenata del possesso di cose materiali le trasforma in idoli e in motivi di allontanamento da Dio, il nuovo beato ci ricorda che queste stesse realtà, creature di Dio e dell’ingegno umano, se si usano rettamente per la gloria del Creatore e per il servizio dei fratelli, possono essere via per l’incontro degli uomini con Cristo. “Tutte le cose della terra”, insegnava, “anche le attività terrene e temporali degli uomini, devono essere portate a Dio” (Lettera, 19.III. 1954).

“Benedirò il tuo nome per sempre, Dio mio, mio Re”. Questa acclamazione che abbiamo ripetuto nel Salmo responsoriale è come il compendio della vita spirituale del beato Josemaría. Il suo grande amore per Cristo, dal quale si sente affascinato, lo porta a consacrarsi per sempre a Lui e a partecipare al mistero della sua passione e risurrezione. Al tempo stesso, il suo amore filiale per la Vergine Maria lo spinge a imitarne le virtù. “Benedirò il tuo nome per sempre”: ecco l’inno che spontaneamente si sprigionava dalla sua anima, e che lo spingeva a offrire a Dio tutto ciò che era suo e tutto ciò che lo circondava. Ed effettivamente la sua vita si riveste di umanesimo cristiano col sigillo inconfondibile della bontà, la mansuetudine del cuore, la sofferenza nascosta con cui Dio purifica e santifica i suoi eletti.

4. L’attualità e l’importanza di questo messaggio spirituale, profondamente radicato nel Vangelo, sono evidenti, come mostra pure la fecondità con cui Dio ha benedetto la vita e l’opera di Josemaría Escrivá. La sua terra natale, la Spagna, si onora di questo suo figlio, sacerdote esemplare, che seppe aprire nuovi orizzonti apostolici all’azione missionaria ed evangelizzatrice. Che questa gioiosa celebrazione sia occasione propizia per animare tutti i membri della Prelatura dell’Opus Dei a una maggiore donazione nella risposta alla chiamata alla santificazione e a una più generosa partecipazione nella vita ecclesiale, essendo sempre testimoni di genuini valori evangelici; e che ciò si traduca in un ardente dinamismo apostolico, particolarmente attento ai più poveri e bisognosi.

5. Anche nella Beata Giuseppina Bakhita troviamo una testimone eminente dell’amore paterno di Dio ed un segno luminoso della perenne attualità delle Beatitudini. Nata in Sudan, nel 1869, rapita da negrieri quando era ancora bambina, e venduta più volte sui mercati africani, conobbe le atrocità di una schiavitù che lasciò nel suo corpo i segni profondi della crudeltà umana. Nonostante queste esperienze di dolore, la sua innocenza rimase integra, ricca di speranza. “Da schiava non mi sono mai disperata”, diceva, “perché sentivo dentro di me una forza misteriosa che mi sosteneva”. Il nome di Bakhita – come l’avevano chiamata i suoi rapitori – significa Fortunata e tale infatti diventò, grazie al Dio di ogni consolazione, che sempre la teneva per mano e le camminava accanto.

Giunta a Venezia, per le vie misteriose della Divina Provvidenza, Bakhita ben presto si apriva alla grazia. Il battesimo e, dopo alcuni anni, la professione religiosa tra le Suore Canossiane, che l’avevano accolta ed istruita, furono le conseguenze logiche della scoperta del tesoro evangelico, per il quale sacrificò tutto, anche il suo ritorno, da libera, nella terra natale. Come Maddalena di Canossa, anch’ella voleva vivere per Dio solo, e con eroica costanza si avviò umile e fiduciosa per la strada della fedeltà all’amore più grande. La sua fede era salda, limpida, ardente. “Sapeste che grande gioia è conoscere Dio”, soleva ripetere.

6. La nuova Beata trascorse 51 anni di vita religiosa canossiana, lasciandosi guidare dall’obbedienza in un impegno quotidiano, umile e nascosto, ma ricco di genuina carità e di preghiera. Gli abitanti di Schio, ove risedette per quasi tutto il tempo, ben presto scoprirono nella loro “Madre Moretta” – così la chiamavano – un’umanità ricca nel dono, una forza interiore non comune che trascinava. La sua vita si consumò in una incessante preghiera dal respiro missionario, in una fedeltà umile ed eroica alla carità, che le consentì di vivere la libertà dei figli di Dio e di promuoverla attorno a sé.

Nel nostro tempo, in cui la corsa sfrenata al potere, al denaro, al godimento causa tanta sfiducia, violenza e solitudine, Suor Bakhita ci viene ridonata dal Signore come sorella universale, perché ci riveli il segreto della felicità più vera: le Beatitudini.

Il suo è un messaggio di bontà eroica a immagine della bontà del Padre celeste. Ella ci ha lasciato una testimonianza di riconciliazione e di perdono evangelici, che recherà sicuramente conforto ai cristiani della sua patria, il Sudan, cosi duramente provati da un conflitto che dura da molti anni e che ha provocato tante vittime. La loro fedeltà e la loro speranza sono motivo di fierezza e di azione di grazie per tutta la Chiesa. In questo momento di grandi tribolazioni, Suor Bakhita li precede sulla via dell’imitazione di Cristo, dell’approfondimento della vita cristiana e dell’incrollabile attaccamento alla Chiesa. Nello stesso tempo desidero, ancora una volta rivolgere un accorato appello ai responsabili delle sorti del Sudan, affinché diano realizzazione agli asseriti ideali di pace e di concordia; affinché il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo – e in primo luogo del diritto alla libertà religiosa – sia a tutti garantito, senza discriminazioni etniche o religiose.

Preoccupa grandemente la situazione delle centinaia di migliaia di profughi dalle regioni meridionali, che la guerra ha costretto ad abbandonare casa e lavoro; recentemente sono stati obbligati a lasciare anche i campi dove avevano trovato una qualche forma di assistenza e sono stati trasportati in luoghi desertici ed è stato perfino impedito il libero passaggio ai convogli di soccorsi delle agenzie internazionali. La loro situazione è tragica e non può lasciarci insensibili.

Raccomando vivamente agli Enti internazionali di assistenza di volere continuare ad inviare il loro provvido, necessario e urgente aiuto.

Mentre saluto la delegazione della Chiesa del Sudan, presente a questa celebrazione, rivolgo un affettuoso pensiero, accompagnato dalla preghiera, a tutta la Chiesa in quel Paese: ai Vescovi, al Clero diocesano e Missionario, ai laici impegnati nella pastorale, ed anche ai catechisti, collaboratori generosi e necessari per la propagazione della Verità, della Parola e dell’Amore di Dio. Le popolazioni del Sudan sono sempre presenti nel mio cuore e nelle mie preghiere: le affido all’intercessione della nuova Beata Giuseppina Bakhita.

7. “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 34-35). Con queste parole di Gesù si conclude il vangelo della Messa di oggi. In questa frase evangelica troviamo la sintesi di ogni santità; della santità che ha raggiunto, per strade diverse ma convergenti nella stessa ed unica mèta, Josemaría Escrivá de Balaguer e Giuseppina Bakhita. Essi hanno amato Dio con tutta la forza del loro cuore ed hanno dato prova di una carità spinta fino all’eroismo mediante le opere di servizio agli uomini, loro fratelli. Perciò la Chiesa li eleva oggi agli onori degli altari e li presenta come esempi nell’imitazione di Cristo, che ci ha amato e ha donato sé stesso per ognuno di noi (cfr Gal 2, 20).

8. “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e anche Dio è stato glorificato in lui” (Gv 13,31): il mistero pasquale della gloria. Attraverso il Figlio dell’uomo questa gloria si estende a tutto il visibile e l’invisibile:”Ti lodino, Signore, tutte le tue opere e ti benedicano i tuoi fedeli. Dicano la gloria del tuo regno” (Sal 145/144, 10-11). Ecco il Figlio dell’uomo: “Non bisognava che… sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?”. Ecco coloro che di generazione in generazione hanno seguito Cristo: “Attraverso molte tribolazioni, essi sono entrati nel regno di Dio”.

“Il tuo regno è regno di tutti i secoli” (Sal 145/144, 13).

Amen.

   
Preghiera

San Josemaría Escrivá

Fondatore dell’Opus Dei

PREGHIERA

O Dio, che per mediazione di Maria Santissima concedesti a San Josemaría, sacerdote, innumerevoli grazie, scegliendolo come strumento fedelissimo per fondare l’Opus Dei, cammino di santificazione nel lavoro professionale e nell’adempimento dei doveri ordinari del cristiano, fa’ che anch’io sappia trasformare tutti i momenti e le circostanze della mia vita in occasioni per amarti e per servire con gioia e semplicità la Chiesa, il Romano Pontefice e tutte le anime, illuminando i cammini della terra con la fiamma della fede e dell’amore. Concedimi, per intercessione di San Josemaría, la grazia che ti chiedo:… (si chieda). Amen.

Padre nostro, Ave Maria, Gloria.

San Josemaría è il mio intercessore preferito

Pierluigi Bartolomei è soprannumerario e ha cinque figli. Racconta come ha conosciuto l’Opera e descrive il suo lavoro all’Elis come Preside della Scuola Professionale, a contatto con ragazzi spesso con situazioni difficili. Pierluigi ha raccolto le loro storie in un libro “I ragazzi di Via Sandri” edito nei mesi scorsi dall’editrice Ares.

 

Discorso rivolto da Giovanni Paolo II

ai partecipanti alla canonizzazione di

Josemaría Escrivá


PIAZZA SAN PIETRO, LUNEDì 7 OTTOBRE 2002

 

 

 

Al termine della messa di ringraziamento per la canonizzazione del fondatore dell’Opus Dei, il Papa Giovanni Paolo II concesse un’udienza agli intervenuti. Pubblichiamo di seguito il testo del discorso del Romano Pontefice.

 

 

Carissimi Fratelli e Sorelle!

1. Con gioia vi rivolgo il mio cordiale saluto, all’indomani della canonizzazione del beato Josemaría Escrivá de Balaguer. Ringrazio S.E. Mons. Javier Echevarría, Prelato dell’Opus Dei, per le parole con cui si è fatto interprete di tutti i presenti. Saluto con affetto i numerosi Cardinali, Vescovi e sacerdoti che hanno voluto prendere parte a questa celebrazione.

Questo festoso incontro unisce una grande varietà di fedeli, provenienti da tanti Paesi e appartenenti ai più diversi ambiti sociali e culturali: sacerdoti e laici, uomini e donne, giovani e anziani, intellettuali e lavoratori manuali. E’ questo un segno dello zelo apostolico che ardeva nell’anima di San Josemaría.

2. Nel Fondatore dell’Opus Dei spicca l’amore per la volontà di Dio. Esiste un criterio sicuro di santità: la fedeltà nel compiere la volontà divina fino alle ultime conseguenze. Su ciascuno di noi il Signore ha un progetto, ad ognuno affida una missione sulla terra. Il santo non riesce neppure a concepire se stesso al di fuori del disegno di Dio: vive soltanto per realizzarlo.

San Josemaría fu scelto dal Signore per annunciare la chiamata universale alla santità e per indicare che la vita di tutti i giorni, le attività comuni, sono cammino di santificazione. Si potrebbe dire che egli fu il santo dell’ordinario. Era infatti convinto che, per chi vive in un’ottica di fede, tutto offre occasione di un incontro con Dio, tutto diviene stimolo alla preghiera. Vista così, la vita quotidiana rivela una grandezza insospettata. La santità si pone davvero alla portata di tutti.

3. Escrivá de Balaguer fu un santo di grande umanità. Tutti coloro che lo frequentarono, di qualsiasi cultura o condizione sociale, lo sentirono come un padre, completamente dedito al servizio degli altri, poiché era convinto che ogni anima è un tesoro meraviglioso; in effetti, ogni uomo vale tutto il Sangue di Cristo. Questo atteggiamento di servizio è evidente nella sua dedizione al ministero sacerdotale e nella magnanimità con cui diede impulso a tante opere di evangelizzazione e di promozione umana a favore dei più poveri.

Il Signore gli fece comprendere profondamente il dono della nostra filiazione divina. Egli insegnò a contemplare il volto tenero di un Padre nel Dio che ci parla attraverso le più diverse vicissitudini della vita. Un Padre che ci ama, che ci segue passo a passo e ci protegge, ci comprende e attende da ognuno di noi la risposta dell’amore. La considerazione di questa presenza paterna, che lo accompagna ovunque, dà al cristiano una fiducia incrollabile; in ogni momento deve confidare nel Padre celeste. Non si sente mai solo e non ha paura. Nella Croce – quando si presenta – non vede un castigo, bensì una missione affidata dal Signore stesso. Il cristiano è necessariamente ottimista, poiché sa che è figlio di Dio in Cristo.

4. San Josemaría era profondamente convinto che la vita cristiana richieda una missione e un apostolato: siamo nel mondo per salvarlo con Cristo. Amò il mondo appassionatamente, con “amore redentore” (cfr Catechismo della Chiesa cattolica, n. 604). Proprio per questo motivo i suoi insegnamenti hanno aiutato così tanti fedeli a scoprire la forza redentrice della fede, la sua capacità di trasformare la terra. Questo messaggio ha implicazioni numerose e feconde per la missione evangelizzatrice della Chiesa. Promuove la cristianizzazione del mondo “dall’interno”, mostrando che può non esserci contrasto fra la legge divina e le esigenze di un autentico progresso umano. Questo sacerdote santo pensava che Cristo dovesse essere l’apice di tutta l’attività umana (cfr Gv 12, 32).

Il suo messaggio esorta i cristiani ad agire nei luoghi in cui si plasma il futuro della società. Dalla presenza attiva del laicato in tutte le professioni e presso le frontiere più avanzate dello sviluppo può derivare soltanto un contributo positivo al rafforzamento di quell’armonia fra fede e cultura che è una delle necessità più importanti del nostro tempo.

5. San Josemaría Escrivá ha speso la sua vita al servizio della Chiesa. Nei suoi scritti, i sacerdoti, i laici che seguono le vie più diverse, i religiosi e le religiose trovano una fonte stimolante d’ispirazione. Cari Fratelli e Sorelle, imitandolo con apertura di mente e di cuore, nella disponibilità a servire le Chiese locali, voi contribuite a dare forza alla “spiritualità di comunione” che la Lettera Apostolica Novo Millennio ineunte indica come uno degli obiettivi più importanti per il nostro tempo (cfr nn. 42-45).

Sono lieto di concludere con un appello alla festa liturgica odierna della Beata Vergine Maria del Rosario. San Josemaría scrisse un bell’opuscolo intitolato Il Santo Rosario, che s’ispira all’infanzia spirituale, disposizione d’animo propria di coloro che vogliono giungere a un totale abbandono alla volontà divina. Di tutto cuore, affido alla protezione materna di Maria tutti voi, come pure le vostre famiglie, il vostro apostolato, ringraziandovi per la vostra presenza e benedicendovi con affetto.

6. Ringrazio ancora una volta tutti i presenti, specialmente quelli venuti da lontano. Vi invito, carissimi Fratelli e Sorelle, a recare dappertutto una chiara testimonianza di fede, secondo l’esempio e l’insegnamento del vostro santo Fondatore. Vi accompagno con la mia preghiera e di cuore benedico voi, le vostre famiglie e le vostre attività.

 

 

 

CHIAR LUBICH : Benedetto XVI rende grazie a Dio

Benedetto XVI rende grazie a Dio

per Chiara Lubich


Lettera del Papa in occasione del funerale della fondatrice dei Focolarini


ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la lettera che Benedetto XVI ha inviato al Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione del funerale di Chiara Lubich, fondatrice del movimento dei Focolari, celebrato nel pomeriggio di martedì 18 marzo, nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.

* * *


Al Signor Cardinale
Tarcisio Bertone
Segretario di Stato

Prendo parte spiritualmente alla solenne liturgia con cui la comunità cristiana accompagna Chiara Lubich nel suo commiato da questa terra per entrare nel seno del Padre celeste. Rinnovo con affetto i sentimenti del mio vivo cordoglio ai responsabili e all’intera Opera di Maria – Movimento dei Focolari, come pure a quanti hanno collaborato con questa generosa testimone di Cristo, che si è spesa senza riserve per la diffusione del messaggio evangelico in ogni ambito della società contemporanea, sempre attenta ai “segni dei tempi”.

Tanti sono i motivi per rendere grazie al Signore del dono fatto alla Chiesa in questa donna di intrepida fede, mite messaggera di speranza e di pace, fondatrice di una vasta famiglia spirituale che abbraccia campi molteplici di evangelizzazione. Vorrei soprattutto ringraziare Iddio per il servizio che Chiara ha reso alla Chiesa: un servizio silenzioso e incisivo, in sintonia sempre con il magistero della Chiesa: “I Papi – diceva – ci hanno sempre compreso”. Questo perché Chiara e l’Opera di Maria hanno cercato di rispondere sempre con docile fedeltà ad ogni loro appello e desiderio.

L’ininterrotto legame con i miei venerati Predecessori, dal Servo di Dio Pio XII al Beato Giovanni XXIII, ai Servi di Dio Paolo VI, Giovanni Paolo I e Giovanni Paolo II ne è concreta testimonianza. Guida sicura da cui farsi orientare era per lei il pensiero del Papa. Anzi, guardando le iniziative che ha suscitato, si potrebbe addirittura affermare che aveva quasi la profetica capacità di intuirlo e di attuarlo in anticipo. La sua eredità passa ora alla sua famiglia spirituale: la Vergine Maria, modello costante di riferimento per Chiara, aiuti ogni focolarino e focolarina a proseguire sullo stesso cammino contribuendo a far sì che, come ebbe a scrivere l’amato Giovanni Paolo II all’indomani del Grande Giubileo dell’Anno 2000, la Chiesa sia sempre più casa e scuola di comunione.

Il Dio della speranza accolga l’anima di questa nostra sorella, conforti e sostenga l’impegno di quanti ne raccolgono il testamento spirituale. Assicuro per questo un particolare ricordo nella preghiera, mentre invio a tutti i presenti al sacro rito la Benedizione Apostolica. 

Dal Vaticano, 18 Marzo 2008

Benedictus PP XVI

Omelia del Cardinale Bertone

per le esequie di Chiara Lubich

ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione delle esequie funebri di Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, celebrate questo martedì sera nella Basilica di San Paolo fuori le Mura.

* * *

Eminenze Reverendissime,

Eccellenze Reverendissime,

illustri Autorità,

cari membri del Movimento dei Focolari,

cari fratelli e sorelle,

La prima Lettura ha riproposto alla nostra meditazione il noto passaggio del Libro di Giobbe. Il giusto, duramente provato, proclama, anzi quasi grida: “Io so che il mio redentore è vivo…io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno non da straniero”. Mentre porgiamo l’ultimo saluto a Chiara Lubich, le parole del santo Giobbe evocano in noi il ricordo dell’ardente desiderio dell’incontro con Cristo che ha segnato l’intera sua esistenza, ed ancor più intensamente gli ultimi mesi e giorni provati dall’aggravarsi del male che l’ha spogliata di ogni energia fisica, in una graduale ascesa del Calvario culminata nel dolce ritorno nel seno del Padre.

Chiara ha percorso la tappa finale del pellegrinaggio terreno accompagnata dalla preghiera e dall’affetto dei suoi che le si sono stretti in un grande ed ininterrotto abbraccio. Flebile ma deciso è stato, nel cuore della notte, l’ultimo “sì” al mistico sposo della sua anima, Gesù ”abbandonato – risorto”. Ora tutto è veramente compiuto: il sogno degli inizi si è fatto verità, l’anelito appassionato è appagato. Chiara incontra Colui che ha amato senza vedere e, piena di gioia, può esclamare: “Sì, il mio redentore è vivo!”

La notizia della sua morte ha suscitato una vasta eco di cordoglio in ogni ambiente, tra migliaia di uomini e donne dei cinque continenti, credenti e non, potenti e poveri della terra. Benedetto XVI, che ha subito fatto pervenire la sua confortatrice benedizione, adesso per mio tramite rinnova l’assicurazione della sua partecipazione al grande dolore della sua famiglia spirituale.

Esponenti di altre Chiese cristiane e di diverse religioni si sono uniti al coro di ammirata stima e di profonda partecipazione. Anche i mass media hanno posto in luce il lavoro da lei svolto nel diffondere l’amore evangelico tra persone di cultura, fede e formazione diverse. In effetti – lo possiamo ben dire – la vita di Chiara Lubich è un canto all’amore di Dio, a Dio che è Amore.

“Chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Quante volte Chiara ha meditato queste parole e quante volte le ha riprese nei suoi scritti, ad esempio nelle “parole di vita” a cui hanno attinto centinaia di migliaia di persone per la loro formazione spirituale! Non c’è altra via per conoscere Dio e per dare senso e valore all’umana esistenza. Solo l’Amore, l’Amore divino ci rende capaci di “generare” amore, di amare persino i nemici. Questa è la novità cristiana, qui sta tutto il Vangelo.

Ma come vivere l’Amore? Dopo l’Ultima Cena, nel commosso congedo dagli Apostoli, – lo abbiamo riascoltato poco fa – Gesù prega “perché tutti siano una sola cosa”. E’ dunque la preghiera di Cristo a sorreggere il cammino dei suoi amici di ogni epoca. E’ il suo Spirito a suscitare nella Chiesa testimoni di Vangelo vivo; è ancora Lui, il Dio vivente, a guidarci nelle ore della tristezza e del dubbio, della difficoltà e del dolore. Chi si affida a Lui nulla teme, né la fatica della traversata di mari tempestosi, né gli ostacoli e le avversità di ogni genere. Chi costruisce la sua casa su Cristo, costruisce sulla roccia dell’Amore che tutto sopporta, tutto supera, tutto vince.

Il secolo XX è costellato di astri lucenti di questo amore divino. Non dovrà pertanto essere ricordato solo per le meravigliose conquiste conseguite nel campo della tecnica e della scienza e per il progresso economico che però non ha eliminato, anzi talora ha persino accentuato l’ingiusta ripartizione delle risorse e dei beni tra i popoli; non passerà alla storia solo per gli sforzi dispiegati per costruire la pace che purtroppo non hanno impedito crimini orrendi contro l’umanità e conflitti e guerre che non smettono di insanguinare vaste regioni della terra. Il secolo scorso, pur carico di non poche contraddizioni, è il secolo in cui Dio ha suscitato innumerevoli ed eroici uomini e donne che, mentre lenivano le piaghe dei malati e dei sofferenti e condividevano la sorte dei piccoli, dei poveri e degli ultimi, dispensavano il pane della carità che sana i cuori, apre le menti alla verità, restituisce fiducia e slancio a vite spezzate dalla violenza, dall’ingiustizia, del peccato. Alcuni di questi pionieri della carità la Chiesa li addita già come santi e beati: don Guanella, don Orione, don Calabria, Madre Teresa di Calcutta ed altri ancora.

E’ stato anche il secolo dove sono nati nuovi Movimenti ecclesiali, e Chiara Lubich trova posto in questa costellazione con un carisma che le è del tutto proprio e che ne contraddistingue la fisionomia e l’azione apostolica. La fondatrice del Movimento dei Focolari, con stile silenzioso ed umile, non crea istituzioni di assistenza e di promozione umana, ma si dedica ad accendere il fuoco dell’amore di Dio nei cuori. Suscita persone che siano esse stesse amore, che vivano il carisma dell’unità e della comunione con Dio e con il prossimo; persone che diffondano “l’amore – unità” facendo di se stessi, delle loro case, del loro lavoro un “focolare” dove ardendo l’amore diventa contagioso e incendia quanto sta accanto. Missione questa possibile a tutti perché il Vangelo è alla portata di ognuno: Vescovi e sacerdoti, ragazzi, giovani e adulti, consacrati e laici, sposi, famiglie e comunità, tutti chiamati a vivere l’ideale dell’unità: “Che tutti siano uno!”. Nell’ ultima intervista da lei rilasciata ed apparsa proprio nei giorni della sua agonia, Chiara afferma che “è la meraviglia dell’amore scambievole la linfa vitale del Corpo mistico di Cristo”.

Il Movimento dei Focolari si impegna così a vivere alla lettera il Vangelo, “la più potente ed efficace rivoluzione sociale” e da esso prendono avvio i movimenti “Famiglie nuove” e “Umanità nuova”, la casa editrice Città Nuova, la cittadella di Loppiano e altre cittadelle di testimonianza nei diversi continenti, e diramazioni laicali come, ad esempio, i “Volontari di Dio”. Nel clima di rinnovamento suscitato dal pontificato del beato Giovanni XXIII e dal Concilio Vaticano II trovò fertile terreno la sua coraggiosa apertura ecumenica e la ricerca del dialogo con le religioni. Negli anni della contestazione giovanile, il movimento GEN catalizzò migliaia e migliaia di giovani affascinandoli all’ideale dell’amore evangelico, allargando poi il proprio raggio di azione con “Giovani per un mondo unito”. La proposta del Vangelo senza sconti Chiara la volle fare anche ai bambini, ai ragazzi per i quali fu fondato il movimento “Ragazzi per l’unità”. In Brasile, per andare incontro alle condizioni di quanti vivevano nelle periferie delle metropoli lanciò il progetto di un “economia di comunione nella libertà”, prospettando una nuova teoria e prassi economica basata sulla fraternità, per uno sviluppo sostenibile a vantaggio di tutti. Volesse il Signore che tanti studiosi e operatori economici assumessero l’economia di comunione come una risorsa seria per programmare un nuovo ordine mondiale condiviso! Ed ancora quanti altri incontri con rappresentanti di diverse religioni, con esponenti politici e del mondo della cultura!

Mariapoli, città di Maria, volle chiamare così gli incontri e le proposte di una società rinnovata dall’amore evangelico. Perché città di Maria? Perché per Chiara la Madonna è “la preziosissima chiave per entrare nel Vangelo”. E forse, proprio per questo, è stata capace di evidenziare nella Chiesa, in maniera efficace e costruttiva, il suo “profilo mariano”. A Maria decise di affidare la sua opera dandole appunto il suo nome: Opera di Maria. L’Opera allora, afferma Chiara, “rimarrà sulla terra come altra Maria: tutto Vangelo, nient’altro che Vangelo e, poiché Vangelo, non morirà”. E come non immaginare che sia proprio la Vergine Santa ad accompagnare Chiara nel suo approdo nell’eternità?

Cari fratelli e sorelle, proseguiamo la celebrazione eucaristica, portando all’altare il nostro grazie al Signore per la testimonianza che ci lascia questa sorella in Cristo, per le sue intuizioni profetiche che hanno preceduto e preparato i grandi mutamenti della storia e gli eventi straordinari che ha vissuto la Chiesa nel secolo XX°. Il nostro grazie si unisce a quello di Chiara. Considerando i tanti doni e le tante grazie ricevute, Chiara diceva che quando si sarebbe presentata davanti a Dio e il Signore le avrebbe chiesto il suo nome, avrebbe risposto semplicemente: “Il mio nome è GRAZIE. Grazie, Signore, per tutto e per sempre”.

A noi, specialmente ai suoi figli spirituali, tocca il compito di proseguire la missione da lei iniziata. Dal Cielo, dove amiamo pensare che sia accolta da Gesù suo sposo, continuerà a camminare con noi e ad aiutarci. Quest’oggi, mentre la salutiamo con affetto, riascoltiamo dalla sua stessa voce queste parole che tante volte amava ripetere: “Vorrei che l’Opera di Maria, alla fine dei tempi, quando, compatta, sarà in attesa di apparire davanti a Gesù abbandonato-risorto, possa ripetergli – facendo sue le parole che sempre mi commuovono del teologo belga Jacques Leclercq : “… il tuo giorno, mio Dio, io verrò verso di Te… Verrò verso di Te, mio Dio (…) e con il mio sogno più folle: portarti il mondo fra le braccia”. Questo è il sogno di Chiara, questo sia anche il nostro anelito incessante: “Padre, che tutti siano una cosa sola, perché il mondo creda”. Amen!


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7 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – TESTIMONIARE LA MISERICORDIA – C. M. Martini

 

7 – TESTIMONIARE LA MISERICORDIA

 

Dal Vangelo di Giovanni: 4, 1-39

Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevan sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni – sebbene non fosse Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli -, lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. Doveva perciò attraversare la Samaria. Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua.

Le disse Gesù: « Dammi da bere ». I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. Ma la Samaritana gli disse: « Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana? ». I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. Gesù le rispose: « Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: . “Dammi da bere! “, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva ».


Gli disse la donna: « Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i ‘suoi figli e il suo gregge? ».

Rispose Gesù: « Chiunque beve di quest’ acqua avrà di nuovo sete; ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna ».

« Signore, gli disse la donna, dammi di quest’ acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua. » Le disse: « Va’ a chiamare tuo marito e poi ritorna qui ».

Rispose la donna: « Non ho marito ». Le disse Gesù: « Hai detto bene “non ho marito”; infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero ».

Gli replicò la donna: « Signore, vedo che tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite, che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare ».

Gesù le dice: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ».

Gli rispose la donna: « So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa ».

Le disse Gesù: « Sono io, che ti parlo ».


In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: « Che desideri? », o: « Perché parli con lei? ».

La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: « Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».

Uscirono allora dalla città e andavano da lui.

Intanto i discepoli lo pregavano: « Rabbì, mangia ».

Ma egli rispose: «Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete ».

E i discepoli si domandavano l’un l’altro: « Qualcuno forse gli ha portato da mangiare? ».

Gesù disse loro:

  • « Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera.
  • Non dite voi: Ci sono ancora quattro mesi e poi viene la mietitura?
  • Ecco, io vi dico: Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura.
  • E chi miete riceve salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché ne goda insieme chi semina e chi miete.
  • Qui infatti si realizza il detto: uno semina e uno miete.
  • Io vi ho mandati a mietere ciò che voi non avete lavorato,
  • altri hanno lavorato e voi siete subentrati nel loro lavoro ».
  • Molti Samaritani di quella città credettero in lui per le parole della donna che dichiarava: « Mi ha detto tutto quello che ho fatto ».

 

Insegnerò agli erranti le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.
…la mia lingua esalterà la tua giustizia.
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.

Siamo giunti all’ultimo dei nostri incontri e vogliamo riflettere questa sera sulla necessità di essere testimoni della misericordia divina, di vivere la missione della misericordia.

Ci ispiriamo ad alcune tra le parole della parte finale del Salmo 50, là dove viene espresso appunto il proposito di missionarietà: « Insegnerò agli erranti le tue vie..: la mia lingua esalterà la tua giustizia… apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode». Colui che ha percorso il cammino della penitenza sente questa missione come momento conclusivo di ciò che ha fatto e che ha vissuto.

L’esperienza del salmista

Notiamo innanzitutto che il salmista esprime il suo impegno missionario in una maniera precisa, che corrisponde all’itinerario da lui percorso:

  • farò capire a chi è senza strada che una strada c’è,
  • anzi che tu, o Signore, gli stai venendo incontro.
  • Lo farò capire non come uno che fa una lezione o una esortazione ma come testimone di ciò che è avvenuto a me.

Ecco allora la forza di questa testimonianza:

  • chi ha percorso un genuino cammino penitenziale, può aiutare altri a capire che c’è una via d’uscita:
  • e non semplicemente una via d’uscita generica o stoica o eroica
  • ma una via d’uscita in cui Dio stesso viene incontro, in Gesù, come è venuto incontro a me.

Più di una volta si verifica nella vita, infatti, che proprio chi è uscito da qualche tenebroso tunnel ha una singolare capacità di dire ad altri: coraggio, anche per te c’è sicuramente una via di uscita!

Questa viene espressa dal salmista in modo aperto e libero, quasi gli fosse ridata la parola.

  • Le tre realtà che segnano la parola umana – la lingua, le labbra, la bocca – vengono qui coinvolte nell’impegno di esprimersi missionariamente.
  • Lingua, labbra, bocca si aprono non per una imposizione, non perché il testimone sente un dovere che grava sopra di sé, bensì per una effusione che gli viene dalla pienezza che ha dentro di sé.

Sappiamo molto bene che una testimonianza a mezza bocca è poco efficace, talora è quasi una controtestimonianza. Quella invece che viene dall’esultanza della lingua, dal bisogno della bocca che si apre, dalle labbra che si muovono con gioia, è veramente degna di essere rispettata e di essere ascoltata.

Possiamo subito domandarci: com’è la mia testimonianza?

  • È una testimonianza a mèzza bocca, in cui le labbra si muovono a fatica e annaspo in cerca delle parole?
  • In questo caso non nasce da una esperienza: nasce piuttosto da qualche cosa che non è ancora entrato dentro di me.
  • Oppure, è una testimonianza spontanea, libera, gioiosa, in cui le parole vengono fuori da sole? In questo caso sta operando in me la tua grazia, Signore,
  • è il tuo Spirito che mi apre la bocca perché io possa cantare le tue lodi con amore,
  • perché io possa insegnare che c’è una strada a coloro che ritengono non ci sia più niente da fare.
  • Apri sempre, Signore, la mia bocca soprattutto di fronte alle situazioni difficili nelle quali mi accade di rimanere muto, di non sapere cosa dire e addirittura mi sembra che davvero non ci sia speranza!

L’esperienza della Samaritana

Il Vangelo secondo Giovanni, al c. 4, ci presenta un altro esempio di una bocca che si apre alla testimonianza convinta e convincente: la donna samaritana.

È un brano che si potrebbe commentare ripercorrendo, in qualche maniera, le tappe che hanno segnato i nostri incontri di quest’anno, perché anch’esso indica un cammino penitenziale, un momento in cui la persona giunge alla verità di se stessa di fronte a Cristo e alla verità di Cristo come salvatore e come amico.

E alla fine del cammino, ritroviamo l’apertura del cuore e delle labbra: « La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia? ».

Notiamo la finezza del particolare: « lasciò la brocca ».

  • Questa donna era venuta per attingere acqua, la brocca era la sua ricchezza, ad essa era legata la sua vita quotidiana: eppure in questo momento tutto è dimenticato e la brocca slabbrata, abbandonata sul ciglio del pozzo, è come il segno di una esistenza da cui la donna è ormai uscita, è il segno di un incubo che ha lasciato dietro di sé.
  • A somiglianza dei due discepoli di Emmaus, che interrompono la cena a metà, si alzano e corrono verso Gerusalemme, la Samaritana rifà la strada, corre in città e va ad annunciare quello che le è accaduto.
  • Lo annuncia con parole piuttosto maldestre, in verità: «Che sia forse il Messia? ».
  • Di per sé non è un annuncio molto efficace, almeno da un punto di vista teologico.
  • Eppure queste parole sono una testimonianza efficacissima perché derivano da una esperienza vissuta.
  • La gente ha davanti una persona che non parla con parole imparate, che non ripete una lezione, ma che parla quasi smozzicando le frasi e però con il cuore e l’affanno di chi ha avuto un’esperienza formidabile, che a fatica si può comunicare.

Alla Samaritana si sono aperte le labbra, si è sciolta la lingua e, in una esplosione di gioia, parla con semplicità e con verità della misericordia di Dio verso di lei.

Proclamare la misericordia

Di fronte all’esperienza del salmista e della donna samaritana, noi dobbiamo domandarci quale sia la nostra testimonianza missionaria di misericordia. A noi, infatti, è chiesto di testimoniare quella grazia che ci ha attratto e d ha accolto nel cammino penitenziale fatto insieme quest’anno.

Nell’enciclica « Dives in misericordia », Giovanni Paolo II esprime questo dovere, che ci compete, in due momenti.

  • In un primo momento parla del dovere generale della testimonianza:Occorre che la Chiesa del nostro tempo prenda più profonda e particolare coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio in tutta la sua missione, sulle orme della tradizione dell’antica e della nuova Alleanza e, soprattutto, dello stesso Gesù Cristo e dei suoi apostoli (Dives in misericordia, VII).

Testimoniare la misericordia è dunque un dovere del nostro tempo. Il Papa sembra quasi avere l’impressione che la Chiesa abbia bisogno di essere esortata, soprattutto oggi, a prendere coscienza della necessità di rendere testimonianza alla misericordia di Dio.

  • In un secondo momento indica come si deve dare testimonianza e sottolinea tre modi:
  • Professandola in primo luogo come verità salvifica di fede e necessaria ad una vita coerente con la fede;
  • poi cercando di introdurla e di incarnarla nella vita, sia dei suoi fedeli, sia, per quanto è possibile, in quella di tutti gli uomini di buona volontà.
  • Infine la Chiesa… ha il diritto e il dovere di richiamarsi alla misericordia di Dio, implorandola nella preghiera (ibidem).

È facile comprendere come noi possiamo rendere testimonianza alla misericordia di Dio professandola.
Ogni volta, infatti, che ci accostiamo al Sacramento della Riconciliazione, noi facciamo anche una «confessio fidei »,

  1. cioè proclamiamo che Dio è Signore della nostra vita,
  2. è più grande del nostro peccato,
  3. che la sua misericordia trionfa sulla fragilità dell’esistenza umana e sul buio dell’uomo:
  4. confessiamo quindi e proclamiamo la misericordia di Dio.

Incarnare la misericordia

Il secondo modo suggerito dal Papa per testimoniare la misericordia divina è più difficile. Non è cosa da poco incarnare nella vita la misericordia di Dio. Anzi, è talmente difficile che talora ci lascia perplessi e sgomenti, ci lascia davvero senza parole e senza capacità di muoverci in questo cammino di missione e di testimonianza. D’altra parte, se non riusciamo a dare testimonianza della misericordia di Dio, ne va della credibilità della Chiesa e della nostra vita di cristiani.

Vorrei fare capire questa difficoltà riflettendo su tre situazioni nelle quali possiamo trovarci.

  • a) Situazioni o casi ordinari. Che cosa vuol dire introdurre, incarnare la testimonianza della misericordia? Concretamente vuol dire mettere in pratica la domanda del « Padre nostro»: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori ». Vuol dire saper perdonare, saper comprendere, saper capire, voler perdonare settanta volte sette.’

E questo è già difficile, per tanti motivi che conosciamo bene. È così difficile che spesso noi lo emarginiamo, questo impegno di perdonare, anche dal nostro orizzonte morale e rimane quindi come qualcosa di inadempiuto a cui non guardiamo in faccia. Eppure è testimonianza necessaria, quotidiana, della misericordia ricevuta da Dio: «Se non perdonerete a chi vi ha fatto del male, neppure il Padre vostro perdonerà a voi» (cfr. Mt. 6, 15).

  • b) Situazioni o casi più complessi. Sono i casi nei quali c’è in gioco la reciprocità. Dove, cioè, non basta perdonare, quasi fossimo noi soltanto a concedere il favore ad un altro, ma bisogna farsi perdonare, chiedere perdono, assumere l’atteggiamento di chi riconosce che se, è stato offeso ne ha però dato- occasione, che se è stato oggetto di qualche ingiustizia, anche lui però si è comportato in maniera non pienamente giusta. Tutto questo è molto difficile.

C’è un altro caso di reciprocità assai difficile nella vita quotidiana ma che è assolutamente necessario pèrché forma, per così dire, il tessuto della vita. Ne abbiamo già accennato in un precedente incontro. Non basta cioè perdonare, ma bisogna saper camminare con un altro, bisogna saper correggere. La correzione fraterna, così importante per la comunità cristiana, e praticata nella Chiesa primitiva, richiede molto amore e molta umiltà. Tuttavia spesso noi la eliminiamo dal nostro orizzonte di agire perché ci appare troppo rischiosa, impossibile, inefficace e in tal modo non diamo sufficiente testimonianza alla misericordia di Dio.

Vorrei che ciascuno, a partire da me, si interrogasse sinceramente:come viviamo queste occasioni di dare testimonianza, con i fatti, con le opere e non solo con le parole, alla misericordia di Colui che ci ha amato, che ci riabilita, che ci accoglie, che ci rifà dall’interno, che ha fiducia in noi?

  • c) Ci sono, infine, le situazioni o i casi conflittuali. Intendo per casi conflittuali quelli in cui ci sembra che la misericordia esiga un certo comportamento mentre l’ordine e la giustizia ne esigono un altro.

Sono certamente situazioni estremamente difficili e non sempre riusciamo a trovare la soluzione soddisfacente: sono situazioni che causano nella Chiesa, nella società, ,nelle famiglie delle grandi sofferenze. Cercando di vivere la misericordia si arriva addirittura a temere di, fare torto o danno ad altri o al bene comune: nasce allora un conflitto tra i valori, almeno apparente, che ci costringe. nella nostra povertà storica; a non saper scegliere oppure a scegliere qualcosa che risulta insoddisfacente, in un caso o nell’altro.


Chiunque vive in mezzo a delle responsabilità si imbatte in molti di questi casi che fanno soffrire nella misura in cui ci accorgiamo di quanto siamo lontani dall’essere lungimiranti e veri nella nostra misericordia. Questa sofferenza dobbiamo offrirla a Dio perché è la sola cosa che possiamo fare.

Ci sono poi dei casi in cui il compiere un atto di misericordia comporta un uscire da quel minimo di possesso di noi, che pure è necessario, perdonarci, e allora non lo compiamo. Quante volte persone generose arrivano ad un limite e riconoscono di non poter andare oltre, di non potere fare di più! È il limite intrinseco alla nostra fragilità umana che addolora moltissimo. Andare oltre un certo limite equivarrebbe a spossessarsi di sé e si cadrebbe nell’opposto di quello che si, vorrebbe fare. Questa misura di prudenza necessaria ci fa cogliere come sia difficile dare storicamente una testimonianza pienamente luminosa della misericordia. Non ci resta allora che soffrire e implorare, per noi e per gli altri.

Implorare la misericordia

Il Papa, infatti, nella « Dives in misericordia », dopo aver detto di cercare di introdurre e di incarnare nella vita la misericordia, aggiunge che bisogna « implorarla di fronte a tutti i fenomeni del male fisico e morale, dinanzi a tutte le minacce che gravano sull’intero orizzonte della vita dell’umanità contemporanea ».

 
Dobbiamo essere certi che questa implorazione è resistenza attiva e vera al male e che dispiace profondamente al nemico di Dio.
Mi ha molto colpito un brano di Simone Weil, che avevamo ascoltato lo scorso anno, durante uno dei nostri incontri, là dove scriveva:

Non è così difficile rinunciare a un piacere, pur inebriante, o sottomettersi a un dolore, pur violento. Lo si vede fare quotidianamente da gente molto mediocre. Ma è infinitamente difficile rinunciare anche a un leggerissimo piacere, esporsi a una semplicissima pena solo per Dio; per il vero Dio, per colui che è nei cieli e non altrove. Poiché, quando lo si fa, non si va alla sofferenza ma alla morte. Una morte più radicale della morte carnale e che fa orrore alla natura stessa.

Invece, è proprio questo il momento di vincere il male: credere, cioè, al valore di una implorazione che non ha un’efficacia immediata connessa col suo esercizio.

La nostra preghiera di implorazione, soprattutto nei casi-limite nei quali ci pare di non potere fare altro, è un vero modo di resistere al male. Non dobbiamo dunque avere paura della sterilità e abbandonare la preghiera, come spesso siamo tentati di fare, perché non ci riesce di scuotere immediatamente il male. È per questa nostra implorazione sofferta, che talora ci angoscia fino alle lacrime, che Dio ci darà modo di vedere come usare, anche in quei casi, la misericordia e l’amore e come aiutare veramente coloro che possiamo assistere con il dono di noi stessi.

Conclusione

Ecco che cosa significa e che cosa comporta nella vita essere testimoni della misericordia divina: « Insegnerò agli erranti le tue vie ». Riconoscendo che siamo tutti molto lontani da questa testimonianza seria della misericordia, dobbiamo ritornare alla preghiera creativa del Salmo 50:

  • « Crea in me, o Dio, un cuore puro» perché non l’ho e tu devi crearlo in me come cosa nuova;
  • « Rinnova in me uno spirito saldo» là dove il mio spirito si adagia nella fatica e nella paura;
  • « Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me uno spirito pronto» a essere testimone della tua misericordia di fronte a tanti miei fratelli e sorelle che aspettano questa testimonianza di Te, Padre misericordioso, che mi hai amato e mi hai chiamato, che mi hai fatto camminare quest’anno insieme a molti altri in un cammino di conversione e di misericordia.

Vorrei concludere con le parole di Charles de Foucauld che nel primo incontro abbiamo ripetuto facendole nostre. Dopo aver indicato il Miserere come preghiera in cui l’esperienza dell’uomo è spiegata a se stessa, preghiera quotidiana che innalza l’uomo verso Dio, diceva:

[Questa preghiera] parte dalla considerazione di noi stessi e della vista dei nostri peccati e sale fino alla contemplazione di Dio, passando attraverso il prossimo e pregando per la conversione di tutti gli uomini.

È dunque una preghiera universale da cui nessuno è escluso e da cui la storia umana, nella sua verità, riceve un coinvolgimento e una presenza degli uni negli altri. In questa preghiera, cioè, noi ci ricordiamo, ci perdoniamo, ci aiutiamo, ci sosteniamo nel cammino difficile della conversione evangelica, nella strada faticosa di chi vuol dare un volto storico credibile a Cristo.

Recitando il Salmo 50 noi viviamo questa fatica e insieme la gioia immensa dello Spirito che si riversa nella nostra esistenza e cresciamo verso l’unità misteriosa di Dio, del Cristo nella storia.

Chiedo al Signore che attraverso la recita del Salmo 50, attraverso il ricordo di questo Salmo che ciascuno di noi conserverà nel cuore, noi possiamo conservare anche la memoria dei momenti meravigliosi che abbiamo vissuto, di questa fraternità nella fede, di questa umiltà nella richiesta di perdono, della fiducia che Lui, il Signore, ci fa camminare illuminati dallo splendore del suo volto e sostenuti dalla grazia del suo Spirito.

06 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – LA PENITENZA – C. M. Martini

Sicomoro - Zaccheo

La penitenza

 

Dal Vangelo secondo Luca: 19, 1-10

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là.


Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ». In fretta scese e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ». Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,


Questa sera vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione » (v. 21).


In realtà, gli esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17, e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo. Alcuni li ritengono un’appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo.


Si paria, infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti precedenti, invece, c’è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino di riconciliazione.

 

Risonanze politiche del Salmo

 

Ci troviamo dunque di fronte ad una visuale ampia, allargata, nella quale il cammino individuale va a sfociare nella vita liturgica dell’intera comunità di Israele, anzi dell’intera città.


Potremmo dire che siamo chiamati a meditare sulle risonanze sociali e politiche del Salmo penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Ritornano, in un certo senso, le parole con cui abbiamo cominciato i nostri incontri. Allora, riferendomi al Sinodo mondiale dei Vescovi, sottolineavo che uno dei punti di convergenza dell’assemblea sinodale era stata la convinzione che non c’è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuore. E viceversa che non c’è conversione del cuore senza ripercussione sulla collettività.


È su questo sfondo che desideriamo approfondire questa sera il momento del Sacramento della Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.

 

La penitenza

 

Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza », sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote. gli, infatti, si domanda:


  • Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti?

  • Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia?

  • Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico?

     

Ecco che allora il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo.
Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall’abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.


D’altra parte sono convinto – e lo siamo tutti – che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza. È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento: nell’esame di coscienza aiutando con le domande; nel momento del « dolore» suggerendo le parole; invitando al proposito con l’esempio dei santi; soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore.
Nel momento di suggerire la « penitenza », però, la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi -vicina al camIl1ino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità.


Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti. degni di penitenza », segno di un cuore che si vuole rinnovare.
Abbiamo così individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del Salmo.

 

L’uomo Zaccheo

 

Tenendo ora presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Le. 19, 1-10).


Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l’uomo e Gesù: è un racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.


In questo incontro, l’uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne, che sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono di Gesù.

 

a) L’azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare « estatico »,che fà usci’re cioè Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È un profondo desiderio che lo muove dal ‘di dentro e che è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un’azione esterna.

 

b) L’azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato, si metta a correre per la strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria.
Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua ». È una parola bellissima che a me è stato dato di ripetere e di esprimere a coloro con i quali ho potuto comunicare durante le trasmissioni televisive della Quaresima, proprio partendo dall’espressione: Oggi vengo a casa tua e vorrei che tu mi invitassi a cena.


Questa parola di familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.
a) L’azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
b) L’azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria.


La parola di Zaccheo: «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua riconciliazione.

 

Gioia e proposta della penitenza

 

“Tuttavia ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.

 

Innanzitutto la gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo. Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l’altra metà non gli basta per restituire il quadruplo! In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura, è stato trasformato dall’amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione.


Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.

 

La seconda sottolinea tura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuoi fare e Gesù l’approva. Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.


Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova. Per lui il frutto di « penitenza» è la generosità verso i poveri, la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano). È la sua personale, storica, precisa penitenza.. Gesù l’approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa ».

 

Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale: Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione? Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza?


La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza. Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me: « quale penitenza credi che ti sarebbe utile? quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo momento al tuo cammino? ».


Ciascuno, quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale.


Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, form~le, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto; suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo… non privarmi del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato… ».

 

Domande per noi

 

Vorrei allora proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.

 

  • La gioia di Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione? E se non lo accompagna abitualmente, qual è la causa? Parlo evidentemente di una gioia profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo spirito alla generosità.


  • Se non c’è questa gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato nel primo dei nostri incontri. Un’idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una contemplazione interiore del Padre.


    Sono diversi motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.

 

La seconda domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della mia vita, che cosa direi?


Questa è una domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze, i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei gesti che possono colpire alla radice il male che c’è in me. Gesti di penitenza quindi che sono un frutto degno della conversione personale.


Se mi accorgo, ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall’egoismo, affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa davvero. Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita pigra,”:pesante, neghittosa. Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da antipatie; dalla non accettazione . di alcune persone, allora emergerà come penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che mi coinvolga davvero.

 

Preghiamo il Signore dicendo:

 

« Signore, noi vogliamo offrir ti frutti degni di penitenza non solo per noi ma per la Chiesa intera, per tutta l’umanità, per tutta questa città, perché ci sentiamo corresponsabili del cammino di conversione dell’umanità intera.


Sciogli, o Signore,

i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani

perché possiamo conoscere ciò che veramente

è segno di un cammino nuovo,

ciò che è un passo avanti deciso verso di Te!

 

Non permettere che cadiamo nell’abitudine,

nella pigrizia, nella monotonia:

rendici santamente inquieti

perché mediante un cammino serio ed autentico verso di Te

possiamo ritrovare in noi la sorgente della gioia.

Te lo chiediamo per noi

e te lo chiediamo per ciascun uomo

e per ciascuna donna che nella nostra città,

nella nostra diocesi, vive ed opera ».

 

6

06 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – LA PENTENZA – C. M. Martini

 

6 – LA PENITENZA

 

Dal Vangelo secondo Luca: 19, 1-10

Entrato in Gerico, attraversava la città. Ed ecco un uomo di nome Zaccheo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere quale fosse Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, poiché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per poterlo vedere, salì su un sicomoro, poiché doveva passare di là. Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua ».

In fretta scese e lo accolse pieno di gioia.

Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È andato ad alloggiare da un peccatore! ».

Ma Zaccheo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto ». Gesù gli rispose: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch’egli è figlio di Abramo, il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto ».

Allora gradirai i sacrifici prescritti,
l’olocausto e l’intera oblazione,


Questa sera vogliamo cercare il volto del Signore meditando su alcune delle parole finali del Salmo 50 là dove dice: « Allora gradirai i sacrifici prescritti, l’olocausto e l’intera oblazione » (v. 21).

In realtà, gli esegeti si pongono il problema se questi ultimi versetti, a partire dal v. 17, e soprattutto il v. 20, appartengano o no al Salmo.

Alcuni li ritengono un’appendice liturgica, di carattere nazionale, che a questo punto si aggiunge per trasformare un canto di supplica individuale in un canto collettivo. Si parLa, infatti, di Sion, di Gerusalemme, delle sue mura e dei sacrifici: tutte realtà che riguardano il culto del tempio e la stessa vita civica. Nei versetti precedenti, invece, c’è una persona che dialoga con Dio in un crescente cammino di riconciliazione.

Risonanze politiche del Salmo

Ci troviamo dunque di fronte ad una visuale ampia, allargata, nella quale il cammino individuale va a sfociare nella vita liturgica dell’intera comunità di Israele, anzi dell’intera città.

Potremmo dire che siamo chiamati a meditare sulle risonanze sociali e politiche del Salmo penitenziale e del cammino di riconciliazione che esso ci propone. Ritornano, in un certo senso, le parole con cui abbiamo cominciato i nostri incontri.

Allora, riferendomi al Sinodo mondiale dei Vescovi, sottolineavo che uno dei punti di convergenza dell’assemblea sinodale era stata la convinzione che

  • non c’è riconciliazione sociale, civile, politica senza la conversione dei cuore.
  • E viceversa che non c’è conversione del cuore senza ripercussione sulla collettività.

È su questo sfondo che desideriamo approfondire questa sera il momento del Sacramento della Riconciliazione che è chiamato appunto la «penitenza» o « soddisfazione ». Si tratta cioè di quei gesti, preghiere, azioni che il sacerdote confessore ci chiede di compiere quale segno, frutto ed espressione della nostra conversione.

La penitenza

Quando io, come ministro del Sacramento, quindi come confessore, penso alla « penitenza », sento certamente emergere qualche disagio: è forse uno dei momenti che maggiormente mettono in difficoltà il sacerdote. Egli, infatti, si domanda:

  • Quale penitenza è veramente adeguata al cammino di questa persona che ho davanti?
  • Come posso, in un tempo così breve, individuare la penitenza che per questa persona sia frutto di una specifica conversione, un suo momento di grazia?
  • Che cosa le è veramente utile per esprimere, in modo specifico, il suo cammino storico?

Ecco che allora il confessore spesso sfugge a questa difficoltà proponendo genericamente una preghiera o un atto di culto: cose molto belle, importanti, che tuttavia non sembrano avere sempre una rispondenza immediata al cammino che la persona sta compiendo.

Questo è il disagio concreto del momento specificamente penitenziale del Sacramento, quando si vuole uscire dalla routine, dall’abitudine, dalla formalità e adattarsi alla persona.

D’altra parte sono convinto – e lo siamo tutti – che quello è uno dei momenti in cui la Chiesa è più vicina, in forma concreta, a colui che compie un itinerario di penitenza.

È vero che gli è vicina in ogni tappa del Sacramento:

  • nell’esame di coscienza aiutando con le domande;
  • nel momento del « dolore» suggerendo le parole;
  • invitando al proposito con l’esempio dei santi;
  • soprattutto facendosi trasparenza di Cristo misericordioso quando accoglie e assolve in nome del Signore.

Nel momento di suggerire la « penitenza », però, la Chiesa vuole adattarsi in maniera tutta particolare, facendosi -vicina al cammino di ciascuna persona nella sua irripetibile individualità. Dovrebbe quindi farsi maestra di itinerario penitenziale perché la persona esprima, secondo la parola di Giovanni Battista, «frutti degni di penitenza », segno di un cuore che si vuole rinnovare.

Abbiamo così individuato il problema emergente dalla lettura degli ultimi versetti del Salmo.

L’uomo Zaccheo

Tenendo ora presente la difficoltà che la « penitenza» pone al sacerdote che amministra il Sacramento, vi invito a meditare il brano evangelico che parla di Zaccheo (Le. 19, 1-10). Possiamo definirlo, infatti, un brano di incontro penitenziale tra l’uomo e Gesù: è un racconto storico singolare perché esprime una realtà permanente.

In questo incontro, l’uomo Zaccheo compie delle azioni successive, interne ed esterne, che sono, alcune, la premessa e, altre, la conseguenza della parola di perdono di Gesù.

  • a) L’azione interna che Zaccheo compie è il suo desiderio di vedere Gesù. È un desiderio forte, intenso, che potremmo quasi chiamare «estatico »,che fà uscire cioè Zaccheo fuori di sé. Non è infatti spiegabile che sia la semplice curiosità a farlo correre per vedere Gesù, ad imporgli di fare le cose che sta facendo! È un profondo desiderio che lo muove dal di dentro e che è già amore, un amore incoativo, incipiente per Gesù, che lo spinge a compiere un’azione esterna.
  • b) L’azione esterna che compie Zaccheo è quella di mettersi a correre e di salire su un albero. Stupisce che un uomo come lui, un impiegato, si metta a correre per la strada, e salga poi su un albero, cosa che non avrebbe fatto in un momento ordinario. È una persona che sta vivendo un attimo di amore così forte da dimenticare le abitudini, le convenienze, il suo nome, il suo prestigio, la sua boria.

Su questo amore intenso di Zaccheo ecco allora che cade la parola di amicizia di Gesù: «Oggi vengo a casa tua ». È una parola bellissima che a me è stato dato di ripetere e di esprimere a coloro con i quali ho potuto comunicare durante le trasmissioni televisive della Quaresima, proprio partendo dall’espressione: Oggi vengo a casa tua e vorrei che tu mi invitassi a cena.

Questa parola di familiarità sorprende Zaccheo e suscita in lui alcune nuove azioni che non sono più di premessa ma di conversione.

  • a) L’azione esterna è che Zaccheo accoglie Gesù, pieno di gioia.
  •  b) L’azione interna è che Zaccheo decide e comunica di voler dare ai poveri la metà di quello che ha e di riparare i torti in misura straordinaria.

 La parola di Zaccheo: «Signore, do la metà dei miei beni ai poveri e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» è la risultanza penitenziale, sociale, civile, comunitaria del cammino di Zaccheo. È il frutto di « penitenza» della sua riconciliazione.

Gioia e proposta della penitenza

Tuttavia ci sono ancora due sottolineature da fare in questo cammino di Zaccheo.

  • Innanzitutto la gioia con cui compie le sue azioni, una gioia che lo rende straordinariamente, quasi, diremmo, sconsideratamente generoso, al di là di ogni calcolo.
  • Gli si potrebbe fare osservare che se dà la metà dei suoi beni ai poveri, l’altra metà non gli basta per restituire il quadruplo!
  • In realtà, Zaccheo ha, per così dire, perso il senso della misura,
  • è stato trasformato dall’amicizia e dalla riconciliazione con Gesù e per questo ciò che gli importa è di lasciar risuonare intorno a sé la gioia con abbondanza, quale segno della sua conversione.

Il primo frutto dell’incontro penitenziale è dunque la gioia, una gioia che deborda, trabocca intorno a noi e che ci fa compiere con facilità azioni anche difficili a cui non ci saremmo mai decisi prima di aver ascoltato la parola di Gesù.

La seconda sottolinea tura del cammino di Zaccheo è che lui stesso propone a Gesù la «penitenza» che vuol fare e Gesù l’approva.

  • Zaccheo propone ciò che è più adatto per un uomo avido, imbroglione, desideroso di possedere come è lui.
  • Ha saputo cogliere il proprio punto debole e su questo si rinnova.
  • Per lui il frutto di « penitenza» è la generosità verso i poveri,
  • la prontezza nel riparare i torti che ha arrecato agli altri (non lunghe formule di preghiera, non pellegrinaggi, non gesti esteriori che non toccano).
  • È la sua personale, storica, precisa penitenza..
  • Gesù l’approva e gli dice: « Oggi la salvezza è entrata in questa casa ».

Possiamo ritornare alla nostra domanda iniziale:

  • Quale penitenza adeguata al cammino di chi ho davanti posso dare come sacerdote che amministra il Sacramento della Riconciliazione?
  • Come posso aiutare a fare frutti degni di penitenza?

La risposta suggeritaci dal brano evangelico è molto semplice. Forse è il penitente che può aiutare me confessore, forse è colui che ha instaurato con me un dialogo penitenziale che può suggerirmi come aiutarlo a fare frutti degni di penitenza.

Invece di chiedere a me stesso, a me sacerdote: « che cosa devo dare come penitenza? », posso chiedere a questa persona, a questa sorella, a questo fratello che è venuto da me:

  • « quale penitenza credi che ti sarebbe utile?
  • quale opera di giustizia, di pietà, di misericordia corrisponde in questo momento al tuo cammino? ».

Ciascuno, quindi, è in grado di aiutare il confessore nello stabilire una penitenza che sia segno ed espressione di un autentico itinerario penitenziale.

Anziché lamentarci che la «penitenza» è poco adatta, che è esteriore, formale, che è sempre la stessa, noi potremmo, in un dialogo più disteso e più aperto, suggerire qualche volta che cosa riteniamo importante come segno della conversione che abbiamo chiesto a Dio, come frutto dello Spirito Santo di purificazione, invocandolo nei nostri incontri con le parole del Salmo: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo… non privarmi del tuo Santo Spirito, rendi mi la gioia di essere salvato… ».

Domande per noi

Vorrei allora proporre due domande per la vostra riflessione silenziosa.

  • - La gioia di Zaccheo accompagna in me il Sacramento della Riconciliazione?
  • E se non lo accompagna abitualmente, qual è la causa?

Parlo evidentemente di una gioia profonda, non superficiale, di una gioia che potrà anche essere tenue nella sua risonanza sensibile e che però al fondo ci deve essere e deve muovere lo spirito alla generosità.

Se non c’è questa gioia di fondo, il motivo va forse ricercato in qualche modo sbagliato di vivere il cammino di riconciliazione, a cui abbiamo accennato nel primo dei nostri incontri. Un’idea sbagliata di Dio, della sua misericordia, della sua iniziativa di amore; oppure un non affidarsi abbastanza alla Chiesa nel nostro cammino; o un dolore che non parte da un vero dialogo con Gesù, da una contemplazione interiore del Padre.
Sono diversi motivi che ciascuno può evocare per comprendere come mai la gioia non accompagna abitualmente il Sacramento della Riconciliazione.

  • - La seconda domanda richiede una riflessione silenziosa più lunga: se io dovessi suggerire al sacerdote confessore una penitenza adatta per me, in questo momento della mia vita, che cosa direi?

 Questa è una domanda esigente perché ci impegna ad individuare non solo le nostre mancanze, i peccati ma anche le inclinazioni negative, ad individuare quegli atti e quei gesti che possono colpire alla radice il male che c’è in me. Gesti di penitenza quindi che sono un frutto degno della conversione personale.

  • Se mi accorgo, ad esempio, che i miei peccati, le mie mancanze derivano dall’egoismo, affiorerà come penitenza adeguata un atto di generosità autentico, che mi costa davvero.
  • Se mi accorgo che alcuni miei peccati derivano da pigrizia, emergerà come penitenza una vittoria sulla mia pigrizia, sulla golosità, sulla curiosità, sulla morbosità, su tutto ciò che rende la mia vita pigra, pesante, neghittosa.
  • Se mi accorgo che le mie mancanze derivano da antipatie, dalla non accettazione di alcune persone, allora emergerà come penitenza un gesto di attenzione per queste persone, un gesto semplice ma che mi coinvolga davvero.

Preghiamo il Signore dicendo:

« Signore, noi vogliamo offrir ti frutti degni di penitenza

non solo per noi ma per la Chiesa intera,

per tutta l’umanità, per tutta questa città,

perché ci sentiamo corresponsabili del cammino di conversione dell’umanità intera.


Sciogli, o Signore, i nostri cuori, la nostra lingua, le nostre mani

perché possiamo conoscere ciò che veramente è segno di un cammino nuovo,

ciò che è un passo avanti deciso verso di Te!

Non permettere che cadiamo nell’abitudine, nella pigrizia, nella monotonia:

rendici santamente inquieti

perché mediante un cammino serio ed autentico verso di Te

possiamo ritrovare in noi la sorgente della gioia.

Te lo chiediamo per noi

e te lo chiediamo per ciascun uomo e per ciascuna donna

che nella nostra città, nella nostra diocesi, vive ed opera ».

05 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – LA CONFESSONE DEI PECCATI – C. M. Martini

 

5 – LA CONFESSONE DEI PECCATI

 

Dal Vangelo secondo Luca: 18, 9-14

Disse ancora questa parabola per alcuni the presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. I

l fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come,gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.

Il pubblicano invece, fermato si a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.

Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato
e chi si umilia sarà esaltato
».

Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto.

A questo punto delle nostre. riflessioni sul Salmo 50 siamo in grado di comprendere meglio in che cosa propriamente consiste la « confessione» dei peccati.


Il tema è molto importante per il nostro cammino di riconciliazione. D’altra parte l’accusa dei peccati che il penitente è chiamato a fare di fronte alla Chiesa suscita sempre un senso di disagio e pone diverse domande.
Cerchiamo innanzitutto di specificare il disagio e le domande.

Il disagio per il contenuto dell’accusa. Si crea non di rado, in noi, un impaccio perché non sappiamo cosa dire, ci pare di non avere niente da dire. Ci rivolgiamo allora al sacerdote dicendo:

  • « Mi aiuti lei, io non ricordo, non so che cosa dire ».

Altre volte, al contrario, non sappiamo come esprimerci:

  • « Mi aiuti perché non so come dire, sono confuso, ho dentro qualcosa di grosso ma non so proprio come dirlo ».

Il disagio che nasce dalla forma, dall’atmosfera che assume la confessione. Facilmente diventa un’autoaccusa: ho commesso questo, ho fatto quest’altro, sono colpevole della tal cosa.

In un quadro più psicologico, l’accusa sfocia in un’autocritica che rischia di scivolare verso l’autogiustificazione.

  • Mi sono cioè autocriticato così bene
  • da essere riuscito a chiarirmi a me stesso
  • e praticamente non ho più bisogno del perdono di Dio:
  • il perdono diventa accessorio, aggiuntivo
  • e di fatto così si rinnega il Vangelo del perdono.

Oppure si cade nell’eccesso opposto, nell’autolesionismo:

  • ci si accusa allora senza fine,
  • con una pervicacia, con una crudeltà verso se stessi che è segno di un non equilibrato senso della confessione dei peccati.

Nascono quindi le domande sul valore:

  • che valore ha l’accusa dei peccati?
  • Quale valore costruttivo della personalità contiene?
  • Perché è necessaria l’accusa?
  • Non è meglio lasciare che ciascuno dica dentro di sé in maniera generica: ho peccato!?
  • Oppure non è meglio che lo riconosca attraverso un gesto, battendosi il petto, senza entrare in un dettaglio faticoso e talora fastidioso come è la confessione dei peccati?

Sono dunque problemi che riguardano il contenuto, la forma, il valore dell’accusa.

Il contenuto della confessione

Nella nostra riflessione ci lasciamo guidare dal versetto 6 del Salmo 50 che abbiamo già meditato e che dice: « Quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto ».

  • La prima cosa che notiamo in queste parole è che siamo di fronte ad un movimento dialogico. Qui non c’è autocritica: ho fatto male, ho fatto ciò che non dovevo, ho sbagliato.
  • Siamo piuttosto in un dialogo intimo e personale: ho fatto ciò che ai tuoi occhi è male. Non ho fatto male soltanto contro la tua legge ma quello che è male « ai tuoi occhi».
  • L’ambito non è di un solipsismo accusatorio, di un autolesionismo chiuso in se stesso: l’ambito è di un dialogo filiale con Colui che mi ama.

E tuttavia il dialogo appare generico. Ci sembra generico come generiche sono altre espressioni del Salmo:

  • Riconosco la mia colpa (quale colpa?);
  • il mio peccato mi sta sempre dinanzi (quale peccato?);
  • contro di te, contro te solo ho peccato.


Il Miserere, stranamente, non specifica la realtà della colpa e del peccato e suscita in noi la domanda: è necessario, è utile andare più in là?

Non potremmo fermarci a questa dichiarazione generica che è, in fondo, anche quella del pubblicano del Vangelo: « Dio, abbi pietà di me peccatore! »?


In realtà, la Sacra Scrittura ci dà, in altri passi, degli esempi di confessioni meno generiche. In alcune pagine abbastanza note, ad esempio nel cap. 9 del libro di Esdra, vediamo che, a partire da un peccato specifico che riguarda il costume sociale del popolo di Israele, segue prima un’accusa:

  • Hanno profanato la stirpe santa con le popolazioni locali,
  • i magistrati e i capi sono stati i primi a darsi a questa infedeltà.

E poi nasce la preghiera di confessione:

  • «Caddi in ginocchio,
  • stesi le mani al mio Signore e dissi:
  • Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te, mio Dio,
  • poiché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa» (9, 5-6) .

Vengono quindi espresse tutte le conseguenze di queste colpe e infine si riprende la descrizione specifica di quanto è avvenuto:

  • «Abbiamo abbandonato i tuoi comandi che avevi dato per mezzo dei tuoi servi…
  • il paese di cui andate a prendere possesso è un paese immondo…
  • noi non abbiamo obbedito ai tuoi comandi di purità,
  • benché tu, Dio nostro, ci abbia punito meno di quanto meritavamo ».


È un esempio, che sarebbe interessante esaminare particolarmente, di una confessione specifica di ciò che è avvenuto e di ciò di cui ci si pente.

Un’altra celebre confessione delle ribellioni specifiche di Israele la troviamo al cap. 9 del libro di Neemia:

  • Tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso…
  • Anche quando si sono fatti un vitello di metallo fuso e hanno detto: Ecco il tuo dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, e ti hanno insultato gravemente, tu, nella tua misericordia, non li hai abbandonati nel deserto (9, 17-19).

Ci sono dunque nella Scrittura, qui e altrove, degli esempi di confessione dove l’accusa esprime la realtà di cui ci si sente colpevoli davanti a Dio.

Se noi, dopo aver riflettuto su questi esempi, ritorniamo al Salmo 50 e lo leggiamo nel contesto del Salterio in cui è posto, ci accorgiamo che siamo anche qui di fronte ad un’accusa specifica, ben determinata che si trova nel Salmo immediatamente precedente e che, con il 50, sembra costituire un’unità liturgica.

I Salmi 49 e 50 (50 e 51 nella numerazione ebraica) erano, infatti, una liturgia penitenziale che iniziava con l’accusa circostanziata da parte di Dio e con l’accettazione di questa accusa da parte dell’uomo. Ascoltiamo la requisitoria che Dio fa nel Salmo 49:

  • Se vedi un ladro corri con lui e degli adulteri ti fai compagno.
  • Abbandoni la tua bocca al male e la tua lingua ordisce inganni,
  • Ti siedi, parli contro il tuo fratello, getti fango contro il figlio di tua madre.
  • Hai fatto questo e dovrei tacere?.. (vv. 18 ss.).

Il Salmo 50 emerge chiaramente come risposta:

  • Riconosco la mia colpa…
  • Contro di te, contro te solo ho peccato…
  • sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio.

E poi segue la preghiera:

Purificami con issopo e sarò mondato… fammi sentire gioia e letizia.

Da tutte queste parole della Scrittura, possiamo cogliere quanto sia la Parola di Dio che redarguisce l’uomo e lo interpella sul suo peccato.

L’esame di coscienza – ora possiamo coglierlo meglio -

  • è il mettersi di fronte alla Parola di Dio
  • non come quadro etico di riferimento,
  • ma come Parola che interpella,
  • che rimprovera con quella forza d’amore che le è propria
  • per fare emergere la scintilla della salvezza e la possibilità del perdono.

Il contenuto dell’accusa

  • non è un cercare a tastoni qua e là qualcosa da dire,
  • non è il faticare nel dire, non si sa come, qualcosa che abbiamo dentro:
  • è un rispondere all’interpellanza della Parola di Dio che ci illumina e ci rimprovera.

Lasciandoci interpellare e rimproverare dalla Parola noi ci mettiamo nella condizione umile, semplice e chiara di confessare:

  • Sì, è vero, questo l’ho fatto, Signore:
  • hai ragione, ma tu crea in me un cuore nuovo!

Questo non vuole evidentemente dire che l’accusa dialogica debba sempre riferirsi materialmente a una parola del Vangelo. È una risposta a Dio che si rivolge a noi con amore e con forza. Dio ci ama e per questo non ci blandisce, non ci lusinga con parole vane o vanamente consolatorie, ma ci interpella con la forza della Scrittura, del magistero della Chiesa, della parola di coloro che ci amano e ci parlano a nome di Dio.

Il processo che cambia l’uomo in verità non è un giostrare con peccati fittizi o con atteggiamenti imprendibili:

  • è un mettereci nel quadro dell’Alleanza
  • e riconoscere che l’Alleanza, come interpellanza di Dio, ci trova spesso mancanti in questo dialogo di amore
  • e richiede un dialogo di pentimento e di riconciliazione.

L’atmosfera della confessione: la « todà »

Se leggiamo attentamente i Salmi 49 e 50, che abbiamo collegato in una unità liturgica, notiamo che la radice ebraica a cui si fa riferimento per indicare la confessione, è una radice che forse qualcuno di noi ricorda. Chi, infatti, è stato in Terra Santa, ha certamente sentito spesso la parola todà oppure todarabbà, che vuol dire: grazie.

Ogni volta che in Israele si chiede un favore o si va a comperare qualche cosa, la risposta è: todà, grazie; todarabbà, grazie tante.

Questa è la parola-chiave dei due Salmi. Significa non solo «grazie» ma pure « lode», confessione di lode e ancora confessione di peccato. La parola è sempre la medesima.

La riflessione sulle grandi preghiere di accusa e di confessione che troviamo nella Scrittura, come quelle di Esdra e di Neemia e poi quella del cap. 3 di Daniele, ci fa scoprire che c’è una sintesi di lode, di ringraziamento e di accusa:

Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare la faccia verso di Te. Dal giorno dei nostri padri fino ad oggi siamo stati molto colpevoli. Ma nella nostra schiavitù Tu non ci hai abbandonato, Tu ci hai fatto rivivere, ci hai fatto grazia, hai liberato un resto di noi; il nostro Dio ha fatto brillare i nostri. occhi, ci ha dato un po’ di sollievo nella nostra schiavitù (Esd. 9, 6-8).

La confessione e la lode si alternano: l’atmosfera è quella della «confessio laudis» e della «confessio vitae», della confessione di lode e della confessione della vita, non quella dell’autolesionismo e dell’amarezza.


Del resto, chi conosce bene il libro delle Confessioni di S. Agostino, sa come questo grande Santo, battezzato proprio qui, nell’antico battistero del Duomo, ha potuto congiungere meravigliosamente, nella sua opera, la confessione di lode con la confessione dei propri peccati.

Leggiamo un esempio ancora dalla preghiera di Neemia:

Alzatevi, benedite il Signore vostro Dio ora e sempre! Si benedica il Suo nome glorioso, che è esaltato al di sopra di ogni benedizione e di ogni lode… Tu, Tu solo sei il Signore. Ma noi ci siamo comportati con superbia: i nostri padri hanno indurito la loro cervice, si sono rifiutati di obbedire. Ma tu sei un Dio pronto a perdonare, pietoso e misericordioso… hai concesso il tuo spirito buono. Ma poi sono stati disobbedienti, si sono ribellati. Al tempo della loro angoscia hanno gridato à Te e Tu li hai ascoltati (cfr. Ne. 9).

Questa lunga preghiera è un continuo intreccio di lode, di ringraziamento, accusa e riconoscimento della colpa in cui l’uomo trova la sua verità, trova l’umiltà e la gioia di riconoscere la sua povertà davanti a un Dio grande e buono.


Sarebbe anche bello soffermarsi a commentare, nello stesso senso, il cap. 3 del libro di Daniele là dove è riportata la preghiera di Azaria:

Benedetto sei tu, Signore, Dio dei nostri padri, Tu sei giusto in tutto ciò che hai fatto. Noi abbiamo peccato, abbiamo agito da iniqui, allontanandoci da te; non abbiamo obbedito ai tuoi comandamenti. Potessimo essere accolti con il cuore contrito e lo spirito umiliato! (vv. 25 ss.).

La preghiera è simile al nostro Salmo 50, ne riprende alcune espressioni ampliando il senso di lode e di confessione del peccato. Il confessarsi nella lode era talmente abituale agli Ebrei che persino il fariseo della parabola evangelica fa la sua confessione partendo dalla lode: « Ti ringrazio, mio Dio, perché non sono come gli altri uomini» (Lc. 18, 9-14).

L’errore del fariseo, che pure inizia con la todà, sta nel congiungere la «confessio laudis » con la « confessio vitae » e nel non mettere davanti alla misericordia e alla bontà di Dio la sua povertà, quella povertà che invece riconosce il pubblicano, con semplicità e coraggio: «Dio, abbi pietà di me peccatore! », che vuol dire:

  • Tu sei grande, misericordioso, potente
  • e io sono povero.
  • Tu mi salvi
  • e io ti lodo per la tua grande potenza.

Ecco dunque l’atmosfera, il tono, il ritmo che dovrebbe avere la nostra confessione: l’atmosfera della todà.

Il valore del perdono

Personalmente mi è stato molto utile, per chiarire i non pochi problemi riguardo al tema del perdono di Dio o del giudizio salvifico di Dio sull’uomo, distinguere, nel Nuovo Testamento, tre tempi. Nel linguaggio neo-testamentario si direbbe tre « kairòi », tempi della Storia di salvezza, diversi l’uno dall’altro, in cui Dio esercita il giudizio sull’uomo peccatore.

a) Un primo tempo è quello del perdono battesimale.


È il perdono o condono esercitato sull’uomo che fa il primo passo per entrare nell’Alleanza chiedendo il Battesimo.

È il primo grande perdono di Dio che si può chiamare meglio un condono « totale». Dio decide in assoluta gratuità di concedere grazia e misericordia: non pone alcuna condizione, neppure un minimo di buona condotta, perché tutti hanno peccato e tutti hanno bisogno della misericordia divina.

Chiede soltanto la fede nel Figlio suo, Messia e Salvatore: se credi in Gesù Cristo, fatti battezzare e sarai salvo.


Il peccatore è perdonato qui con un perdono fondamentale e viene creato così di nuovo, viene fatto figlio, entra nell’Alleanza. È un giudizio dall’Alto di assoluto condono rispetto alla condizione umana di peccato.

b) Un secondo tempo è quello del perdono penitenziale o del giudizio salvifico di perdono nel dialogo.

 
Una volta che l’uomo è entrato nell’Alleanza con Dio rinascendo come cristiano nella Chiesa mediante il Battesimo, se egli manca gravemente agli impegni della nuova Alleanza, ferisce Dio, Cristo, la Chiesa e il giudizio di salvezza gli è offerto in un colloquio. Mentre prima del Battesimo non occorre colloquio salvifico né accusa dei peccati, per chi è già entrato nell’Alleanza il giudizio salvifico postula il dialogo.


La Parola di Dio redarguisce l’uomo che riconosce il suo torto specifico, si riconosce peccatore, chiede di essere rinnovato dalla potenza dello Spirito («Crea in me, o Dio, un cuore nuovo») e Dio ricrea il cuore del peccatore.

C’è quindi l’accusa del peccato e l’atto di perdono . in un dialogo tra Dio e l’uomo che si svolge nell’ambito della Chiesa, di quella comunità che è stata ferita dalla rottura dell’Alleanza.

c) Un terzo momento è quello del giudizio retributivo. Il Nuovo Testamento vi accenna chiaramente e non dobbiamo trascurarlo se non vogliamo svilire il dono di Dio.


Alla fine di una tappa storica, alla fine di una esistenza singola, alla fine della storia, il Messia verrà come giudice dei vivi e dei morti, per dare a ciascuno secondo la sua condotta. Nel giudizio retributivo non c’è più condono né dialogo: c’è il giudizio secondo verità.

La serietà del dialogo penitenziale di accusa sta nel porsi giustamente, in maniera corretta,

  • tra il condono battesimale globale, in cui l’uomo è salvato con la semplice adesione di fede a Cristo
  • e il giudizio finale in cui l’uomo viene rigorosamente pesato secondo le sue opere.

Il dialogo, il perdono del Sacramento della Riconciliazione sta in mezzo a queste due realtà e aiuta l’uomo a crescere verso quella maturità che gli permette di presentarsi con fiducia al giudizio di Dio.

C’è quindi una grande serietà in questo dialogo penitenziale:

  • in esso si rivela la bontà di Dio che, mediante  la Chiesa, restituisce gradualmente l’uomo alla coscienza della sua dignità
  • e lo prepara a un giudizio divino che svelerà il miracolo di amore che Dio ha fatto in ciascuno di noi, poveri peccatori.

Domande per noi

Propongo quattro domande per la riflessione personale.

  • - Mi lascio redarguire dalla Parola di Dio? Considero la Parola non soltanto come istruttiva, consolatori a ma anche come Parola che mi interpella e mi ammonisce, divenendo il punto di partenza del dialogo penitenziale?
  • - Vivo l’accusa dei peccati come vero dialogo con la Chiesa nell’ambito dell’Alleanza? O la vivo, invece, come monologo affrettato in cui faccio semplicemente un’autoaccusa, un autolesionismo che mi lascia freddo e amaro?
  • - So unire la «confessio vitae» con la «confessio laudis », sia nella preparazione alla confessione che, talora, nella confessione stessa, dicendo: desidero ringraziare Dio perché è stato buono con me e di fronte a ciò che Egli ha fatto per me risalta ciò che io non ho saputo fare per Lui o che ho fatto contro di Lui?
  • So unire la « confessio laudis » con la « confessio vitae », in modo da rendere il mio dialogo ricco e vero come il dialogo del Salmista, come il dialogo delle preghiere penitenziali dell’Antico Testamento che abbiamo ricordato?
  • - So rimproverare altri? La domanda forse può stupire: in realtà deriva come conseguenza sociale di ciò che abbiamo detto, nell’ambito familiare, professionale e civile.
  • Capisco che la Parola di Dio non è soltanto stimolo, consolazione ma è anche rimprovero, forte e pieno di amore? E non c’è cosa più difficile che fare un rimprovero vero e pieno di amore!

Per questo molta gente, oggi, preferisce passare sopra, preferisce lamentarsi, criticare davanti o dietro le spalle, preferisce accusare vanamente e genericamente. Sono pochi coloro che hanno la forza di fare un rimprovero modellato sulla Parola di Dio, cioè vero, giusto, penetrante, capace di scuotere e, insieme, pieno di amore, capace di instaurare un dialogo di speranza, un riconoscimento che accoglie, che sa vedere ciò che si è fatto e quindi restituisce alla verità quella persona che, forse, noi ci accontentiamo solo di denigrare o di criticare perché non vogliamo veramente il suo bene.

Nel tempo del Nuovo Testamento era molto comune la pratica della correzione fraterna, pratica che poi si diffuse nella Chiesa mentre oggi sembra un po’ dimenticata. « Se il tuo fratello ha qualcosa contro di te, va’ e correggilo da solo a solo e avrai guadagnato il tuo fratello. »

Quante volte noi non facciamo così! Quante volte non affrontiamo il nostro fratello con amore, per aiutarlo!

Abbiamo paura di amare così come Dio ci ama.

Preghiamo allora gli uni per gli altri dicendo:

« Signore, aprici gli occhi

perché noi possiamo conoscere la ricchezza delle tue parole

e possiamo esprimerla come a te piace.

Donaci di ritrovare la gioia della tua presenza!

Signore, aiutaci a fare una confessione sacramentaleche ci riporti nella verità

e ci dia la forza di partecipare alla tua Parola che ama, rimprovera e salva! ».

04 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – LA SUPPLICA – C. M. Martini

La supplica

 

Dal Vangelo secondo Giovanni: 8, 1-11

Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? ». Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: « Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei ». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Allora Gesù, alzatosi, le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata? ». Ed essa rispose: «Nessuno, Signore ». E Gesù le disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più ».

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.

Non respingermi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia di essere salvato,
sostieni in me un animo generoso.

 

Le parole costitutive della seconda parte del Salmo sono una supplica, una invocazione, una grande preghiera. Ne meditiamo solo alcune perché esprimono l’autentico grido di chi conosce Dio e impara a conoscere se stesso e vogliamo chiedere al Signore la grazia di poter condividere questo autentico grido.
Sono le parole che troviamo alla fine della seconda parte: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia di essere salvato, sostieni in me un animo generoso» .

L’epiclesi dello Spirito

Cominciamo da una particolarità linguistica che non appare nella versione italiana: siamo di fronte a tre invocazioni di richiesta dello Spirito Santo; da parte dell’uomo. Il versetto tradotto con « sostieni

in me un animo generoso », infatti, nel testo ebraico si legge: «rafforzami col tuo Spirito generoso », oppure: « Poni in me uno Spirito generoso ».


La supplica domanda lo spirito saldo, lo Spirito santo, lo spirito generoso ed è una vera e propria epiclesi.


L’epiclesi liturgica è la preghiera che nella celebrazione eucaristica si fa, al momento della consacrazione, allo Spirito Santo perché scenda in maniera creativa sul pane e sul vino, rendendoli Corpo e Sangue di Cristo.


La liturgia, oltre a questa invocazione eucaristica dello Spirito, ha, in alcune preghiere del canone, un’altra epiclesi comunitaria in cui si chiede che lo Spirito scenda sulla comunità e ne faccia una cosa sola in Cristo.


Qui siamo di fronte ad una epiclesi penitenziale, ad una invocazione dello Spirito perché scenda sulla persona che prega e la trasformi. È quindi il momento culminante del Salmo, come la Consacrazione è il momento culminante dell’Eucaristia.

Una nuova creazione

Proviamo ora a riflettere su due domande parallele di cui una: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» è all’inizio dell’epiclesi dello Spirito e l’altra: «Rendimi la gioia di essere salvato» è nel contesto dell’epiclesi stessa.


Qual è la domanda fondamentale?
Crea in me.


Il verbo creare è il primo della Scrittura: « In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn. 1, 1). È parola che la Bibbia riserva per Dio solo: non è mai usata per un’azione umana, è esclusiva dell’azione divina che dal nulla pone in essere, dell’azione divina che fa qualcosa di nuovo.


La domanda è quindi di un’ azione creatrice, di una novità che Dio solo può porre nell’uomo.


E la parola « crea in me » è parallela con l’altra: « rendi mi la gioia ». Nell’ebraico si legge: « Fa’ ritornare, fa’ risorgere in me la gioia ». Non si chiede qualcosa di assolutamente nuovo ma si chiede di far ritornare quel momento creativo originario che è il Battesimo.


Il Sacramento della Riconciliazione è la richiesta di essere reimmersi nella forza creativa dello Spirito battesimale, è una nuova esperienza del Battesimo, che per nostra colpa abbiamo perduta.


Per questo il Sacramento della Riconciliazione non può avere il suo pieno effetto se non abbiamo vissuto profondamente l’esperienza dell’annuncio evangelico, la forza del kerygma.

  • Come si può restituire ciò che non c’è mai stato o che c’è stato in maniera fiacca, slavata e generica?

  • Come è possibile ritrovare la forza del Battesimo se non è mai stata percepita in un atto di impegno personale e autentico?

Il cammino di conversione penitenziale deve essere un cammino che ci permetta di ritrovare quella forza sorgiva del Battesimo che forse alcuni non hanno mai esperimentato perché non hanno espresso, in modo personale e coerente, la loro donazione a Dio. Quella donazione che siamo chiamati ad esprimere nel Sacramento dell’Eucaristia, nel Sacramento della Confermazione, nella professione di fede, in un corso di Esercizi Spirituali che ci faccia comprendere la forza del messaggio salvifico di Dio.


Senza questa prima esperienza, la Confessione è privata del mordente che dovrebbe avere come nuova azione di Dio che riconduce l’uomo nella pienezza dell’immersione nello Spirito Santo, propria della grazia. del Battesimo e della Cresima.

La gioia cristiana

Qual è l’oggetto dell’atto creativo e restitutivo che si chiede a Dio di compiere? È un cuore puro, è la gioia.


La Scrittura indica la gioia come l’esperienza fondamentale del cristiano, esperienza che corrisponde ad un cuore puro, pulito, ad un cuore che non si accusa perché è stato immerso nell’accoglienza del Padre, perché ha visto Dio Padre buono che lo ha accolto e rifatto completamente.


La gioia è l’esperienza fondamentale che dovremmo recepire in noi. Eppure tante volte, ripensando alla nostra esperienza cristiana, dobbiamo leggerla come esperienza che si trascina stancamente. Non perché la gioia non sia dentro di noi – in noi, infatti, c’è la forza dello Spirito Santo e tutti l’abbiamo – ma perché non la esprimiamo, non le apriamo la via e così resta nascosta, quasi impercettibile.


Lo spazio alla gioia è il momento della preghiera, dell’adorazione, del silenzio, del canto, del dialogo sul Vangelo; è il momento del sacrificio, del dono di sé, della rinuncia; è il momento del canto interiore. In questi momenti la gioia, che non è nostra bensì dono gratuito di Dio, scoppia dentro di noi fino a sorprenderci.


« Crea in me, o Dio, un cuore puro… rendimi la gioia di essere salvato.. » È la gioia della salvezza di Dio che mi accoglie, mi ama e mi salva.


È la gioia della donna adultera di cui parla il Vangelo di Giovanni (8, 1-11).

Questo brano non si trova in molti manoscritti dei Vangeli, pur essendo antichissimo e pur facendo parte della primitiva catechesi cristiana. Non vi si trova perché, probabilmente, è stato ritenuto pericoloso, dal momento che non mette abbastanza in luce lo sforzo penitenziale della donna adultera!

Sembra un brano che faciliti la colpa, il peccato, la deviazione morale. Tuttavia chi lo ha letto in questo senso e lo ha poi tolto da molti manoscritti e codici delle Scritture, non ha capito il perdono creativo di Dio, la forza rinnovatrice del suo Spirito nel cuore dell’uomo, la capacità che Dio ha di fare un uomo diverso, non semplicemente come risultato dello sforzo della buona volontà umana ma per il potere creativo dello Spirito.

La gioia, che la donna quasi non esprime a parole, è l’immagine di ciascuno di noi, salvato da una parola di perdono di Cristo.

La certezza del perdono

Il proposito che possiamo fare non è semplicemente una scommessa sul futuro, non è una previsione di ciò che saremo perché nessuno è profeta su di sé, non è la certezza di riuscire a dominarsi pienamente.


Il proposito è la certezza della forza che emerge dal condono di Dio.


Se Dio mi ama, se Dio mi perdona, io posso chiedergli: Signore, fammi essere diverso! Desidero, e tu lo sai, essere altro da ciò che sono stato!


Il proposito è in questa supplica che a poco a poco lascia spazio alla gioia e alla forza dello Spirito dentro di me. È l’esperienza di S. Agostino:

  • Ma tu, o Signore, guardasti all’abisso della mia morte e, nel profondo del mio cuore, distruggesti l’abisso della corruzione…

  • Come subito mi apparve soave l’essere privo di quelle false dolcezze che prima avevo paura di perdere ed ora invece mi era gioia il lasciarle!

  • Eri tu che le allontanavi da me, tu, o dolcezza vera e somma;

  • le allontanavi e penetravi tu al loro posto, tu più dolce di ogni voluttà ma non per la carne ed il sangue;

  • tu più luminoso di ogni luce ma intimo più di ogni segreto;

  • tu sublime più di ogni grandezza, non per quelli però che sono alti di se stessi.

  • Ormai il mio spirito era libero dalle dolorose preoccupazioni dell’ambizione e del guadagno e della lebbra di passioni inquiete e libidinose.

  • Balbettavo le prime parole a te, mia lucé, ricchezza e salvezza, o Signore Dio mio (Dalle Confessioni, IX, 1).

Domande per noi

Propongo tre domande per la riflessione:

  • - Ho fiducia che Dio possa creare in me un cuore nuovo? Oppure vivo rassegnato alla mia debolezza, dicendomi che non c’è niente da fare perché sono fatto così?

Ho fiducia nella forza battesimale dello Spirito che è in me e che il Sacramento della Riconciliazione ricrea, con atto creativo, dentro di me? Qui possiamo pregare: « Signore, accresci la mia fede. È poca ed è per questo che sono sempre lo stesso. Mi rassegno troppo facilmente ad essere ciò che sono mentre Tu mi chiami ad accettare di essere molto amato da Te, chiamato da Te a qualcosa che io desidero dal più profondo di me stesso ».

  • - Ho fiducia che Dio possa creare cuori nuovi?

 Questa domanda concerne il modo con cui guardo gli altri. Spesso li guardo come incorreggibili e le loro azioni come ormai inevitabili e non faccio niente per aiutarli perché non ho fiducia nella forza creativa dello Spirito.

Spesso mi lamento degli altri, non prego per loro, ritengo di aver subito dei torti e penso che, mentre io posso convertirmi, per loro non ci può essere il dono della conversione.

  • - Do spazio alla gioia della mia salvezza? Le permetto di esprimersi? In che cosa potrebbe esprimersi in me?

Forse in un momento di riflessione silenziosa e quotidiana su una pagina del Vangelo; forse in un sacrificio affrontato con decisione; forse in una parola di perdono e di amicizia concessa francamente e senza reticenze.

Preghiamo gli uni per gli altri perché il nostro cuore si apra alla gioia della salvezza che viene dal Signore, alla gioia di ciò che Dio opera in noi. Preghiamo perché il nostro cuore sappia credere alla forza divina di salvezza e possa avere la pazienza e l’amore di essere, se il Signore lo vuole, strumento di questa forza di salvezza.

03 – RIFLESSIONI SUL MISERERE – Il dolore dei peccati – C. M. Martini

3 – Il dolore dei peccati


 

 

Dal Vangelo secondo Luca: 22, 54-62

Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui ».

Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco! ».

Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di loro! ».

Ma Pietro rispose: «No, non lo sono! ».

Passata circa un’ora, un altro insisteva: «In verità, anche questo era con lui, è anche lui un Galileo ».

Ma Pietro disse: « O uomo, non so quello che dici ».

E, in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. All’ora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E uscito pianse amaramente.

 

Sei giusto quando parli,retto nel tuo giudizio.

Per completare la riflessione sulla prima parte della sezione centrale del Salmo 50, meditiamo sulle parole: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio ». Esse ci permettono di entrare nel tema del dolore dei peccati.

 

La parola « dolore », pronunciata nel contesto del Sacramento della Riconciliazione, può evocare in noi una sensazione di disagio o di insoddisfazione.


È il ricordo di sentimenti talora spremuti a fatica; l’incertezza che ci può prendere se abbiamo avuto o non abbiamo avuto veramente il dolore in qualche nostra confessione; il senso di colpa per non riuscire, almeno ci sembra, a provare un dolore vivo dei peccati commessi e il ritardare forse, per questo, la confessione.


Eppure, nel campo delle esperienze corporee, il dolore è la più inevitabile, la più evidente, la meno artificiale delle sensazioni: sento un dolòre nel corpo, malgrado non lo voglia.


Gli stessi dolori morali sono qualcosa di molto reale dentro di noi: a volte ci opprimono fino a toglierei il sonno.
Che cos’è dunque il dolore dei peccati che sembra avere poco in comune con la sensazione, tanto viva e presente, del dolore fisico o morale?

 

Il giudizio su di sé

Vorrei cominciare da qualche riflessione generale.

Ci sono degli atti, più o meno gravi, che ciascuno vorrebbe non avere compiuto. Ci sono dei comportamenti, magari poco appariscenti, che non corrispondono a come ciascuno vorrebbe essere: modi di fare, di pensare, di rispondere, di agire.
Talvolta ci accorgiamo che non dipendono nemmeno da noi e sono piuttosto il frutto di precedenti abitudini, di sorpresa, di inavvertenza. Tuttavia hanno qualche aspetto di cui interiormente sentiamo di non poterci vantare.

Questa capacità di giudizio su di sé non è ancora il dolore dei peccati: ne è la premessa. Infatti non posso pentirmi se non di qualcosa che insieme è mio e non va, l’ho fatto e non l’approvo.

Il cammino della purificazione cristiana presuppone la capacità di giudizio su di sé, implica una dissociazione da qualche aspetto di noi che non approviamo.

Saper fare questo è un segno di libertà in cammino, è un segno di maturazione umana e morale. C’è da dubitare di una persona che accusa sempre gli altri e che è soddisfatta di sé in tutto. Se, nelle nostre confessioni, siamo portati ad accusare gli altri ed a scusare noi, riveliamo di non aver compiuto nemmeno il primo passo verso il pentimento cristiano.

E d’altra parte è vero che, forse per una certa abitudine al Sacramento della Riconciliazione, il nostro pentimento è a volte bloccato dal fatto che non siamo convinti fino in fondo di dover imputare a noi stessi qualcosa che in noi non va. Non ci sentiamo di ammettere del tutto che la colpa è nostra.

Più di frequente il pentimento è bloccato perché non siamo affatto convinti che quello che abbiamo fatto non andava fatto: magari la tradizione e la dottrina dicono che è sbagliato ma interiormente sentiamo che non è vero. In questo caso il dolore, il pentimento diventa faticoso, superficiale, artificiale.

Che cosa dobbiamo fare se ci accorgiamo che il nostro pentimento non si scioglie, che è bloccato da questi motivi che riguardano il giudizio preliminare su noi stessi?

È chiaro che il cammino da fare è il passaggio da una valutazione frettolosa di noi ad una valutazione più realistica e ponderata, attraverso la riflessione e la preghiera.

Invece di cominciare subito con la confessione propriamente detta, può essere opportuno cominciare ad instaurare un semplice colloquio amichevole che permette di esprimere la difficoltà di fondo, di dare voce a questa difficoltà e di farci aiutare a chiarirla. Sarebbe errato fermarsi alla difficoltà lasciandosi ipnotizzare da essa.

Con queste tre riflessioni, siamo ancora ai preliminari di quello che è il dolore cristiano dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.

o dei peccati: esso scatta e prende forma ad un livello superiore di coscienza e vogliamo cercare di comprenderlo meditando le parole del Salmo 50.

La parte lesa

Che cosa vuol dire concretamente: « Sei giusto quando parli, retto nel tuo giudizio? ». Noi interpretiamo spontaneamente questo versetto mettendo Dio al posto di un giudice; vediamo idealmente due parti convenute in giudizio e Dio nel mezzo.


Le due parti sono, nel caso del riferimento storico del Salmo, Davide e Uria, il marito di Betsabea ucciso proditoriamente per ordine di Davide. Dio sta nel mezzo come giudice imparziale che dà torto a Davide e lo condanna. Il re accetta la condanna e allora dice a Dio: Tu sei retto quando giudichi.


Questa interpretazione non è cogente. Essa pone Dio come arbitro che condanna il peccatore alla morte, senza possibilità di appello.


La realtà vissuta dal Salmo è molto più profonda. Dio non è giudice: è parte lesa. Egli, che è il principio di ogni fedeltà e di ogni amore, è stato leso mortalmente da Davide, è stato violentato nei suoi diritti. Per questo rimprovera Davide e questi accetta il rimprovero sapendo che il giudizio divino è giusto ed è quindi anche un giudizio di perdono.


Dio, come parte offesa, redarguisce Davide perché vuole la sua vita e non la sua morte: se ha tentato di uccidere Dio, Dio lo vuole salvare.

È propriamente a questo punto che scatta il pentimento biblico, il dolore dell’uomo: l’uomo si trova davanti a Colui che ha leso, di cui ha respinto la fiducia e che di nuovo gli offre la mano destra della sua fiducia.


Se noi chiediamo in che maniera l’offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell’Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce patte lesa e inizia la sua azione contro l’oppressore con queste parole: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo» (Es. 3, 7-8 ).


Ci risponderà ancora il Vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è
visitato: «In verità vi dico… non l’avete fatto a me » (cfr. Mt. 25, 31-46).

 

Il pianto di Pietro

C’è un brano del Vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l’esperienza del dolore del peccato che abbiamo meditato nelle parole di Davide. È l’episodio di Pietro che per tre volte ha negata di conoscere Gesù: « In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. Euscito pianse amaramente» (Lc. 22,-54-62).


Perché Pietro scoppia in pianto?


Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po’ annebbiata, di avere fatto una cosa sbagliata, di essersi disonorato; di avere tradito un amico.


Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest’uomo e lui va a morire per me!


È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l’ha demeritata, che fa scattare il contrasto.


Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall’incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l’uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia.


Pensiamo che qualcosa di simile sia avvenuto nella coscienza dell’attentatore di Giovanni Paolo II, all’ingresso indifeso del Papa nella sua cella, al suo curvarsi pieno di simpatia, al suo prestare ascolto come ad un amico.


Sono esperienze che non si possono descrivere e che ciascuno di noi può però intuire.

Domande per noi

La rivelazione della colpevolezza del cristiano viene dall’incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l’infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso.

 

Possiamo chiederci:

  • - Per che cosa posso dire, in verità, dentro di me: « Contro di te, contro te solo ho peccato? ». Che cosa emerge nella mia coscienza quando rifletto su queste parole?

  • - Quali di queste cose che emergono sono lesioni dell’immagine di Dio in altri, sono rifiuto di attenzione, di ascolto, di aiuto, di stima? Ho colto, riesco a cogliere il rapporto tra la lesione di un altro e la lesione della mia amicizia e alleanza con Dio, che si è instaurata nel Battesimo e che vivo nell’Eucaristia?

  • - Sono consapevole della potenza riabilitativa del mio perdono? Anch’io, come Gesù, posso perdonare, posso fare rivivere, posso ridare fiducia e onorabilità.
  • Riesco a farlo? Invoco lo Spirito Santo per essere, intorno a me, partecipe del potere riconciliatore di Cristo?

 

E possiamo dire insieme:

«Concedi, Signore, a noi che cerchiamo la via della penitenza,

di entrare nel giusto cammino

e concedi che questo entrare sia non soltanto per noi

ma per tutta la città che spiritualmente è qui presente e cammina con noi.


Tu, Signore, che hai donato il dolore del peccato a Davide e a Pietro,

concedi la grazia di un dolore profondo a noi

e alla nostra città per tutto ciò che ti offende».

 

I COLLABORATORI DI SAN GIOVANNI DI DIO – Donatus Forkan o.h

 

I COLLABORATORI DI SAN GIOVANNI DI DIO

Relazione presentata da fra Donatus Forkan al Capitolo Generale, quando era il Consigliere incaricato dei laici.

 

Donatus Forkan Priore Generale o.h.

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Il titolo sottolinea il fatto che tutti noi, confratelli e collaboratori insieme, siamo dei collaboratori privilegiati di San Giovanni di Dio, e che cooperiamo reciprocamente tra di noi. In seguito esamineremo il modo in cui è andato sviluppandosi nel tempo il coinvolgimento dei collaboratori laici nella missione dell’Ordine per diventare ciò che è attualmente, oltre ad analizzare alcuni fattori che hanno portato a questa situazione, e i risultati positivi di questa evoluzione degli eventi per quanto riguarda la missione dell’Ordine.

 

Le persone erano attratte da Juan Ciudad

 

La gente di Granada era affascinata da quest’uomo, Juan Ciudad, che avevano conosciuto prima nella veste

di libraio, poi nelle sue manifestazioni di pazzia, ma che in seguito avevano identificato con la figura del Buon Samaritano. La forza della personalità di Giovanni, più di quanto egli dicesse o facesse, toccava le persone nel profondo e le spronava non soltanto ad osservare, ma ad ascoltare quanto egli diceva e riflettendo su ciò che faceva, ponendosi questa domanda: chi è quest’uomo?

 

Nella ricerca della risposta, scoprirono un uomo che aveva raggiunto la libertà interiore; un uomo in pace

con se stesso e con Dio; un uomo che aveva capito quale fosse la propria missione nella vita. Non lo vedevano più come il libraio, il portoghese, il ‘pazzo’, ma come il ‘nuovo Giovanni’ che si prendeva cura dei poveri, dei malati, dei moribondi e degli emarginati di Granada, come mai nessuno aveva fatto prima. Pur desiderando prendere parte a ciò che egli stava facendo, all’inizio i cittadini di Granada erano confusi e turbati. Man mano che il tempo passava, però, si sentivano fortemente chiamati in causa da Giovanni; qualcuno forse era arrivato perfino a desiderare che questa ‘pazzia’ finisse e che le cose tornassero com’erano prima. Poco a poco, la ‘testimonianza silenziosa’ di Giovanni conquistò la loro fiducia, ed

alcuni decisero di impegnarsi attivamente ed aiutarlo in questo lavoro. A seconda delle loro possibilità, scelsero di aiutarlo da un punto di vista economico e materiale, di lavorare con lui ricevendo in cambio un salario, o di condividere la sua stessa vita ad un livello spirituale più profondo, come fratelli. Nessuno però rimase indifferente di fronte alla straordinaria influenza che egli stava esercitando sulla loro vita e su quella della loro città. In seguito i Granadini vollero ‘canonizzare’ Giovanni conferendogli l’appellativo di ‘Giovanni di Dio’.

 

Giovanni di Dio e Angulo.

 

Il Concilio Vaticano II ci ricorda che i mezzi per rinnovare la vita religiosa sono il ritorno alle Sacre Scritture e all’ispirazione originale del Fondatore. È interessante notare che quando il nostro Ordine ha iniziato a riflettere su Giovanni di Dio, la sua vita, la sua missione e la sua spiritualità, ci è diventata familiare un’altra figura: quella di Giovanni d’Avila [non il santo ndr], che Giovanni di Dio chiamava Angulo, una persona che vediamo spesso al fianco del Santo. Sembrerebbe che Giovanni di Dio sentisse il bisogno di avere qualcuno “relativamente libero dalla routine quotidiana dell’ospedale da poterlo accompagnare quando si recava fuori città e fuori dai confini della regione, ed altre volte farne le veci quando rimaneva solo in ospedale, quasi una sorta di maggiordomo; per questo Giovanni di Dio volle un uomo che conosceva per la sua predisposizione pratica e per la santa vita che conduceva” (cfr. fra Brian O’Donnell, John of God Father of the Poor). Il suo

primo biografo, Francisco de Castro, ci parla di Angulo definendolo “uomo prudente e di buona vita”  Castro, cap. XIII), un uomo che accompagnava Giovanni di Dio in tutti i suoi viaggi, e che era molto

simile a lui nello spirito. Se dev’essere difficile vivere con un santo, lo è ancora di più lavorare per un santo, specialmente quando si cerca di gestire quanto si ha a disposizione! (ciò potrebbe suonare familiare a coloro che lavorano in campo amministrativo).

 

Da un punto di vista umano, anche tra grandi amici possono esserci diversità di opinioni, e vediamo che la

stessa cosa accadde a Giovanni e ad Angulo per la strada che li conduceva a Toledo, mentre cercavano di far cambiare vita a quattro prostitute. La stessa cosa accade ancora oggi: i confratelli e i collaboratori lavorano insieme, cercando di rispondere ai bisogni di tante persone sofferenti o emarginate, e talvolta con mezzi

piuttosto limitati. Le differenze si superano attraverso il dialogo aperto e sincero con un ‘cuore che ascolta’, e ciò può portare a una maggiore comprensione e può unire ancora di più le persone, così come era accaduto a Giovanni e Angulo.

 

Quella che ad Angulo sembrava una ‘follia’, per Giovanni era una missione di misericordia, motivata solo dal fatto che queste donne (le prostitute) potessero avere una possibilità nella vita. Giovanni era fermamente convinto che chiunque avesse la possibilità di cambiare la propria vita grazie al potere di Dio che abita in

ogni persona: nessuno è così legato al male da non poter cambiare. La missione di Giovanni nella vita, così come la intendeva lui, era quella di liberare e sciogliere le persone dai legami della povertà, della malattia, dell’emarginazione, ma anche dalla bramosia di benessere e di potere, per fare in modo che queste stesse

persone potessero diventare ciò cui erano destinate veramente: sentirsi figli di Dio per poter vivere secondo questa nobile vocazione. Essere amico di un uomo come Giovanni di Dio era di certo un rapporto molto speciale. Angulo apprezzava questa amicizia perché amava e rispettava Giovanni. Un’indicazione di quanto i due fossero amici ci viene dal fatto che Angulo si era sposato, con un permesso speciale del Vicario  dell’Arcidiocesi, nella cappella dell’ospedale di Giovanni di Dio, con Beatriz de Ayvar. Poco tempo

dopo la morte di Giovanni di Dio, Angulo e Beatriz ebbero un figlio, cui ovviamente diedero il nome di Giovanni.

 

In che modo l’Ordine e la sua missione si sono evoluti

 

Se prendiamo in esame le più importanti ragioni storiche, per vedere in che modo l’Ordine e la sua missione sono andati evolvendo lungo i secoli, dopo la morte di Giovanni di Dio avvenuta l’8 marzo del 1550, vediamo che la prima è stata la costituzione delle opere allora presenti in Spagna in istituto religioso (Bolla di San Pio V del 1572). Ciò ha avuto un forte impatto sulla missione, in quanto la struttura canonica ha determinato il modo in cui i confratelli dovevano vivere e dove operare. In questo tipo di vita ‘monastico’,

ogni laico che veniva a lavorare ‘per’ i confratelli era considerato parte del ‘personale’. Gli veniva assegnato un lavoro specifico e ci aspettava che facesse del suo meglio, ovviamente secondo le proprie possibilità. Il personale doveva aiutare i confratelli a portare avanti la missione, in alcune strutture, dove di solito l’ambiente era di tipo istituzionale.

 

C’erano molti confratelli e pochi collaboratori laici, e i rapporti tra di loro riflettevano questa situazione. Anche se venivano trattati con grande rispetto e il loro contributo era apprezzato, i lavoratori laici non venivano considerati sotto la veste di collaboratori, o addirittura di seguaci di San Giovanni di Dio allo stesso modo dei confratelli. La nuova visione iniziò a venir fuori con il processo di rinnovamento iniziato

dal Concilio Vaticano II. Per alcuni potrebbero essere soltanto parole, ma termini come ‘collaborazione’, ‘lavoro in équipe’, ‘famiglia ospedaliera’, ‘missione condivisa’, ‘condivisione del futuro della missione’ o ‘spiritualità condivisa’, sono importantissimi per considerare il rapporto tra confratelli e collaboratori come

un unico insieme, quello dei collaboratori di Giovanni di Dio, ciascuno con le proprie responsabilità, con la propria vocazione nella vita, eccetera, ma tutti uniti nella stessa missione, che è poi quella di Giovanni di Dio. “confratelli e collaboratori insieme per promuovere e servire la missione”: questa affermazione può

avere un senso se tutti ci dedichiamo con impegno a portare avanti l’operato di Giovanni di Dio.

 

La creatività dell’Ospitalità

 

Un’altra intuizione che abbiamo avuto è che noi confratelli, e il nostro Ordine, non abbiamo l’esclusività, il possesso o il controllo su Giovanni di Dio. Egli appartiene alla società e alla chiesa (cfr. fra Pascual Piles, Lasciatevi guidare dallo Spirito,24 ottobre 1996). La notevole creatività e la ‘ricchezza del carisma  dell’Ospitalità’ (cfr. Carta d’Identità dell’Ordine 3.2.3), hanno spinto tante persone ad unirsi a Giovanni

di Dio nel suo operato, e lungo i secoli i suoi seguaci hanno portato avanti la sua missione in vari modi, ispirati dal suo esempio, in diversi istituti religiosi, associazioni laicali, ecc., per il bene di tanti malati, bisognosi ed emarginati. Nell’ambito dell’Ordine, inoltre, tanti operatori professionali hanno lavorato per molti anni a fianco dei confratelli nei nostri ospedali e centri, mentre tante altre persone hanno offerto il proprio contributo in termini di lavoro volontario o di sostegno finanziario. Tutto ciò dimostra che

né Giovanni, né l’ospitalità da lui vissuta appartengono in modo esclusivo ai confratelli.

 

Entrambi (Giovanni e la sua ospitalità) vanno oltre il possesso o la responsabilità dei confratelli, mentre rivolgono a questi ultimi la sfida di abbracciare il mondo della sofferenza e di lavorare insieme a coloro che si impegnano per eliminare le cause che portano a questa sofferenza: povertà, condizioni di vita disumane,

sottosviluppo, eccetera.

 

La storia ci mostra come, oltre ai ‘Fratelli d’abito’, ci fossero molte altre persone che “si univano a Giovanni nel servizio, benefattori anonimi e personaggi appartenenti alla nobiltà che lo sostenevano con i loro beni, presbiteri che collaboravano con lui nell’assistenza spirituale di coloro che vivevano nell’ospedale e molti

altri: volontari, medici e gente di servizio che assieme a lui e ai confratelli si occupavano dei malati” (Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, 32).

 

Angulo, modello di collaboratore

 

Il numero dei confratelli attualmente è di poco superiore alle 1300 unità, mentre ci sono circa 45.000 collaboratori (tra impiegati e volontari che lavorano in 300 servizi) ed oltre 350.000 benefattori-sostenitori.

Dal Vaticano II, il ruolo dei collaboratori è andato acquisendo sempre maggiore enfasi, ed è stato  riconosciuto il loro insostituibile contributo alla missione dai Capitoli Generali dell’Ordine, attraverso

le lettere circolari dei Priori Generali, e con altri documenti emessi dalla Curia Generalizia (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, 5, nota n. 4). La partecipazione alla missione, l’assunzione di responsabilità in vari aspetti della missione dell’Ordine da parte dei collaboratori, in campo amministrativo, dirigenziale, della programmazione, della ricerca, eccetera sono aumentate drasticamente da quando è iniziato, oltre 40 anni fa, il processo di rinnovamento post-Vaticano II.

 

Per quanto riguarda i rapporti tra confratello e collaboratore, Angulo è diventato il modello del  collaboratore laico. Lo spirito ospedaliero è stato affidato ai collaboratori che hanno preso parte alla missione condividendone lo spirito carismatico, e non soltanto ai confratelli (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio). L’Ordine ritiene che i confratelli e i collaboratori costituiscano

il ‘capitale’ più importante per la realizzazione della missione (Carta d’Identità dell’Ordine, 1.1).

 

Confratelli e collaboratori uniti nella missione

 

Questo nuovo modo in intendere il ruolo insostituibile dei collaboratori laici nella realizzazione della missione ha portato all’elaborazione di nuove strutture, politiche e procedure, ad affrontare il futuro in modo nuovo, con la condivisione della missione tra confratelli e collaboratori. Questo movimento ha portato nuove

energie all’ospitalità di Giovanni di Dio. Il grande protagonista di questo nuovo modo di vedere le cose è stato il compianto fra Pierluigi Marchesi che ha ispirato, guidato e dato grande slancio al processo di rinnovamento che è stato avviato nell’Ordine. Il documento storico di P. Marchesi, Umanizzazione, costituisce un’autentica svolta rispetto al passato.

 

Non possiamo tralasciare altri fattori che hanno fatto la loro comparsa nell’Ordine, riflettendo ciò che stava accadendo nella Chiesa: la diminuzione radicale delle vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa e l’aumento dell’età media dei religiosi; tutto ciò richiedeva un cambiamento. Il numero dei confratelli  disponibili per il servizio attivo ha obbligato i responsabili dell’Ordine a pensare a nuovi modi per portare avanti la missione, o a ritirarsi da centri e servizi. Grazie al processo di rinnovamento, i confratelli hanno scoperto di possedere un tesoro nascosto: i collaboratori. Questa scoperta ha portato a un nuovo modo di vedere e apprezzare il contributo dei collaboratori alla missione, e pertanto invece di ritirarsi e limitarsi

a fare ciò che potevano contando soltanto sulle proprie forze, i confratelli si sono rivolti ai collaboratori che erano pronti e desiderosi di lavorare con loro per portare avanti la missione di Giovanni di Dio.

 

L’attrattiva che Giovanni di Dio esercita ancora oggi

 

Nel mondo moderno i giovani, in particolare, sono costantemente influenzati e ‘bombardati’ dagli imperativi imposti dal consumismo, dal materialismo, dal raggiungimento immediato della soddisfazione e del piacere personali, attraverso droga, sesso, ecc., il che ha come risultato uno stile di vita molto egoista e chiuso

al mondo esterno, come se la vita terrena fosse l’unica e definitiva esistenza. Il messaggio che viene rivolto costantemente ai giovani è: “divertiti fintanto che puoi”. Ovviamente non tutti i giovani si lasciano sedurre da questi condizionamenti ideologici, anche se la pressione esercitata su di loro è enorme, e lancia delle sfide non soltanto a loro stessi ma anche ai loro genitori e al mondo degli adulti che li circonda, come ad esempio gli insegnanti, i sacerdoti, eccetera. La Chiesa, persino in alcuni paesi ‘tradizionalmente cattolici’, sta assumendo un ruolo sempre più emarginato, e in molti altri si trova addirittura in una posizione di minoranza.

 

In questo ‘clima’ non ci si aspetterebbe che un uomo vissuto 500 anni fa eserciti ancora un’attrattiva sulle persone, ma quando esse conoscono Giovanni di Dio, la sua vita e la sua missione, rimangono affascinate, impressionate e incoraggiate dal suo esempio, così come era accaduto alla popolazione di Granada. Lavorando con i collaboratori, si scopre il magnetismo che Giovanni di Dio esercita sulle persone, e la bontà innata di ogni essere umano che esige rispetto, fiducia e spirito di apertura. Ciò ha spinto diverse Province a investire molte energie e risorse materiali per la formazione dei collaboratori e dei confratelli, organizzando

seminari e corsi di formazione permanente.

 

L’Ordine ha realizzato un autentico ‘salto di qualità’, motivato dal desiderio di perpetuare la missione di San Giovanni di Dio, ed essendosi convinto, attraverso un esame dei segni dei tempi, che è proprio ciò che Dio si aspetta da noi in questo momento. In un’epoca in cui numerosi istituti religiosi si ritirano dall’apostolato o dai loro servizi, la strada intrapresa dal nostro Ordine ci ha permesso di fornire una grande varietà di servizi, e di prenderci cura di un numero notevole di persone che si trovano nel bisogno, come non era mai successo prima. I servizi che vengono prestati dal nostro Ordine in tutto il mondo hanno acquisito uno standard di eccellenza che è riconosciuto a livello generale, da parte della Chiesa e dei governi locali. In alcuni paesi il ‘marchio di Giovanni di Dio’ è sinonimo di qualità, il che significa che in tanti luoghi ‘Giovanni di Dio fa le cose per bene’. Ciò non può che renderci orgogliosi, ma la cosa più importante è riconoscere che questa situazione positiva è il frutto del lavoro congiunto di confratelli e collaboratori per portare avanti

la stessa missione.

 

L’influenza e l’impatto sulla società in cui l’Ordine realizza la sua missione di ospitalità, il modo in cui gestisce le proprie strutture, sempre focalizzato al raggiungimento della missione, è riconosciuto dallo

Stato, dagli enti privati, dalle autorità della Chiesa, molti dei quali vogliono lavorare con noi. Questo tipo di rete operativa e di cooperazione negli ultimi anni è andato espandendosi, in quanto noi confratelli abbiamo acquisito maggiore fiducia, coscienti del potenziale di bontà che esiste nel mondo quando si esercita l’Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio.

 

Papa Paolo VI diceva: “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni” (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, n. 41). Dobbiamo renderci conto che, per evangelizzare dobbiamo essere dei testimoni, e che per essere al passo coi tempi ed efficienti, in

un mondo in continuo cambiamento e che è sempre più globalizzato, dobbiamo cooperare, non soltanto a livello interno (cioè confratelli e collaboratori insieme), ma anche esternamente, con altre organizzazioni che operano nel settore del volontariato e in quello pubblico, in modo particolare nei settori in cui sono carenti,

fermo restando il fatto che devono rispettare i nostri principi (cfr. Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio).

 

L’esperienza degli ultimi sei anni

 

Durante lo scorso sessennio i membri del Governo Generale, durante le loro visite alle Province dell’Ordine per partecipare a vari eventi di tipo religioso, sociale o istituzionale, hanno osservato come il rapporto

tra confratelli e collaboratori fosse in continua crescita. Molti confratelli ora vedono i collaboratori come compagni del ‘viaggio ospedaliero’ che affrontano insieme ogni giorno, come veri amici, ciascuno con la propria vocazione e il proprio stile di vita, ma uniti nel continuare la missione di Giovanni di Dio.

 

Dall’altra parte, molti nostri collaboratori sono sempre più interessati alla vita dell’Ordine, alla sua missione, al suo futuro, facendo proprie le preoccupazioni dei confratelli, così come è stato affermato durante il Capitolo Generale del 1994 nel messaggio dei collaboratori al Capitolo: “molti dei problemi dei confratelli sono anche i nostri problemi… il vostro desiderio per il futuro della missione dell’Ordine è anche il nostro… ribadiamo la nostra disponibilità per trovare insieme delle soluzioni, nella convinzione che San

Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” (cfr. Dichiarazioni dei collaboratori al Capitolo Generale del 1994). Molti nostri collaboratori sono strettamente identificati con ‘l’anima dell’Ordine’, e vogliono conoscere in modo più profondo perché l’Ordine esiste, la sua storia, la sua missione di ospitalità, Giovanni di Dio e la sua spiritualità, e l’impatto che l’Ordine continua ad avere nella società. Essi vogliono sentirsi parte di questa grande ‘Famiglia Ospedaliera’ e dare il proprio contributo affinché sia riconosciuta ed apprezzata da tutti.

 

Come ho già detto, bisogna comprendere che diverse categorie di persone, tutte chiamate collaboratori, lavorano nell’Ordine (cfr. Fatebenefratelli e collaboratori insieme per servire e promuovere la vita, n. 6).

Sebbene tutti siano invitati a condividere con i confratelli dei rapporti più profondi, non tutti desiderano né devono farlo per poter lavorare nell’ambito del nostro Ordine o in partnership con noi. Ciò che ci unisce è la missione, la figura del nostro fondatore e l’esempio che egli ci ha lasciato. Giovanni di Dio ha mostrato a

chiunque voglia perpetuare il suo sogno, indipendentemente dalla propria storia personale, professione, religione o dal ruolo che ricopre nell’Ordine, come deve comportarsi, entrando in relazione con gli altri e servendoli con sollecitudine, soprattutto quando sono più vulnerabili a causa della malattia, della povertà o dell’emarginazione.

 

L’integrazione totale dei collaboratori nella missione dell’Ordine sembra costituire una delle sfide più grandi che l’Ordine deve affrontare al giorno d’oggi. Non possiamo dimenticare che esistono anche delle ‘sacche di resistenza’ tra i nostri confratelli così come tra i collaboratori, che non vogliono cambiare i vecchi modi di agire

 

Conclusione

 

Come afferma la Carta d’Identità dell’Ordine, al punto 8.1, “oggi, noi confratelli e collaboratori abbiamo il compito di essere profeti di speranza, di dignità del sofferente, di amore che viene spento dalla tecnica e dalle leggi del mercato che hanno penetrato il mondo della sanità e dell’assistenza”.

L’esperienza degli ultimi tempi ci ha mostrato che sono stati fatti dei grandi passi avanti nella ‘integrazione’ di confratelli e collaboratori nella missione. Ovviamente ciò non accade dappertutto in ugual misura, ma questa disparità è giustificata da molte ragioni; possiamo dire però che in tutti i nostri centri ci si sta adoperando in tal senso.

 

In generale, i confratelli stanno acquisendo sempre maggiore consapevolezza, ed è proprio a livello dei confratelli che il cambiamento e il rinnovamento devono avere luogo. Se vogliamo che l’Ordine continui ad esercitare un forte impatto sulla società, dobbiamo aprirci al mondo e vederlo per ciò che è realmente. Inoltre, affinché la nostra missione sia un’autentica missione della Chiesa, fedele all’ispirazione e all’esempio del suo fondatore, San Giovanni di Dio, dobbiamo continuare a sviluppare uno spirito di collaborazione, di fiducia reciproca, il rispetto e l’amicizia tra confratelli e collaboratori.

 

Se comprenderemo appieno il vero significato dell’Ospitalità per il nostro fondatore, riusciremo a far sì che il nostro operato si tramuti in “Passione per l’ospitalità di San Giovanni di Dio oggi nel mondo”, e la vivremo con l’entusiasmo e l’impegno che ne derivano.

 

FRATEL ETTORE BOSCHINI UN PADRE DEI POVERI – S. Gaeta – A. Borrelli

 

  FRATEL ETTORE BOSCHINI  M.I.

(1928-2004)     

 di SAVERIO GAETA   

 

 Un padre per i poveri

«Un gigante della carità odierna che fa onore al Vangelo»: così il cardinale Martini ha definito fratel Ettore Boschini. Fin dagli inizi il religioso camilliano elesse la Madonna come patrona della propria opera a favore degli emarginati. 

La prima volta che incontrò Giovanni Paolo II, nel gennaio del 1979 in piazza San Pietro, fratel Ettore Boschini gli offrì in dono una statua a grandezza naturale raffigurante la Madonna di Fatima. Era identica a quella che il camilliano portava ovunque con sé, testimonianza visibile di uno smisurato amore per la Vergine. E anche a papa Wojtyla venne da sorridere quando gli raccontarono che, per trasportare quella statua dalla stazione Termini sino al Vaticano, fratel Ettore aveva dovuto acquistare un ulteriore biglietto dell’autobus, perché il conducente lo aveva intenzionalmente provocato dicendogli che l’oggetto era troppo ingombrante e che sottraeva il posto a un altro passeggero. 

 Di simili aneddoti mariani è costellata l’intera avventura umana di quello che il cardinale Carlo Maria Martini definì «un gigante della carità odierna che fa onore al Vangelo» e che altri hanno più sinteticamente chiamato il «padre dei poveri».

Di fatto fratel Ettore elesse sin dagli inizi la Madonna come patrona della propria opera e volle esprimere concretamente la gratitudine per la costante protezione di Maria mediante tre repliche di luoghi cari alla devozione popolare: nella casa-alloggio di Bucchianico c’è la riproduzione a dimensioni reali della Santa Casa di Loreto, a Seveso c’è una cappella identica a quella di Fatima e a Grottaferrata si trova una grotta realizzata sul modello di quella di Lourdes.

Una vocazione alla sofferenza e al dolore

Nato il 25 marzo 1928 a Roverbella (Mantova) da un famiglia contadina, sin da ragazzino Ettore aveva lavorato in fattoria e si era occupato di mandrie da portare al pascolo e di stalle da ripulire. Nell’autunno del 1945, durante un pellegrinaggio al santuario della Madonna della Corona a Caprino Veronese, sentì nel cuore il desiderio di tornare a quell’esperienza di fede che le difficoltà del periodo bellico gli avevano fatto abbandonare: «Cara Mamma», disse alla Vergine, «tu conosci la mia vita disordinata… Voglio cambiare ma, se tu non mi aiuti, sono sicuro che domani ricomincerò da capo».

Fratel Ettore parla con Angela, una City Angel, alla Stazione centrale di Milano.

Fratel Ettore parla con Angela, una City Angel, alla Stazione centrale di Milano.

 

Il suo fisico era ormai minato dal pesante lavoro tanto che, nell’estate del 1948, gli fu diagnosticata un’ernia del disco e fu necessario il ricovero nell’ospedale di Mantova. Qui ebbe occasione di conoscere la figura di san Camillo de’ Lellis, che nel 1582 aveva fondato l’Ordine dei Ministri degli infermi. Tenendo fra le mani un’immaginetta del crocifisso che aveva staccato le braccia dalla croce per incoraggiare san Camillo in un momento di difficoltà, Ettore comprese la propria vocazione: «Una vocazione alla sofferenza e al dolore», disse in seguito.

Da quel momento cominciò un percorso interiore che, con l’aiuto del parroco Everardo Corvi, lo condusse nel noviziato dei Camilliani. A ventotto anni compiuti, nel 1956, pronunciò la professione solenne e per una ventina d’anni si dedicò, nell’ospedale degli Alberoni a Venezia, all’assistenza di giovani ammalati di tubercolosi ossea e di distrofia muscolare: una cinquantina, fra i dodici e i venticinque anni d’età, quasi totalmente impossibilitati a muoversi e bisognosi di costante assistenza e di amorevole conforto. Per questo suo amorevole ministero ricevette, nel 1973, il premio della bontà intitolato a Giovanni XXIII.

Fratel Ettore aveva ormai quarantacinque anni e pensava di essere giunto a un punto fermo nella propria missione. Ma un sogno profetico segnò quel tempo: «Ho visto Gesù Bambino, in braccio alla Mamma, che sobbalzava di gioia. Poi si fermò a poca distanza da me, facendo segno che mi avvicinassi. Da principio ero riluttante, quasi impaurito per un gesto così esplicito di familiarità e di confidenza, poi finalmente mi avvicinai e Gesù Bambino mi prese la testa avvicinandola al cuore della Madonna: “Confida sempre in lei e sarai al sicuro”, furono le parole del Bambino».

Un rifugio per i poveri nel cuore della metropoli

Nel 1976 Ettore venne trasferito a Milano, dove ebbe un traumatico incontro con la povertà della metropoli e con i tanti emarginati che ne frequentavano le strade. La prima iniziativa, avviata il Venerdì santo del 1978, la allestì in un piccolo locale all’interno della clinica San Camillo, dove ai senza fissa dimora venivano dati la colazione al mattino e medicinali e vestiti al pomeriggio. La folla che quotidianamente si presentava dinanzi ai cancelli lo spinse a cercare un luogo più ampio dove a queste persone in difficoltà potesse essere offerto anche un pasto caldo e un letto.

Su segnalazione di un ferroviere vennero individuati due ampi magazzini inutilizzati sotto le arcate della stazione centrale milanese, che il Ministero dei trasporti accettò di affittargli al simbolico canone di 70.000 lire l’anno. Sorgeva così quello che tutti conoscono come il “Rifugio di via Sammartini”, inaugurato dal vescovo ausiliare milanese Libero Tresoldi il 1° gennaio 1979. Nell’arco di una ventina d’anni si affiancheranno ulteriori strutture: la “Casa Betania delle Beatitudini” a Seveso (1980), il “Villaggio delle Misericordie” a Milano (1989), la “Comunità Alleluia” a Novate (1989), la “Casa Nostra Signora di Loreto” a Bucchianico (1996), il “Rifugio Sacra Famiglia” a Grottaferrata (1998) e il “Refugio Nazareth” a Bogotà in Colombia (2000).

San Camillo de' Lellis sotto la croce di Gesù Cristo (santuario di Bucchianico, Chieti).San Camillo de’ Lellis sotto la croce di Gesù Cristo (santuario di Bucchianico, Chieti).

 

Ciascuna ha una specifica storia di ideazione e di realizzazione, ma il loro tratto comune è stato l’obiettivo di dare risposta a bisogni che via via affioravano nella società dell’epoca. Si può realmente dire che fratel Ettore è stato fra i primi a rendersi conto della diffusione dell’Aids e dell’emergenza immigrati, come della tratta delle giovanissime prostitute dell’Est e della drammatica solitudine degli anziani abbandonati.

«Ho fatto soltanto la volontà di Dio»

Che cosa pensasse di sé e delle sue iniziative profetiche, lo spiegò lo stesso camilliano: «Vorrei convincervi che sono soltanto un pover’uomo. Un uomo che per tutta la vita ha fatto soltanto la volontà di Dio, spesso senza neppure rendersene conto. Dal Signore ho ricevuto grazie straordinarie, ma non posso vantarmi di aver sempre corrisposto perfettamente alle grandi grazie ricevute. Questo lo dico perché nessuno, ripeto nessuno, anche l’ultimo dei miei ospiti, si senta inferiore a me o pensi di non poter fare anche lui cose simili a quelle che io, per grazia di Dio e per lo straordinario amore della Madre, ho compiuto».

Attorno a fratel Ettore hanno ruotato numerosi amici e collaboratori, aggregati in un’associazione significativamente intitolata “Missionari del Cuore immacolato di Maria al servizio dei più poveri nello spirito di san Camillo”.

I suoi ultimi mesi di vita furono caratterizzati dall’aggravarsi della mielodisplasia, la malattia del sangue di cui da tempo soffriva e che si era trasformata in una leucemia conclamata. Nella serata del 20 agosto 2004 la sua esistenza terrena giunse al termine, ma l’opera da lui avviata prosegue tuttora, sotto la guida di suor Teresa Martino, una ex attrice di teatro che lo stesso fratel Ettore aveva designato come erede spirituale.

Saverio Gaeta

 

Le scarpe di fratel Ettore

 

Omelia in occasione del terzo anniversario della morte di fratel Ettore

 

1) Queste scarpe, che ripiegate al calcagno, sono state usate anche a ciabatte, sono il simbolo che le cose che abbiamo, sembrano nostre, ma ci sono state date solo in uso, come in prestito da Dio…e a Dio dobbiamo rispondere riguardo la bontà del loro utilizzo. Infatti queste ciabatte fatte a scarpe, sono di Fr. Ettore solo per caso. Qualcuno gliele ha regalate e lui non ha fatto a tempo a ridistribuirle a sua volta. Ciò che questo “mezzo” simboleggia per noi è il senso di povertà, intesa come capacità di stare sotto il livello di sobrietà, che aveva pervaso l’intera vita di Fratel Ettore. Non doveva neppure fare lo sforzo mentale per riflettere sulle cose non sue ma messe a sua disposizione da Dio. Ettore viveva in questo stile: nulla è stato da lui ritenuto esclusivamente suo…e tutto ciò che era per lui poteva essere benissimo per tutti, soprattutto per i più bisognosi. Per se stesso Ettore non sceglieva niente, non accumulava, si accontentava di ciò che gli arrivava dalla Provvidenza.

 

Credo non si sia mai permesso il lusso di entrare in un negozio e scegliersi un paio di scarpe. Ricco e pieno della misericordia di Dio e della missione affidatagli, le preoccupazioni per se stesso erano ritenute inutili perdite di tempo prezioso promesso a Dio e ai suoi prediletti. Infatti il Vangelo parla chiaro: “gli uccelli dell’aria trovano da mangiare dove vogliono, i fiori del campo si vestono di colori meravigliosi e a tutto ciò pensa solo Dio. A ciascuno di noi tocca la bellezza della responsabilità di cooperare con Dio affinché il suo Regno arrivi sino ai confini della terra. 

Le scarpe di Fr. Ettore in realtà sono state usate come ciabatte perché sono solo un mezzo per un fine nobile e inconfondibile. Il “mezzo” può anche essere trattato male, ma lo scopo del suo utilizzo non può mai essere dimenticato. Infatti ciò che noi dobbiamo guardare o ammirare non sono queste scarpe-ciabatte, realtà che vediamo, ma ciò che non vediamo e dobbiamo sforzarci di immaginare.

 

Ciò che è importante non sono le scarpe-ciabatte, ma i piedi che ci sono stati dentro. Piedi guidati da una luce, da una volontà che li collega alla testa; piedi puntati dritti verso un obiettivo e che camminano con uno stile dettato dal cuore. E i piedi possono essere stanchi, doloranti, sfatti e colpiti da malattie deformanti, ma ciò che è in testa e nel cuore restano forti e trascinanti, tanto che ci si può muovere anche con piedi e gambe che non reggono più. Provate a chiedere a queste scarpe-ciabatte se si sono sentite umiliate perché Fr. Ettore le maltrattava intanto che infilandovi i piedi, anche di notte, camminava con stile misericordioso verso i poveri che Dio gli faceva incontrare?

 

Ma Ettore così non prendeva in considerazione il valore delle scarpe e nemmeno quello del suo corpo, perché anch’esso ritenuto “semplice mezzo” a disposizione di Dio, a disposizione della sua Misericordia. Queste scarpe non si sono mai lamentate di far parte delle poche cose di un uomo senza riguardo per sé, perché tutti i suoi riguardi erano per Dio e i fratelli…soprattutto “i più bisognosi della sua misericordia”.

 

Queste scarpe maltrattate diventano, per merito di chi le utilizzava, il simbolo della povertà che trasporta la carità. Le scarpe sono finalizzate al camminare, al lavoro, alla missione che l’uomo chiamato da Dio deve compiere. Non sono fine a se stesse come per moda, per esposizione, per valorizzare il piede. Le scarpe esistono affinché l’uomo esprima il suo andare verso l’altro e si senta sostenuto in questo viaggio.

 

Dai passi di Fr. Ettore noi capiamo che non è necessario essere ricchi per dare con generosità e abbondanza: è chi vive di provvidenza che poi trasporta provvidenza. La personale povertà radicale attrae generosità che non è trattenuta per sè, ma bensì viene ridistribuita. Più si è testimoni di povertà, più si è attrattivi e suscitatori di generosità. La gente si fida di chi non tiene la roba per sè.

 

Solo verso la fine, quando il profeta è consumato dal servizio la gente, acciorgendosi di perdere il faro, la luce, il cartello segnaletico, la bestia da soma, il carro da trasporto…cerca di lenire i patimenti di chi finora l’aveva trainata o spinta. Le scarpe-ciabatte di Fr. Ettore, fiori d’altare, dimostrano che egli non valutava nulla di così importante da trattenere per se stesso…tranne immagini sacre e cassette registrate di meditazioni bibliche…

Cari amici ci siamo riuniti per ricordare il nostro Fr.Ettore e lui oggi ancora ci insegna ad essere poveri, essenziali, ad accontentarci di poco, a ritenere tutto ciò che abbiamo come un dono della Provvidenza che ci presta qualcosa per poter lavorare per lei e con lei.

 

Ci insegna a non perdere mai la fede, perché con il poco si può fare molto mettendosi nelle mani di Dio. Ci insegna a camminare sulla strada della carità, aiutandoci vicendevolmente, per ritornare nel Regno della carità di Dio da dove proveniamo: che tutti gli uomini possano fare l’esperienza dell’amore di Dio anche attraverso il nostro umile servizio, contente le nostre scarpe di aiutare i nostri passi.” 

Fratel Ettore, senza tregua, ha offerto tutto se stesso alla causa degli emarginati.

Difficile contare le sue notti insonni, trascorse alla guida di un pulmino traballante, lungo le vie meno frequentate di Milano. Andava alla ricerca dei suoi poveri, di chi non aveva né tetto né cibo. “Hai fame? Hai bisogno di un vestito? Vuoi venire con me?”.

 

Quando c’era da soccorrere, intervenire, dare sollievo alle sofferenze, non si fermava davanti a nulla. Senza clamori, in anni di rinunce e sofferenze, ha saputo provvedere tempestivamente ad alcune tra le urgenze più drammatiche di Milano. Per primo ha accolto i barboni che languivano sui binari della Stazione centrale. Per primo ha deciso, già alla fine degli anni settanta, di aprire le porte dei suoi Rifugi agli immigrati, offrendo conforto materiale e parole di speranza.

Ha istituito uno dei primi centri privati per accogliere gli ammalati di Aids, alla fine degli anni Ottanta, mentre l’assistenza pubblica sembrava disarmata di fronte all’incalzare della tragedia. Il suo centro in uno dei padiglioni del “Paolo Pini” ad Affori, è stato a lungo l’unica alternativa alle poche strutture pubbliche esistenti.

 

Con lo stesso slancio inesausto ha pensato ai tossicodipendenti, ai malati mentali, agli anziani lungo degenti e senza assistenza. Ecco perchè Milano è grata a questo uomo di Dio che ha fatto proprio, rinnovandolo e adeguandolo alle nuove emergenze, il carisma del fondatore dell’ordine a cui apparteneva, San Camillo De Lellis, l’apostolo dei malati. 

“Guardando questi semplici e logori “mezzi” in uso a Fratel Ettore, la riflessione che propongo si articola su tre prospettive:

Con la forza della sua misericordia Fratel Ettore ha sferzato la fraternità tascabile, gli animi tiepidi, la solidarietà minimalista. Ha mostrato che lo scandalo dell’amore evangelico, totale e senza condizioni, è il filo tenace che lega gli uomini al mistero. 

Il primo miracolo di Fratel Ettore è il Rifugio di via Sammartini: eccolo in un ricordo del sindaco Albertini: “I milanesi seppero che il frate camilliano voleva aprire un rifugio per gli emarginati sotto il cavalcavia ferroviario della Stazione Centrale in via Ferrante Aporti, e pensarono che posto più squallido non poteva trovarlo, ma proprio la campata sotterranea del ponte è diventata la cattedrale di Fratel Ettore. Proprio lì, nel 1987 partecipai in incognito alla Messa celebrata davanti a credenti e non credenti di tutte le razze accomunati dalla miseria e dalla disperazione. 

L’altare era il tavolo della mensa e le panche i cartoni sistemati per terra. Come pulpito Fratel Ettore salì su una sedia e rivolto a quella platea di fedeli disse loro di pregare tutti assieme per le intenzioni di una persona che in quel momento era in mezzo a loro, anonima come loro, ma che ricopriva alte responsabilità è per la città di Milano. Fu un momento di forte intensità spirituale il cui ricordo ancora oggi mi pervade lasciandomi intuire il misticismo di questo religioso”. 

Al Rifugio di via Sammartini offriva a tutti un pasto e un letto. Poi prima di spegnere la luce, prendeva la corona del Rosario, si inginocchiava e cominciava a pregare: “Ringraziamo Maria che anche oggi è stata generosa con noi. Chi vuole ripeta le mie parole”. Nessuno si rifiutava. Anche chi da tempo aveva smarrito la fede, anche chi non era cristiano. Fratel Ettore con il sorriso dolce e gli occhi luccicanti, non conosceva le sottigliezze teologiche del dialogo interreligioso. 

Ai musulmani, che sempre più numerosi affollavano i suoi centri in questi ultimi anni, diceva: “Pregate come siete capaci, Dio sa leggere nei cuori”. E lui intonava il Salve Regina, senza iattanze né obiettivi di proselitismo, ma perchè convinto che il manto materno della Vergine fosse per tutti un aiuto formidabile. 

Fratel Ettore era ciò che nel monachesimo viene indicato come guida, che è molto più di un maestro, come spiega bene André Louf, abate di Mont-des-Cats in un suo libro. L’intera vita di Fratel Ettore era ciò che sapeva o poteva dire, ma in forza di ciò che era. Solo dall’amore scaturisce la vita perchè l’amore è interamente immagine di Dio e del figlio suo, di cui la guida tende ad essere l’icona. 

Il messaggio di vita s’irradiava da lui in qualità del suo essere e quasi inconsapevolmente. Sul volto di questo uomo santo e attraverso il suo modo di agire abbiamo percepito l’amore di Dio nelle sue sfaccettature di tenerezza e di fermezza. Era molto forte in Ettore la paternità. Quando è morto sulla sua bara una mano sapiente e è perspicace ha voluto scrivere: “Padre dei poveri” e il cardinale Tettamanzi, nella sua omelia, riprenderà quell’appellativo spiegando che la Bibbia lo riferisce solo a Dio, il Pater Pauperum per eccellenza. Ma, continua il Cardinale, Fratel Ettore è stato, con tutta la sua carica di umanità e per un dono grande di Dio e del suo amore, una trasparenza particolarmente luminosa, credibile ed efficace di questa paternità. 

Padre Fausto Beretta, missionario comboniano in Brasile, racconta in una testimonianza: “Il primo ricordo con Fratel Ettore risale al 1947, quando nell’Auditorium del “Cenacolo di Milano”, era di autunno, ci comunicò la sua scelta di viver con gli ultimi alla Stazione Centrale. Era una sfida a seguirlo, ad andare con lui. 

L’abbiamo accettata, ma quante volte di sabato pomeriggio andando a Milano ci chiedevamo: ma perchè ci andiamo? Per vedere chi? Se poi, probabilmente, Fratel Ettore sarà tutto indaffarato e non ci darà attenzione o ci farà fare cose assurde? Sì, perchè davvero diceva e faceva cose che nessuno di noi aveva il coraggio di fare, ma la sua testimonianza ci ha sedotto e dato coraggio.

Ricordo i rosari al “Rifugio”, prima e dopo cena, i digiuni e le penitenze imposte ai poveri barboni che avevano abusato nel bere, o quelle minestre troppo saporite, annacquate all’ultima ora a mortificare la gola. Fratel Ettore si spingeva sempre avanti, oltre il buon senso, con la forza e la chiarezza dei profeti.  

Erano proposte sempre nuove e quasi assurde, ma che venivano dal suo cuore, dal suo amore per Maria e per chi viveva al margine della società: per il barbone, l’alcolizzato, la prostituta, la vecchia abbandonata, il terzomondiale, il fallito nella vita.

Il Rifugio di via Sammartini divenne per molti la scuola del Vangelo, il luogo di verifica della nostra preghiera, il luogo della scoperta del volto di Gesù di Nazareth nel povero e la fonte di molte vocazioni missionarie, e non solo. Là, in via Sammartini, molti giovani, ragazzi e ragazze, hanno deciso di lasciare tutto per seguire il Signore, scegliendo la vita religiosa contemplativa o attiva”.

Devotissimo a Maria, angosciato quando rubarono la statua davanti al dormitorio di via Sammartini, si mise a girare per Milano su una scassatissima automobile con la sacra immagine legata sul tettuccio, mentre da un megafono usciva la sua voce che recitava il rosario. Come quell’altra volta, ricorda il sindaco di Seveso, Tino Galbiati, che Fratel Ettore, arrabbiato perchè non gli venivano concessi i permessi per ampliare il centro, girò per due giorni le strade del paese con l’auto con sopra la Madonna, finchè i permessi non giunsero. Allo scoppio della guerra nei Balcani portò la sua Mamma Celeste in piazza Duomo, la pose sui gradini, si inginocchiò e cominciò a sgranare la corona, fra lo stupore della folla, per chiedere la fine della guerra. 

Al Gay Pride si mescolò alle lesbiche e agli omosessuali chiedendo a Maria di intercedere per loro e, dopo aver pregato brandendo la statua della Vergine e ponendosi di fronte al corteo, come il ragazzo di Tienan-Men davanti al carro armato, gridava “Convertitevi!”. 

Ai più queste scene apparivano patetiche. Perchè Fratel Ettore era sorretto dalla fede ma soprattutto da una ingenuità beata e testarda, tipica dei santi. Lo dimostrò anche nell’ottobre del 1989 quando il Coro della Scala partì per una tournee in Unione Sovietica. Ai coristi diede centinaia di Bibbie, perchè le nascondessero nelle valigie e le distribuissero a Mosca e Leningrado. 

A uno di loro, il Frate che credeva nella Provvidenza, consegnò un regalo per Gorbaciov, un’icona di San Michele, con la raccomandazione:”Portalo al fratello Michele per il suo onomastico e digli che prego per lui”. Il corista obbedì. Il vice ministro che prese in consegna il donò ringraziò…a solo due settimane dal crollo del Muro di Berlino e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. 

Non c’era ricorrenza significativa che non lo vedesse raggiungere piazza Duomo con i suoi mezzi alternativi ed il suo seguito di umanità sofferente, megafono alla mano per il rosario e due volontari a distribuire immaginette della Vergine Maria. Era, la sua, un’autentica evangelizzazione di strada, tanto più dirompente e scandalosa perchè giungeva a sorprendere la fretta un poco indifferente della metropoli. 

Ben presto Fratel Ettore stesso, diventa meta di pellegrinaggi altrui, da madre Teresa All’Abbé Pierre. Lui non si ferma, va in visita al Papa, torna in stazione, va fra i terremotati; durante la guerra nell’ex-Iugoslavia, a metà anni Novanta, aiuterà con più di duecento viaggi di Tir carichi di aiuti umanitari e i Savoia si terranno obbligati a fargli visita per ringraziarlo. 

Controcorrente sempre, capace di sorprendere e di disorientare con quella forza segreta che gli veniva da lunghe ore trascorse immerso in preghiera. Quando un sacerdote camillliano in partenza per l’America Latina gli chiese una statuetta della Madonna da portare in missione, Fratel Ettore andò ad acquistarne una da un amico scultore, alta quasi due metri, pesantissima, in marmo bianco, magnificamente scolpita. Costo, cinque milioni di vecchie lire. E quasi altrettanto occorreva spendere per imballarla e spedirla oltre Oceano. 

Quando l’economo di Casa Betania a Seveso -il quartiere generale delle sue opere di misericordia- fu informato della spesa, assalì Fratel Ettore con parole di fuoco: “Ma come, dobbiamo pagare un conto di cento milioni, tra pochi giorni per i lavori qui alla casa e tu vai a spenderne altri dieci per una statua”. Ma lui non si fece intimorire:”E’ una missione che sta muovendo i primi passi. Hanno il diritto di avere una bella immagine di Maria”. 

Quella sera stessa una signora mai vista prima bussò alla porta e consegnò un assegno di alcune centinaia di milioni, sufficiente per la statua, per pagare i lavori e per altre spese ancora. La casa di Bogotà, la sua missione in Colombia, l’ha pagata Luis Gabriel. Naturalmente quella casa Fratel Ettore l’aveva fermata con il conto in banca sotto zero. Un giorno andando a messa con i suoi poveri, incontra per strada un uomo appoggiato al muro che tiene sul viso uno straccio, (quell’uomo si chiamava Luis-Gabriel, ha fatto una morte santa). 

Pensandolo ubriaco lo invita a bere un tinto, così si chiama il caffè a Bogotà. Quando il povero si stacca dal muro per seguirlo e toglie lo straccio dal viso, Fratel Ettore non trattiene un urlo…Luis ha solo mezza faccia, il resto gliel’ha mangiata il cancro. Lo convince a seguirlo in un ospedale da dove viene cacciato insieme al povero:”E’ uno di strada, non lo vogliamo. E poi che serve curarlo? Ha poco da vivere”. Come una mamma se lo porta a casa e sembra non sentire il fetore che emana quel povero viso devastato. Lo netta del pus, stacca brandelli di pelle marcia, lo fascia con amore e gli dà un bacio. Il giorno dopo dall’Italia gli comunicano che un benefattore ha donato 90 milioni. Il costo della casa. 

Non era uno che “chiedeva” Fratel Ettore. Soldi meno che mai. La Provvidenza (scrivi “Provvidenza” sempre con la maiuscola, diceva, perchè significa Dio!), ci pensava da sola: si chiama “Rotary” o con qualunque altro nome. No, era lui, Fratel Ettore, ad andare incontro alle altrui necessità. Era lui a fare offerte al Papa, accompagnandole con un bigliettino pieno di candore: “Dai poveri per i più poveri del Papa”; oppure offerte per le missioni del suo Ordine Camilliano; o aiuti di tutti i generi ad altre Comunità religiose.

Se vi erano richieste, le sue erano di tutt’altra natura. Come quando fece irruzione ad un convegno sulla solidarietà milanese, pieno di nomi importanti, portandosi dietro un centinaio di ucraine: “Se volete davvero fare qualcosa di utile – gridò – ciascuno di voi ne assuma una come colf. Adesso!”.

Era un grand’uomo che ha stupito Milano con la sua semplicità, umiltà e determinazione. Era uno che apriva strade impensabili ad altri e le ercorreva tutte, fino in fondo, con passione, Aveva una fiducia cieca nella Provvidenza. 

L’altro giorno” ha raccontato una volta “eravamo senza pane. Stavo uscendo per andarlo a cercare quando ne è arrivato un camion pieno”.
“E chi te lo ha mandato?”

Non lo so. Secondo me Maria Vergine”. 

 

FRATEL ETTORE BOSCHINI

Camilliano   

 Belvedere di Roverbella, Mantova,

25 marzo 1928 – Milano, 20 agosto 2004

Un samaritano dei nostri tempi, che nella scia di s. Camillo de’ Lellis, dedicò buona parte della sua vita a lenire le sofferenze dei bisognosi, soprattutto dei più diseredati e soli, andando perfino a cercarli per dare loro un punto di riferimento, in questa società indifferente.
Fratel Ettore Boschini nacque il 25 marzo 1928 nella frazione di Belvedere del Comune di Roverbella (Mantova), in una famiglia di benestanti agricoltori.


Ma già da quando aveva quattro anni, le condizioni economiche familiari cambiarono; a causa di una grave carestia, il padre fu obbligato a lasciare la tenuta agricola di Belvedere, per trasferire la famiglia nella contrada Malavicina, dove tentò di ricominciare tutto daccapo.


La fanciullezza di Ettore trascorse così in ristrettezze economiche familiari e giunto all’adolescenza dovette lasciare la scuola, per andare a lavorare nei campi e nelle stalle, alle dipendenze di piccoli proprietari terrieri.
Il lavoro era talmente duro per la sua giovane età, che gli procurò i violenti mal di schiena, che praticamente lo tormentarono per tutta la vita.


Giunto ai 24 anni, la vocazione allo stato religioso che avvertiva in sé, si fece più insistente, per cui scelse di entrare nell’Ordine dei Camilliani, venendo accolto il 6 gennaio 1952 e pronunciando i voti temporanei come Fratello, il 2 ottobre del 1953.


L’Ordine dei Ministri degli Infermi, conosciuti popolarmente come Camilliani o Camillini, fu fondato nel 1582 da s. Camillo de’ Lellis (Bucchianico, Chieti, 1550 – Roma, 1614); i membri, sia maschili che femminili (ramo fondato nel XIX secolo), sono dediti all’assistenza e cura degli ammalati, dei feriti in guerra, soprattutto negli ospedali, che grazie a loro, dal XVI secolo furono completamente rinnovati e quindi ogni ammalato poté ricevere le cure necessarie.


Fratel Ettore ebbe come destinazione la Casa camilliana degli Alberoni al Lido di Venezia, dove rimase come fratello operoso e benvoluto, per una ventina di anni.


Nei primi anni Settanta fu destinato a Milano, alla clinica camilliana “San Pio X”, dove mentre lavorava, riuscì a conseguire la licenza media e il diploma d’infermiere professionale.
Nel capoluogo lombardo, scoprì le miserie che si nascondono nella vita metropolitana delle grandi città e iniziò ad aiutare i più bisognosi, appoggiandosi dapprima alla clinica “San Camillo”, e poi dal 1979, con il permesso dei suoi Superiori, accogliendoli e dando loro un punto di riferimento in Via Sammartini.

Desideroso di stare vicino ai più diseredati, barboni, extracomunitari, senza tetto, persone sole senza affetti, prese ad istituire dei “Rifugi”, luoghi ospitali organizzati per soccorrerli al meglio, prima da solo, poi con l’aiuto di volontari, anime sensibili attratte dal suo carisma camilliano. 
 

 

Il primo “Rifugio” fu appunto quello di Via Sammartini a Milano, un androne sotto i ponti della Stazione Centrale, un luogo molto particolare, con il soffitto che tremava con il passare dei treni e con lo sferragliare dei vagoni che assordava gli ospiti; erano dei disperati che comunque poterono a migliaia trovare negli anni un calore umano, accolti con amore infinito da fratel Ettore Boschini, che li considerava come suoi fratelli con dignità pari a quella di qualsiasi uomo e donna.

L’incontro di tante persone, di estrazione sociale differenti, di poco studio, abbruttite dalle necessità, di età diverse, bisognose di tutto, dal cibo ai servizi igienici, dal letto alla pulizia personale, dal vestiario e biancheria pulita alla necessità di parlare con qualcuno; generava una condizione effervescente e promiscua, che spesso sfociava in discussioni e intolleranze reciproche; in ciò interveniva paziente e umile fratel Ettore a riportare la calma e serenità, giungendo a fare recitare “senza imposizioni”, le preghiere di ringraziamento.


Il “Rifugio” di Milano, fu da lui dedicato agli “Amici del Cuore Immacolato di Maria”; nel tempo seguirono il centro di accoglienza “Casa Betania” a Seveso (MI), il Villaggio delle Misericordie ad Affori – Milano, la Casa “Nostra Signora di Loreto” a Collespaccato di Bucchianico (Chieti), il Villaggio Grosio di Grottaferrata (Roma) e la Comunità di Nazareth a Bogotà in Colombia.


Tutti centri di accoglienza, realizzati con l’aiuto della Provvidenza e dei tanti benefattori e volontari, che affascinati dalla sua reale e singolare testimonianza del Vangelo, cercavano di sostenerlo ed aiutarlo, in questa sua missione così difficile di moderno samaritano; la sua opera comunque, oltre a creare ammirazione, suscitò anche purtroppo tante incomprensioni.


Con la sua sdrucita veste talare nera, con la grossa croce rossa sul petto, abito tipico del suo Ordine, percorreva in lungo e in largo Milano, alla ricerca dei bisognosi, specie quelli più vergognosi della loro misera condizione e con umiltà e tenerezza, porgeva la mano del suo aiuto concreto e spirituale, per sollevarli dall’isolamento; portava in tasca le corone del rosario di plastica bianca e ad ogni occasione le distribuiva, invitando ad elevare l’animo nella preghiera, recitando un Ave Maria alla Madonna, della quale era devotissimo.

Non era un religioso chiuso nel suo ambiente caritativo, anzi, con i suoi speciali amici, spesso lo si vedeva in manifestazioni di religiosità esterne, tanto da essere definite di tipo “folcloristico”, come girare per le strade cittadine su una vecchia ‘Uno’ bianca, con sul tetto ben fissata, una statua della Madonna di Fatima, alla ricerca di un fratello più sventurato; come le ore di preghiera trascorse in ginocchio in Piazza del Duomo a Milano, durante la prima Guerra del Golfo; la costruzione all’ingresso di Casa Betania a Seveso, di una cappella di cristallo, come quella costruita a Fatima per le apparizioni della Vergine, della quale diceva: “Senza il suo aiuto, non avrei saputo combinare niente”. 

 

Ai suoi giovani volontari, insegnava il difficile Vangelo della strada, quello che si vive fra i derelitti; i figli più amati da Dio, come fratel Ettore li chiamava; perché egli era convinto che ogni uomo, anche se povero, sporco e malvestito, aveva una sua dignità e doveva essere rispettato; anche il più povero era una creatura del suo Dio e questo stesso Dio vuole mostrare a loro il suo amore per mezzo di noi.

Superò infinite difficoltà, incomprensioni, maltrattamenti e, con il tempo, divenne il simbolo di una vera e difficile solidarietà dei nostri tormentati, consumistici, indifferenti tempi.

Fratel Ettore Boschini, morì il 20 agosto 2004 a 76 anni, nella clinica camilliana “San Pio X” a Milano; in quel fine estate la città rimase scossa per la perdita di quel testimone ‘scomodo’ dell’amore di Dio; in effetti tutti lo conoscevano e qualcuno lo definiva un matto, ma la notizia arrecò ai milanesi un vuoto terribile; fratel Ettore era infatti un uomo, un religioso, difficile da capire in questi tempi di diffuso egoismo, ma necessario ed efficace a far risvegliare le coscienze di quanti lo conoscevano.

Durante i funerali, il Superiore Generale dei Camilliani, padre Frank Monks, disse: “Lui, come diceva san Camillo, aveva capito bene che i poveri non hanno bisogno di una predica sull’amore di Dio, ma piuttosto sperimentare questo amore per mezzo della nostra assistenza, fatta con “più cuore nelle mani”.

La sua salma riposa nella Cappella della “Casa Betania” a Seveso; nella stessa Cappella riposa anche uno dei suoi giovani volontari e collaboratori dei primi anni, prematuramente scomparso a 34 anni, il Servo di Dio Sabatino Jefuniello (Sarno, (Salerno), 19-12-1947 – Milano, 30-8-1982), la cui Causa di Beatificazione, introdotta nel 1996 a Milano per iniziativa dei Padri Camilliani, ha ricevuto il nulla osta della Santa Sede il 14 dicembre 2002.

 

Antonio Borrelli 

Autore:

 

 

UN RICORDO DI GIORGIO LA PIRA – Carlo Maria Martini

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UN RICORDO DI GIORGIO LA PIRA

 

HA ABBATTUTO I MURI E COSTRUITO I PONTI 

 

Ci sembra giusto ricordare la figura di Giorgio La Pira a 100 anni dalla nascita, poiché rappresenta per tutti noi la figura di un credente adulto che ha saputo maturare nel suo animo la vocazione cristiana attraverso le esigenze della fede in tutto ciò che compiva.

 Insegnando, facendo politica, amministrando Firenze come sindaco, ha tenuto davanti agli occhi, come modello e sogno, l’impegno della pace.

Sembrò a volte ingenuo, eppure il suo impegno passò attraverso i bisogni veri della gente (lavoro e casa) perché diventassero diritti e responsabilità di tutta la comunità civile e passò quindi a tessere, in tutti i modi, reti di speranza attraverso contatti e dialoghi con interlocutori impensati negli anni ’50 e ’60. 

Oltre ad una breve biografia, pubblichiamo l’intervento del Card. Martini, a Roma, per la commemorazione di La Pira nel centenario della sua nascita.

 

LA VITA 

Giorgio La Pira nasce il 9 gennaio 1904 a Pozzallo (RG), in Sicilia. Primogenito di una famiglia di umili condizioni, a prezzo di grandi sacrifici, riesce a diplomarsi in Ragioneria e poi a laurearsi in Giurisprudenza.  

Trasferitosi a Firenze con il suo maestro, diventa docente di Diritto romano. Tra il 1929 ed il 1939 svolge un’intensa attività di studioso che lo mette in contatto con l’Università Cattolica di Milano: entra cosí in amicizia con figure come padre Gemelli e Giuseppe Lazzati. 

Si impegna a fondo nell’Azione Cattolica giovanile e nella pubblicistica cattolica, scrivendo in numerose riviste, tra cui il famoso “Frontespizio”. Alla vigilia della guerra (1939) fonda e dirige la rivista “Principi” nella quale – in pieno regime fascista – pone le premesse cristiane per un’autentica democrazia. Il regime ne vieta la pubblicazione. Tra il 15 luglio e l’8 settembre 1943 crea il foglio clandestino “San Marco”. Il 23 settembre sfugge alla polizia segreta che lo cerca per arrestarlo. Raggiunta Roma, nel 1944 tiene all’Ateneo Lateranense – su iniziativa dell’Istituto Cattolico Attività Sociali – un corso di lezioni che riscuote molto successo. L’anno successivo le lezioni vengono pubblicate sotto il titolo “Le premesse della politica”.

 

Liberata Firenze l’11 agosto 1944, La Pira torna ad insegnare all’Università e collabora al quotidiano del Comitato di Liberazione Nazionale toscano “La nazione del popolo”. Nel frattempo arricchisce il suo pensiero approfondendo la cultura cattolica francese e l’economia anglosassone. Sostiene il diritto universale al lavoro e l’accesso generalizzato alla proprietà. Frutto di questa riflessione sono alcuni noti volumi come “La nostra vocazione sociale: Valore della persona umana”.

 

Nel 1946 viene eletto all’Assemblea Costituente. Nel 1947, insieme a Dossetti, Fanfani e Lazzati, dà vita a “Cronache sociali”, la rivista che meglio ha espresso la presenza cristiana nel difficile processo di rinascita della democrazia in Italia. Alla Costituente svolge un’opera di grande rilievo, e da tutti apprezzata, nella Commissione dei 75, in particolare per la formulazione dei principi fondamentali che dovranno reggere la nuova Repubblica Italiana. Nel 1948 è nominato sottosegretario al Ministero del Lavoro; nel 1950 scrive in Cronache Sociali il famoso saggio L’attesa della povera gente, nel quale dimostra la necessità e la concreta possibilità del lavoro e della casa per tutti.

 

Nel 1951 interviene presso Stalin in favore della pace in Corea. Il 6 luglio è eletto Sindaco di Firenze (1951-1958; 1961-1965). La sua opera di sindaco è punteggiata da notevoli realizzazioni amministrative e da straordinarie iniziative di carattere politico e sociale. Sotto la sua amministrazione, vengono ricostruiti i ponti Alle Grazie, Vespucci e Santa Trinità distrutti dalla guerra; viene creato il quartiere-satellite dell’Isolotto; si gettano le basi per il quartiere di Sorgane; si costruiscono, in varie zone della periferia, moltissime case popolari; si riedifica il nuovo Teatro Comunale; si realizza la Centrale del Latte; viene nuovamente pavimentato il Centro Storico. Con la collaborazione dell’on. Nicola Pistelli, Firenze viene dotata di un numero di scuole tale da ritardare di almeno vent’anni la crisi dell’edilizia scolastica in città. Nello stesso tempo, La Pira conduce una coraggiosa lotta in favore dei lavoratori. Famosa la strenua difesa dell’occupazione per i duemila operai delle officine Pignone, poi della Galileo e della Cure.

 

Nel 1952 organizza in piena guerra fredda il primo Convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana. Da esso ha inizio un’attività, unica in Occidente, tesa a promuovere contatti vivi, profondi, sistematici tra esponenti politici di tutti i Paesi. Nel 1955 i sindaci delle capitali del mondo siglano a Palazzo Vecchio un patto di amicizia. Nel 1958 hanno luogo a Firenze i Colloqui Mediterranei cui partecipano rappresentanti arabi ed israeliani. Nel 1959 La Pira, invitato a Mosca, parla addirittura al Soviet Supremo in difesa della distensione e del disarmo. Rivolge anche un ammonimento ai capi del Cremlino: «Come avete rimosso dal Mausoleo al Cremlino il cadavere di Stalin, cosí dovete liberarvi dal cadavere dell’ateismo. È una ideologia che appartiene al passato ed è ormai irrimediabilmente superata».

 

Nel 1965 incontra ad Hanoi Ho Chi-Minh con il quale mette a punto una serie di proposte che, se non fossero state osteggiate da esponenti occidentali ostili alla pace, avrebbero anticipato di un decennio la fine della tragica guerra vietnamita. In parallelo a questi contatti diplomatici, avvengono i gemellaggi di Firenze con Filadelfia, Kiev, Kioto, Fez e Reims; nonché il conferimento della cittadinanza onoraria di Firenze al segretario dell’ONU U Thant e al grande architetto Le Corbusier. Nel capoluogo toscano La Pira promuove il Comitato internazionale per le ricerche spaziali; una tavola rotonda sul disarmo; iniziative tese a mettere in luce il valore e l’importanza del terzo mondo e degli emergenti Stati africani (tra l’altro, invita a Firenze il presidente del Senegal Léopold Senghor, uno dei piú prestigiosi leaders cristiani dei movimenti di liberazione). È ancora lui che, per primo, lancia l’idea dell’Università Europea da istituire a Firenze.

 

Dal 1966 comincia a ritirarsi dall’attività pubblica, ma continua a mantenere contatti internazionali quale presidente della Federazione mondiale delle città unite. In questa veste, tiene colloqui e conferenze in vari paesi d’Europa, in preparazione alla Conferenza di Helsinki. Nel 1967 ha colloqui con Nasser in Egitto ed Abba Eban in Israele, per collaborare alla pace tra i due grandi gruppi umani usciti dall’unico progenitore Abramo.

 

Trova un inaspettato interesse per questa impostazione di discorso politico fondato sulla tradizione religiosa. Nel 1973 a Houston (USA) parla al Convegno internazionale “I progetti per il futuro” e delinea i compiti delle nuove generazioni. Famoso l’inizio del suo discorso: “I giovani sono come le rondini, annunciano la primavera”. Nel contesto di queste molteplici iniziative svolge un’intensa attività pubblicistica. Scrive a Capi di Stato, a personalità di ogni continente, ai monasteri di clausura, ai vecchi e ai bambini di Firenze, tiene discorsi, conversazioni, incontri, soprattutto con giovani, che lo seguono con entusiasmo avvertendo la grande forza della sua fede e la purezza dei suoi ideali.

 

Instancabile proclamatore della profezia di Isaia, ne esalta spesso la sua attualità: «Avverrà che nei tempi futuri il monte della casa del Signore sarà stabilito in cima ai monti e si ergerà al di sopra dei colli. Tutte le genti affluiranno ad esso, e verranno molti popoli dicendo: “Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché c’istruisca nelle sue vie e camminiamo nei suoi sentieri”. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice tra le genti e arbitro di popoli numerosi. Muteranno le loro spade in zappe e le loro lance in falci; una nazione non alzerà la spada contro un’altra e non praticheranno più la guerra. Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore!».

 

È questo ideale che lo sostiene negli ultimi anni, resi difficili da una grave malattia e da un penoso isolamento. Il 5 novembre 1977 in un “sabato senza vespri” come aveva desiderato, conclude il suo pellegrinaggio terreno. È in corso la causa di beatificazione. 

 

Martini Carlo Mariai - Fiaccola

Commemorazione di Giorgio La Pira

nel centenario della nascita

 

Roma, 25 febbraio 2004  

Carlo Maria card. Martini

 

Giorgio La Pira in una lettera del 1954 scriveva: ” Non ho mai voluto essere né deputato né sindaco: mi ci hanno violentemente posto…Io non ho nessuna vocazione sociale, non desidero riformare niente: non ho nessuna dottrina sociale o metafisica da annunciare. Se un desiderio io possiedo è quello soltanto di stare col Signore nella pace benedetta dell’orazione e della riflessione. “

 

Così io ricordo Giorgio La Pira, come l’uomo che lasciava trasparire una grande spiritualità e insieme una grande capacità di accoglienza, di affetto, di attenzione verso ogni persona che aveva davanti.

 

Non ci si poteva sottrarre al fascino che emanava dalla sua carica di umanità e di entusiasmo. Colpivano la sua sicurezza, la sua certezza profetica, il suo sguardo sicuro e ottimista sull’avvenire. Egli fondava le sue convinzioni su alcuni pochi testi tratti dalla Scrittura (Isaia 11): “Il lupo dimorerà insieme con l’agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà” (Is 11,6); e ancora: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell’arte della guerra” (Isaia 2,4, cfr. Michea 4,3); il Salmo 45,15: “Farà cessare le guerre fino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà con il fuoco gli scudi”; e ancora un testo dal libro dell’Apocalisse: “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (21,3).

 

Giorgio La Pira, nella sua visione profetica, vedeva queste cose avvenire nella nostra storia, malgrado tutte le apparenze contrarie (predisse ad esempio molti anni prima la fine dell’Impero Sovietico), e sapeva scorgerne i segni anche più esili e incoraggiare l’azione che avrebbe aperto la strada a queste prospettive.

 

Uno dei simboli ricorrenti in cui inquadrava la sua visione del futuro è l’immagine della città. In una lettera scritta probabilmente nell’estate del 1944 e pubblicata solo qualche anno fa sotto il titolo: “Ordine della grazia e ordine sociale” esprimeva la sua tesi fondamentale: “come l’ordine naturale personale non si ricompone che nella grazia di Cristo, così l’ordine naturale collettivo (cioè la società) non si può ricomporre che nella grazia di Cristo”.

 

Di qui il compito che egli ne traeva e che esprimeva così: “Rigenerare in Cristo la società civile: riparare, nella grazia, l’ordine umano collettivo; rifare le cattedrali centro della città!”. E aggiungeva “lo so: sembra un sogno!”. Ma egli guardava con fiducia a questo sogno, senza alcun accenno di integrismo o di fondamentalismo, ma con un pieno rispetto per la libertà di coscienza e per tutte le religioni tale da permettere all’opera di Dio di svilupparsi in pieno accordo con la dignità e la libertà di ogni persona.

 

Volendo esprimere alcune coordinate di questo sogno di Giorgio La Pira, ricorderei le seguenti:

 

1. l’unità del genere umano, che tende sempre più irresistibilmente a manifestarsi;

2. il carattere conflittuale di questo sviluppo;

3. la centralità della città;

4. il concetto di tempi privilegiati e di mediatori storici.

 

1. L’unità del genere umano come fatto irreversibile e irresistibile

Le profezie bibliche di pace e di speranza, che già abbiamo ricordato, danno a La Pira una percezione della direzione della storia presente e futura. Esse mostrano che la storia cammina su quello che egli chiamava il “crinale apocalittico” ed è entrata in un’era radicalmente nuova di pace e di unità della famiglia umana, che esige una profonda riforma dell’economia e della politica. All’umanità non sta di fronte che l’autodistruzione o la pace universale profetizzata da Isaia e richiamata dalle guide illuminate nelle nazioni, guide che egli amava riconoscere in tante parti del mondo.

 

Il 24 ottobre 1963, parlando in occasione delle celebrazioni del diciottesimo anniversario dell’Onu e della giornata della FAO, diceva: “Noi siamo consapevoli… della radicale novità, sempre più crescente, della storia del mondo. La tesi che ci fa luce nell’azione è così elementare e così vera! E’ la tesi, tanto semplice e tanto vera, dell’unità – a tutti i livelli, ricca di articolazioni – della famiglia umana: un Padre celeste comune, una terra comune, una famiglia comune, una redenzione comune, una storia comune, una destinazione temporale ed eterna comune”.

 

Qualche anno prima aveva detto: “In un momento storico, come questo, occorre più che mai fare nostra la divisa audace e operosa di san Paolo: spes contra spem”. E spiegava che la speranza teologale, quanto all’oggetto, è la città celeste intesa quale polo magnetico anche della città terrestre, protesa a farsi suo specchio e prefigurazione, nella tensione dialettica e organica di tutte le speranze umane e dei loro simboli visibili: cattedrale, casa, officina, scuola, ospedale. Era tracciato così un chiaro itinerario verso una pace vera e stabile e verso l’unità degli uomini: itinerario che comportava una pacificazione con Dio e con le idee madri che formano il tessuto universale della civiltà umana e cristiana (libertà e lavoro). Si domandava: “É ingenuità?” No, rispondeva: è fede nella capacità di Dio di compiere ciò che non sa compiere la furbizia degli uomini! È tutto nella profezia di Isaia il nostro ideale.

 

  1. Il carattere conflittuale di questo cammino

     

La Pira era consapevole del fatto che l’itinerario di pace da lui intravisto passava attraverso contestazioni e rischi mortali. Non per niente usava l’espressione di “crinale apocalittico”, sul quale – diceva – sono presenti quattro potenziali esplosivi di terrificante potenza distruttiva: la minaccia nucleare, la fame, lo sviluppo demografico, la collera dei poveri, quella che – mutuando il linguaggio dell’encicliche sociali – chiamava anche “la collera di Dio e dei poveri”.

 

  1. La funzione centrale della città

     

In questo cammino necessario e insieme conflittuale, che consente l’accesso a una stagione storica nuova, vi è un punto di riferimento culturale e geografico preciso. Esso è la città. La “città” è intesa, da La Pira, come metafora, trascrizione, documento vivente della storia e della civiltà umana, nonché come “casa”, domicilio, humus della persona umana e non già museo di reliquie. In questo senso, assumono valore di simbolo la casa, l’officina, l’ospedale, la scuola e la cattedrale.

La città gli appare come lo spaccato esemplare della più vasta comunità umana e civile, ove i problemi tecnici, economici e politici prendono contorni più elementari e umani, dove si deve assicurare un posto a tutti, ove si prefigura in sintesi la città di Dio, dando un’anima alla moderna civiltà meccanica.

 

  1. Tempi privilegiati e mediatori storici

     

Vi sono “tornanti” nella storia, cioè tempi privilegiati, eventi favorevoli (“kairoi” secondo la terminologia biblica), in cui si gioca il destino di molti uomini. In questi tempi privilegiati emergono alcuni luoghi o situazioni o persone in funzione di mediatori, di antenne, di catalizzatori di un processo. Tra questi, per La Pira, si staglia certamente Firenze. Firenze, la “seconda Gerusalemme” – come amava chiamarla riprendendo l’espressione di Savona – “miniatura luminosa”, città in cui è esemplarmente trascritta la teologia cristiana e che si fa misura della civiltà cristiana integralmente umana.

 

Egli ci tiene a sottolineare che non si tratta semplicemente di un’opera di “restauro” delle vestigia di un glorioso passato. Al centro dell’attenzione sono i pressanti e concreti problemi umani dell’oggi: il pane, il lavoro, la casa. Si tratta di cogliere il nesso vitale tra città umana e divina, tra speranza teologale e speranze umane, si tratta di compiere l’opera di trascrizione della rivelazione di Dio nella città dell’uomo, che abbraccia la cattedrale e l’officina. Queste prospettive teologiche, storiche e culturali hanno fatto di questo contemplativo, di questo uomo semplice e povero, di questo studioso, un ambasciatore di pace nel mondo, un sindaco appassionato, competente e tenace. A partire da un certo semplicismo delle formule egli si è fatto sempre più consapevole della complessità del vivere civile contemporaneo e dei diversi livelli e strumenti di realizzazione degli ideali intravisti.

 

Ma tutto questo veniva macerato interiormente nella contemplazione, nel silenzio e anche nelle prove interiori. Per questo, ancora oggi, La Pira rimane, anche in tempi assai diversi dai suoi, attualissimo maestro di penetrante discernimento spirituale: ci insegna a decifrare l’anima del tempo, la direzione e i movimenti profondi della storia, quella che egli chiamava la storiografia del profondo. Ci insegna a osservare il divenire storico con la sensibilità di chi bada soprattutto ai moti della coscienza dentro l’orizzonte del disegno d’amore di Dio, di chi sa quindi porre l’accento sulle dinamiche di lungo periodo, oltre le increspature contingenti della storia, di chi sa interpretare il tempo nella luce della speranza, attento a cogli ere i segni dello Spirito contro i profeti di sventura. In questo La Pira ci è maestro di discernimento, nell’esercizio di una lucida e conseguente razionalità, sorretta dalla luce della fede e della speranza cristiana.

 

Voglio concludere citando un suo testo del 1967, che ha un sapore di profetica e bruciante attualità: “Perché non dare al mondo presente, – egli si domanda – una prova del grande fatto che specifica già l’attuale età storica: del fatto cioè, che la guerra anche “locale” non risolve, ma aggrava i problemi umani; che essa è ormai uno strumento per sempre finito; e che solo l’accordo , il negoziato, l’edificazione comune, l’azione e la missione comune per l’elevazione comune di tutti i popoli, sono gli strumenti che la Provvidenza pone nelle mani degli uomini per costruire una storia nuova e una civiltà nuova?

 

Quindi abbattere i muri e costruire i ponti: l’inizio simbolico della pace che viene!

 

E questa pace venga, tra i due figli dello stesso Patriarca Abramo. Essa sarà non solo la pace fra i figli di Abramo, ma sarà altresì l’arcoba leno che annuncia per sempre, per il mondo intero, la fine del diluvio (la guerra) e l’inizio definitivo della nuova età storica del mondo”.