02 GESÙ CONOSCE ILLUMINANDO – C.M. Martini

GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA

II. GESÙ CONOSCE ILLUMINANDO

«Vieni, Spirito Santo, e riempi i nostri cuori della conoscenza di Gesù, allarga il nostro cuore perché possiamo conoscere l’ampiezza della sua conoscenza! Maria, madre di Gesù, aiutaci a comprendere che Gesù ci conosce illuminando; tu che sei la fonte della nostra gioia, prega per noi!».

Dopo aver detto che Gesù conosce tutto e tutti incominciamo a vedere come, in quale modo Gesù ci conosce. li titolo di questa seconda meditazione è: «Gesù conosce illuminando» e, applicandolo a ciascuno di noi: «Gesù mi conosce illuminandomi».

Prima di raccogliere i testi del Vangelo su questo tema della luce, vorrei spiegare il significato stesso del titolo. Se, per esempio, entra qui una persona, si siede al mio posto e getta un’occhiata su di voi, ecco che vi conosce. E se voi la guardate, la conoscete. Si tratta tuttavia di una conoscenza molto superficiale, che non ci tocca dentro; è come quando si va in autobus o in treno e vedendo tanta gente la si conosce. Però ciascuno rimane com’è. La conoscenza di Gesù è di una qualità diversa perché lui è luce, luce vera che illumina ogni uomo e ogni cosa, esattamente come la luce del sole illumina tutto ciò su cui si posa, avvolgendolo. Ricordate il salmo 138 là dove dice: «Nemmeno le tenebre per te sono oscure»?

Gesù quindi ci conosce non da lontano, non superficialmente, ma venendo vicino a noi come luce e operando in noi il duplice effetto della luce. Qual è il duplice effetto della luce?

La luce penetra nei corpi trasparenti, creando invece un’ombra quando trova un corpo opaco. Gesù ci conosce come una luce che, arrivando in noi, distingue quello che è luce da tutto quello che è tenebra. Potremmo anche dire che Gesù mi conosce illuminando e separando nella mia coscienza la luce dalle tenebre.
Può sembrare un po’ difficile il concetto, ma i testi che raccoglieremo ci aiuteranno a capirlo.

La raccolta dei testi

Cerchiamo allora quei brani del Vangelo dove si vede che Gesù conosce come luce, con il duplice effetto di rendere luminosi coloro che lo accolgono e mettendo in rilievo l’ombra di coloro che sono opachi e non lo accolgono.

Ve ne suggerisco due molto belli, lasciando a voi di trovarne altri.

1. Il primo brano racconta la scena di Gesù in casa di Simone, di fronte alla donna peccatrice: Lc 7,36-50. La luce, che è Gesù, colpisce due persone, Simone e la peccatrice, e però con un effetto diverso. Simone è opaco e la luce di Gesù fa emergere la sua oscurità; la donna è trasparente, aperta e la luce di Gesù la conosce trasformandola.

2. Il secondo brano è un racconto della passione di Gesù: Lc 23,39-43. Crocifissi con Gesù ci sono due ladri e Gesù li illumina entrambi: uno si lascia illuminare e lo accoglie; l’altro respinge la luce e resta nella tenebra.
Ci sono tanti altri episodi evangelici che ci parlano di persone trasparenti nelle quali penetra la luce di Gesù, e di persone opache che la respingono. Sono certo che voi saprete trovarli.

La comprensione dei testi

Passiamo al momento della riflessione nel desiderio di capire i testi evangelici che abbiamo trovato.

- Lc 7,36-50. Gesù è invitato da un fariseo, di nome Simone, entra in casa sua, si mette a tavola. Ad un tratto giunge una donna, con un vasetto di olio profumato e si mette ai suoi piedi: piange, bacia i piedi di Gesù, li cosparge di olio. Simone, che l’aveva invitato, pensa dentro di sé: «Se costui fosse un profeta saprebbe che specie di donna è costei che lo tocca: è una peccatrice!». È interessante quello che il fariseo pensa. Egli sa che Gesù conosce i cuori degli uomini e tuttavia non si immagina che li conosce illuminandoli, cioè entrando nella loro coscienza.
Che cosa avviene? Essendo luce per tutti e due, Gesù conosce con amore sia Simone che la donna, è disposto e pronto a volere il loro bene. Sono queste due persone che si comportano in maniera diversa.

Simone è pieno di sé, della propria dignità, è convinto di aver fatto un piacere a Gesù invitandolo a mangiare e si aspetta che Gesù lo ringrazi, che apprezzi il coraggio da lui avuto facendolo entrare in casa sua! La luce di Gesù non può penetrare in Simone, perché trova materia opaca ed emergono le ombre della superbia e della vanità, della presunzione e del disprezzo che Simone ha degli altri. Pur essendo luce, Gesù incontra la resistenza e la chiusura del cuore.

La donna, invece, piange ai piedi di Gesù pensando di non valere niente, di non meritare niente perché ha sbagliato. La gente mormora di lei ed ecco che lei si affida a Gesù. La luce la penetra perdonandola e rifacendola nella sua vita.

Simone si erge a giudice, giudica Gesù e la donna; la donna si lascia giudicare da Gesù e si lascia trasformare dalla sua luce.

Gesù, conoscendoci come luce, può rivelare la nostra superbia e la nostra bontà. Per questo dice a Simone: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non mi hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio; lei, da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non hai cosparso il mio capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso i piedi di profumo. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati poiché ha molto amato. Quello invece a cui si perdona poco, ama poco» (Lc 7,44-47).

Gesù dunque capovolge la situazione: Simone, che presumeva di avere grandi meriti, è smascherato come uomo meschino, gretto, freddo, arido, incapace di accogliere bene un ospite; la donna, che era disprezzata, rivela di avere il cuore più grande di tutti.

Questo è il modo in cui siamo conosciuti da Gesù, e fino a quando non ci lasciamo conoscere così non abbiamo ancora capito come ci conosce, non abbiamo veramente compreso come Gesù, con la sua conoscenza, entra dentro di noi.

- Lc 23,39-43. L’episodio ci è noto: Gesù è appeso alla croce e vicino a lui sono crocifissi due ladri. Uno lo insulta dicendo: «”Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!”. Ma l’altro lo rimproverava: “Neanche tu hai timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male”. E aggiunse: “Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno!”. Gli rispose: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel Paradiso”».

La scena è simile a quella di Simone e della peccatrice.

C’è Gesù che sta morendo, e con la sua morte e con il suo amore illumina i due uomini crocifissi. Uno però è chiuso, pieno di rabbia e di amarezza e non vuole accettare di avere sbagliato, getta la colpa sugli altri, grida contro la società, non riconosce di aver fatto del male, di essere stato ingiusto.

L’altro, invece, ammette i suoi errori, sa di ricevere un castigo corrispondente alle azioni malvagie che ha compiuto e riconosce che Gesù non ha fatto nulla di male.

È lo stesso Gesù che ha messo in luce le tenebre del primo e che rischiara il cuore del secondo: lo rischiara al punto che il buon ladrone afferma la grandezza di Gesù e il suo potere nel regno di Dio.

Ci sarebbero tante altre riflessioni da fare e affido a voi questo lavoro: se troverete altre pagine evangeliche che parlano della conoscenza di Gesù che illumina i cuori trasparenti e mette in evidenza le ombre dei cuori chiusi e presuntuosi, potrete paragonarle l’un l’altra, approfondendo sempre più il tema della meditazione.

La preghiera sui testi

Proviamo a metterci ora nella situazione di preghiera dei personaggi che abbiamo cercato di capire.

- La preghiera della peccatrice ai piedi di Gesù può diventare la nostra preghiera: «Gesù, sono anch’io ai tuoi piedi, ho la fortuna di essere davanti a te che sei nel tabernacolo come Eucaristia. Mi verrebbe voglia di cantarti tutti i miei meriti, come Simone, e invece preferisco riconoscere che ho degli sbagli e dei peccati. Signore, non sono sempre come vorrei ,essere, non sempre prego volentieri, spesso mi lascio vincere dalle distrazioni. Signore, talora ce l’ho con i miei compagni, sono invidioso, ho dei risentimenti, mi irrito ed esprimo la mia ira con parole e con gesti. Signore, tante volte non lascio il primo posto agli altri, me lo prendo io il primo posto, convinto che mi spetti». In questo momento Gesù mi illumina perché sono sincero davanti a lui.

- Se, al contrario, mi metto nella situazione di Simone, prego così: «Signore, gli altri hanno sbagliato, ce l’hanno con me, mi trattano male e ingiustamente, non mi capiscono, mi mettono da parte, credono di valere più di me».

- Sono due modi di pregare che ci fanno venire alla mente un altro brano del vangelo di Luca, là dove si parla del fariseo e del pubblicano: due personaggi che reagiscono diversamente alla luce di Gesù (Le 18,9-14). E poi c’è pure il racconto parabolico del buon samaritano, del levita e del sacerdote (Lc 10,30-37). Un uomo ferito è sulla strada, e Gesù illumina tutti coloro che gli passano accanto: la sua luce è accolta dal samaritano ed è respinta dal sacerdote e dal levita.
La preghiera di fiducia in Gesù e di riconoscimento del nostro peccato è una preghiera di preparazione al sacramento della Confessione.
Confessarsi significa mettersi, come la peccatrice, ai piedi di Gesù, significa porsi vicino al ladro sulla croce, vicino al pubblicano che prega nel tempio e al buon samaritano che si ferma accanto al ferito, e dire: «Signore, illumina la mia vita, fammi capire chi sono io veramente, entra in me come luce che illumina, purifica, riscalda, fa’ che io mi lasci conoscere da te fino in fondo… Signore, come vorrei poterti gridare, come il ladro, di ricordarti di me nell’ora della mia morte! Ho sbagliato, è vero, ma io confido in te».
Gesù allora entra nel nostro cuore, nella nostra vita e resta con noi.

Applicazioni pratiche

- Come prima applicazione pratica della nostra riflessione, chiediamo la grazia di prepararci al sacramento della Confessione avvicinandoci a Gesù come luce che entra in noi, che ci chiarisce e dona serenità al nostro cuore mettendo a posto le cose che sono sbagliate. Do. mandiamoci: Come vivo il sacramento della Confessione? È per me un avvicinarmi a Gesù come luce?

- Una seconda applicazione pratica, sulla quale vi invito a riflettere, riguarda la direzione spirituale che è la continuazione della parola di Gesù che ci illumina.

Chi è aperto nella direzione spirituale, chi si manifesta facilmente, chi si esprime con tranquillità, certamente si lascia illuminare da Gesù.

Chi invece cerca di nascondersi, di mostrarsi diverso da quello che è, magari per vergogna, mette in risalto la sua oscurità e non permette a Gesù di essere luce.

La direzione spirituale, che voi avete, è un dono immenso e vorrei che ve ne rendeste conto. Girando le parrocchie per la visita pastorale, incontro tanti ragazzi, pieni di buoni propositi, desiderosi di impegnarsi, e io mi dico che la maggior parte di loro non potrà fare un grande cammino perché non hanno un po’ di direzione spirituale: i loro buoni propositi si scioglieranno e non riusciranno ad accettare fino in fondo Gesù come luce.

Credo infatti che sia molto difficile che un ragazzo, a partire dai 12-13 anni [mo ai 18 anni, viva una vita cristiana seria senza l’aiuto della direzione spirituale. Voi avete quindi una grande fortuna e forse alcuni vostri compagni di parrocchia vi invidiano perché il loro sacerdote ha poco tempo e fanno fatica a trovare chi li guidi con la direzione spirituale.

«O Maria, madre di Gesù, aiutami ad accogliere Gesù come luce nella mia vita. Tu vedi che ci sono in me le tenebre che io stesso non conosco. Fa’ che esse non resistano alla luce di Gesù, ma che si aprano a lui nell’esame di coscienza, nella Confessione, nella direzione spirituale, nella meditazione e nell’ascolto della parola di Gesù. O Maria, tu che hai permesso a Gesù di illuminare la tua vita, aiutami affinché in ogni momento della mia vita io lasci che Gesù illumini la mia coscienza. Fa’ che io possa conoscerlo come mio amico, mio Salvatore e Redentore!

Donami, o Maria, questa grazia e donala a tutti noi, a tutti i seminaristi, a tutti i ragazzi della nostra parrocchia che talora hanno più buona volontà di me ma non hanno i mezzi che a me sono offerti. Fa’ che io mi lasci illuminare da Gesù anche per loro. A volte invidio i miei compagni che non sono in seminario perché hanno una vita più libera della mia; ti prego, Madre, fammi conoscere i doni grandi che mi sono stati dati rispetto a loro. Di questi doni io sono responsabile per tutti, sono responsabile perché quei miei compagni possano crescere nella verità e nell’amore, perché anch’essi possano conoscere Gesù come lo conosco io!».

01 – GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA – Carlo Maria Martini

Posted on Aprile 1st, 2009 di Angelo |

 

 

San Riccardo Pampuri o.h.

  

Laici o religiosi, anche se cresciuti, proviamo per una volta a tornare bambini, sui banchi del catechismo.

Ma questa volta a farci da guida non saranno nè il parroco o il don, nè la suora o i  catechisti dell’ Oratorio, ma un Cardinale in persona: l’amatissimo Carlo Maria Martini, già Arcivescovo di Milano.

Ho detto “catechismo” ma non è esatto: si tratta di veri “Esercizi Spirituali” dettati da lui a ragazzi delle medie. Quindi, non proprio bambini.

Il Dr. Erminio Pampuri, da medico condotto a Morimondo, appena poteva, agli “Esercizi” ci andava volentieri e sempre cercava di portarsi dietro anche dei giovani. E se non riuscivano a pagarsi  le spese, provvedeva lui, tanto rriteneva utile per l’anima e per il corpo questa “revisione di vita”.

Qui oggi è tutto gratis. Giacchè paga il convento, sarebbe un peccato non approfittarne.

Anni fa è uscito un libro scritto da un parroco francese, Pierre  Richer e che ha riscosso un grande successo. Il titolo: “NOTE DI CATECHISMO PER IGNORANTI COLTI”.

Dobbiamo ammetterlo: noi laici, magari bravissimi in tante altre discipline, in materie che riguradano lo spirito ed il nostro definitivo destino, ignoranti lo siamo un po’ tutti. E non ci fa onore.

L’itinerario in compagnia del Card. Martini, suddiviso in sei tappe, può essere un’opportunità da non perdere per tentare umilmente di riempire le tante lacune.

01 – GUIDAMI SULLA VIA DELLA VITA

 - Carlo Maria Martini

 

Introduzione

Abbiamo invocato lo Spirito Santo e ora rivolgiamo la nostra preghiera alla Madonna:

  • «O Maria, noi ti ringraziamo perché è tuo dono se noi siamo qui riuniti.

  • Ti ringraziamo perché ci troviamo tutti insieme ad ascoltare, con te, Gesù.

  • Donaci di conoscerlo come tu lo conosci.

  • Donaci di saperlo pregare e ascoltare come tu lo preghi e lo ascolti.

  • Sorreggi i momenti facili e i momenti difficili delle nostre giornate e fa’ che le tentazioni non ci turbino e non ci spaventino.

  • Sii sempre vicina a ciascuno di noi nel giorno e nel la notte, in ogni istante della nostra vita.

  • Tu, sede della sapienza, prega per noi. Tu, aiuto dei cristiani, prega per noi. Tu, rifugio dei peccatori, prega per noi».

Il tema degli Esercizi

Sono molto contento di essere tra voi per trascorrere alcuni giorni di riflessione comune e di preghiera.

Ho pensato di parlarvi di Gesù perché credo sia questo il desiderio del Signore; più precisamente, della conoscenza di Gesù. Il suggerimento mi è venuto da un piccolo volume scritto dal teologo Hans Urs von Balthasar: «Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù?».

La domanda, a prima vista, potrebbe sembrare superflua, ma se ciascuno di noi si chiede: «Come mi conosce Gesù? Chi sono io per lui?» ci accorgiamo subito che occorre riflessione e approfondimento.

Ci potrà essere utile leggere il salmo 138 che inizia con un’affermazione: «Signore, tu mi scruti e mi conosci». Per questo vi consiglio di tenerlo presente in questi giorni.


Il tema dei nostri Esercizi vorrebbe quindi comprendere un interrogativo: «Gesù mi conosce?», e poi una risposta: «Tu mi ami e mi conosci».

 

 

Gli Esercizi spirituali sono un vero e proprio lavoro perché si tratta di «fare esercizio» personalmente, non di guardare un altro che si esercita o semplicemente di ascoltare un altro che parla.
Provate a pensare alla ginnastica: fare esercizio di ginnastica non significa guardare una partita di football, bensì fare degli esercizi ginnici.
In questi giorni voi dovrete fare un esercizio spirituale, un lavoro: il mio compito sarà soltanto quello di guidarvi. Volta per volta vi darò una traccia che comprenderà tre momenti. Enuncerò il titolo della singola meditazione e poi:

1) vi insegnerò a raccogliere i testi del Vangelo o della Scrittura;

2) vi spiegherò come capirli;

3) vi farò vedere come pregarli.

Questi tre momenti dovrete ripeterli per conto vostro, ma non sarà difficile perché cercherò di offrirvi degli esempi: lavorerete dunque sul titolo che vi darò ad ogni meditazione raccogliendo i testi, sforzandovi di capirli e di pregare su di essi.

Comunione e comunicazione

Sono venuto non solo per aiutarvi a riflettere, ma per pregare e per stare con voi. È la cosa più importante per il Vescovo vivere un momento di comunione, sia pregando in comune sia facendo silenzio. Perché anche nel mio silenzio pregherò con voi.

Tuttavia ho previsto un incontro con le varie classi per potervi anzitutto ascoltare. In questi incontri vorrei che ciascuno riuscisse ad esprimere quelle domande o quelle riflessioni che nascono dal lavoro fatto durante la giornata, e che riuscisse a esprimerle con libertà e tranquillità.

Naturalmente potrete anche scrivermi parlandomi di voi o di ciò che emerge dagli Esercizi. Quando non si tratta di cose strettamente personali risponderò in pubblico. Infine, nei limiti consentiti dal tempo, potrò ricevere chi avesse veramente bisogno di un colloquio privato.

Vorrei però sottolineare l’importanza della coscienza di comunione: soprattutto nella preghiera dobbiamo avere la certezza di essere una sola cosa e dobbiamo pregare come se fossimo una persona sola davanti al Signore.

 

 

Per introdurci alla meditazione di domani leggiamo ora quel salmo 138 che ci spiega come Dio ci conosce.

Dapprima lo leggerò io e voi seguirete il testo (tralascerò i versetti 19-22).

Quando avrò terminato, voi farete l’esercizio di sottolineare con la penna tutti i verbi che parlano del come Dio ci conosce: ad esempio, va sottolineato mi scruti, mi conosci, tu sai.

Dopo un momento di silenzio, ciascuno dirà ad alta voce i verbi che ha segnato. Concluderemo rileggendo insieme il salmo lentamente, in preghiera.

(Pausa di silenzio)

ARCIVESCOVO: Ho già ripetuto i primi tre verbi. Cosa viene adesso?

RAGAZZO: «Penetri da lontano i miei pensieri».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Come dici tu?

RAGAZZO: «Ti sono già note le mie vie… Già le conosciMi circondi».

ARCIVESCOVO: Sì, anche «mi circondi» è un modo di conoscere. E tu?

RAGAZZO: «Poni su di me la tua mano».

ARCIVESCOVO: Bene, e poi tu hai segnato: «Mi guida la tua mano». Questo guidare è un conoscere di Dio. Mi guida perché mi conosce. Anche «mi afferra» è un’altra metafora per indicare la conoscenza che il Signore ha di me. La stessa espressione: «Mi hai creato» significa che Dio mi conosce come colui che mi sta facendo. Tu cosa hai detto?

RAGAZZO: «Hai tessuto».

ARCIVESCOVO: Sì, il Signore ci conosce come un tessitore conosce il suo tessuto. Non avete sottolineato, al v. 14: «Ti lodo perché mi hai fatto»? È la conoscenza attiva di Dio. È più facile che venga all’occhio il verbo che viene dopo: «Mi conosci fino in fondo». E poi?

RAGAZZO: «Non ti erano nascoste».

ARCIVESCOVO: Qui la conoscenza di Dio è espressa in maniera negativa. Possiamo anche segnare: «Mi hanno visto i tuoi occhi». Cosa c’è nella riga seguente?

RAGAZZO: «Era scritto».

ARCIVESCOVO: È un altro modo di conoscere, cioè la mia vita, le mie cose sono scritte in Dio. Adesso dovete passare al versetto 23.

RAGAZZO: «Tu scrutami… conosci».

ARCIVESCOVO: Bravissimo! Prima però metterei: «Provami» perché il Signore, provandomi, mi conosce, mi mette alla prova e mi entra dentro. Poi c’è: «Vedi», Dio vede e, quindi, «guidami».

Forse non pensavamo che il salmo 138 potesse esprimere così intensamente la conoscenza di Dio verso di noi: è un conoscere, uno scrutare, un penetrare, un esplorare, un comprendere, un circondare, un mettere sopra la mano, un far riposare la mano sul capo, un afferrare. I verbi attivi parlano di plasmare, creare, tessere, ricamare (nel testo ebraico il verbo è appunto ricamare, anche se in italiano è tradotto con tessere), fare, vedere, provare, guidare.

Il salmo ci offre l’immagine di tutto quello che cercheremo di dire in questi giorni, per capire come Gesù mi conosce. Mi conosce non come uno che da lontano guarda col binocolo! Mi conosce perché opera in me, mi è vicino, è dentro di me, mi fa, mi plasma, mi costruisce.

Se il salmi sta che non conosceva ancora Gesù poteva già indicare, con tanta ricchezza di esempi, di metafore, di similitudini, che cosa è la conoscenza che Dio ha dell’uomo, che Dio ha di me, quante cose potremmo dire sul modo in cui Gesù mi conosce!

Ora, per concludere, rileggeremo il salmo pregando, cioè parlando con Dio, rivolgendoci a Gesù eucaristico e quindi guardando il tabernacolo. Lo leggeremo in piedi, che è una posizione di preghiera, lasciando che il respiro accompagni il momento della preghiera e, più lentamente, la pausa di silenzio.

Pronunciando il pronome «Tu» pensiamo che è il «tu» di Gesù: è Gesù che mi scruta e mi conosce, e desideriamo che questi giorni si riempiano di stupore e di meraviglia di fronte alla scoperta del come lui ci ama.

È importante sapere che Gesù mi conosce?

Qualcuno potrebbe chiedersi se è davvero importante conoscere il modo in cui Gesù ci conosce. È una cosa che aiuta nella vita, che serve?

Vorrei rispondere a questa possibile domanda con le parole che Gesù, nel vangelo secondo Giovanni, rivolge alla samaritana: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: Dammi da bere!, tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva!» (Gv 4, 10).

Se noi conoscessimo il dono di Dio e chi è Gesù che ci parla, la nostra vita sarebbe completamente diversa. Senza questa conoscenza di Gesù la nostra vita è fiacca, si trascina. Quando, ad esempio, ci sentiamo privi di volontà, di entusiasmo, oppure andiamo avanti per alti e bassi, significa che non abbiamo la conoscenza di Gesù o che si è sfocata. Quando in una parrocchia c’è grigiore, stanchezza, mancanza di gioia, i giovani si lamentano e sono scontenti, la gente frequenta poco la chiesa, possiamo dire: «Qui non c’è conoscenza di Gesù». Se poi il grigiore e la fiacchezza dominassero una classe, un seminario, rivelando una poca conoscenza di Gesù, la vita diventerebbe pesante, per non dire impossibile.

Per quanto riguarda voi, credo che ciascuno, se non avesse questa conoscenza di Gesù, potrebbe dire: «Il mio futuro è incerto e buio, vorrei sapere ma non so se Gesù mi chiama davvero, non so come fare a capire se sono chiamato».

Se non ho la conoscenza di Gesù, le domande che mi pongo restano confuse e senza risposta.

Già san Paolo diceva che la conoscenza di Gesù è così importante da far dimenticare tutto il resto: «Quello che poteva essere per me un guadagno, tutto ciò che mi dava successo, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù mio Signore per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,7-8).

Sono parole fortissime, con le quali l’Apostolo dice: «Se ho la conoscenza di Gesù non mi importa più niente del resto, mi sento pieno dentro di me».

È quindi fondamentale per la nostra vita la conoscenza di Gesù di cui parleremo in questi giorni, e dobbiamo insistere nella preghiera: «O Gesù, fa’ che io ti conosca, fa’ che ti conosca come mi conosci tu, fa’ che io conosca come tu mi conosci!».

Metodo degli Esercizi

 

 

VITA DA LAICI “CHRISTIFIDELES” – Fatebenefratelli – A cura di Angulo

Posted on Aprile 7th, 2009 di Angelo |

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I religiosi eletti nel LXVI Capirolo Generale alla guida dell’Ordine F.B.F.

 

REVISIONE DEGLI STATUTI GENERALI

Madrid, Mercoledì 3 settembre 2008

Il LXVI Capitolo Generale dell’Ordine, celebrato a Roma nell’ottobre 2006, ha approvato la proposta di creare una commissione per la revisione degli Statuti Generali e dei punti delle Costituzioni che ne conseguono.

Fra Jesús Etayo, Consigliere Generale, ha presentato la prima stesura della revisione degli Statuti, frutto del lavoro della commissione istituita nel 2007, un tema che sarà affrontato in tutte le Conferenze Regionali. Ha poi illustrato i criteri seguiti per il lavoro che ha portato alla stesura del documento, e che tra gli altri sono stati: gli Statuti devono raccogliere norme generali, aperte e universali, che devono essere verificate e basate su fonti proprie e della Chiesa, i Collaboratori come parte integrante della famiglia ospedaliera, specialmente per quanto si riferisce alla missione dell’Ordine, la dimensione universale dell’Ordine, l’esperienza di altri istituti, la partecipazione dei Confratelli e l’incorporazione dei nostri documenti più recenti, come la Carta d’Identità, il libro sulla Spiritualità, le Dichiarazioni dei Capitoli Generali, il Progetto Formativo dei Fatebenefratelli e lo studio sullo Stato della Formazione nell’Ordine.

Ha poi continuato con la struttura degli Statuti, che si compone di un’introduzione e sei capitoli: Consacrazione, Collaboratori, Comunità, Formazione, Governo e Fedeltà alla nostra vocazione ospedaliera. Ha concluso con la spiegazione dei cambiamenti proposti e il lavoro di gruppo per l’esame e gli apporti del caso.

Il pomeriggio è stato dedicato ad una visita turistica alla città di Madrid, che dista circa 60 chilometri da Los Molinos, e la giornata si è conclusa con una cena tipica e uno spettacolo di musica e di flamenco. 

I Christifideles Laici, come ora vengono chiamati i batezzati che non sono nè sacerdoti , nè religiosi, vivono da duemila anni  nella posizione equivoca di chi ha la consapevolezzasa di non essere “né carne né pesce”.

 Le ragioni storiche sono infinite, ma il passaggio ad una nuova consapevolezza non è né facile né imminente per il perdurare di pregiudizi, presenti a tutti i livelli e superabili solo attraverso la frequentazione reciproca e la mediazione della Parola di Dio.

Quello di seguito non è altro che una raccolta di punti di riflessione che andrebbero portati avanti INSIEME: RELIGIOSI E LAICI. 

 

SPUNTI DI REVISIONE STATUTI GENERALI FBF 2008

PREMESSA

Il libretto degli  “Statuti Generali” è uno dei tanti che, forse letto per intero appena uscito o magari anche solo sbirciato, finisce in uno scaffale e vi resta per anni, nuovo di zecca.  Il fatto che non interessi più di tanto, deve celare una ragione che qui si vorrebbe smascherare: forse un certo modo di dire cose importanti ma con distacco burocratico. Se gli Statuti appaiono un codice di norme più che una lettera d’amore che, di tanto in tanto,  si riprende volentieri in mano perché parla l’Amato ed è coinvolgente e passionale, l’interesse ovviamente vien meno. 

Il nostro Santo Padre Agostino, Vescovo d’Ippona e dottore della Chiesa,  in una preghiera , come del resto anche nella Regola, ci ricorda il movente gioioso della sequela: “Signore, rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, da veri innamorati della bellezza spirituale, rapiti dal profumo di Cristo che esala da una vita di conversione al bene, stabiliti non come schiavi sotto una legge, ma come uomini liberi guidati dalla grazia”.

Questo lavoro è stato costruito  a più mani e chi ne è interessato e lo condivide, non ha che da sottoscriverlo. Che, se altri hanno fatto di meglio, saremo i primi a scartare questa proposta e ad aderirvi gioiosamente, perché grande è il Signore.

In un primo momento si era tentato di rispondere punto per punto alla Bozza Statuti Generali 2008, come da istruzioni. Ma subito ci si è resi conto che i ritocchi avrebbero solo guastato la Bozza che ha una sua logica e regge su uno schema di fondo. Le varianti avrebbero finito per stravolgere più che migliorare il documento.  Ed è proprio su tale impostazione che è subito nato il disaccordo. Disaccordo che non è tanto nelle norme dettagliate su una questione o su un’altra, di carattere squisitamente giuridico-regolamentare,  ma sull’impostazione di fondo, la stessa della precedente edizione.

Dopo ripetute letture, la convinzione maturata è che i nuovi Statuti nascono vecchi e non si adeguano sufficientemente all’evolversi rapido delle situazioni. Le ragioni sono molteplici  ma le maggiori criticità si notano proprio in quel “processo di collaborazione e di integrazione istituzionale con i laici “che, partendo da   equivoci di fondo, è solo generatore di contraddizioni e difficoltà applicative.

Sull’identità dei laici bisogna fare chiarezza e non bisogna emarginarli. Per farlo, non mancano i pretesti, non sempre infondati: non sono preparati, hanno una debolezza d’identità vocazionale, ecc… Fosse davvero così, sarebbe un motivo in più per concentrare gli sforzi onde promuovere concretamente la loro maturazione. Mantenere lo status quo, significa rinunciare al mandato che ci affida la Chiesa, voce dello Spirito Santo. Le  generiche buone intenzioni non bastano. Approvare uno Statuto che non si sa fino a che punto sia condiviso da religiosi e laici – almeno nella Provincia Lombardo-Veneta -  e, successivamente, renderlo esecutivo, è quanto di meno auspicabile, in un contesto dai sensibilissimi nervi scoperti. Se dovesse accadere, rispecchierebbe una mentalità che stenta a morire: quella di calare le cose dall’alto, senza farle maturare a livello di base. In altre parole: la regola nasce a tavolino. Ad altri tocca viverla e realizzarla. Si è già verificato mille volte e non funziona.

A 20 anni dal Convegno di Brescia “RELIGIOSI E LAICI INSIEME PER SERVIRE”, momento indubbiamente Pentecostale, s’è perso il gusto di guardare il mondo, le persone, la vita, il lavoro, il denaro, la missione, l’impegno culturale e politico, ossia la Dottrina sociale della Chiesa, che è un guardare la realtà con lo sguardo di Cristo, alla luce del Vangelo. Il “dialogo” pluridirezionale sembra essersi spento e il fuoco, se la legna è umida, non s’accende.

Partendo da questa premessa, si è ritenuto di suggerire pochi punti chiave, da ribadire in premessa, perché ritenuti fondamentali e determinati il seguito. Essi hanno uno scopo propedeutico ed una intrinseca forza pedagogica propositiva che viene dalla Parola, la sola capace di suscitare le novità dello Spirito, la fantasia della carità e di riscaldare il cuore di noi discepoli, per certi versi, molto simile a quello dei due avviliti di Emmaus.

 Pertanto, se le Commissioni lo riterranno, non avranno che da schematizzare le parti sviluppate, focalizzando i punti che contraddistinguono questo lavoro, incompleto per ragioni di tempo, ma sufficientemente indicativo dal punto di vista metodologico:

  1. 1.     L’Introduzione… che parte con la benedizione di San Giovanni di Dio e l’invocazione della Trinità Santissima per il dono della saggezza.
  2. 2.     Le pagine bibliche dimenticate
  3. 3.     Dove sono, Signore? …L’interrogativo di  Giacobbe e di Giovanni di Dio, due smarriti in un tempo che assomiglia al nostro.
  4. 4.    La strada…
  5. 5.     Il Tempo  -  Kairòs, il tempo favorevole
  6. 6.    Il Volto nei volti…     
  7. 7.    La Grazia
  8. 8.     Lo Spirito di Verità
  9. 9.     I Laici Christifideles…   con particolare riguardo alla donna.

10.

ARGOMENTI CHE DOVREBBERO FIGURARE NEGLI STATUTI

La Chiesa del Concilio Vaticano II indica tre grandi prospettive vocazionali per l’unica missione:

1.     la ministerialità dei laici cristiani, i quali, pur coscienti dell’indole secolare della propria missione sono disposti alla testimonianza del servizio nella Chiesa;

2.     la ministerialità dei consacrati, chiamati al carisma di una “vita-segno” del Cristo vergine, povero, obbediente e accogliente;

3.     la ministerialità dei presbiteri, “ripresentazione sacramentale” del Cristo pastore e capo della sua Chiesa, nonché la ministerialità dei diaconi permanenti, coniugati compresi, segni della pluriforme diaconia di Cristo.

Ne consegue che, sia l’Ordine che la Provincia, devono assumere dei connotati ben visibili:

 4.     Una Provincia in ascolto, che colloca la Parola al centro della sua programmazione. L’ascolto si tramuta in servizio: “Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quello dell’ascolto. Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore” (D. Bonhoeffer).

E’ un’amara constatazione: davanti al Testo Sacro si può restare inerti e muti o per indifferenza o per impreparazione.

In questo modo tante potenzialità contenute nelle Scritture, che sarebbero di speranza per il contesto in cui operiamo, rimangono inesplorate e improduttive. Questo è un buon motivo per incoraggiare ad acculturarsi. Qui, a tal proposito, va inserito il paragrafo 8 della Dei Verbum. 

 5.     Una Provincia che si colloca in stato di missione per promuovere le menzionate tre prospettive vocazionali. I diaconato permanente di laici coniugati sono una possibilità da prendere in seria considerazione. Lo stesso dicasi per l’”ordo virginum”, tornato in auge dopo il concilio e da incrementare collaborando con il Vescovo nella Chiesa locale. Sono ministeri che possono avere una ricaduta benefica sui Centri di assistenza.

6.     Un osservatorio Provinciale  “caritas” permanente, in contatto con le caritas delle diocesi dove si è presenti. E’ lì che si percepisce il polso della Chiesa locale we del Territorio: l’ emarginazione, il disagio psichico, i malati che vivono a domicilio nell’anonimato…

7.     Un “Sinodo” decennale della Provincia,  syn (che significa: insieme),  odòs (che significa: cammino), potrebbe essere un modo per sentirsi Chiesa viva, in stato di missione. Un tale organismo, farebbe capire  immediatamente che il sinodo è un evento che ha il preciso scopo di permettere una partecipazione ampia di tutte le componenti della Famiglia Ospedaliera con le componenti ecclesiali e sociali dei  territori interessati. Attraverso il Sinodo, cioè, il “cammino percorso insieme”,  si potrebbe dar vita ad uno “Statuto Provinciale” che si  ispiri a quello dell’Ordine ma lo adegui alle realtà locali. Un modo di partecipazione plenaria statuitaria, periodica e prestabilita, (possibilmente subito dopo il Convegno Ecclesiale Nazionale CEI), per verificare lo stato di salute della Comunità Terapeutica e del rapporto Chiesa locale -Territorio.

8.      Il genio poliforme della donna: dimensione interiore e linguaggio della tenerezza. Una ricchezza enorme di cui dispone la Provincia e che magari non sa apprezzare a sufficienza. La donna, come Maria a Cana – bisogna scriverlo negli Statuti – restando talora nelle retrovie del silenzio, può sdrammatizzare scontri, tessere comunione, aiutare le persone a superare i guadi del disagio, illuminare decisioni più avvedute. La donna consacrata non è da meno: essa sa disegnare una sorprendente geografia della carità. Più ore di presenza di suore nei centri, più fermento della pasta, più carità in espansione. Facciamo parlare le donne consacrate. Quelle preparate a farlo non mancano.

9.     Aprire a sacerdoti, religiosi e laici esterni: sono queste le forze capaci di contagio evangelico e di sostegno nel momento di debolezza diffusa che sperimentiamo. Noi siamo Chiesa ma la Chiesa è anche per noi. E  dobbiamo umilmente lasciarci soccorrere e curare nel momento della fragilità.

10. Apprendere e sviluppare la mentalità di una nuova  “Economia di Comunione”. Discorso difficile ma che va iniziato perché il mondo è già su un’altra rotta.

11. Contatto mensile con i Centri per mezzo di una “équipe” volante che si sposta, fornisce linee per un sentire comune nella Provincia, crea comunione,  raccoglie le criticità locali, mantiene i contatti e stimola all’unità in una gioiosa carità.

…. Ecc…

 

STATUTI GENERALI ORDINE OSPEDALIERO DI SAN GIOVANNI DI DIO

BOZZA STATUTI 2008INTRODUZIONE Siamo un Istituto di fratelli approvato dalla Chiesa come un Ordine Religioso per vivere e testimoniare il carisma dell’ospitalità. La nostra missione consiste nel manifestare la misericordia di Dio mediante il servizio ai poveri, ai malati e ai bisognosi.. Esistiamo per continuare l’opera iniziata da San Giovanni di Dio a Granada in Spagna nel sedicesimo secolo. La nostra identità di fratelli consacrati nell’ospitalità ci impegna ad incoraggiare, favorire e creare legami di fraternità con tutti coloro che desidera unirsi a noi per condividere la nostra spiritualità, il carisma e/o la missione come volontari, professionisti e benefattori. NUOVA PROPOSTA 2008INTRODUZIONEQuesto  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

   
   
   
Criterio abbandonato  

 INTRODUZIONE  

Questo  aggiornamento degli Statuti Generali ha preso forma “nel nome  di nostro Signore Gesù Cristo e di nostra Signora la Vergine Maria sempre intatta. Dio prima di tutto e sopra tutte le cose del mondo. Amen Gesù” (Lett. S.Giovanni di Dio)

Ti chiediamo, Padre, per la morte del tuo Figlio sulla croce, di donarci il tuo Santo Spirito perché apra il nostro cuore alla conoscenza della tua Parola.

Donaci di non subire questa nuova esperienza che siamo chiamati a sperimentare nell’Ordine ma di viverla con la pazienza, minuto per minuto, e la certezza che tu ci conduci anche attraverso i momenti di silenzio, di aridità, di fatica, di deserto, perché tu sei più grande di noi e il nostro cuore trova soltanto in te il suo riposo. AMEN

La tentazione ricorrente nella vita consacrata postconciliare è quella di chiederci che cosa dobbiamo fare e di mettere insieme una lista  di impegni, di propositi o elencare dei campi in cui metterci ad operare, dimenticando che la domanda vera cui tentare una risposta è un’altra: a quali condizioni c’è per la vita consacrata  un futuro carico d’eternità.

“…voi avete il compito di invitare nuovamente gli uomini e le donne del nostro tempo a guardare in alto, a non farsi travolgere dalle cose di ogni giorno, ma a lasciarsi affascinare da Dio e dal Vangelo del suo Figlio. Non dimenticate che voi, in modo particolarissimo, potete e dovete dire non solo che siete di Cristo, ma che «siete divenuti Cristo»!

A queste sollecitazioni della Chiesa, segue un incoraggiamento  da raccogliere:

“Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi.” (Vita consacrata.110)

L’impegno post conciliare dev’essere coronato e rafforzato da un nuovo impeto (13). Ma se la rivitalizzazione passa attraverso l’intraprendenza, l’inventiva e la santità dei Fondatori (37), l’audacia e la creatività scaturiscono dalla familiarità con la pagina evangelica, molto pragmatica:

 “Gesù disse loro anche questa parabola: “Nessuno strappa un pezzo di stoffa da un vestito nuovo per metterlo su un vestito vecchio, altrimenti si trova con il vestito nuovo rovinato, mentre il pezzo preso dal vestito nuovo non si adatta al vestito vecchio.

E nessuno mette del vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino li fa scoppiare: così il vino esce fuori e gli otri vanno perduti. Invece, per vino nuovo ci vogliono otri nuovi. Chi beve vino vecchio non vuole vino nuovo. Dice infatti: quello vecchio è migliore“. (Lc 5, 36-39)

Se il Concilio Vaticano II è nuova Pentecoste venuta a ravvivare lo spirito, la nostra presa di coscienza è di sentirci coinvolti  ora  nel ricreare  generosamente strutture, metodi e prospettiva affinché il punto di convergenza sia lo Spirito. Se le strutture in cui operiamo non sono carismatiche, evangelizzatrici, fraterne, semplici, comunicative, chiare, trasparenti…vuol dire che, al di là delle buone intenzioni e della generosità personale, esiste qualcosa che non va.

San Giovanni di Dio a parte, nel passato abbiamo avuto singolari figure di innovatori. Due per tutte:

  • il Padre Alfieri, per lunghi anni Priore Generale dell’Ordine,

  • San Benedetto Menni, restauratore e fondatore.

 Dai loro scritti e dalla loro esperienza dobbiamo attingere l’ardore “paolino” che li ha animati: “Guai a me se non evangelizzo” (1 Cor 9,16).   

La rivitalizzazione di un orto passa attraverso due fasi principali:

  • la bonifica del terreno

  • la semina

Se è vero che  le strutture si rinnovano attraverso architetti ed ingegneri, a noi vengono chiesti sapienza,vigilanza e discernimento:

“Se uno di voi decide di costruire una casa, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare la spesa per vedere se ha soldi abbastanza per portare a termine i lavori. Altrimenti, se getta le fondamenta e non è in grado di portare a termine i lavori, la gente vedrà e comincerà a ridere di lui e dirà: “Quest’uomo ha cominciato a costruire e non è stato capace di portare a termine i lavori”.
“Facciamo un altro caso: se un re va in guerra contro un altro re, che cosa fa prima di tutto? Si mette a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila, non vi pare?2Se vede che non è possibile, allora manda dei messaggeri incontro al nemico; e mentre il nemico si trova ancora lontano gli fa chiedere quali sono le condizioni per la pace. (Lc 14, 28-32) 

A rinnovare le persone è la semina:

  • la riscoperta personale della Bibbia (quotidiana lectio divina),

  • la vicinanza diretta, fisica,  ai poveri ed ai malati,

  • il ritorno costante alle fonti dell’Ordine,

  • l’apertura mentale che avviene con la fatica dello studio ed il contatto con le scuole del sapere umano e teologico,

  • il contatto con la Chiesa locale, i suoi giovani, i suoi malati (il frate che porta l’eucaristia a domicilio),

  • la presenza nell’Università

  • la promozione del Centro di ascolto e di condivisione (caritas)

 

LE PAGINE DIMENTICATE

In quel tempo Gesù disse: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i ricchi vicini, perché anch’essi non ti invitino a loro volta e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando dài un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

Gesù si rivolge al fariseo che l’aveva accolto in casa e lo esorta ad invitare, le prossime volte, coloro che non possono dargli una ricompensa. Ancora una volta rovescia completamente le regole abituali di questo mondo.

Alla cura meticolosa con cui si scelgono gli invitati di riguardo, Gesù contrappone la larghezza e la generosità nell’invitare coloro che non possono ricambiare, ed elenca poveri, ciechi, storpi e zoppi. Tutti costoro erano esclusi, ma Gesù li rende partecipi del banchetto che si deve preparare.

È una concezione nuova dei rapporti tra gli uomini che Gesù stesso vive per primo: le nostre relazioni vanno fondate non sulla reciprocità ma sulla totale gratuità, sull’amore unilaterale, appunto com’è l’amore di Dio che abbraccia tutti e particolarmente i poveri.

E la felicità, contrariamente a quanto si pensa ordinariamente, sta proprio nell’allargare il banchetto della vita a tutti gli esclusi senza pretendere una ricompensa. La ricompensa vera, infatti, è poter lavorare per questo.

Peraltro, solo in questa prospettiva si costruisce un mondo su basi solide e pacifiche. L’allargarsi della distanza tra chi sta alla tavola della vita e chi ne è escluso, mina alle radici la pace tra i popoli. Il messaggio del Vangelo è esattamente il contrario. Ma è un’altruità che salva il mondo dal cadere nel baratro della violenza.

Siccome molta gente andava con Gesù, egli si voltò e disse: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.

Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda un’ambasceria per la pace. Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.  

Gesù, dopo una lunga sosta nella casa di uno dei capi dei farisei, riprende il cammino verso Gerusalemme. Molta folla lo segue, nota l’evangelista. L’entusiasmo di quelli che lo seguono è davvero sorprendente. Ed è comprensibile: come restare affascinati da un uomo così buono che cercava in ogni modo di consolare e di confortare tutti e particolarmente chi aveva problemi e bisogno di guarigione?

Gesù, di fronte a questa folla che gli andava dietro, sente però l’esigenza di chiarire cosa significa seguirlo, cosa significa essere suo discepolo.

Ne ha già parlato precedentemente quando ha detto: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso” (9,23). Tornarci sopra sta a dire l’importanza che egli attribuisce alla scelta della sequela. Gesù chiede un legame esclusivo con lui, più forte di quello che si ha con la propria famiglia.

 L’evangelista Luca fa un lungo elenco di persone che non debbono essere amate più di lui. Può suonare strano l’elenco. Ma è assolutamente chiaro che la scelta di seguire Gesù viene prima di ogni affetto e di ogni affare. E’ la scelta più alta che l’uomo è chiamato a compiere.

 Ed è in tale contesto che va compresa la parola “odiare”, ossia non preferire nessun altro.

La scelta di seguire Gesù in maniera così radicale comporta evidentemente tagli e divisioni da fare, a partire dall’interno del cuore di ciascuno. L’amore esclusivo per Gesù è il fondamento della vita del discepolo.

Se non c’è questo amore, che si esprime appunto nel seguirlo, nell’ascoltarlo, nel mettere in pratica il Vangelo, è come costruire una torre (la vita) senza fondamenta o come andare in battaglia senza un esercito adeguato. L’amore per Gesù è la sostanza del Vangelo ed è anche ciò che i discepoli debbono testimoniare al mondo. Questo amore è il sale della vita.

DOVE SONO, SIGNORE?

Per un certo verso, Giacobbe e Giovanni di Dio si assomigliano. Entrambi sono dei viandanti sbandati,  hanno vissuto una situazione di smarrimento e di inquietudine, senza più riferimenti certi sui quali fondare il proprio cammino nella vita. Entrambi sono un po’ il simbolo dell’uomo fuggiasco, che non sa dove va e si smarrisce nell’oscurità della notte. Ma che Dio alla fine sottrae all’abbandono ed accompagna verso il destino che ha loro preparato.

Racconta il Libro della Genesi che “10Giacobbe partì da Bersabea e si avviò verso Carran. Capitò in un posto dove passò la notte perché il sole era già tramontato. Li prese una pietra, se la pose sotto il capo come guanciale e si coricò. Fece un sogno: una scala poggiava a terra e la sua cima raggiungeva il cielo; su di essa salivano e  scendevano angeli di Dio. Il Signore gli stava  dinanzi e gli diceva:

 “Io sono il Signore,
il Dio di Abramo e di Isacco.
La terra sulla quale sei coricato,
la darò a te e ai tuoi discendenti:
14essi saranno innumerevoli,
come i granelli di polvere della terra.
Si estenderanno ovunque:
a oriente e a occidente,
a settentrione e a mezzogiorno;
e per mezzo tuo e dei tuoi discendenti
io benedirò tutti i popoli della terra.
15Io sono con te,
ti proteggerò dovunque andrai,
poi ti ricondurrò in questa terra.
Non ti abbandonerò:
compirò tutto quel che ti ho promesso”.

16Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”.

 17Fu preso da spavento e disse: “Quant’è terribile questo luogo! Questa è certamente fa casa di Dio! Questa è la porta del cielo!”.

 E’ da questa consapevolezza  della presenza di Dio – non astratta ma concreta e personale – che deve iniziare anche il cammino dell’uomo che cerca Dio, sia esso consacrato o fedele laico, e che da Dio è già cercato.

Dio cerca per chiamare a sé, e questa chiamata è per tutti, indipendentemente da quello che uno è, da quello che uno fa, da dove uno viene.

Spesso, tuttavia, non ci si rende conto per che cosa si è chiamati, e – come i discepoli sulla barca che pescano tutta la notte “senza prendere nulla” (Gv 21,3) – si sperimenta l’amarezza della delusione e del fallimento, che tuttavia non è vana perché serve come salutare purificazione per capire, proprio attraverso l’insuccesso, che si è chiamati a qualcosa di più grande.

Come Giovanni di Dio, anche Giacobbe

  • non ha la protezione della madre,

  • ha dovuto abbandonare il padre senza poterlo nemmeno salutare,

  • è stato costretto a sottrarsi a tutte le sue coordinate visibili,

  • la sua situazione morale non è a posto,

  • il peccato gli rimorde la coscienza.

  • Finanziariamente ha perso tutto e cerca scampo senza poter contare sul denaro.

Persi i tre riferimenti che per la Bibbia  sono costitutivi dell’uomo:

  • Dio,

  • la famiglia,

  • le amicizie, la terra e il lavoro,

quasi un maledetto da Dio, si ritrova con la domanda bruciante nel cuore: dove sono? Quale sarà il mio avvenire?

  • l simboli: > il sogno di Giacobbe; > “Granada sarà la tua croce” –

  • la promessa: la discendenza, le nazioni… 

  • il risveglio: “Giacobbe si svegliò e disse: “Veramente in questo luogo c’è il Signore, e io non lo sapevo!”. (Gen 28,16).  Giovani di Dio: “Lo farò io un ospedale come lo voglio io!”

C’è la presa di coscienza, che per Giovanni all’Eremo dei Martiri, poi la scoperta straordinaria di chi si vede al centro delle coordinate di Dio e reinterpreta tutta la sua vita – l’essere solo in viaggio, ramingo e povero – ed in fine la luce che mette chiarezza nei pensieri e coraggio nell’azione.

Entrambi, Giacobbe e Giovanni di Dio, assumono una nuova umanità , una missione, un impegno di cammino che affronteranno fiduciosamente. Due testimoni che ci fanno scuola

LA STRADA

L’inizio del cammino.

Prima di mettersi in viaggio è fondamentale conoscere due cose:

  • la meta,

  • l’itinerario.

Gli Statuti Generali intendono rispondere a questa esigenza. Dovendo talora attraversare zone desertiche, è sconsigliabile procedere senza mappa, la guida, la bussola. Siamo eredi di una storia che inizia con il Libro della Genesi e termina con le parole dell’Apocalisse: Maràn Athà

Dove c’è l’assunzione piena e completa di una “passione per Dio e di una passione per l’uomo” del nostro tempo lì c’è “vita consacrata”.

Se l’espressione è comunemente intesa come una scelta nel seguire il Signore attraverso una “vocazione di particolare consacrazione a Lui”, essa non può essere più limitata alla vita religiosa strettamente intesa, ma pensando anche a tutte quelle forme di vita che vivono in maniera totale e radicale il discepolato del Signore nei vari ambiti ecclesiali. Dunque, “vita consacrata” si ha nel presbiterato come nella vita religiosa; nella vita monastica come in quella missionaria; o in tutte quelle particolari forme di consacrazione laicale, nelle quali il Sì al Signore è totale, pur esplicandosi in ambiti di vita anche diversificati, rispetto alle più conosciute e classiche forme della vita religiosa.

Il Signore apre tante “strade” all’uomo. Il cantore di questa topografia divina è il secondo Isaia che, proponendo un messaggio in un momento storicamente travagliato agli uomini del suo tempo, finisce per indicare anche a noi la strada: “Fra poco farò qualcosa di nuovo, anzi ho già cominciato, non ve ne accorgete? Costruisco una strada nel deserto, faccio scorrere fiumi nella steppa“. (Is 43,19) “Non soffriranno più la fame o la sete, né il sole, né il vento caldo del deserto li colpirà. Li condurrò con amore, li guiderò a fresche sorgenti” (Is 49, 10-11).

Il Profeta mette in guardia anche dalla troppo facile confusione tra le scelte e i cammini umani e i sentieri di Dio: “Cercate il Signore, ora che si fa trovare. Chiamatelo, adesso che è vicino. Chi è senza fede e senza legge cambi mentalità; chi è perverso rinunci alla sua malvagità! Tornate tutti al Signore ed egli avrà pietà di voi! Tornate al nostro Dio che perdona con larghezza! Dice il Signore: “I miei pensieri non sono come i vostri e le mie azioni sono diverse dalle vostre” (Is 55, 6-8).

Chiamati a sperimentare la profezia, se il nostro padre Abramo è per eccellenza l’uomo di fede che percorre le strade che Dio gli indica (Gn 12, 1-5), in San Giovanni di Dio, nostro fondatore, scorgiamo il discepolo del Signore che ci ha preceduti nella testimonianza della sequela. La sua esistenza così movimentata ed apparentemente inconcludente, evidenzia come come tutti gli itinerari umani possono essere strade del Signore se percorsi con Gesù che è la “via” (Gv 14,6) e esperienze mortificanti, come ad Emmaus, quando il Signore è recepito come un passante qualsiasi col quale sfogare le proprie frustrazioni e delusioni.

Già negli Atti degli Apostoli il cristianesimo stesso è qualificato come la “via” (At 9,2; 18,25; 24,25). Ciò significa allora che noi, consacrati o donne e uomini Christifideles laici, nella misura in cui siamo discepoli autentici del missionario di Granada perché attratti dal suo esempio e desiderosi di continuare l’opera da lui iniziata, siamo in realtà discepoli del Maestro Divino, Via che porta alla Verità, generatrice di Vita Eterna.

Il Padre dei poveri ha sperimentato la missione attraverso la via dell’ospitalità, la stessa percorsa da Abramo, da numerosi servi del Signore e, in modo mirabile dalla Vergine Maria, la “sempre intatta”.

Ed è nel suo incontro con Elisabetta, proprio perché si sente accolta dalla sua parente e avverte di essere capita nel suo intimo segreto, cioè nella sua maternità per opera dello Spirito Santo, che prorompe nel canto di gioia. Un inno che, se esalta l’opera di Dio nella storia della salvezza, è anche profezia. Stranamente la Madre di Dio, usa una serie di verbi al passato: “Grandi cose ha fatto l’Onnipotente, ha spiegato la potenza del suo braccio, ha rovesciato i potenti, ha disperso i superbi, ha innalzato gli umili, ha soccorso Israele”. Come può la Benedetta pronunciare queste parole quando ha appena cominciato a sperimentare la grandezza di Dio in lei? Se ancora molti superbi non sono stati dispersi, né potenti sono stati rovesciati dai troni, né affamati sono stati ricolmati di beni e Gesù stesso non ha ancora proclamato beati i poveri, su che cosa si fonda questa incrollabile certezza?

Maria non esita a proclamare eventi che in parte si devono ancora verificare perché mettendosi dalla parte di Dio, nella certezza della sua fede, vede già il compimento delle promesse messianiche. Infatti l’Apostolo Paolo scriverà alla comunità degli ebrei che la fede è un possedere già le cose che si sperano (Eb 11),

La piena di Grazia Maria pone anche noi, chiamati a realizzare la profezia, sulle orme di un “già e non ancora” che ci coinvolge nella dimensione del Regno.

Paolo, apostolo non per chiamata diretta ma per vocazione come noi, quando scrive ai fratelli Ebrei, è memore del comando del Signore:

“Andate…annunciate…guarite…”(Mt. 10, 1-ss).

 Nel vangelo di Matteo si legge che “1Gesù chiamò i suoi dodici discepoli e diede loro il potere di scacciare gli spiriti maligni, di guarire tutte le malattie e tutte le sofferenze.”

Fra le istruzioni che il Signore ha dato a coloro che considera “sale e luce del mondo“, c’è questa:

“7Lungo il cammino, annunziate che il regno di Dio è vicino. 8Guarite i malati, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, scacciate i demòni. Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente.

 9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Perché l’operaio ha diritto di ricevere quel che gli è necessario.”

Le raccomandazioni che Paolo rivolge ai fratelli cristiani di origine ebraica che si lasciavano prendere dalla nostalgia per il culto fastoso del tempio di Gerusalemme ed erano tentati di disertare le assemblee cristiane per ritornare all’ebraismo, rivolge un caldo invito alla perseveranza nella fede e nella vita cristiana. Esse rappresentano la traccia anche per le Fraternità di accoglienza che siamo chiamati a costruire nel mondo:

 “Continuate a volervi bene, come fratelli. Non dimenticate di ospitare volentieri chi viene da voi. Ci furono alcuni che, facendo così, senza saperlo ospitarono degl’angeli. Ricordatevi di quelli che sono in prigione, come se foste anche voi prigionieri con loro. Ricordate quelli che sono maltrattati, perché anche voi siete esseri umani”. (Eb 13,1,3).

L’Apostolo, nella medesima lettera, che dovrebbe essere parte integrante di questi Statuti, eco dello spirito di cui era animato San Giovanni di Dio, ai viandanti di oggi, servitori del Vangelo, aggiunge ancora alcune raccomandazioni importanti. Se a coloro che sono coniugati, pur essi mandati per la missione, egli rivolge un particolare monito: “Il matrimonio sia rispettato da tutti, e gli sposi siano fedeli (Eb 13, 4-8), a tutti, indistintamente, richiama la fedeltà di Dio:

“La vostra vita non sia dominata dal desiderio dei soldi. Contentatevi di quel che avete, perché Dio stesso ha detto nella Bibbia:

Non ti lascerò,
no“5n ti abbandonerò mai.
6E così anche noi possiamo dire con piena fiducia: Il Signore viene in mio aiuto,
non avrò paura.
Che cosa mi possono fare gli uomini?

7Ricordatevi di quelli che vi hanno guidati e vi hanno annunziato la parola di Dio. Pensate come sono vissuti e come sono morti, e imitate la loro fede. 8Gesù Cristo è sempre lo stesso, ieri, oggi e sempre. 9Non lasciatevi ingannare da dottrine diverse e strane. È bene che il nostro cuore sia fortificato dalla grazia di Dio e non da regole a proposito dei vari cibi: chi ubbidisce a quelle parole non ne ha mai avuto un vantaggio”.

Paolo suggerisce a tutti di vivere in stato di provvisorietà e lo motiva così: “14Perché noi non abbiamo quaggiù una città nella quale resteremo per sempre; noi cerchiamo la città che deve ancora venire. 15Per mezzo di Gesù, offriamo continuamente a Dio – come sacrificio – le nostre preghiere di lode, il frutto delle nostre labbra che cantano il suo nome.
16Non dimenticate di fare il bene e di mettere in comune ciò che avete. Perché sono questi i sacrifici che piacciono al Signore.
17Ubbidite a quelli che dirigono la comunità e siate sottomessi. Perché essi vegliano su di voi, come persone che dovranno rendere conto a Dio. Fate in modo che compiano il loro dovere con gioia; altrimenti lo faranno malvolentieri e non sarebbe un vantaggio nemmeno per voi.“

IL TEMPO

 Questo è il Kairòs di Dio, il tempo opportuno, favorevole, che ci è stato accordato. Non siamo chiamati ad esprimere un giudizio severo e distaccato sul mondo della salute ma piuttosto ad immettere nelle pieghe di tanti drammi la luce della Parola di Dio, il calore della carità e la testimonianza della sua misericordia: “Il signore è vicino a chi ha il cuore ferito” (Sal 34,19).

Questo è anche il tempo dell’attenzione di Maria, come a Cana: “non hanno più vino” (Gv 2,1-5).

Siamo chiamati a imitarla nel suo atteggiamento davanti al messaggero celeste, portavoce dello Spirito: ascolta, si scuote, interroga, si domanda.

A noi oggi è chiesto un atteggiamento dialogico, semplice, istintivo e insieme delicato, attento, perfettamente proporzionato alla situazione di un mondo nuovo, imprevisto, inedito.

Negativo sarebbe il passare dalla paura alla rigidità, alla pretesa di prove dall’alto, quasi non bastassero il numero di santi che ci sono stati inviati negli ultimi tempi.

Ma a farci del male potrebbe contribuire anche un eccessivo e sconsiderato ottimismo che banalizza i problemi e  minimizza le priorità da intraprendere.

Il distacco di Maria, attento e discreto, le permette di vedere ciò che nessuno di fatto vede e cioè che il vino  è terminato.

Maria è modello di attenzione al momento umano dell’esistenza, è attenta alle situazioni, alle persone e alle cose. Sono gli atteggiamenti che deve tenere chi è chiamato a portare il Vangelo in un mondo che cambia.

I VOLTO NEI VOLTI

Come cristiani ed a maggior ragione, come consacrati, siamo chiamati a rivivere la Passione di Cristo, nella nostra carne e nella nostra sofferenza personale, alla quale rimanda anche San Giovanni di Dio in una sua lettera alla Duchessa di Sessa:

“Quando vi trovate angustiata, ricorrete alla Passione di Gesù Cristo nostro Signore e alle sue preziose Piaghe, e sentirete grande consolazione; considerate tutta la sua vita: che cosa è stata se non fatiche, per darci l’esempio?…”(I lett. 10)

Se nel mistero e nel simbolo eucaristico la Chiesa rivive la Passione di Cristo, nel mistero pasquale entra nel dolore infinito del Crocifisso Risorto per l’uomo peccatore, in quella solidarietà che Gesù ha pagato a caro prezzo.

  • E’ la sola capace di offrire parole credibili di conversione e di riconciliazione;

  • la sola capace di calarsi nelle situazioni più aberranti dell’esistenza.

  • E’ solidarietà che non dice semplicemente parole formali o esteriori bensì testimonia la comunione obbediente, pur se sofferta, con Dio e un a profonda solidarietà con le più terribili sofferenze umane.

  • La più atroce delle sofferenze è quella del peccato, cioè della solitudine dell’uomo che si sente abbandonato da Dio perché ha tolto gli occhi da lui.

La contemplazione del Volto dolente del Signore del Venerdì Santo, ci mette in atteggiamento di Chiesa che non è atterrita e sommersa dalle miserie del genere umano perché sa che la croce di Cristo, posta al centro della liturgia e della vita, è capace di prendere su di sé tutto il dramma, il dolore, il peccato dei volti sfigurati dell’uomo.

E’ nella croce di Gesù che Dio stesso ci assicura che neppure la morte può fermare il suo amore e che non c’è situazione umana, per quanto drammatica e opaca, che possa rimanere estranea all’immenso abbraccio della croce. Del resto, questa è la stessa promessa di Gesù: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32)

Oggi la Passione di Cristo passa per le case di una moltitudine che soffre:

  • del disoccupato, di chi pensa all’avvenire con crescente timore,

  • del sequestrato atteso con ansia e afflizione,

  • della vittima di una violenza assurda e spietata.

  • Ma passa anche per le case degli anziani, spremuti delle loro energie e messi da parte, in solitudine, che sono in troppi a lamentare.

  • Passa per le case di coloro che attendono giustizia senza riuscire ad ottenerla,

  • di quanti, per un qualunque motivo, hanno dovuto, abbandonare una patria senza riuscire a trovarne una nuovo o a sentirsi accolti, persone che forse non hanno neppure una casa e stanno magari vicino a noi.

Il mistero della croce si rinnova in tutti coloro che si sentono esclusi e che la società fa sentire tali. A cominciare dai sofferenti psichici.

Accanto all’irrefrenabile ondata del marcato disagio psichico giovanile ed accanto agli handicappati, esistono coloro a cui vengono indicate vie d’uscita che sono soluzioni di morte: drogati, disadattati, carcerati che, anche nei luoghi che dovrebbero essere di espiazione ma pure di redenzione, rimangono vittime di un clima di violenza che in passato hanno o possono aver contribuito a creare.

Questa Passione e questa sofferenza passa, infine, per il cuore dei molti che pensano inutile la loro fedeltà ed incompreso e vano il sacrificio al dovere quotidiano e che di questo dovere cadono vittime.

Le Fraternità dei discepoli di Giovanni di Dio, sparse in ogni latitudine, potrebbero estendere l’elenco dei disagi che affliggono donne e uomini del nostro tempo.

Se la passione del Signore insegna ad accorgersi di chi soffre ed a soccorrerlo, sprona a credere che possiamo anche essere annunciatori dell’alba del giorno di Pasqua. Il sapere che Cristo non vuole avere oggi altre mani che le nostre per farsi carico dei fratelli, fa di noi non solo dei samaritani ma anche dei profeti anonimi, come Isaia, donne e uomini che possiedono uno spirito nuovo e sono chiamati a dire parole nuove perché

“4Dio, il Signore mi ha insegnato
le parole adatte
per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara
ad ascoltarlo,
come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna
ad ascoltarlo,
e io non gli resisto
né mi tiro indietro.
6 Ho offerto la schiena
a chi mi batteva,
la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto
agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi,
perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto,
rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso. (Is 9, 4-7).

La sofferenza del messaggero è quella che salva il popolo. La Buona Notizia che siamo chiamati a diffondere, ossia che “per le sue piaghe siamo stati guariti” (Is 53-5), non ci fa esitare perché ci riporta alla profezia del Magnificat: pur nell’apparente smentita della storia, mettendoci dalla parte di Dio, nella certezza della fede, come a Maria, ci è dato vede già il compimento.

 IL CUORE 

 “Adamo, dove sei?”, dove sei finito?, si domanda sbalordito Dio di fronte alla condizione di morte in cui l’uomo è caduto col peccato. 
E’ necessario partire da qui per capire l’iniziativa di salvezza che Dio attua per l’umanità; iniziando proprio da Maria, quale alba e primizia di un ricupero a quella dignità e destino che Lui stesso, Dio, si era proposto nel creare ogni uomo. 
Maria diviene allora la pagina biblica – scritta in una vita non a parole – nella quale leggere con speranza la nostra stessa vicenda di uomini redenti; cioè rileggere la proposta di Dio e la nostra risposta. 

 1) KECARITOMÈNE, PIENA DI GRAZIA    Quando l’angelo Gabriele giunge a Nazaret in casa di Maria, non la chiama per nome, ma “kecaritomène“, cioè “piena di grazia”, CARA A DIO, oggetto d’un amore personale, termine di un dono speciale.   Il nome proprio di Maria davanti a Dio è:  

  • “tutto mio dono – kecaritoméne”.

  • Ma anche tu allora, o uomo, chiunque tu sia, sei “kecaritomene”, sei CARO A DIO,

  • sei uscito dal suo cuore prima che dal ventre di tua madre,

  • sei amato da Lui “come se fossi l’unico” (sant’Agostino).

“Benedetto sia Dio – esclama san Paolo – Padre del nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo“.

Una benedizione che si concretizza in un progetto preciso: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo“. Anzi, “in lui siamo stati fatti anche eredi, perché fossimo a lode della sua gloria“.

 

Perché proprio questa è la soddisfazione più grande di Dio: averci partecipi di casa sua.
L’uomo stranamente schifa questo dono col dire di no a Dio:

  • “Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”; hai forse pensato di fare a meno di Me?

  • “Ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto“.

Quando si perde un padre, si trova un padrone: la padrona del mondo che è la morte, regalo del principe di questo mondo che è satana. -”Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe“; una drammatica lotta tra satana e l’umanità sconvolgerà tutta la storia dell’uomo: “tu le insidierai il calcagno”.  

Anche se le prospettive alla fine sono positive: “essa ti schiaccerà la testa“, l’umanità ne uscirà vittoriosa!

Nel più autentico frutto della stirpe umana, in Cristo, questa battaglia si farà vittoriosa; l’uomo sarà liberato dal peccato, dal male e dalla morte; sarà reso capace di resistere a satana per riconciliarsi con Dio; riavrà fiducia in Dio e ancora la partecipazione alla natura divina. Per la prima volta proprio in Maria l’uomo si sente – gratuitamente, per pura misericordia – chiamato ancora “kecaritoméne”, mio amato figlio, mio perdonato figlio, mia pecora smarrita che sono venuto a cercare, mio figlio prodigo che sono pronto a riaccogliere in casa con più festa di prima!  

Anche di Maria oggi è detto, come verità di fede, che è piena di grazia perché “preservata dal peccato ante previsa merita, cioè in previsione della croce di Cristo“. Immacolata non per merito suo, ma perché per prima – e per esprimere in modo vistoso la gratuità offerta poi a tutti – è stata preservata fin dal primo istante della sua vita, cioè dal concepimento, dall’onda del male (concepita immacolata, immacolata concezione).

In Maria leggiamo l’assoluta generosità e ospitalità di Dio che gioca sempre d’anticipo, prima cioè d’ogni nostro merito, d’ogni nostra stessa domanda. Dio ama sempre a credito.

 2) IO SONO LA SERVA DEL SIGNORE

Prima di partire da lei, l’angelo Gabriele raccoglie un SI’ che è condizione decisiva per l’opera restauratrice di Dio: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Lc 1,38). Alla gratuità del dono di Dio, Maria risponde con il SI’ della FEDE. 

Da “kecaritoméne” Maria diviene “credente”: “Beata te che hai creduto” (Lc 1,45), la chiamerà subito dopo la cugina Elisabetta. 

L’altra grandezza di Maria sta proprio nella sua risposta totale a Dio; dirà di lei sant’Agostino che “Maria è più grande per essere stata discepola di Gesù che non per essere sua madre“. Del resto un giorno Gesù disse così: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica” (Lc 11,27).

Ogni dono di Dio richiede una riconquista. “Il Signore che ha fatto te senza di te, non salverà te senza di te” (sant’Agostino). Dio stima troppo la nostra libertà, perché ci possa dare una salvezza senza la nostra collaborazione. Maria ha percorso il suo cammino di fede fino ai piedi della croce. A dire che anche la nostra fede si deve tradurre in opere quotidiane, in scelte coerenti, e in obbedienza d’amore a Dio, fatta anche di prove.  

E’ un SI’ faticoso da esprimere a Dio, dopo il no che diciamo nel peccato. E’ quello che noi chiamiamo: santificazione. Maria è immacolata anche perché non ha mai detto di no a Dio. 
Divenendo così il nostro modello e la nostra garanzia.  

Una creatura, corrispondendo pienamente al dono di Dio, ha realizzato in pieno il superamento del male e della morte. Questa è la formula vincente, questa è la partenza per ogni riforma della nostra storia di uomini inficiata di egoismo e divisione. “Dio ci ha scelti – dice Paolo – prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità“: immacolati perché diciamo di sì al Signore vivendo come Lui l’amore. 

 

VITA DA FRATE – Fatebenefratelli – a cura di Angulo

Posted on Aprile 1st, 2009 di Angelo |

 San Giovanni di Dio

L’immagine è volutamente sfuocata.

Mettila a fuoco

con la tua vita

 ”donata”

 Prometto

povertà, castità, obbedienza e ospitalità...

Così Dio mi aiuti e i suoi Santi Evangeli.

Nella tradizionale formula, colui che si consacrava a Dio era come se prendesse in prestito le sapienti parole di Sant’Agostino: “Signore, donami ciò che mi chiedi e comandami ciò che vuoi”.

La paura di darsi totalmente, veniva superata dall’aiuto promesso: “Sarò con voi fino alla fine…“. Un sostegno da subito già a portata di mano: i Santi Evangeli, la Parola di Dio, una Buona Notrizia ricevuta, una Buona Notizia da portare fino agli estremi confini della terra. 

Per essere discepoli di San Giovanni di Dio, non è essenziale l’ospedale dove operare ma il cuore trasformato in fornace ardente di carità, dono dello Spirito, per dire DIO al cuore del suo popolo:

  • “In realtà per me non c’è vita nella pratica della Legge.

  • Essa non mi riguarda più: ora vivo per Dio.

  • Sono stato crocifisso con Cristo.

  • Non son più io che vivo: è Cristo che vive in me.

  • La vita che ora vivo in questo mondo la vivo per la fede nel Figlio di Dio che mi ha amato e volle morire per me” (Gal 2, 19-20)

 Frati di Dio nella Chiesa per il mondo

Il fondatore dell’ordine dei Fatebenefratelli nasce nel 1495 a Montemor-o-Novo in Portogallo al tempo di Giovanni II, di Ferdinando e Isabella di Spagna e sotto il pontificato di Alessandro VI. L’anno della nascita è reso noto dallo storico Francesco de Castro, biografo del Santo.

VIDEO E DIAPOSITIVE:

PROVINCIA ROMANA:

PROVINCIA LOMBARDO-VENETA:

 

PADRE LEONE HABERSTROH S.V.D – Profilo spirituale di una grande guida illuminata – D. Pietro Brazzale

Posted on Luglio 16th, 2009 di Angelo |

padre-leoneCinquant’anni fa, nel 1959…

E in questo anno che Padre Leone viene trasferito a Padova. E’ ospite, con la comunità dei Padri Verbiti, in via San Massimo, presso i Padri Conventuali (in attesa della costruzione del nuovo collegio di via Forcellini, N. 172 che sarà prono nel 1961.

Di lui il Superiore Provinciale della Provincia Italiana, P. Francesco Sarego SVD, il 3 dicembre 1995, nel presentare il “PROFILO SPIRITUALE DI UNA GUIDA ILLUMINATA”, di D. Pietro Brazzale, così scriveva da Bolzano:

“La persona di P. Leone Habertroh

è ancora ricordata da molte persone specialmente a Padova, dove egli ha operato per oltre 25 anni.

Questo lavoro di DON Pietro Brazzale, Preside del Seminario Minore di Padova, vuole offrire una prima panoramica della personalità di P. Leone, come confessore, guida e come persona attenta ai movimenti dello Spirito..

Confidiamo che il progetto completo, di cui il presente “profilo” è solo una parte di una vera biografia, possa essere portato a termine al più presto. 

Questo libro viene presentato nella ricorrenza del decimo anniversario della morte di P. LeoneL’augurio è che quanti lo hanno conosciuto possano incontrare di nuovo la sua persona, attraverso queste righe e per quanti leggendole lo incontreranno pewr la prima volta, di essere incoraggiati a scoprire la presenza di Dio, resa palese tra gli uomini attraverso quanti, come P. Leone, hanno cercato Lui e dedicato la loro vita nell’aiutare i fratelli a fare ugualmente.” 

 

PREGHIERA

 per la sua glorificazione 

padre-leone

O Dio che in modo eminente

hai concesso al Tuo Servo P. Leone Haberstroh

di vivere le virtù della mitezza, dell’umiltù e della carità

e il dono di dare pace a molti cuori,

concedi a noi di seguire il suo esempio

e per sua intercessione

donaci le grazie di cui abbiamo bisogno.

A gloria della SS. Trinità

e per la glorificazione del Tuo Servo.

 

.Domenico di Bartolo - Cura e governo degli infermi (particolare).

 

Padre LEONE HABERSTROH:“amare, ecco la mia vita di cristiano”.

L’8 gennaio 2006, nella circostanza del 20° anniversario della morte di padre Leone Haberstroh, sacerdote missionario verbita – nato a Mariazell (Germania) il 24 giugno 1905 -, alcuni
“amici” della serva di Dio Maria Bolognesi si sono recati a Padova per partecipare alla S. Messa, celebrata nella Chiesa del “Santo Spirito” non solo per fare memoria di questo sacerdote santo ed illuminato, ma anche e soprattutto per ringraziare il Signore di averci donato la gioia di un incontro con una guida spirituale che ha accompagnato, con la preghiera e con
il consiglio, la nostra Associazione fin dal suo “nascere”.

Infatti, nell’immaginetta con preghiera per la sua glorificazione, contenente brevi cenni biografici, si legge che Padre Leone, nel corso della sua vita “si distinse per le sue doti di penetrazione spirituale e di guida sicura ed illuminata e per le grandi virtù che dimostrò nella sua intensa vita interiore e nel più generoso servizio al prossimo”.

Desiderando consegnare ai lettori di Finestre Aperte alcuni pensieri tolti dai suoi scritti, ci soffermiamo con tenerezza su quello in cui è riportata la seguente espressione “hai voluto chiamarmi a collaborare con te”: va da sé che il concetto di “chiamata” si innesta in modo meraviglioso sull’intera esistenza di Maria Bolognesi, di cui abbiamo fatto memoria in tante altre pagine del Periodico.

.

  • “Voglio essere cosciente della mia missione:con te, Gesù, in Te, devo redimere il mondo,nella misura in cui prego, opero e soffro per amore.

  • Unito a Te nella carità,ma solidale col mondo, devo e voglio cooperare alla redenzione, e sempre coopero alla redenzione, se in me vive la carità di Dio, se io compio con amore la volontà del Padre, a Tuo esempio, Gesù, là dove Egli mi ha messo, ed accetto ciò che mi capita di duro, di penoso, di mortificante.

  • Quale grande missione! L’accetto e Ti benedico, chè hai voluto chiamarmi a collaborare con Te.

  • Amare, ecco la mia vita di cristiano. Amare così da assumere nel mio spirito l’angoscia e il dolore di tutti”.

Croce ed Eucaristia

Posted on Luglio 28th, 2009 di silvia

Con gioia ho incontrato P.Leo H. anche qui.

Avrei volentieri scritto nello spazio a lui dedicato. Non sapendo se possibile, propongo qui, una sua “testimonianza” a me moltocara e preziosa. E’ parte di una sua lettera a me indirizzata a suo tempo: ne ha copia don Brazzale, perciò credo di non mancare di discrezione ma solo di rendere onore aDio e a P.Leo.

Questa lettera rispecchia senza esaurirlo, il suo pensiero eucaristico.

Carissima sorella,

……………………..ora provi la tua totale impotenza. E fa bene sperimentarla così profondamente. Accetta questa prova.

 

Ma poi ti ricordi che accanto a te sta Uno, pronto ad aiutarti: il divin Liberatore. Tutti i giorni noi diciamo assieme a Gesù: ” Prendete, mangiate, questo è il mio corpo,…questo è il mio sangue.”

E noi, cosa offriamo noi, insieme con Gesù, nella Messa? E appena usciti dalla Messa, ci diamo da fare per realizzare ciò che abbiamo detto, che realmente ci sforziamo, con tutti i nostri limiti, di offrire al nostro ambiente, il nostro “corpo” cioè il tempo, le energie,l’attenzione, in una parola la vita?

Gesù, dopo aver pronunciato quelle parole, poche ore dopo, diede veramente il suo corpo e il suo sangue sulla croce.

Diversamente, tutto resta parola vuota, anzi menzogna. Bisogna dunque che, dopo aver detto ai fratelli: ” Prendete, mangiate” , noi ci lasciamo veramente “mangiare” e ci lasciamo mangiare soprattutto da chi non lo fa con tutta la delicatezza ed il garbo che ci aspetteremmo.

Ognuno di noi ha attorno a sè dei denti acuminatiche lo macinano: sono critiche, contrasti, opposizioni nascoste e palesi, divergenze di vedute con chi ci sta attorno, diversità di carattere.Dovremmo essere perfino grati a quei fratelli o familiari che ci aiutano in questo modo; essi ci sono infinitamente più utili che non coloro che ci approvano e ci lusingano.

Proviamo a immaginare che cosa succederebbe se celebrassimo con questa partecipazione personale la Messa. Prendete…mangiate…Una madre di famiglia celebra così la Messa e poi va a casa e comincia la sua giornata fatta di mille piccole cose, apparentemente è cosa da niente quello che fa , ma è una Eucaristia insieme con Gesù.

Grazie all’Eucaristia, non ci sono più vite, azioni “inutili”. Tutto serve per lo scopo più sublime che ci sia: per essere un sacrificio vivente, un’Eucaristia insieme con Gesù.

Se vedi la tua penosa situazione in questo senso, tutto diventa sopportabile.
Non cesso di pregare per te in questo senso. Augurandoti ogni bene e grazia, benedico te e i tuoi cari e ti saluto con fraterno affetto.

di P.Leone Habestroh Padova,16 Agosto 80 –  Lettera a M. Silvia

 

 

NATURA E CULTURA ALL’ALBA DEL TERZO MILLENIO – Paola Ricci Sindoni

Posted on Luglio 13th, 2009 di Angelo |

NATURA E CULTURA

 

ALL’ALBA DEL TERZO MILLENNIO

 

Paola Ricci Sindoni

Biografia

Paola Ricci Sindoni è professore ordinario di Filosofia morale nella facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Messina. E’ anche titolare della cattedra di Etica e grandi religioni nel corso della laurea specialistica. I suoi interessi di studio si sono orientati in prevalenza sulla filosofia tedesca del 900, sull’ebraismo moderno e contemporaneo, sul pensiero femminile, sulla mistica nelle grandi religioni.


Ha pubblicato numerosi saggi in riviste italiane e straniere e partecipato come relatrice a vari convegni internazionali. Fra le sue opere: due studi su Jaspers, un volume su Rosenzweig,  gli altri su Heschel, Hannah Arendt, Adrienne von Speyr. Fa parte del consiglio direttivo di vari organismi, come il Centro internazionale di fenomenologia, l’Associazione internazionale dei filosofi della religione, il CEGA ( Centro di Etica generale e applicata) dell’Università di Pavia. Già membro del Comitato nazionale di Bioetica.

 

 

Attraversando un territorio così complesso e frastagliato entro il quale si intrecciano – a proposito del nesso necessario fra natura e cultura – questioni epistemologiche strategiche e ricadute antropologiche ed etiche, provo a partire da lontano, da un testo redatto intorno al III secolo d.C. Del Talmud babilonese, il Massekòt Hagigah (Trattato sull’offerta estiva).

 

In esso si coglie un sistema di pensiero, che può apparire ingenuo e primitivo a proposito della creazione dell’uomo espresso nella Sacra Scrittura, ma che invece pare situarsi sul terreno di confluenza delle questioni che andiamo trattando. Insomma, i versetti di Genesi sembrano indicare ai talmudisti che Adamo, lungi dall’essere il frutto di un atto creativo perfetto, rappresenti l’esito di una faticosa trattativa tra JHWH e i suoi angeli, niente affatto convinti della bontà di questa ulteriore invenzione creativa.

 

Alla fine si giunse ad un compromesso e così recita il testo talmudico:

 “Sei cose sono dette sugli esseri umani: per tre sono come gli angeli officianti, per tre sono come bestie.

  • Per tre sono come gli angeli officianti: hanno cognizione come gli angeli officianti, hanno una andatura eretta come gli angeli officianti e parlano nella lingua santa come gli angeli officianti.
  • Per tre sono come le bestie: mangiano e bevono come le bestie, generano e si moltiplicano come le bestie ed evacuano come lebestie” 1.

 

In una successione di vincoli simbolici e di livelli di essere tra loro complementari, l’uomo creato vive la complessa paradossalità di essere “dato” al mondo nella coesistenza di elementi naturali e biologici che lo accomuna alle bestie, e di elementi culturali che lo apparenta agli angeli ( nella cognizione, nell’andatura, nel linguaggio), quasi fosse il risultato di una ibridazione, frutto scompensato e contraddittorio di dinamiche inconciliabili, che ne disegnano la sua sproporzionalità, la sua natura eccentrica che gli vieta la presa d’atto di una identità conclusa una volta per sempre.

 

La Kabbalah, successiva a questo testo ( XIV secolo), si spingerà oltre e, all’interno della sua complessa costruzione misterico-simbolica della creazione, dirà che l’uomo è stato creato troppo tardi e troppo presto in mezzo al tempo: troppo tardi rispetto alla tragica datità del mondo, rispetto ad un dramma che gli è anteriore e di cui sente cupamente l’urto, troppo presto sul finale di questo dramma che nessuno uomo può riscattare, se non proiettandosi nel futuro messianico( Sefer. Yesirah ).

Anche qui il fatto della creazione – la natura già data – sembra doversi intrecciare con quanto deve essere preparato dalla redenzione, evento lungo e drammatico mosso dal lungo lavoro rituale, dunque, culturale e storico.

 

Sin dall’inizio, dunque, e in modo assai stringente oggi, in un epoca ipertecnologizzata dove natura e cultura subiscono processi inquietanti di omologazione e di insana confusione, si è alla ricerca di un nuovo ordine simbolico, dunque dinamico e flessibile che colga la distinzione – pur così difficile da individuare – tra la variabilità culturale e la diversità naturale e, al contempo, non ne separi gli inevitabili intrecci, sotto pena di cadere o nella trappola del monismo epistemologico , o nella fossa del dualismo insanabile, oggi ambedue così di moda. Si deve perciò tentare il difficile compito di lavorare per un “ paradigma dell’intreccio”.

 Un paradigma che cerchi di superare sia la logica conciliativa ( natura e cultura opposti ma volti ad una sintesi superiore) sia i processi riduttivi (natura e cultura imprigionati dentro un unico nucleo epistemico), così da saper valorizzare la loro mobile e differente presa sul mondo tramite una scansione intrecciata a rete, che ne giustifichi il loro dinamico passaggio dal piano epistemologico a quello antropologico, nelle sue necessarie declinazioni sul piano etico, giuridico e politico.

 

La grave questione che sta sullo sfondo è legata alla sconfinata fiducia che in Occidente viene data alla ragione teconoscientifica accettata in modo acritico, senza alcun residuo come l’unica forma di razionalità, che certo è la meno adatta a fornirci una qualche protezione nei riguardi dell’inumano che ci avvolge. E non solo, di solito è anche quella che, utilizzando di fronte alla natura forme metodiche di determinismo performativo, consente la progressiva scoperta di “stati di cose”, ma non quella di ulteriorità di senso. Siamo ancora a quanto Husserl indicava nella sua opera matura “ .

 

La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, quando individuava la pertinenza metodologica della scienza nella descrizione/spiegazione del come avvengano determinati collegamenti fenomenici, mentre ne indicava la fragilità, l’inconsistenza per le questioni relative al che cosa questi stessi collegamenti significhino nella realtà esistenziale degli uomini.

 

Un esempio: anche quando le neuroscienze siano in grado di stabilire un rapporto di causalità tra tutti gli stati neuronali e le emozioni ( come in parte già avviene), resterebbe sempre aperto il fronte sul che cosa sia quel principio dinamico che muove l’io in rapporto con se stessi e con gli altri. E’

qui che deve entrare in gioco il lavoro della cultura che è – una prima definizione introduttiva – quell’eredità cumulativa di costellazioni simboliche, che sono quelle strutture mentali flessibili e dinamiche in grado di elaborare le raffigurazioni, le interpretazioni della realtà.

 

La natura, dal canto suo, è il “già dato”, non certo inteso in senso statico e deterministico, ma tutto ciò che è in grado di generare di continuo ( natura da nascita), influenzata dall’esterno ( dalla cultura, insomma) ma che non è modificabile in profondità, almeno per ora, conservando al suo interno una qualche forma di intenzionalità, di finalismo, come la intendeva la filosofia greca.

 

Inevitabile, o meglio, necessario il loro incontro, che in modo esplicito Lévi-Strauss, già nel 1947 individuava nell’opera Le strutture elementari della parentela nella famiglia, quale luogo di legittimazione culturale del naturale incontro fra i due sessi, e cogliendo nella proibizione dell’incesto il punto di sutura fra natura e cultura: “ La proibizione dell’incesto possiede tanto l’universalità delle tendenze e degli istinti ( naturali), quanto il carattere coercitivo delle leggi e delle istituzioni”2.

 

Siamo già dentro il nostro tema, che andrò sviluppando nella sua configurazione epistemologica, cercando di individuare alcuni paradigmi, che sono l’uno all’altro alternativi e in grado di declinare differenti modelli di antropologia. Ne sviluppo tre:

  • Paradigma dualista ( natura e cultura sono due principi antagonisti e perseguono tracciati e scopi differenti, che vanno distinti).

  • Paradigma monista ( all’interno del quale si muovono due percorsi, quello della cultura che ingloba/genera/assorbe la natura e quello che, al contrario, della natura che divora la cultura).

  • Paradigma dell’intreccio, che intende superare sia il monismo che il dualismo tramite l’assunzione di un ordine simbolico in grado di far coesistere, nell’intreccio appunto, e natura e cultura.

 

Il paradigma dualista

 

L’opposizione di natura e cultura, teorizzata soprattutto tra Otto e Novecento, è interessata soprattutto a capire lo specifico del mondo umano a confronto con quello naturale, dove gli animali, ad esempio, dimostrano una struttura biologica assai più capace di adattamento nell’ambiente circostante, e al cui confronto l’uomo risulta essere deficitario.

 

Pur sviluppatosi all’interno delle scienze sociali, in particolare l’etnologia, ha ricevuto nei decenni una particolare declinazione proprio in ambito epistemologico, offrendo alla filosofia numerosi spunti di riflessione in merito alla questione del metodo, o meglio, dei metodi. La natura, intesa come l’insieme dei fattori fisici, chimici, biologici che rendono possibile la vita, sembra richiedere infatti una attrezzatura metodologica e teorica assai differente da quel variegato mondo delle credenze, dei costumi, dell’arte, della morale che veniva chiamata cultura.

 

Pur convivendo di fatto all’interno del medesimo contesto umano, natura e cultura intesero perseguire vie differenti, oppositive o, comunque, indipendenti, raffigurando due ambiti diversi del sapere: quello dell’oggetto, scientificamente analizzato secondo categorie proprie, e quello del soggetto, chiamate a dar conto della complessità della sfera soggettiva a cui si poteva accedere attraverso metodologie empatico-comprensive. Valga per tutte come esempio la classica distinzione suggerita da W.Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito: le prime rette dalla metodica della spiegazione, alla ricerca dei nessi causali che presiedono ai fenomeni naturali, le seconde

giustificate dal metodo della comprensione, più idonea a penetrare sia gli eventi psicologici individuali sia i fenomeni storico-sociali.3 Il cosiddetto “conflitto metodologico” attraversò il pensiero tedesco a cavallo tra 800 e 900, ed è su questo humus teorico – basti pensare a Max Weber – che presero avvio le scienze sociali, la sociologia comprensiva, la psicologia, l’etnologia e la psichiatria.

 

E’ all’interno di questa disciplina scientifica che ai primi del XX secolo ci si rese conto delle determinazioni biochimiche e sistemiche delle malattie mentali, cosicchè fu il cervello stesso, luogo di sedimentazione dei deficit naturali, indipendenti ( così si pensava ) da influenze culturali, a scatenare la ricerca medica, convinta che le malattie mentali dovessero essere aggredite solo attraverso gli strumenti esplicativi della biologia, dell’istologia, della chimica farmacologia.

 

L’assunto di Griesinger ( 1845): “le malattie mentali sono malattie del cervello” diventò la celebrazione dell’incondizionato dualismo metodologico, dal momento che intese separare nettamente il sapere della psichiatria organicista dalla nascente psicopatologia, destinata ad utilizzare mezzi propri per chiarire, non spiegare, le traduzioni soggettive dei disturbi psichici4.

 

Più complessa e articolata, ma anch’essa dualistica è la posizione di Goethe, studioso naturalista, oltre che grande letterato: “Comunicare l’un l’altro, scambiarsi informazione è natura; tener conto, interpretandole, queste informazioni è cultura”5: due differenti ambiti di indagine destinati a percorrere, in una sorta di binari paralleli che non si incontrano mai, sfere del sapere che non solo distinguono, ma di fatto separano il mondo dell’oggetto da quello del soggetto, la materia e lo spirito, gli animali dall’uomo.

 

Anche la nascita e lo sviluppo dell’antropologia culturale, come di alcuni settori della psicologia sperimentale sembrano attraversate da questo dualismo che, a quanto sembra, non è soltanto una postazione storiografica ormai superata. Nonostante si continui a ripetere che questo paradigma, compiuta ormai la sua parabola, è inapplicabile oggi sul piano epistemologico, sembra al contrario ripresentarsi sottotraccia come “visione del mondo”, come dimensione culturale presente nei singoli ricercatori.

 

Valga come esempio un documento del Comitato Nazionale di Bioetica approvato il 14 dicembre 2001 intitolato “Scopi, rischi e limiti della medicina” che rappresenta un esempio chiaro di dualismo epistemologico, segnato dalla convinzione del primato della ricerca scientifica su quella culturale e soggettiva che poco a che fare con la scienza medica. Eppure le malattie funzionali, oggi in aumento, sono la cifra emblematica della medicalizzazione dei problemi esistenziali, dunque della necessità di individuare una qualche zona di confluenza tra natura e cultura, oltre il dualismo che appare nella pratica medica ormai improponibile. Anche durante il dibattito all’interno del

Comitato nazionale di Bioetica sull’opportunità o meno di inserire le medicine cosiddette alternative ( agopuntura, omeopatia ecc.) accanto alla farmacologia tradizionale, c’è stato di recente un attacco durissimo a alle cure alternative, ritenute frutto di culture diverse da quella occidentale e, per questo, non omologabili con gli assunti epistemologici della medicina occidentale. Spia inquietante di tanta prassi scientifica che, in nome della validità naturalistica della ricerca, intende coltivare i propri obiettivi scientifici, salvo poi affidare acriticamente ai politici, ai bioeticisti, ai giuristi il “materiale” del proprio lavoro. Da un lato la scienza, libera da qualsiasi presupposto, dall’altra la cultura con le sue infinite costellazioni simboliche: segnale di un sapere che si stacca dalla vita, perdendo i contorni della dimensione umana del conoscere.

 

Sul piano dei costumi sociali – qui solo l’accenno – il paradigma dualista intende stabilire una netta separazione fra l’ordine descrittivo – i fatti – e l’ordine normativo – i valori – stabilendo necessariamente una irriducibilità dei valori ai fatti e dei fatti ai valori.

 

Il paradigma monista

 

Utilizzando una metafora proposta da Bauman6, pur adoperata da lui in altro contesto, si può dire che il paradigma dualista evoca il modello dell’uomo “guardiacaccia”, mentre quello monista rimanda alla figura del “giardiniere”. Il guardiacaccia infatti è l’uomo che sta in difensiva, messo a tutela del bosco, del parco naturale, all’interno del quale non agisce se non per difendere gli animali dai bracconieri, e la natura dai piromani di turno.

 

Il guardiacaccia sa sempre quello che deve fare, perché suo compito non è quello di intervenire sul territorio, ma di salvaguardarlo dai nemici esterni. Il giardiniere è convinto, al contrario, che sia possibile e necessario stabilire un contatto, un rapporto tra la natura ( che non è così autosufficiente come pensa il guardiacaccia) e la sua cultura che egli utilizza per trasformare il territorio mediante un intervento massiccio, per certi versi invasivo, tanto da cambiarne totalmente l’aspetto.

 

Il suo lavoro è costante e attivo, mobilitato sia a salvaguardare il terreno naturale dagli agenti esterni ( gli insetti, il troppo sole o la grandine), sia da quelli interni ( le erbe infestanti o le malattie delle piante), così da coltivare ( cultura da colère) il giardino, emblema e figura originaria dell’unità tra natura e cultura.

 

L’efficacia della metafora non finisce qui, dal momento che il giardiniere, mai pago di quel suo “artefatto naturale” che è diventato il giardino, può continuare a manipolarne l’originaria struttura con complicati innesti, con manipolazioni fisico-chimiche, biotecnologiche, come gli OGM, dando alla sua opera un carattere di perfezione estetica, assai differente e lontana dal seme naturale, quello originario da cui si era partiti.

 

Si è prodotta certamente una unità tra natura e cultura, ma nel senso di una cultura che ha, come dire, divorato la natura, generandola in modo diverso, secondo procedure proprie, intervenendo su di essa radicalmente. Ha ragione in tal senso Bruno Latour, l’intellettuale francese che ama buttarsi a capofitto nelle polemiche, che questa idea di natura possiede sostanzialmente una valenza politica, così che si tratta di individuare i nodi teorici e pratici che, ad esempio, stanno alla base delle crisi ecologiche ( degrado ambientale, effetto serra ecc..).

 

La natura, insomma, non è tout court “natura”, ma secondo la definizione di Latour , “la natura è una amalgama di politica greca, di cartesianesimo francese e di parchi americani”7. In un recente congresso internazionale svoltosi a Roma, il pensatore francese è intervenuto nel cosiddetto “caso Sokal”, il fisico americano che ha attaccato gli umanisti che si lasciano tentare dallo “scientismo” ( riproponendo il dualismo di cui si è parlato prima), parlando al contrario di “un sano e democratico monismo epistemologico”, che in altre parole è l’enfasi della multidisciplinarietà pilotata politicamente.

 

Contro ogni forma di antinomia tra natura e cultura – si è detto in questo convegno 8- bisogna rinunciare all’idea che la natura sia qualcosa che si presenta spontaneamente al nostro sguardo, ma è qualcosa che da sempre viene prodotto e manipolato dalla politica, cosicché ogni prerogativa della natura e ogni sua funzione dipendono dalla volontà politica di limitare, riformare, semplificare, illuminare la vita pubblica.

 

Dalla natura, intesa come spazio fisico, alla natura intesa come “carne” dell’uomo il passo è breve.

Questo lo scenario che sta sullo sfondo delle strategie culturali dominanti in questi ultimi anni intorno, ad esempio, al tema delle “gender theories”. Un tempo considerato il terreno di coltura del femminismo, si è da qualche tempo orientato politicamente a trasformare la cultura e i comportamenti sessuali, espressi in numerosi documenti dell’ONU e dell’UE, dove si punta non più a promuovere la “naturale” parità uomo/donna ( sorretta dalla convinzione dell’uguaglianza/differenza dei due sessi), ma ad inserire e promuovere modelli culturali in cui presentare il concetto di identicità dei gusti e delle inclinazioni fra maschi e femmine, posto al servizio di una ridefinizione “neutra” ( non sessualmente differenziata) della natura umana.

 

La differenza uomo – donna, lungi dall’essere un “dato naturale” – così si dice – assume un significato storico e socio-culturale: mentre il “sesso” indica una immutabilità costante nel tempo e nello spazio, il “genere” è l’insieme di quelle caratteristiche, di quei comportamenti culturali sorti come esigenza della vita sociale, sempre più esposta alla fluidità e la cambiamento della propria identità, a cui deve partecipare l’avventura del genere, cifra emblematica dell’autodeterminazione individuale, a prescindere dal dato naturale della propria sessualità. Le recenti leggi regionale della Toscana e dell’Emilia Romagna in tema di libertà di scelta nell’orientamento identitario sono la prova esplicita di questo nuovo paradigma che intende sottolineare come la differenza dei sessi non ha valore oggettivo, ma si presta necessariamente ad una scelta soggettiva .

 

Anche in questo caso è la cultura che assorbe / ingoia la natura tramite una operazione egemonica e culturale che auspica il pansessualismo senza ostacoli e la sostituzione dell’eterosessualità in forma autonome e libere di uguaglianza indifferenziata – etero o omo che sia -. Questa teorizzazioni sono anche alimentate dagli scenari aperti dalla scienza, relativi ai possibili interventi manipolativi sul corpo: si pensi all’interscambiabilità fisica tra uomo e donna ( l’utero della donna considerato tecnicamente equivalente all’addome dell’uomo, capace di ospitare un utero artificiale)9.

 

Non sono ipotesi immaginarie, ma segnali inquietanti che tendono a vanificare la differenza tra i sessi nell’esaltazione dell’autonomia del soggetto capace di scegliere di volta in volta indifferentemente, guidato solo dalle logiche individuali del desiderio, la propria identità sessuale, nell’attesa – questa sì che appare immaginaria – del corpo androgino asessuato, simbolo

dell’onnipotenza della cultura di fronte all’ordine debole e minaccioso della natura.

 

Questo non è solo lo scenario del “post – umano” teorizzato dal famoso “manifesto cyborg” di Donna Harawey10, ma anche del “transumano”, quel movimento libertario, radicale, formato da scienziati, giuristi, filosofi, attivisti dei diritti civili, che intende preparare l’opinione pubblica all’ormai inevitabile applicazione nell’uomo di tecniche capaci di modificare le caratteristiche

naturali che di solito associamo all’umanità. La World Transhumanist Association (fondata nel 1998) ha oggi un numero impressionante di aderenti e in un recente congresso mondiale ( Chicago, maggio 2007) ha esplicitato uno degli scopi di questo indirizzo di pensiero: la progettazione della felicità attraverso “il miglioramento del benessere emozionale” per “una gioia perpetua” indotta chimicamente da droghe, in grado di produrre “livelli di benessere estatico”, che vanno “oltre il limite dell’esperienza umana” 11. Questa “chimica dell’estasi” non è tanto –come si può pensareuna moda americana alla “New Age”, ma una rigorosa disciplina accademica e una matura scienza applicata, come sostiene Richard Dawkins, convinto che la specie umana deve e può autotrascendersi come specie vivente, ora che i segreti del genoma sono a portata di mano, ora che elettronica, nanotecnologie, ingegneria genetica possono di fatto “guidare l’evoluzione umana”.

 

L’unico ostacolo – si dice- è l’etica, figlia del monoteismo, accusato di tecnofobia per la sua critica a questa transumanista “liberta morfologica”, il diritto cioè a modificare il proprio corpo, come il diritto a cambiare sesso per i motivi più disparati.

 

Se questi esempi appaiono eccessivi e un poco terroristici, può vedersi un fenomeno di costume assai diffuso anche fra noi, legato all’ossessione della bellezza fisica, delle cure estetiche, dei centri di benessere, della chirurgia plastica, pronta a modificare i difetti erogati dalla natura maligna, e restituire al volto – femminile ma anche maschile – i tratti eterei di una bellezza artificiale.

 

Come se la bellezza, più che perdere peso, non fosse saper far perdere peso alle cose, vincere la gravità, la dittatura dei bisogni, come dice Agnes Heller12. Il corpo femminile anoressico, eco inquietante del sogno di androginizzarsi, del bisogno ossessivo di uniformarsi grazie al fideismo acritico verso modelli culturali dominanti ( con grandi interessi finanziari alle spalle), è un ulteriore segnale di una natura riassorbita dalla cultura, riattivando disegni ideologici che sembravano ormai tramontati.

 

E’ necessario comunque accennare almeno all’altra faccia del problema, rappresentata da una vastissima corrente di pensiero, soprattutto scientifico, volto a definire un percorso inverso, pur mosso dalla medesima pretesa monista. Viene qui in mente la classica cadenza dialettica hegeliana, quella che prepara e gestisce l’operazione della sintesi.” Tutto ciò che è razionale è reale, e tutto ciò che è reale è razionale”, che potremmo tradurre così: “ Tutto ciò che è culturale è naturale ( lo abbiamo visto prima) e, al contempo, tutto ciò che è naturale, è culturale ( lo vediamo ora).

 

L’esigenza epistemologica di raggiungere una unità sintetica esige questo movimento dialettico di tipo conciliativo che punta ad una rovinosa reductio ad unum, che priva sia la natura che la cultura delle loro rispettive diverse intenzionalità.

 

Si può naturalizzare la cultura?” E’ il titolo di una tavola rotonda a cui ho partecipato qualche mese fa’. La risposta quasi unanime è stata positiva, perché formulata dai cultori delle scienze cognitive, che è l’espressione filosofica delle neuroscienze. Evoluzionismo da un lato, e positivismo logico dall’altro spingono non tanto alla correlazione tra mente e cervello, tra fatti cognitivi e fatti del mondo, ma ad una loro acritica identificazione.

 

Naturalizzare la cultura significa dunque fare del naturalismo la base di una scienza naturale dello spirito. A sostegno di questa impresa, giustificata dalle continue scoperte di localizzazioni neuro-cerebrali, là dove si collocano le emozioni, la memoria, la sede del linguaggio, persino il luogo ove si pensa aver scoperto il gene di Dio (come sostengono alcuni neuroteologi)13, si cerca di illustrare le “modificazioni sostanziali” subite dall’attività del cervello in ordine alle cosiddette “esperienze picco”, come la preghiera, così da dedurre i vissuti soggettivi dalla loro registrazione oggettiva dentro alcune zone neuro limbiche, dove il cervello subisce alcune temporanee modificazioni.

 

Questa impresa cognitiva, che si prefigge di giustificare naturalisticamente ogni evento della cultura, tenta in tal modo di assolutizzare il proprio modello di conoscenza oggettivo e transculturale, estendendo tale metodo di indagine anche dentro le questioni della coscienza e dell’intero cosmo del soggettivo.

E’ il lavoro svolto da Jane Illes, che ha coniato il termine “neuroetica” per indicare quell’insieme universale di risposte biologiche, connaturate al nostro cervello, capaci di risolvere ogni domanda di natura etica14 .Per nulla scossi dall’inevitabile accusa di riduzionismo metodologico ed ontologico, i cognitivisti continuano ad allevare schiere di allievi nelle nostre università, convinti che non è necessario distinguere tra ciò che la scienza non può scoprire e ciò che la scienze scopre come inesistente.

 

Dimenticando che la scienza moderna con Galileo è fondata sulla demarcazione tra le qualità primarie ( oggettive e misurabili) e qualità secondarie ( soggettive e qualitative), sono alla ricerca di nuovi strumenti linguistici per rinominare, ad esempio, la cultura vista come un insieme di comportamenti decisi dall’evoluzione neuronali ed ontogenetica, in grado di accomunare gli animali umani e gli animali non umani15. Con una calcolata strategia di oltrepassamento si sostiene da un lato che le esperienze soggettive non fanno parte della scienza, e dall’altro che, non essendo oggetto della scienza, non esistono se non nella confusa pluralità dell’esperienza mai verificabile.

 

Da qui l’inevitabile scivolamento dal piano epistemologico a quello ontologico con eclatanti forme di riduzionismo, che ad esempio hanno fatto dire polemicamente a Steven Pinker che” se ai miei geni non piace quello che faccio, possono buttarsi a mare”, che riecheggia l’altra memorabile battuta critica di Peter Meehl: “Eppure, nessun neurone di Eisenhower era repubblicano”.

 

Al di là delle questioni teoriche che si aprono sui limiti dell’evoluzionismo (dibattito accesissimo, ancora in fieri, mosso anche dalla questione del cosiddetto “disegno intelligente”) resta inquietante, ma anche illuminante, la considerazione critica, espressa dal filosofo Hilary Putnam secondo cui “il naturalismo ha paura del normativo” con tutto quanto questo può incidere sul piano antropologico, etico e sociale.

 

Riprendendo la questione sui possibili nessi tra fatto e valore, il paradigma monista tende ad appiattire il valore al fatto (ciò che esiste di fatto dal punto di vista genetico è valore) o, ancora, ciò che è “fatto” va validato socialmente e giuridicamente.

 

Dopo questi rapidi cenni, non rimane che osservare come anche questo paradigma monista -sia quello che ha mirato ad una culturalizzazione della natura ( con i suoi difficili esiti in ambito politico), sia quello che ha puntato alla naturalizzazione della cultura (con i suoi inquietanti riflessi sul piano etico e giuridico), ha dimostrato la sua insufficiente messa a fuoco del nesso natura – cultura, che ha bisogno di una prospettiva aperta e dinamica, al di là delle tentazioni assolutizzante che finiscono per mortificare ed annullarne le potenzialità epistemiche ed antropologiche.

 

Il paradigma dell’intreccio Una possibile via d’uscita dalle strettoie delle soluzioni dualiste e moniste può essere disegnato attraverso il paradigma dell’intreccio, detto così perché intende salvaguardare sia le dinamiche aperte dalla natura ( ancora disponibile all’evoluzione, o che venga intesa deterministicamente, o colta come fatto casuale o, ancora, come frutto di un disegno intelligente), sia alle spinte della cultura (interpretata in senso più ampio dal mero modello comportamentista) e vista, al contrario, come orientamento nel mondo, che decide (o aiuta a decidere) dove e con chi dobbiamo procedere, tramite quell’irraggiamento simbolico che soprattutto il linguaggio e il corpo bisessuato elaborano per configurare la realtà.

Dire intreccio – siamo già dentro l’ordine simbolico – vuole dire rispettare l’autonomia delle singole filature, come quando si prendono separatamente fili rossi e fili bianchi per intrecciarli e farne, ad esempio, una cintura. Ogni singola filatura – natura o cultura che sia – conserva con l’autonomia (epistemica) una certa qualità relazionale che le consente di insinuarsi nella trama, per formare una cosa diversa da quella originaria. In tal modo non si scarta una filatura o un’altra, e neppure le si confondono insieme con delle motivazioni, le più volte di ordine strumentale e ideologico.

 

Queste tensioni entrano certamente in gioco, come si evince dal nostro contesto sociale pressato dalle egemonie ideologiche in atto, ma dovrebbero modularsi, così da neutralizzarle, dentro la pratica di quest’intreccio, sotto pena di smarrirne la loro reciproca intenzionalità. Se, ad esempio (occorre ripeterlo) le leggi della natura sembrano percorrere vie diverse dalle leggi

della cultura, quasi che la norma giuridica e politica abbia il compito di rimetterle in perfetta sincronia, potrebbe accadere che, più che badare al loro intreccio dinamico e aperto, si finisca con lo scegliere una delle due, per piegare o l’una o l’altra alle proprie regole.

 

Né di contro bisogna pensare che la natura, dopo la rivoluzione scientifica avviata nella modernità, abbia perduto il suo valore normativo16, né supporre che la cultura attraversi la storia vestendo i panni neutrali,sprovvisti di criteri valoriali. Non si tratta di perseguire una forzata conciliazione – i due ordini sono diversi e si rischia di annullare le potenzialità dell’una e dell’altra parte- , ma di mantenere natura e cultura all’interno di una dialettica aperta, una “iperdialettica”, che non accetti alcun tipo di soluzione conciliativa che finirebbe con il sopprimere un filamento o un altro.

 

Un primo passo per abitare dentro l’intreccio, capace di neutralizzare le spinte totalitarie di tipo ideologico, può essere quello di accogliere un altro filamento, in grado di rendere più denso l’intreccio: è l’accettazione del limite, come correttivo epistemologico e come terapia antropologica. Si può fare qui riferimento, ad esempio, a quanto una etnologa francese Francoise Hèritier indica come possibile indicazione metodologica17: ogni cultura che guarda alla natura deve infatti distinguere fra il possibile ( l’ampio orizzonte della natura) e il pensabile ( che rappresenta l’aspetto prescrittivo della cultura).

 

Il pensabile non indica ciò che ciascuno può pensare, nel senso della riflessione o dell’elaborazione concettuale, ma è l’insieme degli atti che ogni membro di una cultura, di una società, di una religione accetta, in quanto rispettosi dei suoi fondamenti, che coglie insomma come conforme, adatto all’esistenza personale e sociale.

 

Il possibile, invece, è un insieme molto più vasto: è ad esempio possibile distruggere le case degli altri, dar fuoco ad intere foreste, derubare e martirizzare i deboli, utilizzare l’eugenetica per finalità razziste o, in senso non meno drammatico- sterilizzare milioni di cinesi, tutti atti certamente possibili, ma che non sono pensabili. Il limite tra possibile e pensabile è fissato dai divieti sociali o da una più crescente maturazione umana in vista di un consapevole accoglimento della vita: si può infrangerli, ma ciò potrebbe comportare la fine della società e della vita stessa.

Il campo del possibile non è solo l’ambito – fisso una volta per tutte- dei divieti, ma quello dell’accettazione del limite, in base al quale rendere pensabile il limite del possibile e, viceversa, rendere possibile il limite del pensabile. Qui sta l’intreccio difficile e delicato, perché richiede che tutti i filamenti dell’intreccio, nel rispetto uno dell’altro, mantengano alta la loro capacità di apertura dinamica nell’accoglimento reciproco del limite, che non significa sempre restrizione e perdita, ma anche accordo tra la materia delle cose (natura) e la materia delle parole (cultura).

 

Accordo non significa adeguazione, appiattimento, ma movimento dinamico in grado di riorientarci dentro un possibile senso del mondo, sia che lo si voglia guardare metafisicamente, sia che lo si veda esposto ad una incessante rielaborazione ermeneutica, sia che lo si accolga come sacramento di Dio, sia lo si intenda nella sua esclusiva interazione con la scienza. Accordo significa piuttosto esigenza imprescindibile di dare risposta ai tanti nomi, di cui l’uomo intero e parola.

 

Un poco come capita agli accordi nella musica dodecafonica di SchOEnberg? dove, abbandonata l’armonia come base strutturale della creazione musicale, disarticolata la gamma classica delle scale e dei toni, si punta, come dire, ad una coerenza di suoni disarmonici, dal momento che la dodecafonia è nella sua essenza dialettica: i dodici suoni di base raggiungono la globalità tonale

solo per effetto del movimento simultaneo e contraddittorio dello slancio e della regressione delle note.

 

Là dove l’infrastruttura matematica si accompagna, senza annullarla mai, alla creatività tutta soggettiva dell’artista che la interpreta. Un altro modo per dire che la dialettica dei contrari, lungi dal doversi necessariamente sintetizzarsi o strutturarsi secondo la modalità dell’ “aut-aut”, si declina secondo l’ordine dell’ “et-et”, che è il modo corretto di salvare il “fatto” e di declinare a suo fianco

il valore. Ancora una volta e natura e cultura.

 

Forse tutto ciò che concerne l’uomo e la sua umanità va trovato oltre, la dove gli accordi e le armonie – sempre in fieri – sono ancora nascosti nel segreto dell’universo, raccolti nell’ineffabilità del Nome del Santo ( come dicono i kabbalisti), o nella stupefacente avventura umano-divina del Figlio di Dio. Ciò non significa abbandono del lavoro del pensiero che può raccogliere segrete

assonanze, là dove mondi diversi nemmeno sembrano toccarsi. Ne è un esempio una recente scoperta compiuta da scienziati vulcanologi sull’Etna. Calate nella voragine del cratere centrale alcune sonde, capaci di rilevazioni scientifiche relative alla presenza di particolari combinazione biochimiche, esse hanno rivelato un rumore sordo e particolarissimo, inudibile e intraducibile all’interno delle nostre onde magnetiche, e successivamente decodificato tramite strumenti scientifici sofisticati.

 

Ebbene, quel sordo rumore si è riconvertito in un suono articolato ed armonico, quasi un coro a più voci, che ha richiamato l’armonia classica delle sinfonie corali di Beethoveen. La scienza, in questo caso, a servizio di una natura misteriosa in un gioco di intrecci, che sembrano alludere alla presenza

di ordini simbolici ancora impensati.

 

Note

1 G.Busi – E.Lowenthal (a cura di), Mistica ebraica. Testi della tradizione segreta del giudaismo dal III al XVIII secolo, Einaudi, Torino 2006, p.28.

2 C. Levi –Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2003, p. 49.

3 W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito. Ricerca di una fondazione per lo studio della società e della storia, a cura di G.A. De Toni, La Nuova Italia, Firenze 1974.

4 K. Jaspers, Psicopatologia generale, a cura di R. Priori, Il Pensiero Scientifico, Roma 1964.

5 J.W. Goethe, La dottrina dei colori, a cura di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano 1979.

6 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 65-83.

7 B. Latour – P. Gagliardi (edd.), Les atmosphères de la politique, Les Empêcheurs, Paris 2006.

8 – “ Natura, coltura, cultura”, Congresso internazionale, Roma 2Tor Vergata, maggio 2007.

9 A. Nucci, La donna a una dimensione. Femminismo antagonista ed egemonia culturale, Marietti 1820, Genova – Milano 2006.

10 D. Harawey, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano 1995.

11 Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford 1976.

12 A. Heller, Filosofia morale, Il Mulino, Bologna 1997.

13 A. Newberg, Dio nel cervello, Mondadori, Milano 2002.

14 J. Illes, Neuroethics, Stanford School of Medicine, Norfolk 2003

15 B. Chiarelli, Dalla natura alla cultura. Principi di antropologia biologica e culturale. Evoluzione e origine dell’uomo, Piccin, Padova 2003.

16 Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 310, LEV, Città del Vaticano 1992.

17 F. Hèritier, Masculin/ feminin, vol 2: Dissoudre la hièrarchie, Odile Jacob, Paris 2002.

18 Sull’orizzonte di pensiero scaturito dalla musica dodecafonica cfr. A. Neher, Faust e il Golem.

 

Relazione di Paola Ricci Sindoni al Convegno Cei su “Università, laboratorio culturale”

 

Novembre 21st, 2008 by Giampaolo Azzoni

 

Il compito esaltante e drammatico delle facoltà umanistiche è quello di rimettere in moto la passione del pensare, generando il desiderio di senso, l’aspirazione alla verità, il coraggio di decidere”.

 

Lo ha detto Paola Ricci Sindoni, docente di Filosofia morale all’Università di Messina, durante il Convegno Cei su “Università, laboratorio culturale”, in corso a Roma fino al 23 novembre.

 

Sia che si tratti di letteratura o di storia, di arte o di filosofia, di scienze umane o di economia – ha fatto notare la relatrice – queste discipline producono un sapere che è in primo luogo densificazione della memoria della civiltà che le ha generate, memoria che non è solo il guardare all’indietro per trarne indicazioni per il presente, ma è anche ritrovarsi vivi e capaci di accettare con gratitudine ciò che si è, figli di una tradizione”.

 

Un patrimonio, questo, che per Ricci Sindoni rischia oggi di essere messo in discussione dalla “perduta unità del sapere”, tipica del mondo post-moderno.

Nella pratica universitaria, ciò comporta il “prendere atto che il moltiplicarsi delle scienze sperimentali e l’accrescersi di metodiche diversificate a fronte di una conoscenza – umanistica o scientifica – sempre più vasta, hanno necessariamente imposto una specializzazione del sapere, che ha finito con il frantumare la coerenza unitaria del pensiero, sempre più ostaggio di competenze segmentate”.

 

Paola Ricci
Professore ordinario di Filosofia Morale – SSD M-FIL/03
Facoltà di Lettere e Filosofia


Paola Ricci è professore ordinario di filosofia morale nella facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Messina, dove insegna anche Etica e grandi religioni nella Laurea specialistica. E’ Direttore del Master in “Counseling e pratica filosofica” del medesimo Ateneo.
E’ direttore del Dipartimento di “ Storia e scienze umane.”
I suoi interessi di studio si sono orientati in prevalenza sulla filosofia tedesca del 900, sull’ebraismo moderno e contemporaneo, sul pensiero femminile, sulla mistica nelle grandi religioni.
Ha pubblicato numerosi saggi in riviste italiane e straniere e partecipato come relatrice a vari convegni internazionali. Fra le sue opere:   due volumi su Jaspers, uno su Rosenzweig, un altro su Heschel, su Hannah Arendt, su Adrienne von Speyr, sull’ ”etica della consegna” e sul profetismo biblico.  Fa parte del consiglio direttivo di vari organismi, come il Centro internazionale di fenomenologia , l’Associazione internazionale dei filosofi della religione e il CEGA ( Centro studi di Etica generale e applicata presso il Collegio Borromeo dell’Università di Pavia). E’ stata componente del Comitato nazionale di Bioetica. Fa parte della redazione di varie riviste filosofiche nazionali e internazionali. E’ giornalista pubblicista iscritta all’Albo nazionale e da qualche anno editorialista di  “Avvenire” e di questa testata è membro del Consiglio di Amministrazione. Collabora anche ad altre testate e riviste nazionali. Da anni è chiamata a tenere conferenze  su temi filosofici e culturali legati a questioni antropologiche, sociali e politiche.

ELENCO DELLE PUBBLICAZIONI

PAOLA RICCI
Facoltà di Lettere e Filosofia- Università di Messina

  1. La lettura cifrata nella problematica di K.Jaspers, Quaderni dell’Istituto di Scienze Filosofiche, Facoltà di Magistero, Arezzo 1972.
  2. Realtà politica e riflessione filosofica nel pensiero di K.Jaspers ,in < La Nuova Critica >, 1973, IX/XXXIV, pp.57- 81.
  3. recensione a K.JASPERS, Ragione ed esistenza, in < Proteus >10/1973, pp.120- 126.
  4. recensione a G.PENZO,Essere e Dio in Karl Jaspers, in < La Nuova Critica >, 1973, IX/XXXIII, pp.94- 95.
  5. recensione a S.GIVONE, La storia della filosofia secondo Kant, in < Filosofia >, 1976, XXVII/1, pp.130- 133.
  6. Teleology and philosophical Historiography: Husserl and Jaspers, in “ Analecta Husserliana “, vol.IX, Reidel Publ. Company, Dordrecht 1979, pp.281-299.
  7. Nuove prospettive nella storiografia filosofica di Jaspers, XXV Congresso Nazionale di Filosofia, ( Pavia 1975), Roma 198°, pp.39-46.
  8. I confini del conoscere. Jaspers dalla psichiatria alla filosofia, Giannini, Napoli 1980.
  9. recensione a A.ALES BELLO, Husserl e le scienze, in < Teoresi > XXXVI/1981, pp.139-143.
  10. recensione a B.CALLIERI, Quando vince l’ombra. Saggio di psicopatologia teoretica, in < Il Contributo >, VI/1982, pp.117-119.
  11. Un aspetto dell’antropologia di Kant: la patologia dell’animo ( gemut ), Atti del convegno: “ Per il centenario della Critica della Ragion pura “, Messina 1982, pp.419-440.
  12. Sul nesso Verstehen- Erklaren nella psicopatologia jaspersiana, in Karl Jaspers . Filosofia – Scienza – Teologia, a cura di G.Penzo, Morcelliana, Brescia 1983, pp.159-169.
  13. Utopia e ideologia nella psichiatria contemporanea, Atti del convegno “ L’Utopia “, Messina 1984, pp.339-408.
  14. Fenomenologia della presenza e naturalismo psicanalitico, in < Rivista d’ Europa >, ottobre 1984, pp.33-55.
  15. Arte e alienazione. Estetica e patografia in Jaspers, Giannini, Napoli 1984.
  16. Sul concetto di < bellezza aderente >: Pareyson legge Kant, in < Bollettino della Società Filosofica, 126/1985, pp.59-64.
  17. Innocenza e pericolosità del filosofare, in < Bollettino della Società Filosofica >, 126/1985, pp. 59-64.
  18. recensione a A.GARULLI, Itinerari di filosofia ermeneutica, in < Studium >, 81/4, pp.549-551.
  19. recensione a O.ROSSI, Introduzione alla filosofia di P.Ricoeur, in < Studium > 81/1986, pp.62-74.
  20. Vindicating personal existence in Psychiatry, in < Phenomenological Inquiry > , 10/1986, pp.62-74.
  21. F.Rosenzweig: dal mito del Tutto al mio dell’eterno, in  AA.VV., La filosofia tra tecnica e mito, Assisi 1987, pp. 512-517.
  22. L’idea di natura nell’ebraismo contemporaneo, in < Studium >, 4/4, 1987, pp.759-762.
  23. Sul Cantico dei Cantici , il sacro e la sua fenomenologia, in < Segni e  Comprensione >, 3, II/1988, pp.46-60.
  24. E.Levinas e il volto ebraico della filosofia, in  Crisi della ragione e prospettive della filosofia, ESI, Napoli 1988, pp.149-159.
  25. Sulla intraducibilità della poesia. Note sul “ Goethe “ di B.Croce, in Itinerari dell’idealismo italiano, Giannini, Napoli 1989, pp.151-169.
  26. Jaspers  e l’idea di una filosofia universale: etica e avvenire dell’umanità, in Karl Jaspers. Esistenza e trascendenza, , Assisi 1989, pp.121-142.
  27. recensione a M.SIGNORE ( a cura di ), E.Husserl. La < Crisi delle scienze europee e la responsabilità storica >, in < Studium > 1/1986, pp.273-275.
  28. recensione a G.PENZO ( a cura di ), K.Jaspers e la critica , in < Studium > 2/1988, pp.473-475.
  29. recensione a W.BENIAMIN- G.SCHOLEM, Teologia e utopia, in < Studium > 3/1988, pp.473-475.
  30. Prigioniero di Dio. Franz Rosenzweig ( 1886 – 1929 ), Studium, Roma 1989.
  31. Dialogo e profezia nell’ebraismo, in La filosofia del dialogo, Assisi 1990, pp.85-131.
  32. Filosofia e dialogo. Da Buber a Levinas, in “ Bollettino della SFI “, 139/1990, pp.71-73.
  33. Sulle tracce di Abramo. Storia e memoria nell’ebraismo contemporaneo, Intilla, Messina 1990.
  34. Uno Stato come gli altri ? Il caso Israele, in < Studium > 3/1991, pp.367-377.
  35. La teologia ai confini, in < Studium >5/1191, pp.651-666.
  36. L’uguaglianza strappata. Illuminismo e questione ebraica, in I filosofi e l’uguaglianza, vol . II, Sicania, Messina 1992, pp.387-400.
  37. Storia ebraica e memoria ebraica, in Architettura e spazio sacro nella modernità, Biennale di Venezia, Segesta, Milano 1992, pp.35-39.
  38. Ferdinand Ebner. Dalla parola alla vita, dalla vita alla parola, in Dio nella filosofia del 900, a cura di R.Gibellini e G.Penzo,Queriniana Brescia 1993, pp.175-184.
  39. Martin Buber. Il sogno dell’esistenza unificata, in Dio nella filosofia del 900, a cura di R.Gibellini e G.Penzo,  Queriniana, Brescia 1993, pp.165-185.
  40. Dalla psichiatria alla filosofia: la vocazione filosofica di Jaspers nella clinica di Heidelberg, in Interiorità e comunità, a cura di A.Rigobello, Studium, Roma 1993, pp. 287-306.
  41. voce: Razzismo , in Dizionario delle idee politiche, a cura di E.Berti e G.Campanini, AVE, Roma 1993, pp.725-728.
  42. Edith Stein: come narrare il mistero, in < Horeb >, 2/1993, pp.68-73.
  43. Il volto dell’altro , in < Horeb >, 3/1993, pp.26-31.
  44. Esistenzialismo jaspersiano ed ethos della vita quotidiana, in < Criterio >, 1-2 /1994, pp.88-95.
  45. Verità e mondo della vita , in < Itinerarium > 2/2, 1994, pp.171-180.
  46. Andrè Neher. Silenzio di Dio e male nella storia, in < Horeb > 1/1994, pp.89-94.
  47. Emil Fackenheim. Il dovere sacro della sopravvivenza, in < Horeb >, 2/1994, pp.70-75.
  48. Hans Jonas. L’etica alle soglie del terzo millennio, in < Horeb > 3/1994, pp.65-70.
  49. Abramo: vocazione e provocazione al nomadismo. Una lettura filosofica, in Il pensiero nomade,  a cura di E..Baccarini , Cittadella, Assisi 1994, pp.132-1
  50. Hannah Arendt. Come raccontare il mondo, Studium, Roma 1995.
  51. Simone Weil: l’attesa di Dio, in < Horeb > 1/1995, pp.76-81.
  52. Cose nuove e cose antiche. Linee antropologiche di una filosofia della vita, in Evangelium vitae, a cura di G.Russo, ELD, Torino 1995, pp.275-282.
  53. Il Nome e i nomi. Crisi del soggetto e parola in F.Rosenzweig, in < Criterio >, 3-4/1994, pp.23-40.
  54. Comunicazione e silenzio. Riflessi jaspersiani, in Estraneità interiore e testimonianza, Scritti in onore di A.Rigobello, a cura di A.Pieretti, ESI, Napoli 1995, pp. 381-388.
  55. Linguaggio dell’eterno e risposta del tempo. Dialogo e profezia nell’ebraismo contemporaneo, in La filosofia del dialogo. Da Buber a Levinas, a cura di M.Martini, Cittadella, Assisi 1995, pp.79-126.
  56. Giustizia distributiva e principio di verità, in > Itinerarium >, 4-6/1996, pp.135-160.
  57. / Adrienne von Speyr. Storia di una esistenza teologica, SEI, Torino 1996.
  58. La morte di Dio. Note di cristologia filosofica, in < Studium >. 92, 3/1996, pp.337-346.
  59. Hannah Arendt e la rinascita della filosofia pratica, in > Nuova Secondaria >, 7/1997, pp.55-58.
  60. Filosofia e preghiera mistica nel 900, EDB, Bologna 1997.
  61. Per una comprensione filosofica dell’esperienza dell’Altro , in < Itinerarium > 9/1997, pp.43-55.
  62. L’esperienza religiosa tra storia e filosofia, in L’insegnamento della religione cattolica e i suoi compagni di viaggio, a cura di G.Ruta, S.Tommaso, Messina 1998, pp.167-182.
  63. Per un’etica della consegna , in < Aquinas > XXXLI, 1/ 1998, pp.125-131.
  64. Per guarire le parole. Tracce di ermeneutica ebraica, in Percorsi di ermeneutica, a cura di C.Resta, Sicania, Messina 1998, pp.7-27.
  65. Il Muro invisibile. Etica della consegna e Dottrina sociale della Chiesa, in Per ritessere la società civile, a cura di T.Buccheri e P.Ricci Sindoni, Paoline, Milano 1988, pp.13-39.
  66. Edith Stein ( 1891-1942 ), in < Itinerarium >, 6, 11/1998, pp.101-111.
  67. La concezione del tempo nell’ebraismo contemporaneo , in “ Studium “ 95, 2 / 1999, pp.175-186.
  68. L’antropologia tuale tra maschile e femminile a partire da Ferdinand Ebner, in AA:VV:, La filosofia della parole di F.Ebner, Morcelliana Brescia 1999 pp.118-140
  69. Il perdono di Dio. Perdono e pentimento nella teologia cattolica, Atti del XIX Colloquio ebraico – cristiano di Camaldoli, Pezzini, Rimini 1999, pp.31-42.
  70. Pensare la morte. Il contributo di Divo Barsotti alla teologia dell’escaton, in “ Ho Theologos “, 17, 1999/3, pp.399-405.
  71. La croce e la stella. Teismo cristiano ed ebraico in Franz Rosenzweig, in AA.VV. Pensare Dio a Gerusalemme. Filosofia e monoteismo a confronto, a cura di A. Ales Bello, Pontificia Università Lateranense, Mursia, Roma 2000, pp. 263 – 270.
  72. All’origine del dato antropologico : la natalità di H.Arendt, in “ Per la Filosofia “, anno XVII/49, maggio-agosto 2000, pp. 83 – 91.
  73. Etica della consegna e dottrina sociale della Chiesa , in Quale società civile per l’Italia di domani ?, a cura di F.Garelli e M. Simone, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 159 – 170.
  74. Zygmunt Bauman: alla ricerca della politica, in “ Itinerarium “ 9\2001, 37-50 .
  75. Le stagioni della vita e il dolore del tempo. Ferdinand Ebner e Simone Weil, in Ferdinand Ebner, in “ Communio “ 175-176, gennaio-aprile 2001, pp.164-174.
  76. Razionalità scientifica e verità. Epistemologia e mistica a confronto, in  “ Humanitas”, 2\2001, pp.180-190.
  77. Adrienne von Speyr.La luce e le immagini. Per una fenomenologia della visione, in Il Filo(sofare) di Arianna. Percorsi del pensiero femminile nel Novecento, a cura di Angela Ales Bello e Francesca Brezzi, Mimesis, Milano 2001,pp. 133-146.
  78. Il guaritore ferito. Note sul rapporto medico-paziente, in Alle frontiere della vita. Eutanasia ed etica del morire/1, a cura di M. Gensabella Furnari, Rubbettino, Soneria Mannelli 2001, pp. 53-64.
  79. La domanda e la promessa, Prefazione a N. BOMBACI, Ebraismo e cristianesimo a confronto nel pensiero di M. Buber, Dante & Descartes, Napoli 2001, pp. IX – XIV.
  80. Franz Rosenzweig. Cristo e gli ebrei: dall’opposizione alla prossimità, in S. ZUCAL ( a cura di ), Cristo nella filosofia contemporanea, vol. II Il Novecento, S. Paolo, Milano 2002, pp. 541 – 562.
  81. Hannah Arendt. Gesù di Nazareth e la cristianità. Storia di una distinzione, in S. ZUCAL ( a cura di ),Cristo nella filosofia contemporanea, vol. II Il Novecento, S. Paolo, Milano 2002, pp. 869 – 890.
  82. Tempo ebraico e tempo cristiano nell’orizzonte biblico, in AA.VV., Tempo sacro e tempo profano. Visione laica e visione cristiana del tempo e della storia, a cura di L. De Salvo e A. Sindoni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, pp. 269 – 280.
  83. L’io e l’altro: il cammino della prossimità, in “ Dialoghi”II/2, giugno 2002, pp. 24 – 33.
  84. Il ritorno, il segreto, la soglia, in “Aquinas”, 02/XLV/1, pp. 65-77.
  85. Ebraismo e cristianesimo nel pensiero di Martin Buber, in “ Itinerarium” 10(2002), 20, pp. 195 -200
  86. La verità del tempo e la speranza in Virgilio Melchiorre, in La persona e i nomi dell’essere, Scritti di filosofia in onore di Virgilio Melchiorre, a cura di F.Botturi, F.Totaro, C.Vigna, volume I, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 647- 658.
  87. Karl Jaspers:il paradigma dell’oltre, in “Aquinas”, 02/XLV/2, pp.179-188.
  88. Heschel. Dio è pathos, Il Messaggero, Padova 2002
  89. Noi e loro. Per una identità in movimento, in AA.VV., Il futuro dell’uomo. Fede cristiana e antropologia, EDB, Bologna 2002, pp. 103-117.
  90. From Theory to life-practice:Phenomenological psychiatry. Ludwig Binswanger, the Inspiring Force, in Phenomenology World-Wide. Foundations-Expanding-Dynamics-Life-Engagements, ed.by A.T.Tymieniecka, Kluver Academic Publisher, Dordrecht 2002, pp. 657-664.
  91. I percorsi della fede.I sogni e le trappole della filosofia e della teologia, in D.DI CESARE – G. CANTILLO, Filosofia, esistenza, comunicazione in Karl Jaspers, Loffredo editore, Napoli 2002, pp. 137 – 152.
  92. Adrienne von Speyr. La preghiera è mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2003
  93. Sperare nel tempo della delusione, in Il pianto di Maria, a cura di G. Greco, Città Nuova, Roma 2003, pp. 95 – 116.
  94. Simbolica dell’umano ed ermeneutica del femminile, in “Communio”, 190-191, 2003, pp. 35-90.
  95. Prefazione a La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, a cura di P.Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004, pp. 12-18
  96. Martin Buber. La freccia e il turcasso, in AA.VV., La sentinella di Seir. Intellettuali nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Studium, Roma 2004, pp. 25-42
  97. Il lavoro intellettuale come vocazione. Il contributo di A.D. Sertillanges, in La filosofia cristiana tra Ottocento e Novecento, Atti del convegno 29 maggio – 1 giugno 2004, Perugia 2004, pp. 119-132.
  98. Libertà e differenza: per una antropologia a due, in “Dialoghi”,  IV/2004, 1, pp. 40-47
  99. Il Mediterraneo: alle sorgenti dell’etica monoteistica, in G.RUSSO ( a cura di), La persona: verità morale sinfonica, Elledici, Torino 2004, pp. 71-80.
  100. Mistica femminile, mistica duale. Ildegarda e il tema della doppia luce.www.bebelonline.net/public/ildegarda.PDF 2004
  101. Per una mistica teocentrica, in AA.VV., Il dolce canto del cuore. Donne mistiche da Hildegard a Simone Weil,, Ancora, Milano 2004, pp.9-15.
  102. Voce: Donna: aspetti etico-filosofici, in Dizionario di Bioetica e di Sessuologia, a cura di G. Russo, Elledici, Torino 2004, pp.695-698.
  103. Il tempo come indicibile attesa, in Il Tempo, Atti del IX Convegno tematico di Studium 26-28 maggio 2003, in “ Studium”,  100/ luglio-ottobre 2004, pp. 793-806.
  104. Rappresentazione e ruolo dell’intellettuale del Novecento, in “ Studium” 2/2005, pp. 245-252
  105. Per una mistica profetica in Giorgio La Pira, in AA.VV., La nostalgia dell’altro, a cura di V.Possenti, ed  Marietti, Genova – Milano 2005, pp.255-272.
  106. La spiritualità di Francesco Vitale attraverso gli scritti, in AA.VV., Francesco Bonaventura e i Rogazionisti nel Mezzogiorno d’Italia, a cura di A.Sindoni, ed Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 71-79.
  107. Ricordo freddo, ricordo caldo. Sulla memoria nell’ebraismo,
    www.babelonline.net/public/Paola_Ricci_Sindoni_Ricordo_freddo.pdf2005
  108. Bioetica e religioni, in Il Comitato nazionale per la bioetica. 1990-2005.Quindici anni di impegno, Convegno di studio, Roma 30 novembre-3 dicembre 2005, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma 2005, pp. 447-458.
  109. Hannah Arendt, la fanciulla straniera in L’altra metà della terra e del cielo. Mistero e fascino del mondo femminile, Casa Editrice Mazzina, Verona 2006, pp. 293-303.
  110. Il corpo femminile e i suoi simboli. Una provocazione alla bioetica, www. portaledibioetica.it/documenti .(Marzo 2006)
  111. Ebraismo, in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2219-2258.
  112. Franz Rosenzweig, in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2279-2293.
  113. Abraham Joshua Heschel , in AA.VV. Filosofie nel tempo, a cura di G. Penzo, vol.III-tomo II, SPAZIOTRE, Roma 2006, pp 2295-2308.
  114. Per un’etica del sapere, in Cattolicesimo e futuro del Paese,EDB, Bologna 2006, pp. 251-256.
  115. Znanost i religja.Povijost moguceg susreta, in “ Katteheza” Croatia, september 2006, pp. 251-258
  116. La forza dei legami. Note antropologiche ed etiche sull’identità femminile, in “ Communio”, 206/2006, n. 206, pp. 54-64.
  117. Ragione e contemplazione. Per una spiritualità della ricerca, in Libertà della ricerca o liberta dalla ricerca? Spirito universitario e responsabilità della ragione, Atti del X Convegno IPE, a cura di N. Villani, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2006, pp. 53-62.
  118. L’ora della biopolitica. La parola alle donne, in Una storia tormentata, a cura di P. Binetti, Magi, Roma 2006, pp. 106-116.
  119. Voce: Malizia, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol. 7, pp. 6955-6956.
  120. Voce: Misrahi in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7468-7469.
  121. Voce: Morale ebraica in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7612-7613
  122. Voce: Neher A., in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 8, pp. 7810.
  123.  
  124. Voce: Rubenstein R. in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 10, pp. 9884-9885.
  125. Voce: Tu, in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 12, pp. 11798-11801.
  126. Voce: Weil S., in Enciclopedia filosofica, a cura di V. Melchiorre, Bompiani, Milano 2006, vol 12, pp. 12326-12329.
  127. La religione come esperienza di fede. Verità “eccedente” e inculturazione del mondo, in La filosofia di fronte alla pluralità delle religioni, Atti del V Convegno annuale dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione, Torino 5-6 maggio 2006, Aracne, Roma 2007, pp. 111- 120.
  128. Voce: Allegoria, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a curadi L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p.  33-34.
  129. Voce: Autorità, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura diL. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 58.
  130. Voce: Esistentivo Esistenziale, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 147-148.
  131. Voce: Fenomeno Fenomenologia, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 158 – 159.
  132. Voce: Filosofia della religione, , in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 162.
  133. Voce: Infinito, , in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 209 – 210.
  134. Voce: Interpretazione, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p. 211.
  135. Voce: La Pira Giorgio, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 223-224.
  136. Voce: Relazione, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, p.  308.
  137. Voce: Tempo, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 345-356.
  138. Voce: Verità, in La mistica parola per parola, Enciclopedia a cura di L. Borriello, M.Del Genio, T. Splidlick, Ancora, Milano 2007, pp. 362-363.
  139. Suoni e ritmi del Libro. Sul problema della traduzione, Introduzione a M. BUBER, Parola e Scrittura. Per una nuova versione tedesca, a cura di N. Bombaci, Aracne, Roma 2007, pp. 7 – 24.
  140. Etica della consegna e profetismo biblico. Geremia, Ezechiele, Giona, Abacuc, Tobia, Studium, Roma 2007.
  141. Laicità e fondamentalismi, in Lessico della laicità, a cura di G. Dalla Torre, Studium, Roma 2007, pp. 153-163.
  142. La filosofia ebraica nel Novecento, a cura di P. Ricci Sindoni, Spazio Tre, Roma 2007
  143. Preghiera cristiana e filosofia, in C. ROSSINI – P. SCADINI (edd), Enciclopedia della preghiera, LEV, Città del vaticano 2007, pp. 1249-1257.
  144. Le lacrime dell’anima. Fenomenologia del pianto nelle Confessioni di Agostino, in “ Itinerarium” 15 -37/07, pp. 98-104.
  145. ( a cura di), Agostino tra filosofia e teologia. Temi e prospettive, in Itinerarium 15, 37/07, pp. 55 – 104.
  146. Sul nesso pensiero scrittura in Hannah Arendt in  “B@belonline/print” 3/2007, pp. 107-111.
  147. Mistica femminile, mistica duale. Percorsi filosofici nel Novecento, in “ Rivista di filosofia neo-scolastica” 3/ XCIX, luglio-settembre 2007, pp. 441-456.
  148. Metafisica del suono e violenza del logos. Introduzione a una epistemologia del pensiero ebraico, in Metafisica e violenza,  Atti delConvegno, Gallarate 21-23 settembre 2005, a cura di C. Vigna e P. Bettineschi, Vita e Pensiero, Milano 2008, pp. 155-178.
  149. Ragione ed infinito. Una provocazione epistemologica, in AA.VV., La ragione, le scienze e il futuro delle civiltà. EDB, Bologna 2008, pp. 153-158.
  150. L’urgenza del bene: le voci della mistica, in M. SIMONE (a cura di), Il bene comune oggi. Un impegno che viene da lontano, Atti della 45° Settimana sociale, EDB, Bologna 2008, pp. 311-314.

 

Prof. Paola Riccitel 090 3503219

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CARA VALERIA… Quando Dio chiama.

Posted on Marzo 24th, 2009 di Angelo |

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COMUNICARE NELLA FEDE

 

“Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa.” (Mt 5,14-15).

 

La soppressione del vecchio sito ci ha penalizzati per due ragioni:

  • sono andate perse tutte le e-mail degli iscritti e solo pochissimi hanno provveduto  a trasferirle nel nuovo blog;

  • la cancellazione ha interrotto una certa comunicazione che in questi anni a tante persone è giovata.

Proprio perché alcune persone la rimpiangono, sono alla ricerca di uno strumento idoneo.

 

Questa pagina vorrebbe essere un tentativo di ridestare la passione del condividere, possibile anche da qui, previa iscrizione al blog. (Le istruzioni d’uso sono in fase di perfezionamento).

 

Ciò che vorrei rilanciare è la necessità del comunicare nella fede.  Siamo stati sollecitati anche dall’Episcopato Italiano che ha  incentrato il cammino della Chiesa per il presente decennio su: COMUNICARE IL VANGELO IN UN MONDO CHE CAMBIA”.

 Negli orientamenti pastorali dei Vescovi  è scritto:  «Comunicare il vangelo è il compito fondamentale della Chiesa[...]. Il vangelo è il più grande dono di cui dispongano i cristiani. Perciò essi devono condividerlo con tutti gli uomini e le donne che sono alla ricerca di ragioni per vivere, di una pienezza della vita» (OP 32). A ben vedere, per la prima lettera di Giovanni, comunicare la buona notizia di Gesù più che un compito è una gioia: «Noi lo annunziamo anche a voi… perché la nostra gioia sia perfetta» (1Gv 1,3-4).

 

Far partecipare altri alla fede che gode della comunione con Dio è innanzitutto essere collaboratori della loro gioia (cf. 1Cor 1,24), non banditori per dovere di un messaggio divino. Dunque, per comunicare la fede è discriminante il comunicare nella fede: prima che interrogarsi sulle modalità, sulle capacità e i linguaggi, bisogna verificare di essere immersi nella fede, di aver «veduto e toccato» per poter essere credibili testimoni, piuttosto che maestri eruditi. 

Qui di seguito ci viene dato un timido segno che il Signore è all’opera, che lo Spirito agisce e ci coinvolge anche con questo modesto strumento. 

 

 

23 Marzo 2009-03-24

gioia-gioia-lacrime-di-gioiaCiao… 

Sono molto contenta di sentirti.  Hai ragione tu, san Riccardo sembra meno presente ma è lui che tira le redini di tutto… Senza volerlo ho fatto anch’io la riflessione che hai fatto tu e cioè che anche lui è  entrato nell’ordine francescano…un caso?? 

Ho sperimentato, te lo dico perché per me è vero, se no non oserei mai, che spesso non si sa mai cosa domandare e si fa fatica, ma occorre fare memoria di essere dentro ad una unità ad un popolo che è la chiesa; noi siamo sempre concentrati sulle cose da fare ma il vero problema non è cosa fare ma esserci. Noi tutti siamo “mandati” e il nostro compito è portare la novità di Cristo nel mondo, a partire dal contesto in cui siamo…

 

Sai, fino a poco tempo fa il mio problema maggiore soprattutto sul lavoro era che non mi sentivo adeguata al ruolo, cancellando quello che il mio cuore desidera e cioè il compimento, il centuplo quaggiù…

 

Quando poi ho iniziato – sono stata aiutata – ad alzare la testa ho capito che se resto in questa posizione non sarò mai felice e tutto sarà un obiezione continua, ma se invece mi faccio condurre, la vita è ancora più bella…Certo, conoscendomi, ci vuole una bella dose di umiltà, ma posso sempre domandare a Francesco, un “gigante” dell’umiltà.

“Signore aiutaci a cambiare quello che possiamo cambiare

aiutaci a sopportare quello che non possiamo cambiare

aiutaci a distinguere l’une dalle altre“

Sorella in Cristo

Valeria  

 

22 Marzo 2009

Cara Valeria,

                    Magnificat!  

E’ una gioia indicibile quella che mi comunichi. Paolo è stato mandato da Anania. Tu invece sei andata da Paolo che ti ha spedita da San Francesco. Dio è FANTASTICO e mirabile nei suoi santi! 

Mentre tu mi scrivevi, io ero intento a sfogliare le lettere di Fra Riccardo. Ad un certo momento m’è venuto un presentimento: forse mi ha scritto Valeria. Ed era appena accaduto. Se noi ci parliamo, è proprio per via di San Riky che mi sembra il regista di questa meravigliosa avventura nella quale sei coinvolta. Non dimenticare che, nell’ultimo anno di università, Erminio si era iscritto al Terz’Ordine di San Francesco, assumendo il nome di Frate Antonio. La spiritualità francescana, ossia evangelica, lo ha segnato per sempre.Nelle tue ultime, rispetto alle precedenti, traspare una felicità interiore dal sapore di fidanzamento in vista. Dal mio eremo per te posso fare molto poco: partecipare, accompagnarti, giorno dopo giorno, offrendo le mie piccole pene e invocando lo Spirito al quale non so nemmeno cosa domandare.  

Il Card. Martini, presentando un libro sul Pampuri ebbe a scrivere di lui  parole che vorrei facessi tue:  

 “Mi sia permesso notare che i Santi non invecchiano praticamente mai…Essi non diventano mai persone del passato, uomini e donne di ieri. Al contrario, sono sempre gli uomini e le donne di domani, uomini dell’avvenire evangelico, dell’uomo e della Chiesa: testimoni del mondo intero” ( Giovanni Paolo II, Lisieux, 2 giugno 1980)

…La cosa principale dei santi non è “l’opera personale” ma l’obbedienza con cui, una volta per sempre, si sono messi sinceramente al servizio della missione affidata loro da Dio, concependo tutta la propria esistenza solo in funzione di essa.

Così è stato per il beato fra Riccardo Pampuri la cui vita si è svolta in un arco di tempo piuttosto breve: 33 anni. Il suo “messaggio” è quello della santità quotidiana: la santità a cui ogni cristiano, per la grazia del Battesimo, è chiamato. E se eroismo c’è nella sua vita, è l’eroismo proprio del discepolo di Cristo, quello del dono totale di sé.

Il Pampuri ha vissuto tutta la serietà della fede cristiana, sempre: da bambino, da adolescente, da giovane. In casa, nella parrocchia, all’università, nel suo lavoro di medico, da religioso. Pensando a lui come medico, vengono alla mente i nomi di altri due medici santi e contemporanei: il prof. Giuseppe Moscati e il dr. Vico Necchi.

La povertà, l’umiltà, la serenità, l’illimitata bontà, la competenza specifica hanno fatto del “medico” Pampuri un testimone dell’amore incondizionato a Cristo e ai fratelli.

In Cristo amò la Chiesa e seppe vederla con una limpidità che tale non si ottiene guardandola dal di fuori ma vivendola dal di dentro, come mistero. E amò la Chiesa nella sua interezza: la parrocchia, i sacramenti, la gerarchia, le funzioni, l’adorazione eucaristica, la recita del rosario, le preghiere, gli Esercizi Spirituali, e anche la penitenza”.

Cara Valeria, vai avanti così e non farti sviare dalle sirene che tenteranno di dissuaderti  dal proseguire, mettendo in evidenza i tuoi limiti per spaventarti.  Fra Riccardo ti sia di stimolo a riscoprire il dono della vocazione a diventare figli di Dio nell’unico Figlio Cristo Gesù e a desiderare la sola avventura che vale la pena di essere vissuta: quella della santità.

Il Cardinale Martini ha scritto anche un’altra riflessione che ti deve sostenere nelle fasi successive del nuovo tuo cammino:

 
“Da questo giovane e grande santo possiamo trarre…l’invito forte, serio alla santità cristiana quale pienezza della carità, arricchita dai doni dello Spirito Santo, della sapienza, della pietà, del consiglio e della scienza.

…e ho detto anche che questa santità è facile, perché è opera dello Spirito in noi; è lo Spirito che ci fa essere come Gesù, che ci conforma a lui come figli del Padre. A noi non tocca suscitare lo Spirito, ma dargli spazio, assecondarlo nella nostra vita, come ha fatto Riccardo Pampuri.” 

Ti rivolgo l’augurio di Don Giussani: “…ci ottenga il dono di un cuore come il suo, “tormentato dalla gloria di Cristo, ferito dal suo amore, con una piaga che non si rimargini se non in cielo“, come si esprime la bella preghiera alla Madonna di padre Grandmaison”. 

Prega anche per me che mi sento tanto tanto imbarazzato a parlare di Dio e del Suo amore che corrispondo proprio male! Te lo chiedo con le lacrime agl’occhi per la commozione di assistere ai miracoli della Grazia.

La Madre di Dio ti prenda per mano.

Fraternamente tuo 

Angelo

 *       *      *

paoloCiao, eccomi qua…. 

Sei libero di fare quello che vuoi con i miei piccoli, umili scritti… 

Sono d’accordo con te su quello che dici su s. Paolo, quest’anno Paolino è stato un occasione perfetta di approfondire questa figura. Secondo me, s. Paolo ancora più di san Pietro, è la persona che più descrive l’esperienza di un uomo afferrato dalla grazia, e da lui puoi fare davvero un autentica esperienza di misericordia…

 

Ho letto qua e la sprazzi del tuo lavoro; è molto bello e utile, peccato che le ore del giorno sono solo 12 di cui 10 dedicate al lavoro…

  Non voglio uscire dal seminato.. ma visto che ti ho assillato così tanto, ci tengo a farti sapere che uno dei “miracoli” del pellegrinaggio in Turchia è stato quello di aver preso più coscienza di ciò che il signore vuole da me..per lo meno mi sono stati dati i primi passi…

Ho parlato con il mio don sul mio desiderio.. e lui mi ha detto di non esitare di seguire questa strada..domandando un aiuto al Signore… 

Ora ho più chiaro chi sono e chi voglio essere… 

Per vie strane, ma parlando di Dio nulla è strano, mi sono avvicinata a due grandi santi: S Antonio da Padova e S. Francesco… Studiando i loro testi, ho una grande possibilità di andare a fondo del mio essere cristiana.  

Ora, ma se il Signore vorrà, vorrei entrare nell’ordine francescano….vedremo.  

Nel giorno del Signore ti saluto.  

Valery 

 

melograno-fiore09 Marzo 2009-03-24  

Cara Valeria,

                      tornerò a rileggerti con calma. Ma a botta calda, nell’esprimerti la gioia che mi trasmette la tua, prendo la palla al balzo per farti una proposta, sicuro che non vorrai deludermi. 

La richiesta è questa: se continuerai a scrivermi – corrispondenza riservata a parte –  e, di volta in volta mi autorizzi, ti aprirò uno spazio sul Blog, dove finiranno, man mano le tue riflessioni. Quella di oggi, ad esempio, andrebbe già bene. 

Come vedi, stiamo parlando della “St. Richard Pampuri University” ed avere un “docente” che se la cava anche in inglese, sarebbe davvero una opportunità che non devo lasciarmi sfuggire. 

I naviganti hanno bisogno non solo di leggere articoli ma anche di sentir comunicare nella fede. Visto che ogni tanto hai delle belle occasioni  di visitare luoghi dello spirito e sei una ragazza meravigliosamente impegnata nella ricerca di un cristianesimo adulto, perché non lasciare TRACCE di comunione?  

Non farlo per me ma per il Vangelo che deve correre in ogni latitudine.  

In questi giorni anch’io – da seduto – sono in rapporto confidenziale con l’apostolo Paolo. Quell ‘uomo non finisce mai di stupirti ed aprirti nuovi orizzonti…  

Ho in costruzione altri due siti: 

ANGULO  

 Anche su questo sito ci starebbe bene la tua corrispondenza. Magari tra te ed i tuoi amici. Pensaci. Non è questione di essere di CL o di un’altra sigla. Siamo Corpo di Cristo, tralci della Vite, pane per essere masticato… 

Seconda novità:ttp://pampuri.unblog.fr 

Per il momento ci sono solo i primi due capitoli.

Cara Valeria, grazie. La tua gioia mi appartiene; le tue apprensioni sono anche mie. Ma è Lui, lo Spirito, a condurci dove vorrà.  

A presto, spero. 

Efeso…

 08 Marzo 2009-03-24 

Ciao, ho iniziato al leggere un po’ dei contributi che hai messo sul sito..molto interessante, e ho trovato l’indice tematico molto utile…quanto lavoro prezioso! Grazie… 

Ti sbagli!!!  A piccole dosi ti racconterò del mio viaggio in Turchia, perché per me è stata una possibilità di grazia enorme, sia per la mia conversione sia per la mia presa di coscienza più viva di essere parte della chiesa… 

E’ stato un viaggio con molte sfaccettature, un esperienza ancora tutta da digerire…: ho fatto parecchia fatica perché il gruppo era costituito da persone di età e di cultura diverse, e a volte questo pesava..

Alcune di queste persone sono mie parrocchiane, e questo viaggio mi ha permesso di conoscerle, o di approfondire il mio rapporto con loro… Con alcune di queste ho fatto molta fatica perché erano chiuse nei loro rapporti e non ti filavano di striscio… 

Con altre è stato pazzesco, al limite dell’irritante poiché hanno sbagliato a mio avviso, approccio: un pellegrinaggio è fatto di fatica, sveglia mattutina alle 5.30;  una crociera costa è un altra cosa, quindi sei non sei pronto o ti adegui o te ne stai a casa… Nella vita sapersela cavare e adeguarsi alle situazioni penso sia importante…sai quante incavolature mi sono presa??? 

E poi vivere il presente e non pararsi sempre dietro al passato, la Turchia non è la  Terra Santa,  è evidente,  e allora basta paragoni!!!  

Per fortuna che però il signore mi ha fatto incontrare delle persone davvero speciali, una era la mia compagna di stanza.   

Una signora che per la cultura e per la conoscenza religiosa mi incuteva timore mista ad una sorta di venerazione..quando ho scoperto che era la mia compagna di stanza mi sono bloccata, ero troppo in paranoia ; come mi sarei rapportata  con lei?  

I suoi occhi pieni di gioia quando mi ha aperto la porta della stanza, non li scorderò mai..io impacciata lei felice di condividere questo pellegrinaggio con me, e mi ha anche ringraziato per questo… 

Durante la giornata cercavo di stare lontana da lei per farle vivere i rapporti con le sue amiche, ma spesso ci trovavamo vicine, altre volte mi cercava lei…non credevo che avrei mai trovato una persona con una semplicità e apertura di cuore così grande… 

Con altre persone l’inizio del rapporto è avvenuto quasi senza pensarci…quando si sta insieme per un po’ di tempo viene naturale, almeno per me, aiutarsi in cose pratiche che possono riguardare te come gli altri; ad ex. il cellulare, la macchina digitale, gli acquisti…:

A me è capitato di aiutare persone, sarà per la mia mania per la tecnologia, la mia suff. conoscenza dell’inglese, gesti molto piccoli, una volta fatti, non ci pensi più; e invece da situazioni così è iniziato uno scambio di esperienze e di giudizi su quello che ti succedeva… 

Termino qui, ma ti assillerò ancora sai…. 

PS hai visto che fanno beato don Gnocchi??  wow

 Vale 

 

26 Febbraio 2009 

Non ti ho risposto subito perché non mi andava di ricambiare la tua  con due battute di rito. Nel frattempo ho pensato seriamente a ciò che ti va accadendo, giorno dopo giorno, ed ho anche pregato per te, la sola cosa che posso fare, da compagno di viaggio. 

Vedo in te una certa determinazione in questo momento. Continua. 

Visto che vai sulle orme di Paolo, ti suggerisco di stampare la paginetta che troverai sul nuovo blog, nato ieri sera,  

http://angulo.unblog.fr 

e di tenerla a portata di mano nella borsetta. 

Recita spesso in quei luoghi la preghiera con cui Paolo apre la lettera agli Efesini perché darà un grande senso al tuo pellegrinaggio. 

Naturalmente, quando tornerai, so che  non mi dirai nulla, come sempre,  per non “annoiarmi…”. 

Buon Viaggio e che  il Signore sia con te. 

Angelo

 

 

 19 Febbraio 2009-03-24 

Il silenzio non è dimenticanza, ma condizioni sfavorevoli e molti problemi sul lavoro… 

Domenica parto per la Turchia sulle orme di san Paolo, una possibilità concreta di conversione. Un aiuto anche a prendere una decisione per la mia vita… 

Ci sarebbe tanto da raccontare ma non vorrei annoiare… 

Sono andata ad Assisi ed è stato un vero “miracolo”.  Conquistata dalla letizia e dall’umiltà di Francesc, desidero iniziare un cammino verso una Sequela totale !!! 

Un abbraccio!!! 

Valery 

Ps: ho visto le news del sito..dimmi che devo fare

CARA SILVIA …ADESSO: Litterae communionis

communionis

Posted on Marzo 24th, 2009 di Angelo |

ADESSO – Litterae communonis

Ciao. Vorrei ancora comunicare come in passato con la c.d.g.r. ma come ora è impostato il blog, si può solo leggere, o lasciare un commento. Non si può inserire un argmento, nè immagini…

E’ una scelta, o io non ho capito?

A parte tu, altri comunicano qualcosa?…

Silvia

Cara Silvia,

il nuovo blog prevede la possibilità di intervento, non solo nei commenti ma come AUTORE di articoli, con aggiunta di foto, ecc. Poiché risulti iscritta a

http://compagniadeiglobulirossi.org/blog adesso sei autorizzata a partecipare come AUTORE. Si tratta di provare e di superare, man mano, le difficoltà pratiche. Fino a questo momento non avevo aperto questa possibilità, proprio perché non avevo le idee chiare sul come impostare il BLOG e perché non è  così duttile ed elementare come il precedente.

La procedura:

  1. Farsi riconoscere con la passwort

  2. Cliccare sulla voce “Amministratore”

  3. Si apre una Bacheca

  4. Cliccare su “Scrivi un articolo”

  5. Dargli un titolo

  6. Cliccare sull’icona “Attiva/disattiva schermo pieno”, un quadratino di colore azzurro.

  7. Scrivere il teso.

  8. Le foto si inseriscono cliccando sull’icona grigia “Aggiungi immagine”.

  9. Finito l’articolo, prima di salvarlo e pubblicarlo, stabilirgli la categoria dove dovrà figurare: “ADESSO – Inserzioni iscritti”. Si trova sotto l’articolo. Basta crocettare la casella e “Salvare”.

  10. Si “Visualizza l’articolo” e, se va bene, si “Pubblica”.

A questo punto il gioco dovrebbe essere fatto. Vogliamo provarci?

Sbagliando s’impara. Fammi sapere quali difficoltà incontri.

Buon divertimento!

CRISTIANESIMO ED EROTISMO – Va in scena il Cantico dei Cantici

Posted on Dicembre 13th, 2008 di Angelo | Edit  

Cristianesimo ed erotismo:   

va in scena il Cantico dei Cantici  

marco20grasso1-150x102Scritto da Marco Grasso

mercoledì 28 marzo 2007  

 

«Se esiste l’amore esiste Dio».

ravasiMonsignor Gianfranco Ravasi, prefetto della Biblioteca Ambrosiana, cita Pascal per spiegare che «non c’è nessuna contraddizione fra l’amore sensuale e la religione cattolica». Per questo, dice, nessuno stupore se questa sera al Duomo di Milano verrà letto il Cantico dei Cantici, brano dell’Antico Testamento e della Tanach  conosciuta come la Bibbia ebraica. Un testo atipico. Che parla di amore ed erotismo. 

«La grandezza del Cantico» secondo Ravasi «è che parte da un’esperienza umana. La sua forma più alta, quella dell’amore». Un amore non platonico: erotico. «La sessualità discende dall’amore, è un dono di Dio. Non è pornografia come oggi si vorrebbe fare credere».

A lungo questo brano ha creato non pochi imbarazzi alla Chiesa 

«Per secoli» dice ancora Ravasi «è stato interpretato come un’allegoria. Ai riferimenti sessuali veniva data una chiave di lettura eterea, divina. Niente di più sbagliato. É un simbolo: parte cioè da un’esperienza concreta, dall’amore di coppia tra un uomo e una donna, per arrivare a ciò che non si vede, al metafisico».  

Ho studiato nelle scuole religiose fino a 18 anni e nessuno me lo aveva mai fatto leggere» ricorda l’attore Stefano Santospago, che insieme a Maddalena Crippa interpreterà il Cantico nella suggestiva cornice del Duomo. Due voci, un coro e gli echi della cattedrale. «Non è un auditorium perfetto. Ma proprio per questo più efficace» dice la Crippa «dobbiamo riabituarci ad ascoltare il silenzio per apprezzare la poesia. Sono onorata di questa opportunità prima di tutto come donna: è avvilente l’immagine femminile che passa oggi in televisione». 

 canticocrippaÈ la prima volta che il Cantico dei Cantici viene recitato a Milano. E raramente il testo è stato rappresentato integralmente. Ad ogni modo, «non è roba da preti» sorride Ravasi. «Con la Fondazione Ambrosianeum abbiamo portato la religione in luoghi diversi da quelli di culto, come in occasione della lettura della Genesi alla Bocconi: c’erano 1200 posti eppure abbiamo dovuto mandare via la metà della gente. È la dimostrazione che le persone continuano a porsi grandi domande».

In questo caso è quasi il contrario: un tema considerato un tempo tabù entra in un luogo sacro. Fa parte di un’idea di contaminazione che Monsignor Ravasi porta avanti da tempo, anche con la trasmissione domenicale in onda su Canale 5 «Le frontiere dello Spirito»: «Il Cristianesimo non è solo una professione di fede: dobbiamo riappropriarci della sua dimensione culturale». Ma non parlate di amore sacro e amore profano: questo è l’Antico Testamento.

 Foto tratte da festivalbiblico.it e radio.rai.it 

LA SESTINA / Testata master in Giornalismo uni.mi

Versione per il master 2006-2008 

A cura di ALBERTO TRIVULZIO

 

CANTICO DEI CANTICI

Posted on Dicembre 13th, 2008 di Angelo | 

dodî lî wa’anî lô…

‘anî ledôdî wedôdî lî,

il mio amato è mio e io sono sua…

io sono del mio amato e il mio amato è mio

 ”…La professione d’amore della donna del Cantico dei cantici è affidata al filo musicale del suono «i» che indica la personalità dell’io e dell’ «ò» che rimanda al «lui» dell’amato: dodî lî wa’anî lô… ‘anî ledôdî wedôdî lî, «il mio amato è mio e io sono sua… io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16; 6, 3). La Parola è, dunque, voce che parla il linguaggio di Dio” (G.Ravasi).

  

    

Roberto Benigni – Il Cantico Dei Cantici
20/feb/2007  

 

claudia-koll-2004-05-24_bg_a [La Bibbia Giorno E Notte] Lettura di Claudia Koll  

09:59 – 09/ott/2008 – 2 mesi fa – Antico Testamento, Cantico dei Cantici 1; 2; 3 (8 ottobre 2008) … La Bibbia Giorno Notte Lettura di Claudia Koll … Antico Testamento, Cantico dei Cantici 1; 2; 3 (8 ottobre …

 

 

   “IL CANTICO DEI CANTICI” IN MUSICA   

     

Cantico dei Cantici

 

 Milleduecentocinquanta parole ebraiche sono divenute il “Cantico dei cantici”, cioè il ‘cantico sublime’, il cantico per eccellenza dell’amore e della vita. Un poemetto tutto intarsiato di simboli, percorso dalla gioia, capace di trasformare in primavera anche l’arido e assolato panorama palestinese. Al centro di questo giardino ci sono Lui e Lei, l’eterna coppia che appare ogni giorno sulla faccia della terra per cantare che “forte come la Morte è l’Amore” (8,6). Questo commento, che si basa su una nuova versione del testo biblico, dopo aver affrontato i segreti letterari di questa stupenda miniatura poetica, segue le pagine nel loro svolgersi attraverso scene sorprendenti ed esaltanti. Finito il viaggio nel testo biblico, si intraprende un nuovo itinerario nell’interno dei ‘mille Cantici’, seguendo il filo d’oro che il Cantico ha lasciato nella letteratura, nella pittura, nella musica, nell’arte di tutti i tempi. E alla fine si approda al suo segreto ultimo, quello della sua teologia originale e ‘giovane’, celebrazione dell’amore umano ma anche di quello mistico: “Il mio amato è mio e io sono sua… Dodi li wa’ani lo!”.   

I. Il “Cantico dei cantici” in ambiente giudaico. Il Cantico dei cantici si presenta a chi legge come un poema d’amore in lingua ebraica, espresso dai due protagonisti in canti alterni di tono fortemente erotico e ambientato prevalentemente in una cornice pastorale di maniera. Il Cantico si apre con “Cantico dei cantici, che è di Salomone”, e la tradizione sia giudaica sia cristiana, unanime, attribuisce la paternità dell’opera a questo famoso re d’Israele, vissuto nel X secolo a.C.: ma la critica moderna esclude l’attendibilità di tale attribuzione e considera lo scritto ben più tardo, anche se, come vedremo or ora, è tutt’altro che concorde sulla datazione da proporre.

 

Anche a interpretarlo in senso rigorosamente letterale, il Cantico presenta notevole difficoltà, perché non appare chiara la linea di svolgimento che collega uno con l’altro i vari canti, e diventa perciò spesso difficile distinguerli plausibilmente uno dall’altro e ripartirli con esattezza tra i due protagonisti. Quello femminile si presenta con caratteri non sempre coerenti e perciò sotto diversi aspetti; e, oltre ai due protagonisti, pare doversi ammettere almeno un altro personaggio di contorno, rappresentato da un coro di fanciulle, ma – come vedremo – Origene ritenne di poter individuare, accanto a questo, anche un coro di giovani. Per altro, tutte queste difficoltà appaiono, in definitiva, di modesto spessore di fronte al problema fondamentale che presenta l’opera e che divide tuttora gli studiosi, vale a dire, quale significato si debba attribuire a questo poema, o meglio, a questo insieme di canti d’amore: se letterale ovvero allegorico.

Le più antiche testimonianze giudaiche sul Cantico, che risalgono all’inizio de) III secolo d.C. (Mishna), attestano con sicurezza che l’opera era stata compresa nel canone dei libri divinamente ispirati, cioè faceva parte della Sacra Scrittura, e più esattamente della terza parte, dopo la Legge e i Profeti, quella dei cosiddetti Ketubim, Agiografi. Ma nel contempo queste stesse testimonianze danno a vedere che l’inserimento del Cantico nel canone scritturistico aveva suscitato, alla pari di quello dell’Ecclestaste, contestazioni e difficoltà. Se il famoso Rabbi Aqiba, attivo agli inizi del II secolo, giunse ad affermare che tutto il corso del tempo (o il mondo intero) non è degno del giorno in cui questo libro fu dato a Israele, l’iperbolica affermazione induce facilmente a ipotizzare un contesto polemico, tanto più che lo stesso Aqiba ebbe occasione di maledire chi adibiva il Cantico a uso profano, cantandolo in un banchetto (o in un’osteria).

E evidente che il contenuto del Cantico, completamente profano, e il suo linguaggio fortemente erotico avevano suscitato perplessità di fronte alla proposta di considerarlo ispirato alla pari degli altri libri della Scrittura: per arrivare a tanto, infatti, era necessario apprezzare il contenuto dell’opera come completamente allegorico, identificando cioè nei due personaggi principali Dio e Israele, e perciò contestualizzando i canti d’amore, che essi si scambiano, nella trama del tema, largamente attestato nella tradizione profetica, del rapporto sponsale che lega Israele al suo Dio. Ma per fondare questo significato era necessario interpretare il Cantico in modo da escluderne del tutto il significato meramente letterale, e anche questo momento decisivo per la fortuna dell’opera ci è testimoniato: “Abba Saul diceva: “All’inizio dicevano che Proverbi, Cantico dei cantici ed Ecclesiaste non erano canonici; poi dissero che erano soltanto scritti sapienziali e che non appartenevano alle Scritture. Li hanno alzati e abbassati, finché non vennero gli uomini della Grande Sinagoga e li interpretarono” “.

Una volta assodato che l’inserimento del Cantico nel novero degli scritti ispirati fu reso possibile dall’interpretazione completamente allegorica del suo contenuto, resta aperto l’interrogativo primario, se cioè nell’intenzione dell’ignoto autore i suoi canti d’amore avessero già un valore simbolico di significato religioso ovvero fossero da intendere letteralmente, cioè soltanto per quello che si presentano a immediata lettura, canti d’amore profano. La questione è controversa, in quanto ambedue le soluzioni trovano tuttora convinti sostenitori: ai fini dello specifico discorso che andiamo svolgendo, è sufficiente precisare che Robert ha sostenuto il significato già originariamente allegorico del Cantico, mentre di recente Garbini ha riproposto la tesi opposta. Quanto alla prima tesi, basterà rilevare che, secondo i suoi sostenitori, il significato allegorico dell’opera, espressione dell’amore che lega tra loro Dio e Israele, viene riportato, al di là dell’interpretazione che ne permise l’inserimento nel canone scritturistico, all’intenzione stessa dell’autore, che, secondo Robert (p. 2.0), avrebbe composto il suo poemetto verso la fine del V secolo.

 Quanto all’altra tesi, Garbini (p. n sgg.) l’ha nuovamente proposta facendosi forte di svariati riscontri che, già a partire da Grozio, sono stati messi in luce tra il Cantico da una parte e Teocrito dall’altra: riscontri che i sostenitori dell’originario valore simbolico dell’opera considerano nel complesso casuali e di scarso significato, e ai quali invece Garbini attribuisce valore decisivo ai fini di una ricostruzione radicale del Cantico: l’opera sarebbe costituita da una serie di epigrammi, tra loro collegati, che hanno per oggetto un amore quanto mai fisico e che sarebbero stati composti, più o meno, nel I secolo a.C., da un giudeo fortemente ellenizzato, in dichiarata polemica con la letteratura d’intonazione sapienziale. L’interpretazione in senso religioso dell’opera, che fu proposta per tempo, avrebbe anche spinto a modificare il testo. “La mancanza della notazione vocalica rendeva molto facile il cambiamento del senso, senza nemmeno toccare il testo scritto [...] ma quando ciò non bastava, si interveniva sul testo, con qualche paroletta aggiunta o tolta o, più spesso, con minuti mutamenti grafici (uno o due segni) sufficienti a cambiare totalmente il senso di una parola o di una frase”, col risultato di alleggerire alquanto l’originariamente più insistito tono erotico del poemetto.

 

1 – SINGHIOZZO – NOSTALGIA – PROFUMO – INTIMITA’ – Pino Stancari

Posted on Dicembre 13th, 2008 di Angelo |

 cantico_dei_cantici_1

 

IL SINGHIOZZO, LA NOSTALGIA,

 

IL PROFUMO, L’INTIMITA’

 

Pino Stancari
Nato nel 1946, Pino Stancari è entrato a diciott’anni nella Compagnia di Gesù. Vive dal 1975 in una piccola residenza della Compagnia in terra di Calabria, dedicandosi a ministeri quali l’esegesi, la predicazione, gli esercizi spirituali. Da quest’impegno quotidiano e itinerante al servizio della parola di Dio sono nati i suoi libri sull’Esodo, il Levitico, i Numeri, Giosuè, i Salmi, Tobia, il Cantico dei Cantici, il Vangelo di Marco, i Patriarchi, la Lettera ai Romani.

di Pino Stancari

una meditazione sapienziale 

Il Cantico dei Cantici è una meditazione sapienziale sulla storia umana e sul senso della storia umana, così come nel vissuto personale di ciascuno di noi. Il testo, nella sua redazione definitiva, appartiene alla fase finale della storia della salvezza e porta così in sé la densità, la complessità, la ricchezza di una meditazione che è andata crescendo e qualificandosi nel corso di tanti secoli. E’ un frutto prezioso che ci trasmette il condensato di una ricerca che è passata attraverso le grandi vicende della storia del popolo di Dio e che trascina con sé le testimonianze di una miriade di credenti, il valore misterioso di una relazione fra Dio e noi, fra Dio e la storia degli uomini, fra Dio e il mondo, Dio e me, povero uomo, piccolo personaggio, creatura minuscola che si sperde sulla scena della grande vicenda umana.

E’ esattamente questo coinvolgimento, la relazione con il Dio vivente, che riempie la vita: la vita degli uomini, la vita di un uomo, il senso della storia umana.

Il Cantico dei Cantici non inventa nulla. Tutta la storia dell’alleanza tra Dio e il suo popolo è una storia di amore. In particolare la predicazione dei profeti, da una certa epoca in poi, ha insistito nel sottolineare il valore di un rapporto nuziale fra Dio e il suo popolo: da Osea a Geremia, a Ezechiele, ai profeti seguenti, quelli la cui predicazione è presente all’interno del libro di Isaia. Il Cantico dei Cantici non inventa, ma riprende la meditazione su questa storia in modo così appassionato da assumere, nel contesto della letteratura biblica, un rilievo straordinario.

il cantico d’amore per eccellenza

E’ il cantico di amore per eccellenza: il Cantico dei Cantici è un superlativo. Il titolo stesso porta in sé l’allusione a una realtà che supera ogni misura interpretativa a meno che non si adegui, per l’appunto, a quella misura smisurata, a quel criterio oltre ogni livello praticabile, che diventa pure l’unico modo adeguato per star dentro alla storia dell’umanità e star dentro alla storia propria personale, cogliendone il valore intrinseco: una storia di amore.

Il Cantico dei Cantici riprende brani provenienti da quella letteratura amorosa che ha costituito una delle componenti della letteratura tradizionale d’Israele, così come di tanti altri popoli, ma li rielabora, li risistema, li ricompone all’interno di un disegno letterario che assume una identità originalissima. I testi che qui vengono usati, opportunamente ritagliati, collegati tra di loro, rimontati all’interno del nuovo contesto, acquistano un prestigio teologico straordinariamente efficace. Tutta l’urgenza, tutto il pathos, tutto lo splendore affascinante di quella letteratura amorosa viene riproposto nella dimensione contemplativa di una sintesi teologica in grado di riproporre gli elementi essenziali di quel che ci consente di ricostruire la storia del passato e di anticipare la storia dell’avvenire. E’ in questo modo che la tradizione ebraica e poi la tradizione cristiana, nel corso dei millenni hanno interpretato il Cantico dei Cantici.

Il testo che leggiamo si compone di cinque poemi, preceduti da un prologo e seguiti da un epilogo: cosa è avvenuto nella relazione fra Dio e il suo popolo Israele, cosa avviene nel rapporto fra Dio e la sua creatura. C’è un personaggio nel Cantico dei Cantici che viene identificato con l’espressione: il diletto. E lui, è il Signore Onnipotente. C’è un altro personaggio che viene individuato mediante diversi appellativi: è la creatura amata da Dio. Il diletto, la creatura amata. La creatura amata assume la fisionomia del popolo. La tradizione cristiana poi legge e medita il Cantico dei Cantici trovando immediatamente un riscontro cristologico: è il Cantico dei Cantici che ci conduce ad affacciarci su un orizzonte messianico, fino, cioè, al compimento della storia dell’umanità, in quanto è la storia dell’amore di Cristo, il figlio di Dio che si è fatto uomo e la creatura umana. Cristo e la sua chiesa, la comunità di cui egli si compiace, a cui è legato in forza di un vincolo nuziale; Cristo e l’umanità, sposa che egli attende per la piena e definitiva manifestazione della sua gloria; Cristo e ogni persona umana che è chiamata ad essere definitivamente sposata a lui che regna nei secoli dei secoli.

il cantico di Salomone

C’è un titolo che già possiamo considerare parte del prologo, ma che possiamo anche isolare come intestazione di tutto il cantico: Cantico dei Cantici che è di Salomone. E’ il cantico per eccellenza, è il cantico al superlativo, questo non soltanto per caratterizzare la qualità poetica del testo con cui abbiamo a che fare, ma perché siamo rinviati alla presenza di un autore davvero eccezionale. Il Cantico dei Cantici non è soltanto una splendida testimonianza di produzione letteraria, ma è il cantico di Dio. Infatti, non soltanto si parla di Lui, ma viene percepita l’eco della sua voce che canta, la voce misteriosa del Dio vivente. Qui la testimonianza proviene da chi ha auscultato il cuore dell’Onnipotente: ecco i battiti che sono stati percepiti nell’intimo del mistero, ecco come chi ha avuto a che fare con quella profondità impenetrabile ha recepito la testimonianza di un linguaggio, di per sé ineffabile, e che trova voce, la povera voce umana, che si rifà al linguaggio di quanti hanno cantato situazioni di amore. E’ la voce dell’innamorato per eccellenza, per antonomasia, per definizione; è la voce del vivente che nel segreto del suo mistero vive in quanto è eternamente protagonista di una iniziativa di amore; è il mistero di una comunione di amore che nel segreto della sua intimità eternamente si consuma. Il Cantico dei Cantici ce ne dà il riscontro, ce ne porge la testimonianza, ci invita ad auscultarne noi pure la eco.

Il Cantico dei Cantici viene attribuito a colui che è il patrono di tutta la tradizione sapienziale, a Salomone. Qui, tuttavia, la prospettiva può essere ribaltata: non solo Salomone merita di essere identificato come l’autore di un testo sapienziale più sapiente di ogni altro, ma Salomone è destinatario di una comunicazione di amore che fa di lui e farà di lui il sapiente. Salomone (1Re 3) nel sonno riceve una visita, sogna e sognando chiede la sapienza del cuore, e la sapienza gli viene donata. Questo è il Cantico che fa di un uomo che dorme, di un uomo che sogna il sapiente che sarà in grado di testimoniare quale sia il criterio di tutto quello che è avvenuto, che avviene, che avverrà nella storia degli uomini, nella storia di ogni uomo. Questo è il Cantico dei Cantici che farà di noi, e di ciascuno di noi, un Salomone, il sapiente che ci educa nel discernimento del sogno e nella accoglienza di quella sapienza che dal cuore di Dio viene riversata nel cuore umano.

“Cantico dei Cantici che è per Salomone” e quindi 3 versetti, fino al versetto 4, che costituiscono il vero e proprio prologo del cantico. Questi versetti sono dotati di una singolare densità: il prologo è anche un sommario, in questi pochi versetti noi siamo in grado già di intravedere quali saranno i contenuti su cui i poemi che seguiranno insisteranno.

qualcuno che respira a fatica

«Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le tue carezze sono più dolci del vino». Il prologo si apre con un sussulto improvviso, un singhiozzo, un gemito: c’è una voce che anela, testimoniando una difficoltà di respirazione: «Mi baci con i baci della sua bocca!». C’è qualcuno che respira a fatica. Il Cantico dei Cantici si apre con questa improvvisa urgenza. La ricerca di uno spazio che consenta una respirazione adeguata alla vita. Chi si esprime così ha dei problemi, avverte delle difficoltà, sta arrancando, sta penando, respira malamente, chiede fiato. «Mi baci con i baci della sua bocca!». In bocca un bacio. Il bacio è comunicazione di respiro, è tramite di una comunicazione di vita: fiato con fiato, bocca a bocca. L’urgenza che viene espressa mediante questa invocazione suppone un antefatto che qui non ci viene descritto. Noi siamo direttamente coinvolti, buttati direttamente sulla scena, siamo alle prese con un vissuto ansimante. E’ evidente che cosa è successo, come mai le cose vanno così, da dove proviene quel tale che sta sospirando perché respira a fatica e avverte la necessità che qualcun altro introduca fiato nella sua bocca, che qualcun altro porga la sua propria bocca per trasfondergli il respiro di cui ha bisogno per vivere: «Mi baci con i baci della sua bocca!»: io non vivo, non respiro, se non sono baciato.

Qual è l’antefatto? Non ne sappiamo nulla, ma siamo già in pieno coinvolti nel dramma. Un tale chiede respiro. Questa invocazione del respiro che ci fa vivere è rivolta a qualcuno che è presente e che non viene nominato: «Mi baci con i baci della sua bocca!». Chi? Lui? E chi è? Non è identificato, così come anonimo è il personaggio che chiede di essere baciato. Rimane sconosciuta la presenza di colui alla cui bocca si fa appello. E’ lo spirito del Dio vivente che viene invocato qui, possiamo ben dirlo noi. Il testo usa un linguaggio più riservato, ma per noi non meno eloquente.

Il Cantico dei Cantici si apre con una invocazione allo Spirito Santo, si apre con una epiclesi , per dirla con un termine teologico. Se la bocca del Dio vivente non soffia su di me, trasmettendomi l’urgenza vitale del suo respiro, io non vivo. «Mi baci con i baci della sua bocca!». Chi invoca in questo modo avverte come drammatico sia il suo vissuto dal momento che la bocca a cui fa appello per ricevere il respiro di cui ha bisogno per vivere, sia lontana da lui. C’è una lontananza che rende la sua vita implorante, gemente, affannosa: «Mi baci con i baci della sua bocca!».

Lontananza e nostalgia, nostalgia nei confronti di quella presenza che, per quanto lontana sia, è comunque individuata in modo inconfondibile. Una contraddizione, ma una contraddizione apparente: è lontanissimo da me, per questo invoco, per questo imploro, per questo sto sospirando e gemendo: «Mi baci con i baci della sua bocca!». Eppure una nostalgia inequivocabile mi anima, mi sollecita, in modo che già sono in grado di testimoniare che la sua lontananza non impedisce la relazione, ma anzi conferma, drammaticamente per me, il valore della presenza a cui io mi rivolgo, perché da essa dipende la mia vita. E’ una lontananza vissuta nel contesto di una nostalgia così struggente, che essa conferma il valore di una relazione: è relazione vitale, è l’unica relazione di cui vivo.

ricordo e nostalgia

A questo riguardo nel versetto 2 si passa dalla terza alla seconda persona singolare. Non è un passaggio casuale: «Sì, le tue carezze sono più dolci del vino». La sua bocca, lui; le tue carezze, le carezze del diletto. Chi si esprime così porta con sé l’esperienza indimenticabile di un passato che, appunto in quanto passato, può ritenersi perduto, e che pure nella nostalgia invade il presente e già prefigura l’avvenire. «Le tue tenerezze sono più dolci del vino», che cosa è avvenuto? Perché mai quel passato è perduto? Eppure il ricordo di quel passato invade l’avvenire, determina, passando attraverso la nostalgia prepotente che occupa il presente, l’avvenire.

«Le tue carezze sono più dolci del vino». L’immagine del vino allude qui a tante altre presenze, a tanti altri riferimenti, a tante altre relazioni a cui il nostro anonimo personaggio può essersi rivolto. Ma nulla e nessuno ha mai potuto eguagliare le carezze del diletto. C’è di mezzo una nota di rimpianto, forse l’antefatto che non ci è stato raccontato comporta anche l’esperienza di molte ricerche sbagliate in direzioni dispersive: altre carezze, un’altra dolcezza, altra esperienza di calore? In ogni caso: le tue carezze sono più dolci del vino. Tutto quel che è stato serve a confermare il valore di una relazione vitale che supera tutti i livelli che mai siano stati conseguiti percorrendo altri itinerari. Lo sconosciuto invisibile e lontano è più che mai presente La relazione con lui acquista il valore di una certezza incrollabile. Non a caso ci si può rivolgere a lui in seconda persona singolare: tu. E’ il tu della mia vita, è il tu della mia storia, è il tu della storia umana: tu. Nel momento stesso in cui viene denuncia dolorosamente la lontananza che ci separa, che mi separa, da lui, da te. Il fatto stesso di rivolgersi a lui, in seconda persona singolare, riempie la distanza, facendo appello ad una intimità che comunque segna la qualità intrinseca della mia vita. E’ nella relazione con lui, che è il tu della mia vita, che io respiro. E per quanto lontano sia il tu della mia vita. E’ la presenza che mi coinvolge alla radice, nella intimità, nella verità assoluta della mia ricerca.

unguento svuotato

Il versetto 3 aggiunge: «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi, profumo olezzante è il tuo nome, per questo le giovinette ti amano». Lo sconosciuto, presenza inafferrabile, non viene ancora nominato. Non è possibile. Eppure quella presenza si esprime con un linguaggio inconfondibile. Nel v. 3 il linguaggio del profumo viene messo in evidenza in modo straordinariamente efficace. Non riusciamo a vederlo, non riusciamo ad afferrarlo, non siamo in grado di determinare la sua presenza, ma il suo profumo già ci avvolge, ci riempie, già ci attraversa. Certo, il profumo è inafferrabile, ma è anche vero che passa dentro di noi, attraverso di noi, in modo tale da invadere l’intimità più profonda.

Tutto il Cantico dei Cantici conferisce un risalto particolarmente significativo al senso dell’odorato. «Per la fragranza sono inebrianti i tuoi profumi». Non so come rivolgermi a te, non so come inserirti nel mio cosmo linguistico, nei miei pensieri, ma il tuo profumo mi invade. Non so da dove venga e dove vada, ma mi attraversa, raggiungendo la profondità più inesplorata di me stesso.

Il versetto prosegue: «profumo olezzante è il tuo nome». Ecco, se devo chiamarti per nome, essendo tu innominabile e sconosciuto, profumo olezzante, ecco il tuo nome. Questo versetto è stato riletto e commentato dai padri della chiesa nel modo più traboccante di annotazioni teologiche e spirituali. «Profumo olezzante è il tuo nome», traduce la nostra Bibbia. Shemen turak, dice il testo ebraico. Val la pena di rievocare la traduzione in greco: miron ekkenothen, “unguento svuotato” è il tuo nome. La traduzione greca richiama Filippesi 2, il cantico cristologico, “colui che svuotò se stesso”: ekenosen eauton, è questo verbo, è l’”unguento svuotato”, “svuotò se stesso” dice Paolo, citando anche lui un cantico già preesistente. Svuotò se stesso. “Tu sei un unguento svuotato”, ecco il tuo nome. Noi siamo in relazione in maniera sfuggente ad ogni nostra presa, ad ogni nostra presunzione, ad ogni pretesa di strumentalizzare, di dominare, di governare le cose, eppure noi siamo in relazione di vita con te: relazione di respiro con te, di fiato, di soffio; relazione di spirito con te che sei unguento versato, svuotato, che sei spirito effuso.

Nei racconti della passione, in modi diversi, si attribuisce all’atto di spirare sulla croce di Gesù, il Figlio, l’effusione del profumo: hai effuso il tuo profumo; spirò, consegnò lo spirito, consegnò il suo respiro. Il Cristo è profumato ed è da lui a noi trasmesso il profumo, lo spirito soffiato su di noi, trasmissione di vita, sigillo di comunione indissolubile. Proprio là dove la situazione empirica della nostra esistenza denuncia una lontananza incolmabile, quella lontananza è colmata dall’unguento versato, quella lontananza viene colmata in modo tale da stabilire una comunicazione di vita, che ci invade, mi invade, mi prende, mi conquista, mi trasforma, mi rigenera, apre per me gli orizzonti della vita, quella vita verso la quale forse sospiravo in modo confuso, caotico, disordinatissimo: quella vita a cui finalmente sono condotto.

Il versetto si conclude con una dichiarazione, nella sua semplicità, solennissima: «Per questo le giovinette ti amano». Il coinvolgimento è generale. Ciò che è stato testimoniato in prima persona singolare: il tuo profumo per me, adesso viene confermato mediante questo accenno al dolore di una relazione vitale che è ormai instaurata in maniera tale da coinvolgere l’umanità intera. Vale per tutti gli uomini: le giovinette ti amano, per questo. A quella nostalgia, di cui ci siamo resi conto leggendo il versetto 2, si congiunge nel versetto 3 un presentimento infallibile: è passato di qua, ha lasciato dietro un’onda di profumo, non sappiamo come afferrarlo, come raggiungerlo, ma è passato di qua. Cristo, l’Unto, ha lasciato una traccia inconfondibile nel creato, nella storia degli uomini, in ogni persona, in ogni angolo del mio vissuto, in ogni respiro per quanto affannoso sia. E’ passato attraverso la morte, certo. Dovunque mi volga, in qualunque direzione proceda, a qualunque creatura mi accosti, quale che sia la realtà con la quale devo fare i conti, quale passaggio sia necessario che io affronti nel tempo e nello spazio della mia esistenza, fino alla morte: il suo profumo mi precede, il suo profumo mi avvolge, mi viene incontro, anzi mi attende, mi invade e già spalanca dinanzi a me e per me e per il mondo gli orizzonti di una infinita capienza di amore. Per questo le giovinette lo amano.

attirami!

Ed ecco il versetto 4, l’ultimo versetto del prologo: «Attirami dietro a te, corriamo!». Ritorna la seconda persona singolare, ma poi si passa alla prima persona plurale: corriamo. La relazione diretta, personalissima con lo sconosciuto, con l’unguento svuotato non è minimamente disturbata dal fatto che ci siano altri e altri e altri ancora e tutti, anzi, proprio l’opposto: nella mia esperienza personale riconosco quella che è la realtà di tutti gli uomini. Viceversa: è proprio nell’esperienza altrui trovo modo di rispecchiarmi con quanto di più personale riguarda il mio vissuto. Attirami dietro a te, corriamo.

Attirami: un’implorazione, certamente, ma allo stesso tempo avvertiamo l’energia di questo imperativo: attirami! E’ quasi un ordine. Una forza implorante. E’ la forza con cui può esprimersi un mendicante, come me, perché sono in uno stato di bisogno assoluto, eppure più che mai convinto di potermi esprimere con la autorevolezza di chi certamente sarà esaudito: attirami, dietro a te con gli altri.

Il verbo usato qui compare in alcuni testi dell’AT e poi del NT: mashak , in ebraico. Interessante è anche la traduzione in greco, elko. Attraverso l’analisi di questo verbo in alcuni testi esemplari è possibile ricapitolare tutta la storia della salvezza.

Prima testo. Osea 11: «Quando Israele era giovinetto io l’ho amato. Dall’Egitto ho chiamato mio figlio, ma più li chiamavo, più si allontanavano da me. Immolavano vittime ai Baal, agli idoli bruciavano incensi, ad Efraim insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro». Israele è come un bambino preso per mano, educato con tutte le cautele del caso. Qui la relazione d’amore che lega il Signore al suo popolo viene riproposta mediante l’immagine di questa pedagogia paziente, premurosa nei confronti di una creaturina che deve crescere. Os 11,4: «Io li traevo con legami di bontà». E’ il nostro verbo: io li attiravo con legami di bontà. Questo testo, famosissimo, fa da caposaldo a tutta una tradizione nella predicazione dei profeti. «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare». Questa immagine del bambino stretto alla guancia nella iconografia cristiana acquista quella forma così delicata e così commovente che noi contempliamo nella Madonna della tenerezza. «Io li traevo con legami di bontà, con vincoli di amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare».

Secondo testo. Geremia 31 è un capitolo da cui non possiamo mai prescindere, perché c’è la profezia della nuova alleanza. E’ un capitolo strategico in tutta la rivelazione biblica. Ogni volta che celebriamo l’eucarestia e che ci troviamo dinanzi alle parole con cui il Signore ha annunciato l’avvento della nuova alleanza, siamo alle prese con Geremia 31. Ger 31, 2ss: «Così dice il Signore: “Ha trovato grazia nel deserto un popolo di scampati alla spada; Israele si avvia a una quieta dimora”. Da lontano gli è apparso il Signore: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». Ritroviamo il nostro verbo: ti ho amato di amore eterno, per questo ti attraggo ancora con pietà. Un’attrazione che è più forte di ogni tradimento, che è più forte di ogni distanza, che è più forte di ogni dispersione, che è più forte di ogni esilio: io ti attiro.

Terzo testo. Giovanni, 12,32: «Quando sarò innalzato dalla terra attirerò tutto a me». E’ il nostro verbo. E’ il figlio dell’uomo crocifisso e intronizzato che in forza della sua pasqua di morte e di resurrezione diventa protagonista di questa attrazione a cui nulla e nessuno può più resistere: attirerò tutto a me quando sarò innalzato.

Anche Giovanni sta citando il Cantico dei Cantici: attirami dietro a te, corriamo! Tutti corrono in relazione al sepolcro: le donne e i discepoli corrono, si avvicinano, si discostano. E’ la corsa che impegna da quel momento in poi i discepoli lungo tutte le strade del mondo, fino agli estremi confini della terra, la corsa dell’Evangelo.

Anche Paolo, a più riprese, nella sua maniera di interpretare le cose, fa riferimento alla corsa dell’evangelizzazione, la sua corsa personale, la corsa di altri, prima di lui, accanto a lui: attirami dietro a te e noi correremo. E noi siamo in corsa proprio perché attirati da te e in qualunque direzione ci stiamo inoltrando, verso qualunque orizzonte stiamo penetrando, noi siamo in corsa perché attirati, perché sempre e dappertutto, fino alla pienezza finale, noi ormai siamo sigillati in forza di un vincolo di amore che ci unisce a te: noi apparteniamo a te.

nelle stanze del Re

Dall’affanno del versetto due a questa corsa che stranamente sembra avere perso le caratteristiche della stanchezza, del sudore, della trepidazione; questa corsa sta ormai diventando una corsa leggera, soave, anzi una corsa corale, una corsa che diventa occasione di incontro, di comunione, di condivisione, sempre più universale: Attirami dietro a te, corriamo!

«M’introduca il re nelle sue stanze: gioiremo e ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. A ragione ti amano!».

Singolarmente si passa dalla immagine della corsa alla immagine della sosta in un luogo appartato, il luogo della intimità, il luogo dell’amore: mi introduca il re nelle sue stanze. Si passa dalla seconda alla terza persona (mi introduca il re), e poi di nuovo la prima persona plurale (gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorderemo), e ancora la seconda persona singolare (le tue tenerezze).

“Le tue carezze più del vino”… Adesso siamo in grado di dichiarare che in realtà la corsa in cui siamo impegnati è motivo di sollievo. E’ una corsa che invece di affaticarci sempre di più, ci rallegra, ci abilita a gustare la gioia di un incontro che riempie il presente: siamo in corsa e già ci rendiamo conto che è predisposto l’appartamento, è arredata la stanza, in cui l’incontro con te ci trasmette una gioia traboccante: gioiremo, ci rallegreremo per te, ricorderemo le tue tenerezze più del vino. Qui ritroviamo un accenno al Deuteronomio (6,4ss): «Ascolta, Israele, il Signore tuo Dio è uno solo. Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutte le tue forze, con tutta la tua anima», con tutto il tuo respiro amerai il Signore tuo Dio, a ragione amerai il Signore tuo Dio.

Questo incontro misterioso con colui che è invisibile e irraggiungibile e che pure riempie il presente, colui che è il motivo della corsa, perché stiamo inseguendo il suo profumo, colui che già ci viene incontro e ci conferisce il gusto di una gioia traboccante, una gioia che è condivisa in modo da fondare una comunione senza limiti, con tutte le creature, della terra e del cielo.

Ebbene, è un dovere amarti, conclude il prologo. E’ un dovere, nel senso che la relazione di amore che ci viene rivelata, che ci spiega come noi apparteniamo a te, è relazione di amore in forza della quale noi siamo chiamati ad amarti. Noi amati, siamo messi in grado di amarti. Non è un’occasione che subito sfuma, non è un’intuizione entusiasmante, ma inconcludente, non è un sogno che svanisce nel nulla. E’ piuttosto la sapienza del cuore che mi svela dal di dentro di me stesso come sono amato e come sono chiamato a fare della mia vita un servizio di amore.

2- IN ATTESA – Pino Stancari

Posted on Dicembre 13th, 2008 di Angelo |

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IN ATTESA 

di Pino Stancari

nostalgia

 

Mi limito a rievocare quella nota di nostalgia che abbiamo colto leggendo i versetti da 2 a 4, lasciando da parte il titolo, v. 1. E’ la nostalgia di cui dà testimonianza la creatura, che qui si espone direttamente in prima persona. Tale creatura è il popolo di Dio, ma tutta l’umanità è già riconoscibile, senza trascurare la qualità insostituibile, preziosa, unica, irripetibile di ogni singola persona umana.

Una nota di nostalgia per quanto riguarda la relazione con colui che è invisibile, inafferrabile, sfuggente, colui con il quale già è stata intrattenuta una relazione, ma una relazione che sembra compromessa e momentaneamente interrotta. Una ricerca, tuttavia, è in atto, testimonianza di una comunione che è già in grado di superare tutte le distanze: la nostalgia del diletto, anche se qui non è ancora citato con questo nome.

 

Il Cantico dei Cantici si apre con un sospiro che manifesta la aspirazione irriducibile ad un evangelo da cui già si è ricevuto un dono di vita che rimane valore inequivocabile, anche se si ha l’impressione che l’evangelo sia scivolato via, passato, se ne è andato. E’ vero che del diletto rimane uno strascico di profumo, ma rimane la sconcertante esperienza di una relazione senza contatto. O meglio: una relazione che comporta una evoluzione degli atteggiamenti interiori, l’imparare ad accogliere quel profumo, a discernerne il valore, a seguirne l’effluvio.

Il Cantico dei Cantici si apre con questa testimonianza appassionata: siamo catturati da una nostalgia dell’evangelo, che è la sorgente della nostra vita e di cui pure ci sembra di aver perso la presenza; siamo in corsa della ricerca di un evangelo che ci attrae, eppure avvertiamo il dramma di non poterlo raggiungere.

bruna ma bella

 

Primo poema (1,5-2,7).

 

Il poema si apre con una strofa (vv. 1,5-7) nella quale si fa udire la voce della creatura che arranca sospirosa ed incerta, impegnata in una ricerca che ancora non è giunta a compimento, anzi una ricerca che per il momento sembra essere assai lontana da una conclusione favorevole.

«Bruna sono ma bella, o figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma».

Si rivolge alle figlie di Gerusalemme, c’è qualcuno che ha la pazienza di ascoltare i suoi sospiri, i suoi gemiti, le sue invocazioni; c’è qualcuno che si accorge di lei, ci siamo noi che stiamo leggendo il Cantico dei Cantici, ci sta interpellando in modo diretto ed esplicito. Si presenta «bruna sono, ma bella». Si presenta così in modo un po’ brusco e diretto; tutto quel che dice di se stessa ci lascia intendere che ci sia un antefatto. Chissà cosa è successo nel passato di questa creatura? Perché è bruna?

Non c’è dubbio che il fatto che si presenti in questo modo allude a degli inconvenienti che hanno scompensato lo svolgimento della sua vita. E’ alle prese con una situazione di avvilimento, di smarrimento: è oscurata, rabbuiata, imbrunita. E’ la vicenda di una vita che si è caricata di molteplici storie, di un inquinamento piuttosto preoccupante: «bruna sono». Aggiunge subito: «ma bella, figlie di Gerusalemme, come le tende di Kedar, come i padiglioni di Salma», come le tende dei beduini, che sono nere. La similitudine è più che mai pertinente: nera come le tende degli abitanti del deserto. Sotto quelle tende nere gli abitanti del deserto sopravvivono. Questa creatura che con totale sincerità dichiara il suo stato di drammatico oscuramento, non ha alcuna incertezza di rimarcare la bellezza di cui è dotata: «bruna sono, ma bella». Coraggiosa questa dichiarazione a testimonianza di una sincerità profonda: per quanto oscurata da eventi che hanno compresso la stabilità, l’identità, la dignità della sua vita, è intimamente convinta di essere dotata di una bellezza incancellabile, una bellezza inconfondibile, ineliminabile, quella bellezza che compete ad una creatura in quanto appartiene al creatore, una bellezza che appartiene al popolo di Dio in quanto è coinvolto in una relazione di alleanza. Per quanto questa alleanza possa essere stata tradita, rimane il valore di una chiamata, di un dono, di un riconoscimento, con cui Dio stesso ha fatto di quel popolo il suo interlocutore. Gli ha conferito una bellezza che nessuna tragedia potrà mai eliminare.

Questa creatura oscura, nera, squalificata si radica in una incrollabile fiducia per quanto concerne quella bellezza che qualcun altro le ha conferito e le riconosce; qualcun altro, di cui lei stessa sta andando in cerca, ma ancora non trova.

Insiste (1,6):

«non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole».

 

E’ bruna, ma non fateci troppo caso. Il sole mi ha abbronzato: sono stata esposta alle intemperie del tempo, a tutti gli inconvenienti della vita. E’ una creatura consapevole del fallimento che ha sconvolto il cammino della sua vita. La storia del passato, che qui non viene raccontata nei dettagli, non è il caso che ci mettiamo a ricostruirla. La storia del passato viene rievocata in modo essenziale e perfettamente maturo. E’ una storia sbagliata quella che sta alle spalle di questo personaggio, ma «non state a guardare che sono bruna, poiché mi ha abbronzato il sole».

E’ evidente qualche accenno alla disfunzione che ha contrassegnato la sua storia passata:

«I figli di mia madre si sono sdegnati con me: mi hanno messo a guardia delle vigne; la mia vigna, la mia, non l’ho custodita».

 

E’ successo qualche cosa per cui è venuta meno la sua vocazione. Che cosa è successo? Gli è stata affidata una responsabilità, ma non ha saputo assolvere al compito assegnato. Non è soltanto un compito oggettivo, quello che non ha svolto: «la mia vigna», è rimarcato questo possessivo di prima persona. «La mia vigna non l’ho custodita», è venuta meno la sua stessa vocazione, è venuta meno alla sua dignità. I fratelli non la sopportano più, appunto, «bruna sono».

Nella sua oscurità attualmente non è più presentabile, ma non c’è oscurità che le sottragga quella bellezza di cui in un passato ancora più remoto, di quello che è stato segnato dal suo fallimento, qualcun altro l’ha guardata e l’ha amata: «bruna sono, ma bella». E’ a questo passato antecedente ad ogni altro passato fallimentare che la nostra creatura fa riferimento. Mentre cerca, si agita, si muove sulla scena del mondo, insegue, interpella, interroga le figlie di Gerusalemme. Questo ci lascia intendere che la situazione in cui si trova questa creatura sia poi quella in cui si trovano, in un modo o nell’altro, anche le altre creature con le quali intrattiene rapporti di itineranza, di comunicazione appassionata. Questa creatura è alla ricerca di un passato, di una presenza che pure ha segnato la sua vita. E’ alla ricerca nel senso assoluto del termine: ricerca delle relazioni con il mondo che le sta intorno, ricerca della sua penetrazione nell’intimo del cuore, ricerca della memoria, di tutto il vissuto. E’ alla ricerca di colui che l’ha guardata e l’ha amata, di colui che le ha attribuito una bellezza intramontabile, quella bellezza di cui soltanto lui è consapevole.

 

dimmi o amore dell’anima mia

 

V. 7: «Dimmi, o amore dell’anima mia».

Già si rivolge in modo commovente a quel tale, l’invisibile, che l’ha guardata e l’ha amata dall’inizio e che, per quanto sia irragiungibile, è presente, incombente, più di ogni altro attento a lei. «Dimmi, o amore dell’anima mia». Un’immagine tratta dalla vita pastorale: la nostra creatura è una pecora che sta belando all’indirizzo del pastore, è una pecora smarrita. Questa immagine ritorna nell’Antico e nel Nuovo Testamento. E’ pecora belante, ed è pecora che, all’insaputa di tutto, è comunque convinta che il pastore sta ascoltando quel belato, che il pastore è attento a quella voce, è presente, anche se invisibile e inafferrabile.

«Dimmi o amore dell’anima mia, dove vai a pascolare il gregge, dove lo fai riposare al meriggio, perché io non sia come vagabonda dietro i greggi dei tuoi compagni».

Salmo 23: «Il Signore è il mio pastore non manco di nulla…” Questa creatura è abituata ad andare cercando di qua e di là, confonde il suo pastore con quelli di altri greggi. E’ in corsa. Si rivolge al pastore. E’ una sicurezza indefettibile in lei. Il pastore ascolta la voce della sua pecora, è attento a questo belato.

Le figlie di Gerusalemme intervengono:

 

«Se non lo sai, o bellissima tra le donne». C’è forse una nota ironica, ma è un’ironia buona: bellissima. Possibile che tu bella come sei non sappia dove sta il tuo pastore? «Segui le orme del gregge e mena a pascolare le tue caprette presso le dimore dei pastori».

 

Qui la pecorella è trasformata in pastorella: datti da fare, ci sono le orme del gregge, segui quelle tracce. E’ un incoraggiamento rivolto alla creatura perché si fidi: quello che capita a te non è un fenomeno unico ed eccezionale, già altri hanno percorso queste strade, già c’è un tracciato, una tradizione; ci sono altri, c’è un gregge, un popolo, c’è una moltitudine che ti ha preceduto. Il coro dà un buon consiglio: ti dai tanto da fare, ma alla fine dei conti non sai dove andare; affidati al gregge, segui le orme; già altri sono passati e troverai il pastore.. C’è una tradizione nel popolo di Dio, nella chiesa, nell’esperienza di altri ricercatori e poi belanti pecore rimaste inchiodate in qualche zona del mondo, come te! C’è già una tradizione. Già, una ricerca dell’evangelo. E’ una ricerca che, per quanto personale e di tutta una comunità, si inserisce in una storia. Fidati di coloro che già hanno percorso questo itinerario. Un buon consiglio.

 

amica mia..

 

All’improvviso, per la prima volta, compare lui, il diletto. Il diletto viene in modo da intersecare la ricerca della creatura sorpassandola; è una venuta che si pone ad un livello di gratuità del tutto superiore ai tentativi svolti dalla creatura. Certo, la creatura si è lasciata educare, si è lasciata coinvolgere nel viaggio di tutto un popolo di cercatori, ma adesso è lui che viene a modo suo, manifestando la totale gratuità della sua iniziativa. Viene all’improvviso. Viene sempre così.

«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia. Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle. Faremo per te pendenti d’oro, con grani d’argento».

 

E’ una irruzione strepitosa. E’ lui che esprime così la sua ammirazione per la creatura affannata, ansimante, che arrancava di qua e di là, vagabonda, all’inseguimento di un pastore inafferrabile, che portava su di sé i segni inconfondibili di una abbronzatura squalificante. Eppure era bella così come aveva il coraggio di presentarsi, suscitando una qualche eco ironica nel coro delle figlie di Gerusalemme. Ma adesso è lui che viene, adesso è lui che la osserva e la raffigura. «Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone». La nobiltà dei personaggi che qui sono evocati, la sontuosità del drappeggio.. qui è proprio un grazioso modo di danza che viene colto dallo sguardo del diletto: «io ti assomiglio, amica mia». Amata mia! E’ proprio il suo sguardo a rendere bella la sua creatura. E’ lo sguardo del diletto che conferisce bellezza al mondo, è la venuta dell’evangelo che illustra lo splendore dell’umanità e di tutta la creazione. E’ un grido commosso, un gesto di ammirazione, una voce esultante, un cantico di amore. Viene dalla profondità del mistero, viene dal Dio vivente, viene dal diletto: è il suo evangelo!

 

«Alla (mia) cavalla del cocchio del faraone io ti assomiglio, amica mia. Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle».

Che ci fossero questi gioielli a sottolineare la bellezza di quella creatura noi non l’avevamo ancora compreso, anzi ci sembra poco adatto questo richiamo a una decorazione piuttosto spropositata. Il caso era quello di una pecorella o di una pastorella, di una figliola di famiglia che non ha custodito la vigna, esposta a tutte le intemperie del mondo.. Eppure: «Belle sono le tue guance fra i pendenti, il tuo collo fra i vezzi di perle». Ancora una volta è lo sguardo del diletto che, mentre coglie la bellezza, quella bellezza che egli stesso attribuisce alla creatura amata, sa anche come suscitare bellezza. Lo sguardo del diletto dona una bellezza di cui vuole compiacersi, è una bellezza che ridonda, che si effonde, che appare illumina la scena del mondo. «Faremo per te pendenti d’oro, con grani d’argento». Una bellezza ingioiellata: il diletto la vede, se ne compiace, la valorizza in modo tale che tutto l’ambiente circostante ne tragga vanto. E’ una bellezza in crescita: «Faremo per te pendenti d’oro, con grani d’argento». E’ l’evangelo. Segna ormai la storia della nostra generazione, del nostro oggi, del nostro essere qui, la storia di questa creatura bruna, ma bella, la storia della nostra fatica, della nostra ricerca, del nostro affanno, della nostra delusione; la storia del nostro smarrimento, del nostro fallimento, del nostro rinnegamento. L’Evangelo è qui, oggi, per noi, in noi, è il mistero del Dio vivente che si incide nella nostra carne, nella nostra storia, nella nostra chiesa, nella nostra generazione. E’ l’evangelo che ci coinvolge nell’opera di una creazione rinnovata, tale per cui la scena del mondo è veramente raggiunta in tutte le sue dimensioni, in tutte le sue componenti, uno splendore che passa attraverso di noi per dilagare in tutte le direzioni. Perché? Perché è presente lui, perché lui è protagonista, perché è lui, il vivente, perché è lui il diletto che ci chiama: «amica mia».

 

nel giardino

 

Nei versetti che seguono (1,12-2,7) c’è un dialogo. L’incontro è avvenuto e non ci si può più sottrarre all’ urgenza di un chiarimento. La scena, che prima era impostata in base alle forme della vita pastorale, adesso è descritta al modo di un giardino nel quale avviene l’incontro tra i due personaggi che sono configurati come il re e una principessa. Il re, il diletto, si è presentato da se stesso e non possiamo più sottrarci alla pressione urgente e dolcissima della sua parola, del suo evangelo, della sua forza di amore. La principessa, la creatura amata, bruna ma bella, pecora e pastorella vagabonda, è ora nel suo giardino.

 

Nel vangelo secondo Giovanni tutto si compie in un giardino. Lo stesso Gesù vivente, risorto dai morti, viene confuso con il giardiniere.

Nei vv. 12-14 è la creatura amata che parla, è lei che cerca di destreggiarsi nella situazione così nuova e stupefacente che l’ha coinvolta:

«Mentre il re è nel suo recinto, il mio nardo spande il suo profumo. Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto. Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi».

E’ la voce di una creatura che si sente valorizzata, ricercata, gradita. Il recinto: una comunicazione intensa, coinvolgente nell’intimo come questa, esige un ambiente adatto. Il recinto all’interno del quale avviene questo incontro non è preclusivo, ma inclusivo.

 

Il re è dunque nel suo recinto. «Il mio nardo spande il suo profumo» dice la creatura. Il diletto è profumato, effonde quell’odore misterioso che è in grado di pervadere l’universo e di attirarlo a sé. Adesso è la creatura umana, proprio lei, che spande il profumo. Lei stessa è messa in grado di esalare profumo, profumo che è gradito alle narici del diletto, testimonianza di una intimità che raggiunge in modo sempre più diretto e intrattenibile l’intimo dei cuori. Nello stesso tempo: «Il mio diletto è per me un sacchetto di mirra, riposa sul mio petto». C’è una fusione di profumi, una comunione nel soffio, nel respiro: il profumo del diletto che diventa presenza appoggiata sul petto della creatura amata, che diventa respiro del suo respiro.

 

«Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi», aggiunge ancora il v. 14. Il diletto riposa là dove la creatura è visitata e il riposo del diletto diventa motivo di compiacimento per la creatura amata. Vi è qui l’accenno ad un’ebbrezza che rende dolce ogni esperienza della vita, ogni contatto con il mondo, un’ebbrezza che riscalda, infervora, accende: «Il mio diletto è per me un grappolo di cipro nelle vigne di Engàddi».

l’imbarazzo

 

La ridondanza delle immagini, la forza del linguaggio non passano inosservati; abbiamo la percezione che questa creatura amata, mentre si esprime con dichiarazioni così intense, vada in qualche modo schermendosi.

V. 15. Qui è la voce del diletto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe».

 

Il diletto è molto sobrio, essenziale, diretto: «Come sei bella, amica mia, come sei bella!». Cerca gli occhi: «I tuoi occhi come colombe!». Cerca gli occhi. Il volto della creatura è effettivamente velato, cerca attraverso gli occhi l’espressione della libertà, lo sguardo è sacramento del cuore: «I tuoi occhi come colombe». Non c’è dubbio: il diletto è incantato d’innanzi alla sua creatura amata. Insegue quello sguardo, vuole carpirlo, vuole afferrarlo, attirarlo a sé. Ma se le cose stanno così, vuol dire che quello sguardo sta sfuggendo altrove, sta volando altrove in modo ancora inafferrabile. Certo il diletto è incantato: cercavo l’evangelo e mi sono accorto che l’evangelo cercava me, che l’evangelo mi voleva veramente, che l’evangelo mi amava, mi prendeva veramente, mi conquistava, si impossessava di me. A quel punto mi sono trovato in grande imbarazzo. E’ quello che succede alla creatura amata. Ha cercato il vivente, adesso il diletto ha detto la sua.

 

Di nuovo la creatura amata (1,16-2,1): «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso!». Cerca di stare al passo, di fare il verso, di ripetere pari pari quelle dichiarazioni di grande affetto, di stima, di ammirazione che il diletto le ha rivolto. «Come sei bello, mio diletto, quanto grazioso! Anche il nostro letto è verdeggiante».

Subito sposta lo sguardo, guarda le spalle: siamo appoggiati su un letto verdeggiante, un prato verde. Poi guarda in alto: «Le travi della nostra casa sono i cedri». Maestosi, tutto l’ambiente è testimonianza di una bellezza incantevole, la fecondità della vita, i colori dell’universo, la partecipazione festosa di ogni creatura: «nostro soffitto sono i cipressi». Questa elevazione massimamente proiettata verso le altezze celesti è dovuta al fatto che la creatura amata sta divagando: come sei bello mio diletto, quanto grazioso, guardiamoci attorno, guardiamo ad altro, parliamo d’altro. Quando mi sono accorto che l’evangelo cercava me, ho guardato altrove.

«Io sono un narciso di Saron, un giglio delle valli».

 

Si schermisce. Perché? La piana di Saron sta sulla costa del Mediterraneo a nord di Giaffa. Oh! Quanti ce ne sono di gigli, una quantità innnumerevole. Io sono soltanto un narciso di Saron, un giglio delle valli: chi sarò mai io? Si tira indietro perché è umile? Perché è discreta? Perché si rende conto dei suoi limiti? Queste sono mascherature, in realtà non ce la fa a reggere la relazione. Proprio io? E perché io? Che c’entro io? Io in fondo sono solo un giglio delle valli.

 

E il diletto incalza:

«Come un giglio fra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle».

 

Proprio tu! Unico giglio, «così la mia amata fra le fanciulle». La nostra creatura annaspa. E’ di nuovo lei che prende la parola, cerca di aggiustare le cose come le riesce. In realtà poi non riesce ad aggiustare un bel niente. Il diletto si è espresso in modo chiaro, perentorio: l’evangelo è per te, vuole te, cerca te.

E la nostra amica sfugge alla presa:

«Come un melo tra gli alberi del bosco, il mio diletto fra i giovani». «Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato».

Cerca di prendere tempo, di trovare mediazioni nello spazio, di interpellare altri interlocutori.

 

«Mi ha introdotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore».

 

«Mi ha introdotto nella cella del vino». Adesso si rende conto che non si può più divagare. «Il suo vessillo su di me è amore». La cella del vino, come spiega la Bibbia di Gerusalemme, è la sala del banchetto nuziale. Il diletto non perde tempo, il diletto non tergiversa, non rinvia. La nostra creatura non ce la fa, è impreparata, questo incontro è insostenibile per lei. Questa comunione di vita non è a sua misura, almeno questa è la realtà che noi stiamo per registrare. E’ troppo debole ancora, è ammalata, non ce la fa, e sviene.

 

la caduta e l’attesa

 

«Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore».

Quell’amore che è per la mia vita, mi viene incontro e dimostra la mia malattia. L’evangelo mi cerca e l’evidenza a cui soggiaccio, e di cui in modo clamoroso e davvero mortificante debbo dare prova a tutti attorno a me, è che io non sono preparata, sviene.

 

«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».

 

Sta cadendo e nella caduta è tenuta stretta, perché il vivente è presente, perché il vivente è fedele nella sua iniziativa, perché ha dichiarato la sua intenzione e rimane in tutto e per tutto al suo posto. La prende in braccio e la depone sapientemente e delicatamente a terra. «La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia». Adesso la creatura è svenuta e giace a terra. E qui resterà ancora per il seguente poema.

Il v. 7 chiude il primo poema. Prende la parola ancora il diletto, fermo, in veglia, al capezzale della creatura amata che è svenuta, dorme, è malata:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle o per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia».

Questo versetto comparirà tale e quale alla fine del secondo poema, in 3,5. E’ un ritornello. Ricomparirà un po’ aggiustato in 8,5. E’ il diletto che veglia pazientemente. La creatura è malata, l’evangelo non l’ha trovata pronta, l’evangelo l’ha tramortita, l’ha riempita, l’ha attraversata, l’ha travolta. La creatura amata non è ancora in grado di corrispondere come il diletto attendeva e desiderava. E’ lui che attende ancora, che desidera con intransigente sollecitudine di amore. Tutto questo in vista del risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in grado di rispondere all’amore del diletto con la libertà della sua offerta. Per questo chiama a raccolta le figlie di Gerusalemme, il coro in cui riconosciamo la presenza di tutta l’umanità:

«per le gazzelle o per le cerve dei campi non destate, non svegliate dal sonno l’amata».

 

Il diletto convoca tutto e tutti al capezzale dell’amata perché c’è un unico desiderio che egli vuole perseguire e vuole realizzare. La creatura amata si sveglierà quando sarà in grado di corrispondere alla sua intenzione di amore nella libertà di una offerta di amore: «finché essa non lo voglia».

 

L’evangelo è presente, l’evangelo incalza, l’evangelo è paziente, l’evangelo preme e attende. L’evangelo struttura la storia umana, l’evangelo convoca tutti gli eventi, tutti i personaggi, tutti i dinamismi culturali, e tutte le componenti dell’universo al capezzale di chi è ancora ammalato, di chi ancora non ha corrisposto all’amore del vivente con la libertà di una offerta di amore. E’ la storia di oggi, è la storia nostra, di tutti e di ciascuno, è la storia della nostra chiesa, della nostra generazione. Siamo entrati nel tempo di avvento, tempo della veglia. Il vegliante è per antonomasia il vivente, è lui che sta vegliando al capezzale della nostra umanità, della nostra generazione, della nostra chiesa, ancora in stato di malattia.

3 – VEGLIA DEL DILETTO E SONNO INQUIETO DELLA CREATURA – Pino Stancari

osted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo | Edit

LA VEGLIA DEL DILETTO 

 

E IL SONNO INQUIETO

 

DELLA CREATURA

 

 

di Pino Stancari

 

il sonno della creatura come educazione alla ricerca

 

In 2,7 riprende la parola il diletto:

Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle, per le cerve dei campi, non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia.

 

La creatura amata è svenuta, è malata d’amore, si è addormentata, è in coma profondo e il diletto veglia al suo capezzale. E’ proprio lui che si rivolge al coro delle figlie di Gerusalemme garantendo il riposo necessario perché l’amata sia soccorsa nella sua malattia. Si sveglierà quando sarà finalmente in grado di sostenere l’impatto che per il momento l’ha travolta. Si tratta di quell’incontro con l’amore del diletto, con la gratuità di un evangelo che ha sorpassato ogni aspettativa ed ha messo in discussione l’atteggiamento della creatura in modo insopportabile per questa. Essa non è pronta, non sa reggere il contatto con un dono di amore così urgente, definitivo, assoluto. L’abbiamo incontrata a suo tempo mossa, agitata, inquietata per quella certa nostalgia che la rendeva vagabonda, ma intimamente consapevole di portare con sé la memoria di un dono di amore, perduto, ma ancora pienamente valido. La nostalgia dell’evangelo l’ha sostenuta nel corso della sua ricerca fino a quando il diletto si è presentato da se stesso nella sua improvvisa manifestazione di assoluta libertà, che è esattamente manifestazione di un amore assoluto. Di un amore sciolto rispetto a qualunque condizionamento, rispetto a qualunque precomprensione, rispetto a qualunque aspettativa. E c’è stato uno scambio di battute tra il diletto e la creatura; poi la creatura è venuta meno, è svenuta, è malata di amore. Così l’abbiamo lasciata.

 

Il diletto veglia, il versetto che chiude il primo poema apre anche il secondo; se si raggiunge l’ultimo versetto del secondo poema, si trova il medesimo versetto (2,7) che compare qui, 3,5:

Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia.

 

Il versetto 2,7, che segna la transizione al secondo poema, non a caso lo chiude.

La creatura sta dormendo e nel corso del sonno, mentre il diletto veglia, sogna. E’ lei stessa che prende la parola, ma nel sogno, parla mentre dorme. La creatura sta affrontando le conseguenze di quello stato di impreparazione in cui si trovava e che non ha avuto altro sbocco che il crollo nel sonno. Il suo incontro con l’evangelo l’ha sbaragliata e il diletto veglia. Mentre la creatura sta dormendo, sta sognando, il diletto valorizza questo tempo in vista di particolari finalità pedagogiche che si è proposto fin dal primo momento, quando ha scongiurato il coro di non intervenire, quando ha preso su di sé la responsabilità di quel tempo. Quanto sarà lungo? Un giorno, una notte, una settimana, un mese, un anno, un secolo, un millennio, due millenni, tre millenni? Quanti millenni di addormentamento e di sogni? Si è preso lui l’impegno di custodire questo sogno e di trasformarne il significato: non è più il tempo della inedia, della sconfitta, della malattia e della caduta, della rinuncia, dell’abbandono; è il tempo nel corso del quale il diletto sta insegnando come il suo dono di amore raggiunge la creatura che non era in grado di riceverlo. Quel dono di amore la raggiungerà malgrado l’impreparazione che essa ha dimostrato.

 

Intanto la creatura dorme, si riposa. Questo sonno non serve a ritemprare le forze fisiche , ma è il tempo ed è lo strumento di cui il diletto si servirà per raggiungere la creatura amata nell’intimo. Per questo è possibile nel corso del sonno, quel che non è stato possibile nel corso della veglia: il primo incontro si è tradotto in una vicenda di malattia, di caduta e di addormentamento profondo; ma adesso, tramite il sogno, il diletto può raggiungere l’intimo della creatura amata, là dove essa, dormendo, si è ritirata. Il sonno, che le garantisce isolamento, le permette di affrontare l’impatto con l’evangelo, che non ha saputo reggere da sveglia. Quel sonno diventa l’occasione propizia per cui, indifesa, disarmata, essa è vegliata dal diletto. E’ proprio lui, che tramite i sogni, sta penetrando nell’intimo e sta educando dal di dentro quelle realtà interiori e profonde da cui dipenderà finalmente il risveglio, quando finalmente la creatura amata sarà in grado di rispondere all’amore del diletto con la propria libera decisione, quando sarà in grado di aderire all’evangelo nella sua inesauribile pienezza di grazia, di bellezza, di santità, di vita.

 

 

Secondo poema, la nostra creatura sogna.

 

ecco, viene!

Una voce! Il mio diletto!.

 

Prima non ce la faceva a stare alla presenza del diletto, adesso ne coglie la presenza quasi con disinvoltura. Vede in rapporto a un rumore che ha udito. Come spesso succede nei sogni: un suono, e attorno a quel suono si sviluppa il sogno, si vedono immagini e si elabora una vicenda. Il sogno è articolato, complesso, pieno di personaggi, con una sua scenografia elaboratissima. Il punto di partenza è quella voce. E’ una voce che chiama, che parla nella sua maniera inconfondibile: è il diletto. Nel sogno il diletto viene riconosciuto, viene visto, contemplato nel suo movimento. La creatura, sognando, parla di lui, lo riconosce, ma, non dimentichiamo, sta dormendo. Passano generazioni, secoli, millenni … questa creatura sta dormendo. Nel frattempo con il linguaggio del sogno parla del suo diletto.

 

Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline. Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate.

 

Il diletto avanza, corre. Le immagini esaltano la libertà di questa presenza, la sua agilità: le montagne sono l’appoggio di salti acrobatici che gli consentono di percorrere una distanza, di superare ogni asperità. La creatura è affascinata, incantata nell’osservare questa presenza quasi informe all’orizzonte, che poi si approssima. E’ proprio questo avvicinarsi del diletto che qui, nella sua visione, la creatura avverte in modo sempre più stringente: non soltanto viene, non soltanto salta, corre, ma si sta avvicinando a me. E sta stringendo lo spazio attorno a me, è interessato a me, non è un muro qualunque, è proprio il muro del nostro cortile, non è una finestra qualunque, è la finestra della nostra casa, non sono inferriate qualunque, sono proprio quelle che sono state poste per costruire l’elemento decisivo che impedisca l’ingresso degli indiscreti in casa nostra. Ebbene è lui che sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate. Come si avvicina, come penetra, come incalza! E’ il mio diletto, è proprio lui.

 

Quello che la creatura amata non era stata in grado di sostenere nella realtà della veglia, è ora una evidenza inequivocabile. Certo, è il linguaggio del sogno, linguaggio profetico, linguaggio di una creatura che si è ritirata nell’intimo per ripararsi, per cercare una sua autonomia, ma è proprio nell’intimità della sua vita che il diletto la sta inseguendo e la sta stringendo. Lì egli la raggiunge: la parola risuona in una chiamata inequivocabile, una chiamata per nome, così come il pastore chiama le sue pecore nel Vangelo secondo Giovanni. Quella voce chiama me, è ormai una eco che rimbomba dal di dentro di me stesso, là dove, nell’intimo, è già depositata una promessa. Quella voce che ha chiamato fin dall’inizio, adesso si fa riudire, ma nel contesto del sogno, dove suscita nell’intimo della creatura l’eco inconfondibile di una promessa seminata inizialmente e conservata per tutto questo tempo. Riaffiora in tutta la sua autenticità.

 

Questo sonno è il contesto di una pedagogia sapientissima. Il diletto si serve del sogno per educare una creatura fuggiasca, che sta battendo in ritirata: ha chiuso le orecchie, gli occhi, si è addormentata, ha voluto asserragliarsi nell’intimo di un cuore autonomo per se stesso. Ebbene il sogno diventa il modo che consente al diletto di rievocare nell’intimo stesso di quella creatura la presenza di una promessa che le fu assegnata fin dall’inizio e che è rimasta accantonata, forse dimenticata e che adesso riemerge. E’ una vocazione che la creatura constata essere il suo patrimonio più radicale, la sua identità più profonda. La voce del diletto le scaturisce dall’intimo, come testimonianza di una promessa che la sollecita nel dinamismo della speranza. E’ una vocazione che sembra essere del tutto eterogenea rispetto alla realtà del vissuto, eppure, quella vocazione è identificata come il motivo portante, la struttura costitutiva di tutta una esistenza: è una creatura che sta imparando a vivere di speranza, una speranza che è fondata su quella promessa. Questo avviene nel sonno.

Ora parla il mio diletto e mi dice. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!.

 

Alzati, amica mia, mia bella, e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna. Il fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza. Alzati, amica mia, mia bella, e vieni!.

 

Il v. 14 fa parte di questo messaggio che il diletto invia alla sua creatura. Alzati, amica mia, impara a vivere nella speranza di chi appartiene a una promessa ancora non compiuta, eppure una promessa confermata. E’ la primavera, la campagna è in fiore. Alzati dunque e vieni, il fico ha messo i primi frutti.

 

Nel vangelo secondo Marco, Gesù giunto a Gerusalemme torna a Betania, poi ritorna a Gerusalemme e lungo la strada cerca un fico perché ha fame. L’evangelista Marco informa che non era il tempo dei fichi. Se non era il tempo dei fichi, perché cerca il fico? Il senso ha di quell’episodio lo possiamo cogliere rifacendoci alla lettura del Cantico dei Cantici. Il Fico ha messo fuori i primi frutti e le viti fiorite spandono fragranza: alzati amica mia e vieni. Questo è il tempo del diletto, questa è la campagna in fiore, per il diletto, che conferma la sua parola, il valore di quella promessa, il dono di quella vocazione che chiama la creatura a svegliarsi. Gesù constata, avvicinandosi a Gerusalemme, che il tempo della sua fame, la fame del diletto, non coincide con il tempo dei fichi. Gesù sta constatando che ancora c’è una distonia tra il tempo del Messia e il tempo del popolo messianico.

 

Ma la promessa è confermata. E’ ancora tempo da dedicare al sonno, sarà ancora necessaria una prolungata pedagogia tramite i sogni: l’evangelo eserciterà la sua efficacia risorgerà, rispunterà, germoglierà nell’intimo di quella creatura che sarà stata educata lungo lo svolgersi dei tempi e nella complessità degli spazi, secondo una misura di grazia provvidenziale che solo il diletto conosce. Ma intanto la promessa è confermata: Alzati, amica mia, mia bella e vieni.

ecco, vieni

 

E aggiunge:

O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro.

 

Il diletto è determinato, insegue la sua creatura nelle zone più profonde ed impervie, là dove tenta di asserragliarsi, come questa colomba che va a cercare riparo nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi. Il diletto non cerca soltanto il riscontro di una promessa conservata e di una speranza irriducibile, ma invita la creatura a mostrare il proprio volto: mostrami il tuo viso. Non nasconderà più il proprio volto, non cercherà più il riparo ombroso e sepolcrale nelle fenditure della roccia, si mostrerà scoperto: mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è leggiadro. Non scappare più, non tirarti più indietro, non temere, non dubitare, non dimenticare il dono che ti è stato affidato, non fuggire dall’evangelo, non cercare di mascherarti, non darti un’altra voce, non parlare un’altra lingua, non rifarti ad altri criteri per interpretare la realtà del mondo. E’ solo la voce con cui il diletto ti ha chiamato che parla in te ed è il dono che hai ricevuto, il riferimento in base al quale tutto, della storia umana, diventa comprensibile, è la luce che cerca il modo di rispecchiarsi sul tuo volto che ti confermerà come creatura immagine del creatore, responsabile dell’universo intero. Non scappare più.

 

Ed è un richiamo così affettuoso e così intenso che la coinvolge dall’interno. Per quanto fugga, in qualunque anfratto roccioso andrà mai ad infilarsi questa creatura, scopre che il diletto l’ha preceduta. Non solo la insegue, ma l’ha già preceduta in qualunque profondità possa andare a rintanarsi, in qualunque nascondiglio voglia ancora isolarsi, scopre che la voce del diletto gli viene incontro, la presenza del diletto la incalza, la mano del diletto la stringe e la promessa la avvolge. Non c’è luogo più remoto, non c’è periferia più dispersiva, non c’è isolamento più eremitico in cui questa creatura umana non sia in grado ormai di constatare che il diletto la chiama, la stringe, è il diletto che le mostra il proprio volto, è il diletto che la conferma nella sua originaria vocazione. E’ il diletto che la sta evangelizzando per coinvolgerla in un unico disegno di amore di portata universale e definitiva.

Adesso è di nuovo la creatura che sta reagendo a suo modo. Il suo sonno non è sereno, certo.

 

le volpi e le vigne

 

Prendeteci le volpi, le volpi piccoline che guastano le vigne, perché le nostre vigne sono in fiore.

 

Questa immagine delle volpi che devastano il territorio è presente più volte nella letteratura profetica ed allude alle incursioni, che ebbero luogo in diversi tempi nella storia della salvezza, quando la terra di Israele fu invasa e devastata. Le citazioni a questo riguardo sono numerose. La reazione espressa dalla nostra creatura è quella di una essere che si sente messo in pericolo. Non è sicuro di sé, non sa come venire a capo di tanti e tanti interrogativi che ancora la attanagliano. Ma chi potrà tenere d’occhio queste volpi piccoline? Chi potrà tenerle a bada? Chi potrà impedire alle volpi di invadere, di devastare, di inquinare? Questa creatura è molto perplessa, è imbarazzata, si sente sproporzionata a quella dichiarazione così semplice e così intensa di un amore diretto che il diletto le ha rivolto. Non riesce a trovare in sé l’eco di quella voce. Ciò è vero con tutte le contraddizioni che noi sperimentiamo nel nostro vissuto personale, nel vissuto storico di Dio e nella storia dell’umanità intera. C’è una contraddizione per cui per un verso si aggrappa a quella speranza che la promessa ha suscitato in lei, ma nello stesso tempo è dubbiosa, è sospettosa, vuole scappare ancora. D’altra parte: più scappa e più scapperà, e più incontrerà il diletto.

Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli.

 

Mentre è tutta presa da quell’imbarazzantissimo accenno alle volpi, dichiara che «il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli». Una dichiarazione questa che rinvia a quel duetto che leggevamo nel primo poema, quando, per l’appunto, la creatura aveva dimostrato di non essere capace di stare al passo. Adesso è lei stessa che dice: «Il mio diletto è per me e io per lui». Questo è il linguaggio dell’alleanza: Io sono il tuo Dio, tu sei il mio popolo; io sono per te, tu sei per me. E’ un linguaggio che sintetizza tutto un linguaggio di amore, tutta una storia di comunione: è la storia della salvezza, il mio diletto è per me ed io per lui. E’ un’appartenenza vicendevole, ormai definitiva, indissolubile. «Il mio diletto è per me e io per lui. Egli pascola il gregge fra i gigli. Prima che spiri la brezza del giorno». Alternanze di umore, di sentimenti, di pensieri, di immagini interiori, slanci, fremiti di speranza a cui vi ci si dedica con trasporto appassionato e poi, ecco, cedimenti, rallentamenti, ritrosie di ogni genere. Il diletto adesso è sparito o così è per la creatura amata. Nel sogno non lo trova più.

Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cerbiatto, sopra i monti degli aromi.

 

la scomparsa del diletto

 

Se ne è andato, non c’è più, non lo vede più, non lo riconosce più, almeno così sembra a lei. Quel che sta avvenendo adesso, nell’ambito del sogno continua a far parte dell’iniziativa pedagogica. Vorrebbe ritrovare nel sogno il contatto con quella presenza che ha contemplato e da cui ha ricevuto quel messaggio così commovente poco prima, ma non può. E’ vero che lei stessa ha dichiarato il suo imbarazzo, ha posto in evidenza il problema delle volpi e le insidie che la minacciano in tanti modi. Fatto sta che qui siamo alle prese con il crepuscolo, e poi il tramonto, le ombre si allungano, viene la notte. “Torna, o mio diletto“, ma il diletto non viene. E’ già passato un giorno, è già passato un secolo, un millennio, ne sono passati anche due, che sgomento! Sono passati già due millenni e ancora non ci siamo svegliati. «Ritorna, o mio diletto, somigliante alla gazzella o al cerbiatto, sopra i monti degli aromi». Vuole ricostruirsi il sogno. Come è buia la sera! E’ già sera, ed è subito il millennio, ed un altro millennio. Che sgomento! L’amata guarda verso occidente. I monti degli aromi sono i monti di Beter. A Gerusalemme a occidente tramonta il sole e a occidente c’è la testa di una collina che oramai mi impedisce di vedere il sole. “Ritorna o mio diletto“, ma il diletto non è tornato. Non è tornato, non è ancora tornato, sono passati due millenni e non è ancora tornato. Si, quella voce, si, quella promessa, quella speranza, si, quel fremito, quello slancio, si, quella certezza di una intimità di amore definitiva, quell’appartenenza indissolubile, si, eppure, vedete, è già sera. L’evangelo non è ancora qui. E’ un incubo. La nostra creatura sta passando da un sogno a un incubo, succede anche questo. E normalmente succede proprio quando il sonno si fa più leggero. Gli incubi vengono verso mattina, quando si è più vicini al risveglio, o al rischio di svegliarsi, perché se mi risveglio che cosa succederà? Meglio ritornare a sprofondare nel sonno. Un incubo. Forse me lo sto sognando io che il diletto viene, corre, salta, cerca me, che il diletto parla, canta, chiama, forse me lo sto sognando io, forse è un’illusione mia, forse sto veramente sognando. In realtà è proprio così: sto veramente sognando, ma è il sogno profetico di cui il diletto si serve per educare me e l’umanità intera in vista del risveglio, ma ancora sto annaspando in me stesso nel tentativo di riappropriarmi anche del mio sonno, anche del mio sogno. E se io sogno io sono il più disperato tra gli uomini, altro che testimone della speranza.

 

la ricerca del diletto

 

Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato.

Questa creatura si agita, ha invocato il ritorno del diletto, ma il diletto non è venuto, almeno lei non lo ha riconosciuto. Questo testo che cita altri testi che sono presenti nella letteratura profetica. E’ ansimante, affannata, è alla ricerca di chissà cosa, di chissà chi. Già, era abituata a fuggire, a rintanarsi, a nascondersi, adesso si butta all’impazzata in una ricerca che sembra senza limite per quanto riguarda il dispendio delle energie psichiche, affettive, fisiche, una ricerca che la impegna su tutti i fronti, su tutte le strade della vita, della storia, del mondo: l’ho cercato, ma non l’ho trovato.

“Mi alzerò e farò il giro della città; per le strade e per le piazze; voglio cercare l’amato del mio cuore”. L’ho cercato, ma non l’ho trovato.

 

E’ un incubo. Anche questa storia da incubo quanti secoli dura, quanti millenni dura? Due millenni di sogno, due millenni di incubo; una vita di sogno, una vita di incubo. L’ho cercato e non l’ho trovato. Maria di Magdala nel vangelo secondo Giovanni, al cap. 20, cerca il corpo di Gesu, il Signore. Certamente Giovanni evangelista sta citando il cantico, il brano che leggiamo noi. Maria di Magdala, piange, strepita: dove l’avete messo, dove l’avete portato? Si rivolge al giardiniere, ma il giardiniere è il diletto. Dove l’hai portato? E’ lui, non se ne accorta, ma è lui, lo tratta come il giardiniere. E chi dev’essere se non esattamente il Signore del giardino. Ma intanto cerca, cerca a modo suo. Cerca come una forsennata, pronta ad affrontare tutti gli incontri, anche i più pericolosi. Precedentemente ci appariva dimessa, bisognosa di garanzie, di difese; adesso, invece, è in giro per tutte le strade e per tutte le piazze a cercarlo. «Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda: “Avete visto l’amato del mio cuore?”». Si rivolge a tutti, è pronta ad affrontare qualunque contatto, qualunque novità, qualunque esperienza, anche più insolita e più originale. Non trova risposta, eppure: «trovai l’amato del mio cuore». E’ sempre così: l’amato si fa trovare, è lui che si presenta, come quel giardiniere nel racconto evangelico che chiama per nome Maria di Magdala. “Maria”, la chiamerà una voce: il mio diletto.

L’ha trovato, perché è lui, è sempre stato li. E’ lui che chiama, è lui che conferma la sua promessa, è lui che vuole educare nella speranza la sua creatura, è lui che vuole suscitare una fede incrollabile nell’amore che a quella creatura è stato donato. Fino a quando si risveglierà e sarà in grado di accogliere quel dono e di rispondere ad esso. Fino a quando l’evangelo la troverà corrispondente per una indissolubile comunione di vita, nella comunione tra il cielo e la terra, perché tutta la creazione è coinvolta in questa comunione di amore fra il diletto e la sua creatura. Certo. E’ sempre stato lì il diletto, come nel racconto evangelico: è il giardiniere, ma è sempre stato lì.

 

Trovai l’amato del mio cuore. E’ proprio questa la constatazione a cui ci sta conducendo il secondo poema, mentre la creatura dorme, sta sognando e sta passando attraverso fasi successive del sogno, e molteplici conferme, quelle di cui ha bisogno, per tutto il tempo che il diletto saprà provvidenzialmente disporre secondo le sue intenzioni, passando attraverso tutti gli incontri che sempre saranno docili al suo servizio di quella epifania del volto del diletto che egli stesso saprà esprimere.

 

di nuovo nel sonno

 

Questa creatura scopre che il diletto è sempre stato lì, ha posto la sua presenza al fondo delle cose, al fondo della vita, al fondo del cuore umano. E mentre ha sfiorato il risveglio ed ha sperimentato l’incubo, adesso di nuovo si sta immergendo in un sonno profondo, una chiarezza sempre più lucida per quanto riguarda la presenza del diletto, la fedeltà di quella chiamata iniziale, la qualità feconda dell’evangelo. Ma intanto questa creatura sta di nuovo sprofondando nel sonno.

Lo strinsi fortemente e non lo lascerò finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice.

 

Già, perché ancora le cose stanno così: in verità era solo un incubo, adesso si sta di nuovo ritirando in se stessa, si sta di nuovo piegando, aggrovigliando, si sta di nuovo raggomitolando e rincattucciando nel suo spazio domestico, nella casa interna della casa. Ed è proprio in quel luogo, più interno che mai, che questa creatura vuole condurre con sé il diletto: l’ho stretto, non lo lascerò mai più, me lo voglio portare con me nella casa di mia madre. E guarda indietro e di nuovo sprofonda nel sonno.

Ho trovato l’evangelo, adesso lo stringo e non lo lascerò mai più, me lo porto con me nella stanza più interna. Lo custodirò nella cassa del corredo nuziale. La creatura torna indietro e ancora dorme e sogna. E il diletto veglia, non è frenato, non è catturato in nessun modo: è il diletto.

 

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, per le gazzelle e per le cerve dei campi: non destate, non scuotete dal sonno l’amata finché essa non lo voglia».

 

Così come il poema aveva avuto inizio, così si conclude. E’ ancora il diletto che con la sua sapienza pedagogica si prende cura di questa creatura dormiente per educarla attraverso i sogni, perché di sogno in sogno, di incubo in incubo, finalmente impari a fidarsi della promessa che le è stata assegnata, impari a accogliere l’evangelo come chiamata a svegliarsi, per assumere una responsabilità autentica al servizio di quell’unico disegno di amore che è presente dall’eternità nel grembo del Dio vivente e che ci è stato rivelato.

4 – DAL LIBANO A GIARDINO – Pino Stancari

Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo |

DAL LIBANO A GIARDINO

 

di Pino Stancari

 

che sia soltanto un sogno?

Abbiamo lasciato la creatura amata ancora dormiente, mentre il diletto veglia al suo capezzale. Si è avvicinata al risveglio, poi è ripiombata nel sonno e nel corso del suo riposo ha sognato. Il diletto ha approfittato dei sogni per educarla nell’intimo, per comunicare quanto, in condizione di veglia, la creatura amata non era ancora in grado di reggere. Ancora non è in grado. Tant’è vero che appena si è accostata alla soglia del risveglio subito si è ritirata. Quella comunione di amore, per il quale il diletto l’ha visitata, quella comunione di amore che pure era desiderata, vagheggiata, inseguita dalla creatura vagabonda, in ansia, tormentata, non trova un riscontro: la creatura non ce la fa a reggere l’impatto con quella presenza, con quella pienezza di amore. Si è addormentata.

 

E’ vero: il tempo del sonno non è un tempo inutile, è tempo valorizzato dal diletto per educare nell’intimo del cuore quella creatura dormiente, ma ci siamo resi conto che non è pronta per il risveglio. Il diletto non rinuncia per questo al suo proposito. E’ lui che veglia in attesa del momento in cui quella creatura amata sarà in grado di corrispondere alla sollecitudine del diletto.

 

E’ l’evangelo che ha interpellato la creatura, che le è stato donato, che la sta visitando nell’intimo, ed è, all’incontro con l’evangelo, per la conversione all’evangelo che quella creatura ancora non è pronta. Riesce a sognare, ma non è ancora in grado di sostenere l’impatto con la novità evangelica in condizioni di veglia. La situazione diventa alquanto imbarazzante nel momento in cui, giungendo nella fase del sonno che è prossimo la risveglio, è assalita da un incubo terribile: che sia davvero un sogno, che sia soltanto un sogno? Che l’evangelo, la novità che viene da Dio e cambia la storia degli uomini e che cambia il cuore di tutto e il cuore mio, che l’evangelo sia soltanto un vagheggiamento onirico, una fantasia per dormienti che si stanno crogiolando nella inedia?

 

In realtà la creatura non è pronta per superare l’incubo, è ripiombata nel sonno profondo. Il secondo poema si chiudeva nella convinzione della creatura di avere ormai raggiunto il diletto, di stringerlo, di non volere lasciarlo mai più, «finché non l’abbia condotto in casa di mia madre, nella stanza della mia genitrice». E’ ricaduta, invece, all’indietro, è ritornata al sonno profondo, è rientrata in casa di sua madre. Si è li per li convinta di avere finalmente afferrato l’evangelo, e lo tiene stretto. In realtà il gesto che compie già ci mette sull’avviso: c’è un fraintendimento clamoroso a riguardo di questo incontro con l’evangelo. Ce l’ha fatta finalmente, lo tiene stretto, se ne è impossessata? L’ambiguità di questo gesto appare subito: sta rientrando nella stanza della sua genitrice, si sta riavvolgendo dentro le spire del suo sonno ancora non terminato. E il diletto da parte sua veglia, con pazienza affettuosa e dolcissima. Il diletto è custode di quel sonno e ne approfitta per confermare nell’intimo del cuore di quella creatura, il valore di una chiamata, di un invito, di una promessa, di una speranza che orienta il cammino dell’umanità verso la pienezza della comunione con il Dio vivente. E’ una comunione ritrovata, restaurata, dopo tutta una storia fatta di smarrimenti, di deviazioni, di fraintendimenti.

 

il rapimento della sposa

 

Ma adesso si giunge a una svolta. Il terzo poema si apre con la descrizione di una scena del tutto imprevista. E’ sempre così quando compare il diletto: compare a modo suo, compare nella gratuità della sua iniziativa, con le sue originali genialissime improvvisazioni.

 

«Che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo, esalando profumo di mirra e d’incenso e d’ogni polvere aromatica? Ecco, la lettiga di Salomone: sessanta prodi le stanno intorno, tra i più valorosi d’Israele. Tutti sanno maneggiare la spada, sono esperti nella guerra; ognuno porta la spada al fianco contro i pericoli della notte».

 

Un corteo si muove all’orizzonte, avanza precipitosamente, accelera l’andatura in modo impressionante, solleva un enorme polverone che, mentre appanna la vista, ci viene incontro con la singolare soavità di profumi effusi in misura sovrabbondante. E’ polvere, ma è polvere odorosa, è polvere aromatica. Profumo di mirra e di incenso.

Che corteo è questo, che cosa sta succedendo?

 

Questo corteo ha tutte le caratteristiche delle cerimonie nuziali che prevedevano l’atto del rapimento: l’aspirante sposo si presenta accompagnato dai suoi amici per rapire la fidanzata. Il rapimento si configura come una cerimonia, un rito. E’ un modo di celebrare le nozze proprio dei popoli nomadi. La scena a cui stiamo assistendo ha le caratteristiche di un rapimento: il diletto vuole rapire la creatura amata per sposarla. Tutto appare come un gesto energico, travolgente, che ha aspetti di violenza, di sopraffazione! Il diletto rapisce la creatura che nel frattempo è andata a rintanarsi nella stanza di sua madre, quella creatura che aveva preteso di avere conquistato e possedere il diletto. In realtà non l’ha conquistato affatto e ancora meno lo possiede. E’ andata a rintanarsi: c’è una nota di ritrosia, ancor più, di vergogna, nel suo comportamento. Nel sogno essa si era immaginata di aver rubato il diletto.

 

Questa creatura è una ladra, è una creatura abituata al ladrocinio, abituata a fare della rapina il suo modo di affermazione. Di questa rapina è tronfia e in essa si sente gratificata, ci dorme sopra con grande effusione di sentimenti.

Il diletto interviene rapendo la creatura. L’ideale della rapina è il motivo per cui quella creatura non si sveglia e non può svegliarsi, perché se mai si svegliasse precipiterebbe in un baratro infernale. Interviene il diletto con questa soluzione originalissima: fa sua la vergogna della rapina a cui l’umanità si è votata.

 

L’umanità ha fatto del furto il proprio ideale di riferimento. L’evangelo non abita qui. C’è stato un accenno, era solo la pretesa di avere conquistato anche l’evangelo, di possederlo, di averlo risucchiato nel vortice dell’infamia rapinatrice. La creatura umana è soddisfatta di potersi rintanare in casa di sua madre. Ma è da quella casa che il diletto la strappa, è da quella stanza della genitrice che il diletto la tira fuori, per questo usa la violenza. Certo, è la violenza dello sposo, è la violenza dell’evangelo che rapina l’umanità per strapparla alla prigionia in cui da se stessa si è relegata e in cui da se stessa vuole conservarsi.

 

Lo sposo interviene, proprio perché è lo sposo, il diletto. Affronta lui il terreno della vergogna umana, avanza lui su quel terreno, se ne appropria lui, lo fa suo. Là dove l’umanità vuole rannicchiarsi nella miseria della propria rapina, là dove l’umanità pretende di rapinare anche l’evangelo, proprio là dove questa pretesa è divenuta il vanto di una istituzione dormiente, proprio là il diletto interviene e strappa, rompe, rapina, ruba. E’ il ladro.

 

Gesù stesso ha detto questo: viene come un ladro perché è lo sposo. Quella creatura non si potrebbe risvegliare se non fosse strappata dalla presenza dello sposo. E’ proprio lo sposo che si presenta svegliandola perché è lo sposo che viene, già si è impossessato di lei. La creatura, risvegliata bruscamente, sarà esterrefatta, sconcertata, forse protesterà, interpreterà il momento che sta vivendo come un disastro.. E’ arrivato il diletto e l’ha sposata, ha fatto sua la vergogna dell’umanità, di quella creatura che aveva preteso di essere ormai padrona dell’evangelo. In realtà quella creatura ha dimostrato soltanto di essere prigioniera del sonno ed è da quel sonno che viene strappata e liberata.

 

l’incoronazione dello sposo

 

C’è un baldacchino al v. 9 che rende per il momento invisibile il diletto. Ci sono i suoi compagni che si danno un gran d’affare attorno alla lettiga, lui è evocato con il ricorso al nome del re Salomone, ma è invisibile.

 

«Un baldacchino s’è fatto il re Salomone, con legno del Libano. Le sue colonne le ha fatte d’argento, d’oro la sua spalliera; il suo seggio di porpora, il centro è un ricamo d’amore delle fanciulle di Gerusalemme».

 

E’ l’incoronazione dello sposo, è il giorno della intronizzazione regale, ma è il giorno in cui la sposa si presenta a lui, è consegnata a lui, coinvolta in una relazione di amore alla quale non può più resistere. Un amore geloso, un amore intransigente, un amore prepotente, un amore travolgente, un amore vittorioso, un amore che non attende più, non rinvia più.

 

Il giorno delle nozze coincide con il giorno dell’incoronazione. Lo sposo nella cerimonia nuziale è incoronato. Così vanno ancora le cose per i cristiani dell’oriente. La festa della celebrazione delle nozze è anche il rito di incoronazione dello sposo. Questa incoronazione immediatamente ci orienta verso il giorno delle nozze che segna la svolta decisiva nella storia umana, quel giorno in cui lo sposo è il crocifisso incoronato. Ebrei 2,9:

«quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti».

 

Eccolo l’incoronato, eccolo nel giorno delle nozze, ecco lo sposo che ruba, attrae a sé, rapisce per sé la sposa, ossia la creatura umana, in forza di un amore geloso e vittorioso, che si esprime con il linguaggio della vergogna condivisa fino alla morte. E’ incoronato e intronizzato. Per delle creature ladre, si presenta il ladro. Per delle creature che si rintanano in fondo a un abisso, il diletto si presenta come signore dell’abisso umano, signore della oscurità infernale. E’ lui il signore della morte, ed è lui intronizzato e incoronato perché è lo sposo che attrae a sé in modo travolgente l’umanità intera. E non c’è creatura che possa sfuggire a questo ratto, che possa considerarsi estranea a questa intenzione d’amore. La corona dello sposo sta li a dimostrare come si sia impossessato della morte, della vergogna, della miseria, della infamia, di cui la nostra umanità è prigioniera e di cui la nostra umanità vuole restare prigioniera. Se ne è impossessato lui, è lo sposo. Lo sposo è intervenuto in modo tale da conferire alla morte della creatura la testimonianza di un vincolo nuziale, la testimonianza di un amore geloso che libera, che riscatta, che ormai apre strade nuove per gli uomini, per la chiesa, per la storia del mondo.

 

«Uscite figlie di Sion, guardate il re Salomone».

 

Era velato e diventa visibile, si sono mosse le cortine della lettiga perché adesso è il momento in cui la sposa rapita viene introdotta nella lettiga e insieme saranno portati, lo sposo e la sposa, che a lui si presenta.

«Guardatelo con la corona che gli pose sua madre, nel giorno delle sue nozze, nel giorno della gioia del suo cuore».

 

una serenata: “come se bella, amica mia!”

 

Il poema prosegue con un canto, una serenata che il diletto dedica alla creatura amata: l’ha svegliata, l’ha strappata, l’ha presa a sé, adesso la creatura amata è accanto a lui, sono sulla stessa lettiga. L’invisibile glorioso, il crocifisso incoronato. Ecco il ladro che viene per evangelizzare creature dormienti come noi.

 

Il diletto parla. E’ la voce dello sposo che adesso, aiutati e sostenuti, dall’amico dello sposo, possiamo ascoltare. La morte è divenuta testimonianza di una gelosia d’amore che ha instaurato un vincolo nuziale indissolubile. Il diletto è passato attraverso la vergogna, attraverso l’inferno della condizione umana, attraverso il deserto del cuore umano. La morte è divenuta sigillo, comunque. Il diletto canta.

 

«Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono un gregge di capre, che scendono dalle pendici del Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte procedono appaiate, e nessuna è senza compagna. Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo. Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di prodi. I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano fra i gigli».

 

E’ il diletto che parla della creatura amata. Chi è? Dove sta? Come è fatta? Come appare? Che volto ha? In realtà il volto della creatura è velato, ma attraverso il velo viene contemplato dal diletto che si compiace di descriverlo. E’ incantato, è affascinato, un linguaggio sorprendente, sconcertante, eppure è così. Come avrebbe potuto mai essere risvegliata quella creatura? L’evangelo travolge tutte le previsioni, l’evangelo incalza, l’evangelo strappa e trascina lungo il suo corso.

 

E’ descritto il volto, è descritta la figura della creatura umana, è descritta la creatura amata, ma è inserita in un contesto: la terra. Essa rappresenta il contesto di spazio e di tempo in cui l’umanità è sempre e comunque inserita. Nel canto del diletto questa creatura è collocata nella sua terra, anzi fusa con quella terra. Il diletto canta il suo amore alla creatura amata da lui: come sei bella amica mia, come sei bella!

Ecco! Sei nel tuo contesto, sei nel tuo mondo, sei nella tua storia, sei nella tua terra, sei terra, sei mondo, sei storia, tu sei creatura amata oggi!

 

Non siamo noi che attualizziamo l’evangelo, è l’evangelo che attualizza noi! E’ l’evangelo che rende noi odierni. Non è preoccupazione nostra di rendere odierno l’evangelo, saremmo soltanto capaci di acchiapparlo, imbrogliarlo, imbrigliarlo e rinchiuderlo in casa di nostra madre, in un qualche armadio. E’ il vangelo che fa della creatura umana una creatura terrestre, mondana, storica, oggi: come sei bella amica mia, come sei bella! v. 5:

I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano fra i gigli.

 

Qui il poema allude alle due montagne che sono state considerate per alcuni secoli come gli emblemi di uno scisma che ha fratturato la comunione all’interno del popolo di Dio: le due montagne: il monte Sion e il monte Garizim, quello su cui i Samaritani edificarono un altro tempio in contestazione con il tempio di Gerusalemme. La polemica, come sappiamo bene, è ancora vivacissima nei racconti evangelici.

 

Sotto lo sguardo del diletto che descrive la sua creatura, quella creatura è unificata: l’unità del popolo non più fratturato, non più lottizzato. E’ sempre vera per il popolo di Dio nel corso della sua storia la propensione a fare del corpo della chiesa un frammento di lotti messi in vendita a uso e consumo del più presuntuoso offerente. Sotto lo sguardo del diletto che canta, il corpo della creatura amata è ricomposto nell’unità conseguente. E il v. 6:

«Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso. Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia».

 

specchiarsi nella creatura: lo sconcertante mistero

 

Il diletto viene e dice egli stesso: io vengo presto. Così leggiamo alla lettera nell’Apocalisse alla fine: io vengo. Non soltanto canta, ammira, contempla, ma “vengo e vengo presto“, prima che finisca il giorno. Questo giorno ormai è intramontabile: il giorno delle nozze contiene in sé una sequenza di secoli e millenni che noi non siamo in grado di calcolare. Tuta questa sequenza temporale cade all’interno di quel giorno: io vengo. Questo è il giorno delle nozze. L’urgenza di questa venuta è qui confermata da una dichiarazione stupefacente: « Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia», in modo da esprimere il desiderio di venire per specchiarsi nella creatura amata. Vengo e vengo presto non soltanto per dirti quel che mi sta a cuore; vengo per rispecchiarmi in te, per trovarmi in te. Questo è sconcertante, stupefacente, è veramente misterioso: il mistero di Dio si rivela nel senso di una volontà di rispecchiamento nella creatura, il mistero di Dio vuole essere testimoniato dalla creatura. E’ Dio che vuole, per così dire, riceversi dalla creatura. Non a caso già tradizioni molto antiche nella chiesa leggonop questo versetto 4,7 in rapporto alla Immacolata Concezione:

«Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia».

 

Il mistero di Dio si è presentato come uno sposo rapinatore, adesso veniamo a sapere che si presenta come mendicante: mi rivolgo a te perché tu mi parli di Dio. Questo è stupefacente. Nella Lettera agli Ebrei 5,9 troviamo: imparò dalle sofferenze che patì e per le lacrime che versò nella condizione umana, imparò l’obbedienza di Dio.

Cosa hai imparato da noi? Cosa ha imparato dall’umanità: sofferenze e lacrime fino alla morte. Hai imparato ad essere Figlio. Straordinario! Vuole essere parlato dalla creatura umana. «Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia».

 

Dal v. 8 la serenata prende uno slancio ulteriore: «Vieni con me dal Libano». Precedentemente il diletto aveva detto: io vengo, vengo presto; ora, invece, “vieni con me”. In questo “vieni con me” è come se attendesse egli stesso di ricevere dalla creatura quella risposta che rivela il suo essere: pienezza totale di comunione liberata. Che strano. Il mistero di Dio si rivela come attesa di una risposta da parte della creatura umana. Vieni da me, lascia il Libano e mettiti in movimento, segui me, rispondi a me, fidati di me, corrispondi al mio invito, alla mia presenza.

 

«Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni! Osserva dalla cima dell’Amana, dalla cima del Senìr e dell’E`rmon, dalle tane dei leoni, dai monti dei leopardi. Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa».

 

Il gesto del rapinatore è un gesto che vuole persuadere, che vuole carpire il cuore nel momento stesso in cui porge il cuore:

«Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, sposa, tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! Quanto sono soavi le tue carezze, sorella mia, sposa, quanto più deliziose del vino le tue carezze ».

 

Inizialmente nel Cantico dei cantici era la creatura amata, nel suo affanno, che diceva: le carezze del diletto sono più deliziose del vino; adesso è il diletto che dice questo a riguardo delle carezze che va mendicando dalla creatura amata.

«L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi. Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano».

 

dal Libano al giardino

 

L’itinerario che il diletto predispone per la creatura umana va dal Libano, con tutto quello che significa, al giardino. Vieni: è un itinerario di conversione, di trasformazione; un itinerario che la creatura umana percorrerà perché è il diletto che la precede, è il diletto che la spinge, che, anzi, la sta implorando: tu mi hai rapito il cuore.

Nei versetti che stiamo leggendo i segni della comunione sono sempre più intensi, appassionati, penetranti, una atmosfera che è tutta pervasa da riferimenti agli sguardi, alle carezze, ai baci, ai profumi, una sovrabbondante ricchezza di profumi. v. 12: «Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata».

Dal Libano al giardino non sei più quella creatura riottosa che si rintanava tra le rupi montane, sei giardino chiuso. Questa immagine allude in modo inconfondibile per gli antichi interpreti del Cantico, alla verginità. La verginità è conferita a questa creatura in forza dell’amore esclusivo e geloso che il diletto le riserva: tu sei un dono di amore unico, un dono di amore libero, un dono d’amore definitivo.

 

Il passaggio dal Libano al giardino comporta il recupero di una verginità già ampiamente tradita, disprezzata: giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa.

L’immagine del giardino rimane dominante sino al v. 15:

«Giardino chiuso tu sei, sorella mia, sposa, giardino chiuso, fontana sigillata. I tuoi germogli sono un giardino di melagrane»,

 

Il giardino chiuso è un giardino coltivato, fecondissimo. Quella verginità è una verginità materna, è una verginità in grado di generare abbondanza di frutti:

«I tuoi germogli sono un giardino di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro con nardo, nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo con ogni specie d’alberi da incenso; mirra e aloe con tutti i migliori aromi».

 

I frutti sono messi in evidenza facendo riferimento alla effusione dei profumi, sono ben sette le sostanze odorose che qui vengono citate. In quel giardino v. 15:

«Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano». Il giardino chiuso è irrorato da acqua sovrabbondante. Il richiamo è al racconto di Genesi 2, il racconto della creazione: l’uomo è collocato nel giardino con quattro grandi fiumi. E’ il giardino che governa l’equilibrio cosmico e ricapitola in sé tutto il bisogno della storia umana mediante questa gestione dell’acqua al servizio della vita: «Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive e ruscelli sgorganti dal Libano».

Questo è il giardino verginale, il giardino della creatura in grado ormai di generare con inesauribile fecondità.

 

Il canto del diletto si chiude con un accenno al Libano che ci riporta al v. 8: Vieni con me dal Libano. Questo giardino è alternativo rispetto al Libano, ma è anche vero che contiene anche il Libano, così come contiene tutte le tane degli animali feroci, tutte le periferie più remote ed isolate da cui l’umanità è strappata, perché si metta in viaggio lungo la strada nuziale che il diletto le ha preparato. “Ruscelli sgorganti dal Libano”, ormai non si distingue più tra il giardino e il Libano.

 

E siamo alla fine del poema, 4,16:

«Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti».

 

Qui è la voce della creatura amata, la riascoltiamo dopo tanto tempo in cui la creatura era rimasta dormiente. «Lèvati, aquilone, e tu, austro, vieni». Sono i due venti del nord, aquilone, e del sud, austro. Ma tutti i venti così vengono convocati e invocati. E’ una vera e propria epiclesi dello Spirito Santo: levati vento, vieni soffio, vieni nel mio giardino e si effondano i suoi aromi. E’ proprio al soffio del vento che il giardino esalerà il profumo.

 

«Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti».

 

Il diletto è invitato a venire in concomitanza con la effusione dei profumi che dal giardino vengono esalati perché il soffio del vento si esprime in tutta la sua efficacia. Il diletto viene per rapire, viene in concomitanza con l’effusione del profumo.

«Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte».

E’ suo, è tutto suo: è il mio giardino, così come è vero che tu sei mia sorella sposa. Mia mirra, mio balsamo, mio favo, mio miele, mio vino, mio latte: è tutto suo. E’ il diletto che viene, è l’evangelo che viene. L’evangelo è venuto. E’ venuto in quanto sposo, in quanto crocifisso incoronato, è venuto in quanto mendicante, in quanto Figlio che vuole essere generato nella condizione umana. E’ venuto. «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari». C’è una ridondanza comunitaria inesauribile, coinvolgente, fino a raggiungere le componenti più marginali dell’umanità: «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari». Là dove il diletto è in festa, là dove l’evangelo ha trovato dimora nella gratuità dell’evento che si è compiuto, comunione nuziale, Pasqua di redenzione, là è convocata la moltitudine umana per la comunione piena e definitiva. Nel vangelo secondo Matteo cap. 22, l’invitato alle nozze si presenta senza abito nuziale, e il re lo vede, lo chiama e gli dice: Amico, come mai sei qui senza abito nuziale, non ti sei accorto che sei invitato a partecipare alla festa delle nozze? La stessa espressione viene utilizzata nel vangelo secondo Matteo, al cap. 26, a riguardo di un altro personaggio. Giuda si presenta nel Getzemani e il Signore gli dice: Amico, perché sei qua? Che ci stai a fare qui? «Mangiate, amici, bevete; inebriatevi, o cari». Hai l’abito delle nozze? Cosa sei venuto a fare qui? Cosa siamo noi a fare qui? Cosa noi abbiamo a che fare con l’evangelo, oggi?

5 – IL PASTORE NEL GIARDINO – Pino Stancari

Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo |

Pino Stancari
Nato nel 1946, Pino Stancari è entrato a diciott’anni nella Compagnia di Gesù. Vive dal 1975 in una piccola residenza della Compagnia in terra di Calabria, dedicandosi a ministeri quali l’esegesi, la predicazione, gli esercizi spirituali. Da quest’impegno quotidiano e itinerante al servizio della parola di Dio sono nati i suoi libri sull’Esodo, il Levitico, i Numeri, Giosuè, i Salmi, Tobia, il Cantico dei Cantici, il Vangelo di Marco, i Patriarchi, la Lettera ai Romani.

 

IL PASTORE NEL GIARDINO

 di Pino Stancari

 

io dormo, ma il mio cuore veglia

«Io dormo, ma il mio cuore veglia». Il quarto poema si apre con questa dichiarazione contraddittoria da parte della creatura amata che così vuole esprimere la situazione nuova alla quale ha aderito e della quale è testimone. Questa creatura ormai ha accolto, porta in sé e a sua volta interpreta e annuncia l’evangelo: è la nostra vita cristiana, è la vita del popolo cristiano, è la presenza della Chiesa nella storia umana. Portiamo in noi e con noi l’evangelo, patrimonio acquisito, lascito di cui siamo eredi e che intendiamo trasmettere con matura consapevolezza. Ebbene, la creatura dice: «Io dormo, ma il mio cuore veglia», una contraddizione, perché se dormo non veglio. Quella contraddizione che appare immediatamente a noi, che siamo spettatori della scena, non appare affatto evidente a lei. Anzi, dentro quella contraddizione sembra trovarsi perfettamente a suo agio. Dichiara di essere dormiente ed è convintissima che il sonno in cui è sprofondata sia perfettamente coerente con la veglia a cui è consacrato il suo cuore: il mio cuore veglia. Dormo, è vero, ma intanto sono vigilante, perché il cuore è pronto, risoluto nella prospettiva di quella novità evangelica che ormai mi ha coinvolto e che è il motivo della mia presenza in mezzo agli uomini.

 

La contraddizione però riemerge in modo clamoroso e drammatico. Questa creatura si è abituata ormai a considerare l’evangelo come un dato acquisito, come un diritto che le garantisce titoli di proprietà, per cui in tutte le situazioni a cui questa creatura è esposta nel corso della sua vita, e che possono prendere pieghe che contraddicono la realtà evangelica, essa è pronta a dichiarare che non ci sono ambiguità, non c’è motivo per angustiarsi: io dormo, ma il mio cuore veglia.

 

In realtà la contraddizione si è già introdotta nella storia di questa creatura, ed è una contraddizione che non può rimanere sopita, velata, addirittura ammantata di una visibile e sfacciata sicurezza. Possiamo ben dirlo: sfacciata è la maniera assunta da lei nel presentarsi, in pubblico: nessuno l’ha invitata, nessuno l’ha incoraggiata, è lei stessa che si fa avanti. E’ la nostra vita cristiana che ormai presume di avere acquisito una qualità evangelica e si propone come depositaria di questo dono e testimone coerente dell’evangelo: è la vita, la presenza e la missione della Chiesa al servizio dell’evangelo.

 

Mi permetto di dormire, anzi ho il gusto di dormire, anzi ho la soddisfazione di dormire, anzi ho il diritto di dormire, perché il mio cuore veglia, perché comunque l’evangelo è in me, con me, per me, l’evangelo è dato acquisito e di me indiscutibile. Io dormo, ma il mio cuore veglia!

un rumore! E’ il mio diletto che bussa

La contraddizione però scoppia: «Un rumore! E’ il mio diletto che bussa». Nel sonno una voce, qualcuno bussa alla porta. La creatura nel sonno riconosce la voce del diletto, il suo modo di bussare, il suo modo di presentarsi alla porta. Da quello che ha appena dichiarato è convinta che il diletto sia in casa, si è presentata a noi come padrona di casa, una casa abitata oramai dall’evangelo. E il diletto, invece, compare come qualcuno che sta bussando da fuori, dall’esterno, è alla porta di casa come un mendicante. Era convinta di avere accanto a sé il diletto, e invece il diletto è un mendicante che sta bussando alla porta di casa. Nel sonno, nella opacità delle visioni che appaiono mentre ancora è dormiente, la voce inconfondibile del diletto l’interpella, la provoca, la incalza. Nel sonno si rende conto di essersi addormentata, e percepisce la contraddizione di una esperienza che ancora non vuole ammettere. Ancora è convinta che le basterà allungare una mano, o un piede, emettere un po’ di fiato con la bocca e gettare un urlo, e il diletto accanto a lei reagirà di conseguenza.

Invece non è così. Ancora è convinta che l’evangelo sia a sua portata di mano, a sua misura di cuore, a servizio della sua iniziativa, della sua parola, delle sue intenzioni. E non è così. L’ evangelo se ne è andato. Dove? L’evangelo in realtà è presente, anzi, incalza, si fa sentire, bussa alla porta, ma ha tutte le caratteristiche di un mendicante che provoca disagio, disturbo, il fastidio quanto meno. Un risveglio nel pieno della notte e la rimessa in discussione di abitudini acquisite, di tante sicurezze già garantite. E’ un momento esplosivo: un rumore, uno scoppio. In realtà è soltanto un sospiro, un richiamo, un tocco, forse anche delicatissimo, comunque inconfondibile: è il diletto che sta bussando alla porta di casa.

 

Apocalisse, 3,20, il Signore dice: io sto alla porta e busso. Lo dice alla settima delle chiese, nella settima e ultima della serie: io sto alla porta e busso, finché qualcuno aprirà e allora entrerò e ceneremo insieme. Io sto alla porta e busso. E’ il diletto che bussa. E infatti il richiamo si fa più preciso, assume un suo contenuto più oggettivo, più insistente:

«Aprimi, sorella mia, mia amica, mia colomba, perfetta mia; perché il mio capo è bagnato di rugiada, i miei riccioli di gocce notturne».

E’ proprio vero, le cose stanno così, il diletto non è in casa, è fuori casa, sta bussando alla porta di casa. Ero convito che oramai fosse patrimonio della mia vita e della mia storia e della storia della mia chiesa e invece mi interpella nei panni di un mendicante che di notte è all’addiaccio e chiede ospitalità.

 

Negli appellativi rivolti alla creatura amata, ce n’è uno che si aggiunge a quelli che già conosciamo: “perfetta mia”. Questo appellativo è una novità. La perfezione di cui si parla qui (nel senso del levitico), è la perfezione che esprime la integrità di tutto ciò che partecipa al culto: integrità delle persone, degli oggetti, degli offerenti, delle vittime, e sono garanti di questa perfezione i sacerdoti. Così nell’antico tempio. “Perfetta mia” è appellativo che allude a quella capacità di corrispondere all’intenzione del diletto di cui egli è alla ricerca: sono qui perché attendo da te una risposta che sia motivo del mio compiacimento: perfetta mia. Questo appellativo è quanto mai encomiastico, esprime stima ed ammirazione al massimo livello. Ma è anche vero che questo appellativo contraddice quella situazione di fatto a cui la creatura amata si era abituata. Perfetta mia perché sei quella creatura da cui attendo una risposta che sia secondo il mio compiacimento.

 

Per la creatura tutto era già consumato, tutto era già avvenuto, tutto era già acquisito. In quel contesto di una vita abitudinaria, di una storia ormai configurata come un mantenimento della proprietà ereditata senza ulteriori complicazioni, si era introdotta nell’animo della creatura amata una noia soffocante. Quella che appariva come una situazione di florida pienezza evangelica, nella realtà era una situazione di annoiata pesantezza. Questa creatura è invasa dalla noia, vive di abitudini. E’ vero che fin che può si ammanta di abitudini, si decora di quella stessa noia, come se fosse un paludamento cerimoniale di alta qualità liturgica.

 

Ma il diletto si presenta e dice: perfetta mia, io sono alla ricerca della tua risposta non come liturgia paludata, ma come liturgia di una presenza sollecita ad accogliere colui che viene a visitarti, colui che è sempre nuovo nella visita, colui che insistentemente ti chiama ad una risposta, che non è mai espressa una volta per tutte e che ancora ti impegna fino alla consumazione di te, della tua vita e della tua storia e della tua presenza di chiesa in mezzo agli uomini.

 

Perfetta mia tu sei preda di una noia asfissiante, penetrante, avvolgente, una noia che ti ha narcotizzata, che ti ha stordita e nella quale tu stessa sei sprofondata. Ti ci crogioli dentro, mentre io sono qui e sto bussando e attendo la tua risposta, perché tu mi apra, perché tu mi accolga, perché tu ti renda conto che l’evangelo è i mendicante che chiede a te di essere accolto come la novità della tua vita. E’ la potenza divina che attraverso di te rigenera la storia umana, affinché sia la storia di amici che partecipano alla festa delle nozze: amica mia, mia colomba, perfetta mia, perché non mi apri?

«Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?».

 

E’ proprio vero, questa creatura oramai si è abituata a un andazzo di cose che non ammettono intrusioni, nemmeno quella dell’evangelo, tanto è così convinta di averlo con sé, in sé e per sé. «Mi sono tolta la veste; come indossarla ancora? Mi sono lavata i piedi; come ancora sporcarli?». Mica posso alzarmi a questo punto della notte! Che posso rispondere a un mendicante qualunque che bussa alla porta di casa? Meglio rimanermene assopita, alle prese con i miei sogni, anche alle prese con le voci che nel sonno parlano con il timbro della inconfondibile voce del diletto. Non solo non mi alzo, non posso alzarmi: il diletto comunque sta qui con me.

 

Adesso il risveglio è provocato in modo che la creatura non può più fuggire, rintanarsi in quella situazione di noia coltivata, istituzionalizzata, di noia resa solennità liturgica, autopresentazione sulla scena del mondo. Tu sei prigioniera di una noia angosciante, proprio mentre pretendi di avere oramai l’evangelo dalla tua parte. In realtà ti sei soltanto abituata a coccolare te stessa: la mia vita cristiana! La presenza della chiesa con la sua missione.

 

«Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta».

 

Il diletto insiste. La voce non è sufficiente, il diletto calca la mano, preme, bussa, forza la porta, vuole entrare. C’è il chiavistello, il catenaccio. E’ chiusa, è sbarrata la porta. «Il mio diletto ha messo la mano nello spiraglio e un fremito mi ha sconvolta».

E’ una aggressione questa? E’ un ladro? Già leggendo il terzo poema si è fatta conoscenza con un ladro. Proprio perché è un ladro egli è il diletto, lo sposo che viene. E adesso il risveglio è provocato con una forza a cui la creatura non può più sottrarsi: un fremito mi ha sconvolta. Un sussulto? Una reazione emotiva? Un improvviso risveglio?

 

una corsa affannosa: contaminarsi col mondo

 

Adesso si alza, non può farne a meno perché si è accorta di essere sola nella notte, nella casa di cui era padrona e in cui riteneva di avere il diletto accanto a sé. Nella notte in quella casa è sola. Ed è spaventatissima. Un risveglio brusco e amaro, col cuore che le batte. Altro che cuore vigilante! come lei stessa dichiarava: cuore rivolto al diletto, cuore aperto al visitatore, cuore pienamente coinvolto in una relazione di eterno amore, altro che… Un risveglio a suo modo tragico, questo. E’ il risveglio di una vita e di una storia che scopre all’improvviso di essere estranea all’evangelo. Eppure una vita e una storia che è nella esperienza della nostra generazione, che è l’esperienza di tutte le generazioni.

 

Finalmente bisogna prendere contatto con la realtà, non si può più divagare, non ci si può più rifugiare nei fumi del sonno, non si può più poltrire. L’evangelo è estraneo, se ne è andato. Chissà dove è andato? E’ vero: ha bussato; è vero: ha premuto; è vero: ci ha svegliati, mi ha svegliato! Ma una volta che mi ha svegliato sono solo e mi accorgo che l’evangelo se ne è andato.

 

«Mi sono alzata per aprire al mio diletto e le mie mani stillavano mirra, fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello». «Ho aperto allora al mio diletto, ma il mio diletto gia se n’era andato, era scomparso».

Adesso non lo trovo più. E’ venuto a suo modo, a suo tempo, con la sua gratuità, con la sua iniziativa; pensavo di averlo con me ed invece mi ha attraversato la strada, si è presentato con l’urgenza di una novità che ancora mi chiama, mi sollecita, mi costringe al risveglio. Io o noi, la mia chiesa, ecco, mi rendo conto di essere sprovveduto, di essere sprofondato in un abisso di solitudine. Quel vangelo, nei confronti del quale vantavo dei diritti fino alle abitudini più scontate della mia vita, fino alla noia, quell’evangelo mi è sfuggito dal cuore: è un estraneo, non so più dove trovarlo.

 

Qui comincia una corsa, patetica, a suo modo commovente, si ribaltano le situazioni. Da quel contesto annoiato in cui la nostra creatura si compiaceva con tanta prosopopea, si passa adesso a una scena tormentata, percorsa da un incessante divagare in tutte le direzioni. Questa creatura si dedica ormai come una forsennata a cercare, a scandagliare, a scrutare in tutte le direzioni, si presta a tutti gli incontri, si gioca in tutti i compromessi. E’ travolta dalla urgenza di questo desiderio che la rende frettolosa e anche superficiale, nella corsa alla ricerca del diletto, alla ricerca dell’evangelo e non l’ha trovato.

 

Sembra quasi che questa creatura sia pronta allo sbando, anzi abbia fatto del correre allo sbando l’unica maniera della sua vita. Il suo impatto con la realtà ormai è stravolto. Tutto questo è doloroso, ma molto istruttivo. Tutto questo riguarda la vita e la storia di quella creatura ha incontrato l’evangelo, di una creatura evangelizzata e che ha perso.

«Io venni meno, per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non m’ha risposto. Mi han trovato le guardie che perlustrano la città; mi han percosso, mi hanno ferito, mi han tolto il mantello le guardie delle mura».

 

Corre in tutte le direzioni, urla, strepita, cerca contatti a tutti i livelli e con tutti i possibili interlocutori, anche le situazioni più incresciose, più squallide, più dolorose, non si tira indietro. Certo, questo suo comportamento è espressione di uno scompenso, è l’effetto di quella contraddizione che oramai è esplosa in tutta la sua drammatica evidenza. Nel corso di questa avventurosa ricerca ne vede di tutti i colori, ne combina anche di tutti i colori. Guai di ogni genere. E’ colpita, aggredita, battuta, intercettata, violentata, traumatizzata. Qui ricompaiono quelle frasi che già avevamo preso in considerazione nel sonno: nel sogno la nostra creatura si era rivolta a delle guardie, mentre cercava il diletto. In quella occasione le guardie le avevano detto di non saperne niente e lei aveva proseguito nella sua ricerca da sola. Adesso la situazione assume degli aspetti ben più aspri e strazianti: mi hanno trovato, mi hanno percosso, mi hanno ferito, mi hanno denudato, mi hanno lasciata in mezzo alla strada, mi hanno buttato in piazza, hanno svillaneggiato, hanno approfittato di me in tutti i modi, mi hanno dissestato in quella che era e che è la mia missione, la mia chiesa. Non le è risparmiato nulla.

 

Il diletto è assente, ma quella assenza fa parte di un disegno provvidenziale, misterioso. Nel corso di questa avventurosa ricerca, con tutti i guai che la nostra creatura sta sperimentando in se stessa e sta soffrendo all’impatto con le realtà del mondo, la nostra creatura sta compiendo una ricognizione amplissima e anche molto sincera, una ricognizione di quel che succede nella storia di un uomo alla ricerca del diletto lo insegue. Lo vorrebbe raggiungere, non l’ottiene, ma ottiene certamente di sintonizzarsi con le situazioni che caratterizzano la storia degli uomini. Un fatto del genere ha i suoi aspetti disastrosi, catastrofici, ma è anche vero che nel corso di questa ricerca la nostra creatura si rende conto di essere sintonizzata con le realtà del mondo e con le realtà negative del mondo.

 

Situazione paradossale, ma bisogna tenerne conto. Questa creatura che sta affrontando percorsi così drammatici alla ricerca dell’evangelo che non trova ancora, sta solidarizzando con la miseria del mondo, con la miseria dell’umanità, con la miseria dei peccatori. Alla ricerca del diletto, non è in grado di stabilire quella comunione che le è stata donata e da cui è precipitata, ma intanto sta scoprendo di essere coinvolta in una intensa, profonda, autentica comunicazione di vita con l’umanità intera e con tutti i mali di cui l’umanità soffre e con tutte le miserie che affliggono questa generazione.

 

C’è una nota provvidenziale: prosegue nella sua corsa, non ha ancora raggiunto il diletto e non lo raggiungerà, ma intanto è sempre più immersa nelle vicende dell’umanità e scopre di essere sempre più aperta a tutte le relazioni che mettono in evidenza un comune patrimonio di malessere, di disagi, di ingiustizia, di violenza. La mia vita cristiana è un pezzo di mondo, la mia chiesa è un pezzo di mondo. Questa creatura che ancora non ne viene fuori, raccoglie piaghe di ogni genere, malattie, affanni, dolori. Sono tutte le contraddizioni del mondo, tutte le negatività della storia umana, e sono tutte ingozzate, intasate, incastonate nel vissuto di questa creatura umana. A questo è servito la ricerca del diletto: appiopparle addosso tutte le situazioni negative della storia umana. Se le è prese tutte, le ha assorbite tutte, e se le porta tutte con sé. Si è infangata, inzaccherata, imbestialita, incanaglita, incattivita, si è mondanizzata.

 

una corsa affannosa: parlare del Diletto

 

E incontra le figlie di Gerusalemme, coloro che dovrebbero essere gli amici:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme. Se trovate il mio diletto, che cosa gli racconterete? Che sono malata d’amore!».

Prosegue nella sua ricerca, è sempre più evidente che non ce la può fare da sola, cerca aiuto di qua e di là, anche in direzioni sbagliate e ne ha subite tutte le conseguenze, e se le porta dietro, le sono incise nella carne. Cerca di riferirsi a coloro che dovrebbero darle un suggerimento incoraggiante, proporle un motivo di consolazione, ma non ottiene l’aiuto desiderato. Proprio dalle figlie di Gerusalemme, che dovrebbero darle un incoraggiamento, viene interrogata in modo quasi derisorio. Questi cosiddetti amici invece di aiutarla le fanno lo sgambetto, la prendono in giro, vogliono bruciare l’ultimo residuo della sua speranza, vogliono dimostrare l’inutilità, l’inopportunità, l’inconcludenza della sua ricerca. Ma chi te lo fa fare? Non vedi che le cose nel mondo vanno diversamente? Non vedi che la storia umana ha un’altra piega? Che la tua ricerca è una presunzione pericolosa, che addirittura sei elemento di disturbo, mentre vorresti proporti come depositario di una visione per il mondo. Il coro dice adesso in forma di domanda:

«Che ha il tuo diletto di diverso da un altro, o tu, la più bella fra le donne?, perché così ci scongiuri?»

 

Tra questo primo intervento del coro e il secondo c’è un breve discorso nel quale è ancora la nostra creatura amata che si esprime. Ancora una volta ci rendiamo conto che tutta la vicenda nella quale è coinvolta ha assunto un valore provvidenziale, viene emergendo con sempre maggiore chiarezza un significato pedagogico.

 

La domanda che riceve dal coro, dalle figlie di Gerusalemme, la costringe a parlare del suo diletto, e a parlare del suo diletto quando non lo vede, non l’ha raggiunto, non lo tocca, non lo possiede: è il suo diletto, lo cerca, non sa dove andare a trovarlo, per questo ha chiesto aiuto. L’hanno presa in giro, ebbene , questa presa in giro diventa provocazione che la costringe a parlare del suo diletto. Già, come capita a noi, come capita alla chiesa che, proprio mentre avverte quanto sia insormontabile la distanza dall’evangelo, è costretta a parlarne, è costretta a predicarlo. Devo parlare di lui proprio quando non ce l’ho. Questa pedagogia è straordinaria. E la creatura parla. Non era mai successo che la creatura parlasse del diletto. Il diletto ha parlato della sua creatura, ha cantato le sue serenate, ma lei non ha ancora parlato di lui. Adesso si, questo è il momento in cui la nostra creatura sta evangelizzando mentre sta sperimentando tragicamente di essere così lontana dall’evangelo che lo cerca e non lo trova. Che strano.

 

«Il mio diletto è bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille. Il suo capo è oro, oro puro, i suoi riccioli grappoli di palma, neri come il corvo. I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua; i suoi denti bagnati nel latte, posti in un castone. Le sue guance, come aiuole di balsamo, aiuole di erbe profumate; le sue labbra sono gigli, che stillano fluida mirra. Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di gemme di Tarsis. Il suo petto è tutto d’avorio, tempestato di zaffiri. Le sue gambe, colonne di alabastro, posate su basi d’oro puro. Il suo aspetto è quello del Libano, magnifico come i cedri».

 

Tutta questa descrizione rinvia alle forme architettoniche, alle decorazioni degli ambienti di cui faceva sfoggio l’antico tempio di Gerusalemme. La nostra creatura assume la posizione e le prerogative del testimone che proclama la santità dell’invisibile, nel momento stesso in cui sta proseguendo nella ricerca dell’evangelo, che ancora non riesce a raggiungere, e non riesce ad accogliere. Questa creatura è debitrice nei confronti di quelle figlie di Gerusalemme che l’hanno interpellata. Sembrava una semplice derisione, una denigrazione, un atto di disprezzo, addirittura; in realtà quella provocazione ha acquistato una valenza pedagogica efficacissima. La nostra creatura sta imparando a parlare del diletto, a testimoniarlo, e sta scoprendo che l’invisibile nella sua santità ha segnato la sua vita e la sua storia in modo inconfondibile.

 

Di nuovo le figlie di Gerusalemme, ossia coloro che compongono il coro l’interrogano:

«Dov’è andato il tuo diletto, o bella fra le donne?Dove si è recato il tuo diletto, perché noi lo possiamo cercare con te?».

 

il pastore tra i gigli

 

Anche qui c’è un tono persecutorio: dicci dove e verremo con te. Come Erode che dice ai Magi: andate a vedere dove e verrò anch’io ad adorarlo, fatemelo sapere dov’è.

Sapete, adesso la risposta, è una risposta estremamente sobria, pacatissima. Qualcosa è avvenuto davvero. L’abbiamo accompagnata nella sua corsa tumultuosa, affannata, angosciatissima. Le cose sono andate in modo tale che lei, a forza di provocazioni è costretta a reagire con la autenticità di una testimonianza purissima, la testimonianza resa all’invisibile, la testimonianza resa al santo, la testimonianza a colui che è sconosciuto, eppure vivente, eppure ignoto. Con la forza di questa pedagogia la nostra creatura si è calmata. La risposta, adesso, a questa seconda domanda, è immediata, semplicissima, profondamente pacificata:

«Il mio diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me; egli pascola il gregge tra i gigli».

 

Dove è il diletto? Sapete dov’è? Il diletto è il pastore: il diletto è per me e io per lui. Dov’è il mio diletto? Sembrava irraggiungibile, introvabile. Si è lanciata in quella corsa così forsennata. Il mio diletto è il pastore, il mio diletto sta pascolando il gregge nel suo giardino. Il mio diletto è rivolto a me come a una pecorella del suo gregge. Dov’è il mio diletto? Ma il mio diletto è il pastore e si è messo alla ricerca della sua pecorella. Dov’è? Ma il mio diletto viene.

 

La situazione si è ribaltata e si passa dalla immagine del mendicante, all’inizio del poema, all’immagine del pastore nella conclusione del poema. Quel mendicante è il mio pastore. Quel mendicante che bussava, che implorava, quel mendicante che protestava, quel mendicante che mi ha contestato e poi è sparito, che mi ha messo in difficoltà, mi ha abbandonato, quel mendicante che ha rimesso in discussione tutto della mia vita cristiana, della mia chiesa, ebbene, quel mendicante è il mio pastore.

 

E’ un mendicante che bussa alla porta? E’ il pastore che apre la porta. Lo ritrovate tra l’altro nel vangelo di Giovanni al cap. 10. La figura del pastore è delineata insieme con la figura della porta: Io sono il pastore, io sono la porta, il pastore che apre la porta del recinto, il pastore che conduce le pecore al pascolo, le conduce al recinto, il pastore che bussa alla porta, il pastore che fischia e con la sua voce chiama le pecore per nome una per una, il pastore che apre la porta.

 

6 – PER SEMPRE – Pino Stancari

Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo 

 

 
PER SEMPRE

 

di Pino Stancari

 

tu sei bella, amica mia

Leggiamo il quinto poema (6,4-8,4). Siamo in ascolto della voce del diletto. Ancora una volta è il diletto che prende la parola, ma è come se questa voce provenisse da una profondità del tutto sconosciuta, è una voce dall’intonazione particolarmente delicata, che scaturisce dalla intimità del cuore. Quella creatura che si è fermata, scopre che il pastore l’ha seguita, l’ha considerata, l’ha accompagnata, l’ha raggiunta. In fondo a tutti i baratri in cui è sprofondata, in tutte le situazioni impervie, desolate, che ha attraversato, in tutte le forme di smarrimento di cui ha fatto esperienza: il diletto è il mio pastore. L’evangelo, che le era sfuggito, le si presenta adesso come il pastore della sua vita. Ed è presente proprio nella immediata oggettività del suo vissuto, se l’è ritrovato accanto, dinnanzi, se l’è ritrovato dentro il cuore. Nel cuore della creatura amata risuona l’eco di una voce: è il diletto. Ha veramente un timbro del tutto particolare, la voce che si fa udire adesso: è come se il diletto parlasse tra sé e sé ed esprimesse i suoi pensieri segreti, è come se veramente noi potessimo auscultare i battiti del cuore che testimoniano la sua fedele, irrevocabile tensione di amore per la creatura che finalmente ha potuto raggiungere.

 

«Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme, terribile come schiere a vessilli spiegati».

 

Non c’è dubbio: è la voce del diletto, ma si esprime con una cordialità delicata, affettuosa: tu sei bella, amica mia. E’ la voce del diletto che risuona non tanto nelle orecchie, ma nel cuore stesso della creatura amata. E’ l’evangelo che le parla da dentro, di lei stessa, che le parla con il linguaggio del pastore che ha ritrovato la sua pecorella e la chiama per nome. Bella! E’ lo sguardo del diletto che coglie la bellezza della sua creatura, che le conferisce bellezza. Tu sei bella. E’ proprio sotto quello sguardo che la creatura acquista bellezza. E’ la premura così intensa e così inesauribile con cui il diletto si è dedicato alla ricerca della sua creatura che diviene dichiarazione di bellezza, attestato di un amore: tu sei bella, amica mia.

 

Questa bellezza viene messa in rapporto a un certo disegno storico, per quanto riguarda il popolo d’Israele, che fu caratterizzato dallo scisma tra le tribù del nord e quelle del sud. Tirza è il nome della prima capitale del regno del nord, regno d’Israele, mentre Gerusalemme è il nome della capitale del regno del sud, ossia del regno di Giuda. La bellezza della creatura amata viene messa in evidenza insieme con la ritrovata unità del popolo di Dio: Tu sei bella, amica mia, come Tirza, leggiadra come Gerusalemme. E’ una nota intrinseca, costitutiva di quella bellezza, così come lo sguardo del diletto la coglie e la mette in evidenza: l’unità del popolo di Dio ricomposto nella sua comunione originaria. E’ bellissima questa creatura, perché è creatura confermata nella comunione. E bisogna immediatamente aggiungere, 6,4b: terribile come schiere a vessilli spiegati.

 

Questa creatura, nella sua affascinante bellezza, appare dotata di una forza incontenibile, raffigurata con l’immagine di un esercito schierato a battaglia, un esercito che invade il campo e con il suo solo apparire sgomina qualunque avversario. Questa bellezza è fortissima. Essa ha tutte le caratteristiche di modestia, delicatezza, trasparenza, sobrietà che servono a caratterizzare il fascino di una fisionomia riconciliata; ma nello stesso tempo questa bellezza è poderosa, è travolgente, dotata di una energia guerriera che domina il campo della storia umana. E’ il diletto che dice questo tra sé e sé, con quel linguaggio interiore che è comprensibile soltanto dalla creatura amata: tu sei bella amica mia, tu sei dotata di una forza travolgente e vittoriosa. Sempre il diletto prosegue:

«Distogli da me i tuoi occhi: il loro sguardo mi turba. Le tue chiome sono come un gregge di capre che scendono dal Gàlaad. I tuoi denti come un gregge di pecore che risalgono dal bagno. Tutte procedono appaiate e nessuna è senza compagna. Come spicchio di melagrana la tua gota, attraverso il tuo velo».

 

Il diletto dichiara di essere intimamente percorso da un fremito di amore che è suscitato in lui dallo sguardo con cui la creatura amata gli si rivolge.

l’unica di sua madre

L’amore del diletto per la sua creatura rende qualitativamente superlativo l’amore che egli attende come risposta. E’ l’amore di Dio che vuole riscontrare la sua propria infinita pienezza in quella della creatura. Io sono turbato, dice il diletto, quando mi guardi. Nel vangelo secondo Giovanni, a più riprese, Gesù dichiara di essere turbato (cfr. Gv 11,33; 12,27; 14,1.27). Che debbo fare? Dire al Padre che allontani da me quest’ora? Ma è per quest’ora che sono venuto, per l’ora del turbamento è venuto.

 

Il diletto aggiunge:

«Sessanta sono le regine, ottanta le altre spose, le fanciulle senza numero. Ma unica è la mia colomba la mia perfetta, ella è l’unica di sua madre, la preferita della sua genitrice. L’anno vista le giovani e l’anno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi».

 

Il diletto metta in evidenza l’unicità della creatura amata, questo vale per ogni persona, per ogni creatura in quanto è portatrice di un dono che è unico e insostituibile, nel senso che ogni creatura umana è amata in modo unico, eterno, irrevocabile. Quella colomba, che è sempre unica, è definita, ancora una volta, “la mia perfetta”. Con questo titolo si intende attribuire alla creatura amata la capacità di offrire il dono di sé stessa come corrispondenza di amore all’amore. E’ unica la mia colomba, la mia perfetta, unica in quanto amata in modo privilegiato, sempre. Questo vale per ogni creatura. Ed è unica in quanto è messa in grado di corrispondere all’amore del diletto con la offerta di sé; non ha più nient’altro da offrire, se non esattamente se stessa. Proprio il fatto di non avere più nient’altro da offrire all’evangelo che se stessa, fa di questa creatura quell’unico dono di amore che il diletto gradisce come perfetto per sé.

 

Tutto questo ad immagine di quel che avviene nella relazione tra una creatura generata dal grembo della madre e la propria madre. Un rapporto incondizionato: non si può non essere figli del grembo da cui si è stati partoriti. Non è più revocabile, non è più contestabile, non è più reinterpretabile in base a riferimenti alternativi: è così! Unico è l’amore del diletto per la sua creatura, ed è amore che attende quell’unica risposta in cui la creatura amata porgerà l’offerta di se stessa: ecco la sua perfezione; a questa perfezione la conduce l’evangelo, attraverso tutte le vicissitudini che noi conosciamo. Chiamata per nome dal pastore, la pecorella sta imparando a scandagliare la profondità del cuore in quel pastore che ormai è divenuto l’unico interlocutore della sua storia. Dire che il diletto, l’evangelo, è divenuto l’unico l’interlocutore della sua storia non significa affermare che la nostra creatura ormai si è estraniata dal resto del mondo.

 

L’anno vista le giovani e l’anno detta beata. Le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi. Proprio quando questa creatura amata esprime la perfezione di quella adesione al diletto, di quella adesione all’evangelo, che diventa l’unico riferimento, proprio allora essa esprime una sempre più ampia, ricca, feconda capacità di comunicazione con le realtà del mondo. Sta sotto lo sguardo degli spettatori, acquista capacità di dialogo, di conversazione, di comunicazione, d’intesa, di collaborazione con la moltitudine delle creature di Dio nel tempo e nello spazio. L’anno vista e l’anno detta beata, le regine e le altre spose ne hanno intessuto le lodi.

Adesso interviene il coro. Fino a questo momento era il diletto, adesso è il coro che esprime il suo stupore perché si è trovato alle prese con questo spettacolo così imprevedibile.

 

fulgida come l’aurora

 

Il coro degli amici si era rivolto alla creatura amata, nel tempo della ricerca, nel tempo della immersione drammatica dentro alle oscurità del mondo con interrogativi petulanti, mirati a fornire, dal loro punto di vista, il loro modo di intervenire in favore della creatura amata: è inutile che tu cerchi, è inutile che tu vada inseguendo l’invisibile, l’irraggiungibile, chi sa mai chi è, chi sa mai dove si è nascosto?

Adesso il coro degli amici è sbalordito:

«Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?».

 

Tutto è avvenuto alla presenza del coro degli amici, che è stato spettatore di questa vicenda. Ha percepito, se non proprio distintamente, il risuonare di quella voce, ha percepito lo svolgersi di una conversazione nell’intimo della creatura amata. Si è reso conto, il coro degli amici, che quella creatura è entrata nel dialogo cuore a cuore con la presenza invisibile e santa del diletto. Si è consegnata nella unicità definitiva di una relazione assoluta, si è consegnata all’evangelo. Ma che è successo? Chi è costei? E il coro coglie la luminosità di questa presenza che adesso la creatura amata può manifestare per il suo modo di essere, per quel suo particolare coinvolgimento nella relazione cuore a cuore con i diletto.

 

Eppure è una pecorella smarrita in ascolto della voce del pastore. «Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere a vessilli spiegati?». La nota è di straordinaria luminosità, la luce rinvia qui all’antico racconto della creazione: la prima creatura è la luce, tutte le creature sono inserite nel contesto della luce, incastonate nella luce. Tutta la creazione viene illuminata in rapporto alla presenza di questa creatura che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole. Di nuovo la forza di cui questa creatura da testimonianza al suo solo apparire. La bellezza della creatura amata illumina il mondo, illumina la storia umana e rende prezioso il valore di ogni creatura nel tempo e nello spazio: chi è costei che è totalmente identificata ormai alla creatura evangelizzata in quanto nell’evangelo ha il suo tutto?

 

Di nuovo la voce della creatura:

 

«Nel giardino dei noci io sono sceso (meglio tradurre con: io sono scesa), per vedere il verdeggiare della valle, per vedere se la vite metteva germogli, se fiorivano i melograni. Non lo so, ma il mio desiderio mi ha posto sui carri di Ammi-nadìb».

 

Che cosa sta dicendo qui, la creatura di se stessa? Fa riferimento a un giardino nel tempo in cui germogli già sono presenti sui rami degli alberi, ma ancora non sono sbocciati. Questa creatura ripetutamente scende nel giardino per vedere se è arrivata la primavera, se le gemme finalmente si aprono, se i germogli sbocciano, se le piante fioriscono. Si comporta in questo modo perché è determinata da una convinzione ineccepibile: la primavera viene. E’ una creatura in attesa della primavera.

 

Il coro nella sua domanda chiedeva: chi è costei che sorge come l’aurora? Quando la creatura parla di sé dice: io sono colei che discende, che discende insistentemente, ripetutamente, pazientemente. E’ una creatura che ha acquistato la capacità di aspettare, e che è determinata ormai da una speranza irriducibile, mossa da una spinta incontenibile; lo slancio la conduce ormai attraverso tutte le lungaggini, le contrarietà, le oscurità, i rigori dell’inverno. Perché? Perché viene la primavera e le gemme sono già al loro posto, ancora non sono sbocciate, ma sono già al loro posto. Questa creatura che scende nel giardino porta in se stessa i germogli che attraversano il tempo dell’inverno fino allo spuntare dell’immancabile primavera. Il v. 12 è praticamente intraducibile, incomprensibile, è il versetto più difficile di tutto il Cantico. Quello che riusciamo a comprendere è che la nostra creatura, ancora inesperta, non riesce a stabilire delle date, non può fare appello a dei criteri empirici per decifrare lo svolgimento degli eventi, è mossa da un desiderio intrattenibile, è portata da una spinta. Qui l’immagine dei carri di questo personaggio non meglio decifrabile che si chiama Amni-nadib. E’ portata dai carri, è posta sui carri di Amni-nadib, è e trascinata in una corsa inesauribile, proprio perché la spinta del desiderio che le si è acceso nell’intimo non si arresterà innanzi a ostacoli o contrarietà, quali che siano. Viene la primavera. E di quella primavera l’evangelo le ha impresso nell’intimo una consapevolezza irriducibile. Di nuovo il coro, 7,1:

 

la danzatrice

«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?».

 

Il coro è stupefatto, incantato; prende nuovamente la parola per dichiarare la propria ammirazione nei confronti di una creatura divenuta danzatrice. Sulammita probabilmente è il femminile di Salomone, il pacifico. Questa creatura è pacificata, tutto deriva da shalom, pace.

 

Questa creatura pacificata è impegnata nei passi, nei movimenti, nelle dinamiche che danno forma a una danza sempre più raffinata. E’ proprio vero: dopo tutto quello che è accaduto, questa creatura si presenta determinata nella speranza, nell’attesa, nella pazienza di chi si volge verso la prossima, immancabile primavera, per quanto non le si possa attribuire una data. Questa creatura è divenuta oramai esperta nella danza. Questa creatura che è passata attraverso le sue corse, i suoi affanni, le sue ricerche e le sue cadute, i suoi inseguimenti e i suoi smarrimenti, in maniera sempre più devastante e in maniera sempre più tragica, ha imparato a danzare. D’altronde, cosa è mai la danza se non un certo modo di cadere che trasforma l’evento rischiosissimo di chi scivola, precipita, sprofonda nel vuoto, in una evoluzione armoniosa, in un salto disinvolto. Si cade e si salta.

 

Quella caduta è trasformata in una evoluzione positiva che consente un progresso imprevedibile nell’arte del movimento e nella possibilità della comunicazione. La danza è un perfezionamento sempre più raffinato di quella che già è l’arte del camminare. Camminare è proprio questo cadere nel vuoto in modo tale che la caduta si trasforma in avanzamento. Il bambino impara a camminare cadendo, poi un passo dopo l’altro e la caduta è trasformata in una crescita. Dal camminare si giunge al salto, alla danza, all’armonia raffinata, disinvolta, movimento che pervade lo spazio, che attraversa i tempi.

 

Questa creatura è una creatura danzante: ha imparato a scendere e salire, ha imparato a vivere al ritmo della Pasqua: morte e resurrezione. Questa creatura danza: è l’evangelo che ha fatto di questa creatura che cade, che sprofonda, che si inabissa, una creatura che incontra il diletto e trova nell’incontro con il diletto lo slancio di un salto che la libera, che anzi la rende sempre più vivace e intraprendente in un disegno di vita che si dispiega nelle misure del tempo e dello spazio, senza limite. E’ la Pasqua del Signore, l’evento decisivo che sintetizza tutto nella storia umana ed è il segno definitivo di una danza definitiva, così come il Figlio è disceso ed è risalito, è morto ed è risorto.

 

Ora il ritmo della danza è stato imposto alla storia dell’umanità e la creatura amata si muove ormai a questo ritmo, cade e sale a questo ritmo, muore e risorge a questo ritmo. E’ creatura immersa nel vortice danzante che l’evangelo ha suscitato una volta per tutte nella storia degli uomini: «Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti. Che ammirate nella Sulammita durante la danza a due schiere?».

 

E adesso di nuovo il diletto parla di lei, 7,2-10. L’elogio parte dai piedi, perché è creatura danzante. In un’altra occasione il diletto era partito dal volto.

«Come son belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella. Il tuo collo come una torre d’avorio; i tuoi occhi sono come i laghetti di Chesbòn, presso la porta di Bat-Rabbìm; il tuo naso come la torre del Libano che fa la guardia verso Damasco. Il tuo capo si erge su di te come il Carmelo e la chioma del tuo capo è come la porpora; un re è stato preso dalle tue trecce».

 

Una dignità regale che attrae a sé l’affetto appassionato di un re. Sono molteplici i riferimenti alla configurazione geografica alla terra d’Israele, ma essi alludono ai confini della terra: località che stanno in zone dell’estremo nord e dell’estremo oriente, zone di passaggio che rinviano ad altri territori. La vitalità, la fecondità di cui dà prova la creatura divenuta danzatrice, esprime una singolare e inesauribile, apertura ecumenica. I laghetti di Chesbon, la porta di Bat-Rabbim, il Libano, Damasco, e così via. Come sono belli i tuoi piedi, vedete. E’ la bellezza di una creatura che ha imparato a morire e risorgere al ritmo dell’evangelo pasquale. E il diletto se ne compiace, e le conferisce una missione che è in grado di orientarsi in tutte le direzioni senza timore. E ancora:

«Quanto sei bella e quanto sei graziosa, o amore, figlia di delizie! La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: “Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri; mi siano i tuoi seni come grappoli d’uva e il profumo del tuo respiro come di pomi”».

 

uniti per sempre

 

Il diletto manifesta ancora una volta la sua volontà di unione e in questo caso non è soltanto un’intenzione è la sua determinazione per quanto riguarda la scalata dell’albero. C’è in questi versetti un accenno per noi inconfondibile all’albero. E’ l’albero che fiorisce e porta frutto: tutta la liturgia del venerdì santo è impiantata sulla contemplazione di questo albero, albero fronzuto, albero fruttuoso, albero generatore di vita. Il diletto vuole montare su quell’albero, vuole sposare la sua creatura fino alla pienezza della comunione, là dove il diletto condivide la discesa, lo sprofondamento, l’inabissamento della sua creatura. E’ talamo nuziale l’albero su cui il diletto vuole salire per portare a compimento la sua intenzione d’amore.

 

E il versetto 10 aggiunge: «Il tuo palato è come vino squisito». Il diletto offre un bacio di amore, offre se stesso per una comunione d’amore sigillata nella comunione con la morte della creatura umana, perché questa comunione sia finalmente sorgente definitiva ed inesauribile della vittoria sulla morte; la vittoria dell’amore con cui il diletto ormai si coinvolge alla sua creatura. E’ la vittoria della creatura redenta e sposata, che ha imparato a danzare e a vivere al ritmo dell’evangelo: «Il tuo palato è come vino squisito».

 

Il rigo seguente riporta la voce della creatura: «che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti!». E’ la creatura che risponde e risponde finalmente con il suo sì, con il suo amen, con la sua adesione piena, risoluta, definitiva: «Il tuo palato è come vino squisito, che scorre verso il mio diletto: Io sono per te come tu sei per me”. E’ il sì della creatura che si consegna, della creatura che oramai si immerge nella comunione d’amore con il diletto che è stato innalzato sull’albero: Quando sarò innalzato attirerò tutto a me, dice il vangelo di Giovanni (12,32). La creatura prosegue:

«Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me».

 

Il termine brama, (teshuka), è lo stesso dell’antico racconto del peccato in Gen 3: Dio rivolge alla donna e le dice: partorirai con il sudore della tua fronte, sarai sottoposta all’uomo e verso di lui sarà la tua brama. Qui tutto è ribaltato: è la brama del diletto per la creatura: è la creatura che dice: la tua brama è verso di me. Quella brama che in base alla sentenza pronunciata dal creatore nel giardino, segna lo stato di debolezza e di sudditanza in cui vive la donna, qui diventa la brama del diletto per me. “Vieni mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi”. Questa creatura oramai è rassicurata, la relazione d’amore che la lega al diletto è continua, stabile, per cui sempre e dappertutto questo vincolo di amore sarà confermato, nei campi come nei luoghi abitati, nei villaggi come nelle città, di notte e di giorno, in qualunque momento e in qualunque occasione:

«Vieni, mio diletto, andiamo nei campi, passiamo la notte nei villaggi. Di buon mattino andremo alle vigne; vedremo se mette gemme la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò le mie carezze!».

 

Questa creatura si dedica alla missione che ha ricevuto nella storia umana al ritmo dell’evangelo pasquale. Questa creatura è a casa propria dappertutto, è puntuale in ogni momento, perché in ogni luogo e in ogni tempo il diletto è il compagno che la conferma nella pienezza di un amore indissolubile: Vieni, andiamo, vedremo, coglieremo il profumo:

«Le mandragore mandano profumo; alle nostre porte c’è ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi; mio diletto, li ho serbati per te».

 

Questa creatura non teme i tempi in cui non ci sarà frutta fresca, perché c’è la frutta secca, ogni specie di frutti squisiti, freschi e secchi, mio diletto, li ho serbati per te.

E finalmente:

«Oh se tu fossi un mio fratello».

 

Il canto della creatura amata si conclude con questa invocazione rivolta al diletto, ed è una invocazione che in maniera esplicita allude alla presenza del diletto nella carne del fratello. E’ una invocazione protesa verso l’incarnazione. Precedentemente il diletto aveva detto della creatura che è sua sorella, così l’ha interpellata, ma qui è la prima volta che la creatura dice del diletto: tu sei mio fratello. E’ creatura passata attraverso la Pasqua di morte e di resurrezione, è creatura che è oramai carne dalla sua carne, ossa dalle sue ossa, è creatura che oramai condivide la vita del diletto sigillato, così come i fratelli e le sorelle sono coinvolti in una relazione che non può essere più revocata. Non si può non essere fratelli e sorelle dei propri fratelli e delle proprie sorelle, non è possibile. Per il fatto stesso che ci sono, sono fratelli, i miei fratelli. E così

 

«se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore. Ti farei bere vino aromatico, del succo del mio melograno. La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».

 

La creatura chiede al diletto di starle accanto nella fraternità della carne umana e proprio questa fraternità è sigillata in forza dell’appartenenza ad un unico grembo, che genera per la vita che non muore più. Il sepolcro, che accomuna nella morte, diventa grembo che genera per la vita che non muore mai. E questo fratello viene interpellato dalla creatura in rapporto all’insegnamento di quel maestro interiore che educa alla vita umana per una fecondità di amore. Questo è il linguaggio con cui si esprime Gesù durante l’ultima cena, secondo il vangelo di Giovanni, quando si rivolge ai discepoli e annuncia loro l’invio dello Spirito Santo che insegnerà loro, li renderà capaci di accogliere, di custodire, di assimilare il lascito dell’amore, il lascito con cui il fratello conferma per sé la comunione della sua vittoria con tutti gli uomini che muoiono. Così nel vangelo secondo Giovanni, il Signore risorto dice a Maria di Magdala: Va a dire ai miei fratelli che io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.

 

Alla fine del quinto poema, la creatura si consegna, si abbandona:

«La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia».

 

Adesso non è uno svenimento, perché la creatura è malata, malata d’amore; adesso è un atto di consegna, un affidamento, adesso la creatura che ha imparato a danzare, ha imparato a morire. Non si sta semplicemente addormentando, sta consegnando la propria morte a colui che è fratello di tutti gli uomini chiamati a nascere nella comunione con lui per la vita che non muore più.

E finalmente il diletto chiude il quinto poema con questa dichiarazione:

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».

Un versetto che ci riporta ai versetti che concludevano il primo poema e il secondo poema (2,7 e 3,5). C’è una variazione: da parte del diletto la dichiarazione che egli ormai si fida della creatura che a lui si è affidata.

7 – L’EVANGELO, LA CHIESA, LA STORIA – Pino Stancari

Posted on Dicembre 14th, 2008 di Angelo

L’EVANGELO, LA CHIESA, LA STORIA

 

di Pino Stancari

 

ascesa e risalita

La creatura amata, di cui il Cantico dei Cantici ci ha descritto l’avventura, incontra il diletto. E’ il mistero del Dio vivente che le viene incontro, che si impone come protagonista di quella avventura. E’ l’evangelo che attraversa la storia umana, rivela la presenza di Dio e instaura nella relazione con gli uomini una novità dinamica. L’evangelo prende, trascina, travolge, converte.

 

Il quinto poema ci ha posto dinanzi a questa realtà nel suo valore di pienezza, di maturità. La creatura umana è redenta, il cuore umano è trasformato, il senso della storia umana si illumina in rapporto alla presenza di Dio che si è rivelato. L’opera compiuta da Dio nella storia degli uomini, la rivelazione della sua misericordia, della sua volontà di redenzione e di salvezza, ha un valore universale: nessuno è escluso, nessuno è dimenticato, nessuno è abbandonato a se stesso.

 

L’immagine è quella di una creatura che danza, quella danza ci ha catturato e sorpreso, ci ha commosso e lasciati imbarazzati. La creatura ha ormai scoperto quale sia il ritmo che scandisce il passo nello svolgersi degli eventi sia per quanto riguarda la grande storia degli uomini, che per quanto riguarda il vissuto personale di ognuno di noi. L’evangelo conferisce un ritmo pasquale alla storia umana e al vissuto di ogni creatura. Il Figlio ha compiuto l’opera redentiva e ora la creatura umana dimostra di essere coinvolta in quel ritmo della storia: è la pasqua del Figlio, è la pasqua del Signore, è l’evento in cui tutto si ricapitola.

 

Alla fine del quinto poema abbiamo lasciato la creatura ormai fiduciosamente abbandonata alle braccia del diletto. Nel primo poema quella creatura era svenuta, ammalata di amore, non era predisposta per sostenere quell’incontro con il diletto che l’avvolgeva nella intensa e inesauribile potenza del suo amore.

Era stata poi presa in braccio, il diletto è stato in veglia al capezzale dell’amata. Quel tempo del sonno era diventato il tempo del sogno, e nel sogno quella creatura è stata accompagnata, progressivamente liberata, affinché acquisisse la libertà interiore che finalmente le consentirà di rispondere all’amore del diletto.

 

Alla fine del quinto poema la creatura amata, che ancora una volta si addormenta, si trova in una situazione diversa: non è più malata d’amore, essa ha dimostrato di essere pronta ad offrire la risposta che il diletto attendeva. Adesso questa creatura si affida, si abbandona, si consegna. Dorme. Si è immersa nell’abbraccio che il diletto le ha offerto fin dall’inizio e a cui finalmente può corrispondere. Questa creatura che si addormenta discende e risale, è ormai pronta a morire per risorgere, nei ritmi della sua vicenda non ha altro interlocutore se non colui che ha compiuto il passaggio decisivo, ha operato la svolta definitiva, ha conferito alla storia umana quel dinamismo per cui là dove le creature vanno incontro alla morte, vanno incontro al diletto, e là dove le creature stanno scendendo fino a sprofondare nell’abisso sono prese in braccio, sono sollevate, innalzate per essere glorificate nella comunione con il vittorioso sulla morte.

«Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia».

 

chi è colei?

 

Il v. 5 si apre con un interrogativo che dobbiamo senz’altro attribuire alla voce del coro. Il coro, spettatore dell’intera vicenda, ci invita a contemplarne l’esito: la creatura evangelizzata è ormai pronta per affidarsi all’amore che riceve e ad offrire la libertà della propria risposta fino a morire e a risorgere nella pienezza dello Spirito Santo, in comunione con il Figlio, benedetto per la gloria del Padre.

«Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?».

 

L’interrogativo formulato dal coro rievoca momenti della storia della salvezza esemplari: l’esodo, il viaggio attraverso il deserto fino al Sinai e poi fino alla terra della promessa; il ritorno dall’esilio, in una fase successiva, quanto mai drammatica e sconvolgente: la terra invasa e devastata, la popolazione deportata, il popolo di Dio disperso nei territori dei pagani. Chi è colei che sale dal deserto? Questa traversata del deserto per risalire è la chiave interpretativa di tutta la storia umana.

 

Questa è la storia dell’umanità che precipita fino alla morte? Storia di smarrimento, di schiavitù e di esilio? Storia di perdizione? Non è così, questa è storia di ritorno, questa è storia di risalita, questa è la storia della conversione. Non c’è deserto che possa chiudersi come un sepolcro vittorioso, non c’è zona oscura che possa inghiottire insieme la sorte definitiva della storia, degli uomini e della vocazione. Il creatore è donato a ciascuna delle sue creature. C’è una creatura che sale dal deserto: è creatura amata, redenta. L’evangelo fa di questa creatura un testimone che porta in sé i frutti della vittoria conseguita dal diletto. Questa creatura evangelizzata, e redenta, che sale dal deserto, ha acquisito ormai una fisionomia missionaria.

 

Questa missione è essa stessa scandita dal ritmo dell’evangelo pasquale. E’ l’essere presente di una creatura che porta in sé il frutto della redenzione e ne è divenuta ormai testimone, ha acquisito prerogative missionarie, è il suo stesso essere presente nella storia degli uomini che attira l’attenzione ed acquista una valenza sacramentale. Essa diviene criterio rivelativo di tutto quello che riguarda l’umanità nella sua interezza, un criterio che attrae a sé lo sguardo del coro e attrae a sé l’interesse, la curiosità e anche il sospetto di tutti gli uomini che in qualche modo sono interessati, disinteressati, scandalizzati a questa vicenda.

 

L’epilogo ci aiuta a mettere a fuoco il dato ormai presente nella storia umana, il dato nuovo e significativo della vita cristiana con le responsabilità che competono a ciascuno e che competono al popolo cristiano nella sua interezza. La presenza di quella comunità di credenti non è più identificabile altrimenti che in rapporto al diletto a cui quella comunità appartiene; alle braccia del diletto quella creatura è appoggiata, presente nella storia umana come testimone dell’evangelo. Non ha altra ragione d’essere, non ha altro motivo per comparire sotto lo sguardo degli uomini, per essere causa di interessamento o anche di disagio.

 

Il testo dell’epilogo prosegue a partire dall’interrogativo con il quale è intervenuto il coro, sono due battute che raccolgono la dichiarazione con la quale il diletto, proprio lui, spiega quale sia l’identità di quella creatura che sale dal deserto. Quella creatura non dice più niente, quel che ha potuto esprimere nell’amen della sua risposta esaurisce ogni sua ulteriore possibilità di commento. Non ha più niente da dire, in qualche modo non ha più niente da fare, ha semplicemente da essere, da stare, da aderire in modo corrispondente a quanto ha dichiarato, a quanto è divenuta oramai la novità della sua vita. Il diletto parla di lei:

risvegliata

«Sotto il melo ti ho svegliata; là, dove ti concepì tua madre, là, dove la tua genitrice ti partorì».

 

Il diletto risponde alla domanda del coro rivolgendosi alla creatura amata in modo pubblico, anche il coro ascolta, anche noi possiamo inserirci in questa sua comunicazione. Il diletto parla: tu sei la creatura risvegliata. La definisce così, è una definizione veramente esemplare. A noi sembrava la creatura dormiente, morente, destinata a precipitare, proiettata verso una consunzione delle forze fino all’esaurimento. Tu sei risvegliata: io ti ho risvegliato! E’ il risveglio nel senso di una rigenerazione, di una nuova nascita: ti ho risvegliata là dove ti concepì tua madre, là dove la tua genitrice ti partorì, tu sei creatura nata per quella vita nuova, piena, definitiva, che oramai è vita non più prigioniera della morte, non più condizionata dalla morte, non più sottoposta al giudizio della morte.

 

Il Cantico dei Cantici in questo versetto 8,5 ci offre in modo misterioso, ma veramente significativo e illuminante per noi, una profezia del battesimo. Tu sei creatura risvegliata: è un risveglio battesimale. E’ il risveglio della creatura umana che, anche se vecchia, rinasce. Nel vangelo secondo Giovanni al capitolo 3, Nicodemo chiede come può un uomo rinascere? Deve forse rientrare nel grembo di sua madre per essere partorito una seconda volta? Un uomo quando è vecchio può soltanto scendere nel sepolcro e li essere abbandonato a se stesso. Gesù spiega a Nicodemo che si rinasce dall’acqua e dallo Spirito Santo. Creatura che rinasce. Il battesimo è il segno della vita nuova, posto proprio là dove la morte già si fa avanti per vantare i suoi propri diritti. Un affogamento nell’acqua, in qualche modo una morte anticipata e provocata: il battesimo, un tuffo nell’acqua, un’immersione che già è premonizione di morte. Là dove questa creatura, che sia appena nata o già adulta non importa, va incontro al naufragio che l’uccide, questa creatura nasce perché appartiene al diletto, perché appoggiata al diletto, perché incontra il Signore vivente, vittorioso, glorioso, amico degli uomini, il redentore dei peccatori.

 

Il battesimo è il segno posto in modo tale da inquadrare tutto lo svolgimento di una vita umana, che per quanto ancora sia condizionata dalla necessità di morire, è già intrinsecamente dotata di una potenza di vita che non muore più. Questa creatura appartiene al diletto, perché questa creatura è già morta in anticipo. Il battesimo è già un conferimento di morte che rivela la potenza di amore del diletto, vittorioso sulla morte. Questa creatura che muore si sveglia, è rigenerata, nasce dall’acqua e dallo Spirito Santo.

 

La sigillata

 

La seconda battuta della risposta. Il diletto si rivolge alla sua creatura con un’ulteriore chiarimento:

«Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio perché forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo. Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio».

 

Il diletto dice alla sua creatura: tu sei creatura sigillata. Bisogna riflettere sulla sigillatura, ossia la confermazione. Tu sei creatura confermata. E’ il linguaggio dell’alleanza: io sono il tuo Dio e tu sei il mio popolo, io sono per te e tu sei per me. E’ un linguaggio che sintetizza tutto un linguaggio di amore, che sintetizza tutta una storia di comunione: è la storia della salvezza: il mio diletto è per me ed io per lui. Un’appartenenza vicendevole, ormai definitiva, indissolubile. Una sigillatura che impregna di unguento, di profumo, di quella comunicazione vitale che è propria di un amore vissuto nell’intimo.

 

Il risveglio di cui il diletto ha parlato determina l’orizzonte all’interno del quale l’esistenza, il cammino di questa creatura umana si svolgerà. E’ creatura che nella morte nasce per la vita che non muore più. E così andrà morendo per testimoniare il dono d’amore che la sta svegliando, la sta rigenerando, la sta reintroducendo nella vita che non muore.

 

Il diletto dice della sua creatura: tu sei confermata. Questo significa che tu ti consumi per un servizio d’amore. Quali che siano le forme, i luoghi e i momenti del tuo vissuto, per quanto le situazioni possano dimostrarsi cangianti, creative, originali, tu sei creatura sigillata. In ogni luogo e in ogni momento, in ogni situazione c’è un dono di amore che ti riguarda, c’è una responsabilità di amore che ti impegna, c’è un servizio di amore che ti è affidato.

 

Sembra una fiaba: è mai possibile che nella storia degli uomini ci sia una presenza che è intrinsecamente determinata da una motivazione d’amore assoluta? E’ possibile questo? Che ogni tanto ci sia qualche atto di amore, che in qualche luogo e in qualche modo anche l’amore trovi i suoi spazi e le sue manifestazioni, questo è possibile, ma qui è un’altra cosa: una creatura è sigillata. E’ la missione della chiesa.

 

L’esperienza dell’incontro con il diletto conferisce alla quotidianità della nostra vicenda umana la fecondità di un amore eterno. Perché eterna è la fecondità. Vedete «forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma del Signore!». Un amore eterno, che avvampa nella profondità degli inferi, che conferisce anche alla morte una preziosa affascinante bellezza: è possibile morire per amore.

 

la fiamma del Signore

 

Qui compare un’espressione: “una fiamma del Signore”, in ebraico risuona l’abbreviazione YA, che sta per il nome del Signore. In tutto il Cantico dei Cantici il nome del Signore non è mai citato. Qui è la prima ed unica volta in cui compare il nome del Signore, e siamo alla fine: fiamma di YA. Un’abbreviazione ma inconfondibile. E’ il nome del Signore. E’ come se tutto il Cantico dei Cantici fosse un sepolcro vuoto in cui la presenza non è più reperibile con quella concretezza di documentazione che normalmente fa capo al nome del Signore. Ebbene, proprio il sepolcro vuoto è rivelazione per noi di una potenza d’amore che fa di quel ricettacolo della morte un grembo fecondo per generare. Potenza d’amore che fa della nostra quotidianità il contesto adatto in cui tutto di noi, della nostra vita confermata, cresimata, sigillata, tutto della chiesa in quanto è depositaria della missione che la identifica, tutto si realizzi ormai come servizio d’amore.

 

ancora non ha seni

 

Ci sono tre appendici brevissime, vale la pena di leggerle, non fanno parte del Cantico dei Cantici, sono delle aggiunte, ma da diversi punti di vista ci permettono di mettere a fuoco alcune considerazioni ricapitolative di tutto il percorso che abbiamo compiuto.

 

Prima appendice: 8,8-10: «Una sorella piccola abbiamo, e ancora non ha seni. Che faremo per la nostra sorella, nel giorno in cui se ne parlerà?».

 

Questa è la situazione: una sorellina che crescerà e i fratelli sono in pensiero per lei in quanto è ancora piccola. Ma prima o poi qualcuno si interesserà a lei: che faremo? Questa figura femminile ha un valore simbolico: rappresenta la situazione in cui si trova la città per eccellenza, la città di Gerusalemme. La città è piccola e indifesa, la situazione è stata sperimentata in modo molto doloroso dopo il rientro dall’esilio. Che faremo con questa sorellina nel giorno in cui si parlerà di lei. Ed ecco i fratelli dicono:

«Se fosse un muro, le costruiremmo sopra un recinto d’argento; se fosse una porta, la rafforzeremmo con tavole di cedro».

 

Sono risoluti, ci penseremo noi a difenderla. Risponde la sorellina:

«Io sono un muro e i miei seni sono come torri! Così sono ai suoi occhi come colei che ha trovato pace!».

Io sono una creatura pacificata, perché non siete voi che mi tenete d’occhio e non sono gli occhi di possibili aggressori o di qualcuno che vuole insidiarmi, che m mettono in difficoltà. Sono gli cocchi del diletto che mi vedono, che mi riconoscono, e sono gli occhi che illuminano, sono gli occhi che conferiscono bellezza, sono gli occhi dell’amico, dell’amante, del diletto. E ai suoi occhi io sono come colei che ha trovato pace, e nella mi pacificazione sono inattaccabile, sono inespugnabile, perché io sono esposta agli sguardi del diletto, sento quegli occhi con cui egli mi guarda. Nessuno potrà turbare la pace che ormai mi è stata conferita e che mi rende ormai adulta come quella città è ben raccolta dentro la cinta delle sue mura e svettante lungo le merlature delle sue torri.

 

la vigna di Salomone

 

Seconda appendice, 8,11-12: «Una vigna aveva Salomone in Baal-Hamòn». Qui è l’immagine della vigna. E’ evocato il re Salomone, che tra le altre imprese aveva compiuto anche questa: organizzare la coltivazione di terreni precedentemente riarsi irrigati in modo tale che è stato possibile piantare delle vigne. «Egli affidò la vigna ai custodi; ciascuno gli doveva portare come suo frutto mille sicli d’argento».

E adesso: «La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti». Nel primo poema la creatura amata mentre arrancava, sudata, oscura, desolata, alla ricerca del diletto, aveva dichiarato (1,6) di essere venuta meno al suo dovere, così come i suoi fratelli glielo avevano imposto: non aveva custodito la sua vigna: «la vigna mia, proprio la mia vigna, io l’ho trascurata. E così ho contrariato i miei fratelli, i figli di mia madre”. Era in questo modo che la creatura ricapitolava l’antefatto disastroso. Adesso: «La vigna mia, proprio mia, mi sta davanti: a te, Salomone, i mille sicli e duecento per i custodi del suo frutto!».

 

Succede che quella vigna, che secondo il programma di Salomone dovrebbe rendere mille sicli d’argento, quella vigna mia mi sta davanti, donata per amore, mia proprietà. Questa vigna mia, proprio mia, rende mille sicli per Salomone, e poi duecento sicli per i custodi, e poi .. Una ricchezza inesauribile: non c’è più misura che possa determinare il tornaconto di chi fa programmi a riguardo di questa vigna. Ormai siamo entrati nel circuito si relazioni gratuite, per cui tutti i calcoli elaborati da Salomone sono radicalmente superati, ormai è ben altra economia quella che è stata instaurata. Questa vigna è mia: accontentiamo Salomone con i mille sicli e ce ne sarà per tutti i custodi. Questa immagine della vigna e dei custodi, verrà ripresa da Gesù in una parabola.

 

nei giardini

 

Terza appendice, 8,13-14: «Tu che abiti nei giardini i compagni stanno in ascolto fammi sentire la tua voce».

 

Prima il diletto e poi la voce della creatura. E’ un dialogo ridotto ai suoi termini essenziali, il diletto e la sua creatura. Siamo nel giardino, sono anche convocati degli osservatori, i compagni stanno in ascolto. Il diletto chiede alla creatura amata di fargli udire la voce. E’ un invito sollecito e affettuoso. E’ quasi una implorazione. Il diletto già altre volte ci era apparso nei panni di un mendicante: parlami, dimmi qualche cosa, fammi udire la tua voce, e falla udire agli amici che sono in ascolto, perché festeggiano, tu ormai sei entrata in esso, dimori in esso. C’è anche una certa trepidazione in questa richiesta, è come se ci trovassimo dinanzi a una pista di un circo e c’è il domatore che dice: adesso vedete che la belva feroce alza la zampetta. La bestia feroce è domata, addomesticata: fammi udire la tua voce, apri la tua bocca e io ci infilo la testa dentro. Ed ecco la risposta:

«Fuggi, mio diletto, simile a gazzella o ad un cerbiatto, sopra i monti degli aromi!».

 

In 2,17 la creatura amata aveva implorato il diletto così: ritorna o mio diletto, sui monti degli aromi. Qui dice: fuggi. Mentre dice questo, compie il gesto di chi lascia la presa, è una creatura che non stringe più, è una creatura che non si aggrappa al diletto per trattenerlo: va’, mio diletto.

 

Questo significa che questa creatura è pronta ad abbandonarsi senza più pretendere alcuna garanzia di sicurezza: va’, non ti trattengo più. E’ l’atto con il quale questa creatura dimostra di essere veramente matura, così come già il diletto ce la voleva presentare: fammi udire la tua voce, mostra ciò di cui sei capace, danne dimostrazione. Gli amici attendono solo questo. Ed è creatura che si fida, non ha più nessuna pretesa, non vuole più afferrare, possedere e trattenere nulla e nessuno perché si fida dell’amore. Per questo dice: fuggi, va’. Si fida dell’amore che il diletto le ha manifestato. Nel vangelo secondo Giovanni, nel giardino, il Signore dice a Maria di Magdala: non mi trattenere, perché io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro. Siamo qua: sali al Padre e, non trattenendoti, noi siamo ormai affidati a te, nella totale gratuità dell’amore per cui il Padre tuo è Padre nostro, il Dio tuo è Dio nostro. E così sia.

DIO E’ UN BACIO – Eucaristia per il mio professore Giuseppe Barbaglio

Posted on Maggio 21st, 2009 di Angelo

 

Eucarestia

 

per

 

Giuseppe Barbaglio

 

Biblista

Arsiero 5 Maggio 2007

 

Uomo d’amore e di libertà

 

Parole del celebrante che introduce questo pensiero di Giuseppe sulla morte

Anzitutto si deve notare che per l’AT, ignorando a lungo qualsiasi apertura ultraterrena, questa vita terrena vale come massimo bene… e anche nel NT si afferma che Dio non ha nulla a che vedere con la morte; il suo habitat è la vita e i viventi…

 

Possiamo distinguere una fase storica antica, in cui la morte fisica, destino ineluttabile per tutti, è accettata senza problema e con rassegnazione. Ma Dio, fedele, non permetterà che i fedeli siano preda per sempre della morte…

 

I vangeli narrano l’evento della morte tragica e violenta di Gesù… ma è vista con gli occhi della fede come gesto decisivo di salvezza per l’umanità…

 

Canto d’inizio (in ricordo di Assisi)

 

Rti: Mio Signor che mattino (3v) Quando il mondo ti vedrà.

Ho vissuto nel dolor

Ho pianto tanto e lui lo sa

Ma viene il giorno del Signor

So che tutto cambierà. Rit.

La mia vita ha un perché

tutta la storia è così

umanità che cerca e va

al Giordano giungerà. Rit.

Camminiamo verso il cielo

Una speranza dentro al cuor

Risorgeremo tutti un dì

E vivremo in te Signor. Rit.

 

Didascalia di Raniero La Valle

 

La prima lettura è tratta dal Cantico dei cantici. Ci sono molte ragioni per fare questa lettura. La prima è che la Cantica era molto amata da padre Benedetto, che ha avuto tanta parte nella vita di Giuseppe e di Carla; Padre Benedetto vedeva in questa pagina un inno all’amore umano e all’amore divino, strettamente intrecciati, e molte sue omelie pasquali cominciavano con i primi versetti della Cantica: “Mi baci con i baci della tua bocca…”.

 

(“Padre Benedetto diceva”, ha ricordato Raniero la Valle, “che Dio è un bacio”)

 

La seconda ragione è che Giuseppe Barbaglio ha tradotto e scritto un piccolo prezioso libro sul Cantico, e ha fatto molte conferenze e lezioni su di esso, valorizzando sempre questo duplice amore.

 

Una volta, dopo una sua conferenza, gli si avvicinò una donna un po’ anziana, e anche un po’ rammaricata, e gli disse: “Ma perché non ce lo avete detto prima…”.

 

La terza ragione è che Giuseppe citò dei versetti del Cantico nel momento di una lontananza da Carla, mentre si trovava per un viaggio in Bangladesh, e così le scriveva in una lettera del 13 gennaio 1977:

 

Carla, sto per partire dal Bangladesh per il viaggio di ritorno da te…. Ho riletto il Cantico dei cantici e ho trovato più vero di altre volte il grido rivolto alle guardie della città:’Avete visto colei che il mio cuore ama?’ (Cant. 3, 3).

 

Qui l’inverno è passato e le colombe tubano nella campagna (Cant. 2, 11-12); ma non potevo pronunciare l’invito ’Vieni amica mia ,vieni:andremo nelle vigne e tra i fiori; l’inverno è passato… Cant: 2, 10-13).”

 

Perciò ora leggiamo del Cantico dei Cantici i primi versetti dell’introduzione e quelli dell’epilogo.

 

Traduzione dei testi fatta da Giuseppe

 

Lettura del Cantico dei Cantici

 

Di baci baciami della tua bocca

L’amor tuo è più sapido del vino.

Deliziosi in profumo

I tuoi unguenti. Il tuo

Nome unguento fragrante.

Sì, le ragazze ti amano.

Afferrami, corriamo. Il re

M’ha tratta alle sue stanze.

 

Grazie a te allegrezza

E felicità noi godremo; ricorderemo l’amor tuo

Più che il vino. Ogni bontà ti ama (Cant., 1, 2-4)

Stringimi a sigillo sul cuore,

a sigillo sul braccio tuo: l’amore,

sì, è forte come la morte,

l’ardore è come gl’inferi spietato.

Le vampe sue vampe di fuoco,

incendio incontenibile.

Diluvi e diluvi mai possono

Estinguere l’amore,

né spazzarlo fiumane.

 

Chi tutto l’aver suo offrisse,

a baratto dell’amore,

infamia ne avrebbe soltanto (Cant. 8, 6-7).

Salmo responsoriale

O terra tutta,acclama Iahvè

Servite Iahvè con letizia,

a lui venite con canti di gioia.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

Riconoscete che Iavhè è dio,

lui ci ha creati e suoi noi siamo,

popolo suo e gregge del suo pascolo.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

Varcate le sue porte

con inni di grazie

gli atri suoi con canti di lode,

cantate a lui,

benedite il suo nome.

O terra tutta,acclama Iahvè

Si, buono è Iavhè,

senza fine è la sua misericordia

e la sua fedeltà per tutti i secoli.

 

O terra tutta,acclama Iahvè

 

La Bibbia parla spesso dell’amore come esperienza di unione tra gli uomini, e lo fa in termini positivi…

 

È l’amore che costruisce rapporti umani maturi all’interno della comunità…

 

Dalla prima lettera di Paolo ai Corinzi

 

Vi voglio mostrare il cammino di perfezione:

Se parlo le lingue degli uomini e anche degli angeli ma non ho amore,

sono bronzo echeggiante o cembalo risonante.

Se sono profeta e conosco tutti i misteri

e tutta la conoscenza

e se ho tale fede da trasportare le montagne

ma non ho amore,

sono un nulla.

Se impegno tutti i miei averi per nutrire i bisognosi,

e se consegno il mio corpo al rogo,

ma non ho amore,

a nulla mi giova.

 

L’amore ha un cuore grande,

clemente è l’amore,

non si nutre d’invidia,

l’amore non è borioso,

non si gonfia d’orgoglio,

non agisce a vergogna,

non ricerca il proprio interesse,

non si lascia trasportare all’ira,

non tiene conto del male,

non gode dell’ingiustizia,

ma si compiace della rettitudine.

 

Tutto sostiene,

di tutto ha fiducia,

tutto spera,

tutto sopporta.

Nella Bibbia non si parla tanto di amicizia, quanto di amici…

Non manca nella Bibbia l’attribuzione a Dio di questo valore tipicamente umano…

 

Ma la vera sorpresa è l’amicizia di Gesù per i disprezzati della società del suo tempo-…

 

Dai vangeli secondo Matteo e secondo Luca

 

Gesù salì sul monte e prese a parlare:

  • Mi congratulo con voi poveri:

per voi sarà il potere liberante di Dio.

  • Mi congratulo con voi afflitti:

Dio vi consolerà.

  • Mi congratulo con voi non violenti:

Dio vi darà la terra promessa.

  • Mi congratulo con voi misericordiosi:

Dio avrà misericordia di voi.

  • Mi congratulo con voi dal cuore puro:

vedrete il volto di Dio.

  • Mi congratulo con voi facitori di pace:

Dio vi dichiarerà suoi figli.

 

 

Canto finale

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato due stelle che, quando le apro,

io vedo e distinguo il nero dal bianco

e nell’alto cielo il fondo stellato

e in mezzo alla folla l’uomo che io amo.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il suono e l’abecedario,

come le parole che penso e proclamo:

figlio, madre, amico e cammino chiaro,

e la dolce voce di colui che amo.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato la marcia dei miei piedi stanchi;

con esse ho varcato pozzanghere e spiagge,

città e deserti, montagne e pianure

e la strada tua, la casa, il cortile.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il cuore che vuole fuggire

quando guardo il frutto della mente umana

quando guardo il bene lontano dal male,

quando vedo dentro il tuo sguardo chiaro.

 

Grazie alla vita, che m’ha dato tanto:

m’ha dato il riso e m’ha dato il pianto;

così io distinguo la pena e la gioia,

i due elementi che fanno il mio canto,

e il canto di tutti, il mio stesso canto.

 

Eucarestia con Giuseppe Barbaglio

Roma 21 marzo 2009

 

La Parola del Signore cresce con chi la legge, la medita, la rumina.

Lo hanno sperimentato e vissuto Gesù, Paolo, i Padri della Chiesa, tutti i cristiani, quanti lo hanno

fatto nei secoli passati, i biblisti di ieri e di oggi.

Voglio ricordarne almeno due:

  • il cardinale Martini che ha saputo farlo con grande competenza,interpretando, commentando, attualizzando

  • e Barbaglio per la carica umana con cui ha portatoavanti in maniera rigorosa la sua ricerca e i suoi studi, sostenuto dalla moglie Carla, dai familiari, datanti amici, in particolare gli amici dehoniani.

La I lettera è l’inno all’amore/agape di Paolo che scrive ai Corinzi.

L’amore è l’essenza della vita trinitaria di Dio; è la dimensione fondamentale della vita degli uomini e delle donne e delle relazioni umane.

Giuseppe Barbaglio parla di assolutezza del tema dell’amore e sottolinea che,essendo personificato, non ammette restrizioni: s’incarna in tutti i soggetti capaci d’amare.

Il salmo 85 con il ritornello “Fedeltà/Misericordia e Verità si abbracceranno Giustizia e Pace ai baceranno”:

  • è un auspicio/costatazione per gli ebrei deportati-esiliati a Babilonia – in vista di rientrarecon l’editto di Ciro del 538 in patria;

  • è un auspicio/constatazione anche per noi oggi che viviamo un esilio – la vita in una Societàa lienata – una crisi epocale di cambiamento e trasformazione, ma siamo chiamati ad incamminarciverso una patria di amore e libertà come Giuseppe.

Soprattutto nei momenti di crisi epocale la giustizia non riesce a risolvere da sola, necessita la misericordia.

Il versetto prima del Vangelo, spesso citato e commentato da Giuseppe è un invito acomportarci come il Padre celeste che fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni e fa piovere su quanti fanno e non fanno la sua volontà.

Ricordiamo che Gesù è sole di giustizia e di misericordia, sua esperienza vissuta.

La parabola del seme che spunta da solo ci sollecita a prendere coscienza ed è un richiamoforte – siamo in tempo di quaresima – al cambiamento, a prepararci alla Pasqua, al passaggio da unavita di alienazione, di legge di mercato / profitto, ad una vita libera di gratuità e di grazia.

Il convegno dedicato all’attualità del pensare dell’apostolo Paolo con quanto è emerso, è un invito a seguire il modo di porsi di Gesù, il modo di accogliere, interpretare, commentare einculturare il messaggio di Paolo e di quanti hanno fatto e fanno altrettanto.

Ricordiamo i relatori e quanti hanno contribuito all’ottima riuscita del Convegno

Grazie a Giuseppe, uomo d’amore e di libertà, presente in mezzo a noi.

Che il Signore ci accompagni

Oggi ovunque e sempre.

Buona Primavera!

Buona Pasqua!

Felice passaggio a Tutti! Auguriamocelo reciprocamente.

Roma 21 marzo 2009

Pasquale Bazzoli, Trento

 

In ricordo di Giuseppe

dai suoi studenti del Pime

Franco Lacchini

Comincio subito dicendo che non ho alcuna competenza specifica su Paolo, però ho una qualità che è quella di essere stato studente di Giuseppe,negli anni in cui lui ha insegnato al Pime di Milano, alla fine degli anni sessanta inizio anni settanta.

Quello di Giuseppe verso le missioni è stato un amore grande e corrisposto, iniziato con l’insegnamento a Milano, continuato poi con i viaggi nelle missioni in Africa in Guinea Bissau, in Bangladesh e a Hong Kong – viaggi organizzati dagli ex alunni – un amore mantenuto e maturato negli anni con varie forme di collegamento tra di noi, e che è durato fino agli ultimi giorni.

Anzi devo dire che le cose che dirò sono frutto di idee che ci siamo scambiati pur essendo ognuno di noi dislocato in parti diverse del mondo.

Io pensavo di non tentare neppure una ricostruzione del contesto nel quale Giuseppe insegnò a noi, però mi pareva interessante dire almeno quali erano le aree di conflitto esistenti nel contesto nel quale lui insegnava, a Concilio appena concluso e autunno caldo in corso….

Quali erano le aree di conflitto che vivevamo all’interno della Facoltà?

Il primo riguardava il modo stesso di interpretare la figura del missionario, tra quelli che interpretavano la figura del missionario come un ruolo positivo a prescindere dalla sua collocazione storica , mentre da noi gli studenti leggevano gli autori del terzo mondo,Freire, Fanon, Amilcar Cabral, e non si

sentivano addosso questa missione civilizzatrice o anche quella di agenti dello sviluppo. Ecco già qui c’era un’area di conflitto.

La seconda cosa è che a noi veniva chiesta una radicalità nel vivere il vangelo, ma questa radicalità doveva essere vissuta al singolare, mentre a noi l’aria che tirava – il sessantotto – comunicava un’istintiva capacità di metterci insieme, di fare gruppo…E non un gruppo romantico, ma un gruppo stabile, piccolo, formato da un numero limitato di persone, concreto, che andava dai turni di pulizia dei cessi alla piccola manutenzione dello stabile, allo studio, alla correzione fraterna, e – almeno nella progettualità – era anche una comunità di destino, per noi.

E’ per questo che ancora adesso siamo ancora molto legati. La terza area conflittuale che vivevamo all’interno del seminario delle missioni estere era il modo di concepire la Missione. Da una parte quelli che pensavano – e molti pensano tuttora – che extra Ecclesia nulla salus e buona notte, di lì non si scappa.

Dall’altra parte invece il Concilio che dice “Dio ha infinite vie per incontrare gli uomini”. E questa è una bella botta, che tocca paradossalmente proprio e soprattutto il missionario che è quello che per definizione ha qualcosa da dire e da “esportare”.

È una botta sull’idea di missionario che ci portiamo dentro, più o meno inconsciamente, e di cui non è facile liberarsi in concreto.

Non è facile staccarsi dall’idea di essere mandati ad annunciare una verità che salva, magari anche una verità progressista o addirittura rivoluzionaria, ma pur sempre da maestri, da uomini forti che hanno qualcosa da dire…

Invece è proprio su questo nervo scoperto che veniamo toccati: dal Concilio arriva l’invito a ripensare alla figura del missionario, che da maestro deve diventare discepolo, che fa del silenzio di Dio e della umile condivisione della vita con la gente la sua normale condizione di esistenza.

Sentirsi inefficaci – inutili – vivere l’enorme distanza che divide il proprio modo di sentire, le proprie categorie mentali da quelle del gruppo con cui si vive sono già di per sé situazioni che ti fanno venir voglia di star zitto, che ti fanno

morire le parole in bocca e che ti costringono ad approfondire continuamente la ragioni della tua scelta e l’esperienza e la ricerca religiosa.

Vorrei qui farvi ascoltare le parole che il Card. Martini ha detto – molto recentemente – a 13 missionari del Pime che sono andati a trovarlo a Gallarate. Ascoltate cosa dice:

Direi che la missione oggi deve tener presente talmente il Cristo risorto da osare (sto dicendo cose un po’ eretiche) da osare anche di non evangelizzare pur di portare a una comprensione più profonda dell’uomo. Talora con l’evangelizzazione si è rimasti un po’ stretti e un po’ rigidi e non si è dato invece corpo a quel dialogo, a quella mutua conoscenza che è la base di tutto. Per questo abbiamo sullo sfondo tutto questo scontro di culture…

Questo ci ammonisce che l’evangelizzazione non basta, non basta in senso stretto! deve essere parte di un quadro più ampio”.

E finisce dicendo: “Bene: vi lascio riflettere…”

Universalità e diversità. Questo era il tema. Noi sin dall’inizio avevamo pensato che il modo migliore di rappresentare questo tema starebbe stato quello di realizzare una teleconferenza e di restituire a Barbaglio la sua visita: lui è venuto nelle missioni, noi oggi avremmo voluto essere qui presenti, uno da Hong Kong, uno dal Bangladesh, uno dalla Guinea, ecc…

Questa idea non è stato possibile realizzarla tecnicamente… e allora abbiamo portato qui il Sandro, che è il frutto maturo dell’insegnamento di Giuseppe.

  • Frutto maturo nel senso che intanto lui è uno studioso.

  • Secondo, lui è uno studioso che vive all’interno delle Comunità dell’Amazzonia, che vivono alla foce del Rio delle Amazzoni, e quindi porta qua in mezzo a noi le domande vere che nascono dalla vita dei poveri della terra, e anche la memoria del sangue gratuitamente versato da molte persone di queste Comunità che per la terra e per la solidarietà tra di loro hanno versato il loro sangue: non è indifferente questa cosa.

Delle Comunità del Brasile dunque parla Sandro.Delle altre comunità dico eventualmente qualcosa io, anche se in assenza degli altri compagni che ci vivono concretamente.

Barbaglio ha visitato e ha lasciato il segno del suo passaggio in varie comunità:

  • Per esempio è stato in Guinea più volte. Negli anni 70 c’era la guerra di liberazione contro i portoghesi.Cosa trova in Guinea. Dopo quattro secoli di civilisação portughesa (che gli abitanti della Guinea chiamano sifilisasão portughesa) cioè di identificazione tra chiesa e governo coloniale – Giulio, Pedro, Maurizio, Carlo, tentano in extremis di liberare il Vangelo dall’abbraccio mortale del colonialismo: lasciano la Praça (luogo simbolico del potere coloniale dove c’è la chiesa, la residenza del missionario e il palazzo del governatore o del comandante) e vanno a vivere nel villaggio, in una Palhota cioè una capanna appena appena riabilitata, spezzando il legame tra chiesa e palazzo. Da questa convivenza nel villaggio nascono tutta una serie di relazioni gratuite, si formano piccole cooperative di sussistenza, c’è tutto un modo diverso di sentire e di vivere la chiesa.

Il segno del passaggio di Giuseppe io lo vedo in alcune cose che sono state “inventate” in questa missione. Per esempio il modo di concepire l’autorità: il “Tandem”, un termine ciclistico per definire un’ unica bicicletta dove pedalano

insieme due persone, ma anche un concetto “paolino” per esprimere l’autorità partecipata e vissuta da due persone insieme:

  • uno che garantiva la sussistenza, cioè girava in tutte le missioni per assicurarsi che nessun missionario morisse di stenti – era tempo di guerra –

  • l’altro, il Giulio, che passava a rassicurare e a tener compagnia ai missionari isolati.

  • Uno garantiva la sussistenza,

  • l’altro garantiva la resistenza.

Questo è un modo paolino di interpretare con intelligenza e originalità l’autorità.

Al momento della fine della guerra di liberazione, Giulio, che era il superiore, capisce che la presenza della Chiesa così come era andata costituendosi durante il colonialismo era un ostacolo al Vangelo. E che era impossibile continuare in quel modo lì, come se nulla fosse successo. Occorreva una

discontinuità.

Lui, da superiore della Guinea fa una scelta dolorosissima: decide di lasciare la missione e si “seppellisce” in un fabbrica dell’hinterland di Milano.

Questo gesto che a chi intende la Chiesa come potere poteva sembrare un gesto di diserzione, in realtà nella linea di Martini che abbiamo sentito prima era un gesto di fede, di conversione, era un modo di dire ai suoi compagni: bisogna ricominciare, a partire dal silenzio e dall’ascolto delle situazioni umane.

Ecco: questo per dire una comunità dove è passato Barbaglio. So che era molto amico di Giulio, fino agli ultimi giorni, e non posso non pensare che anche questa scelta del silenzio fosse uno dei temi condivisi della loro amicizia.

Anche in Bangladesh Giuseppe è andato varie volte. Una situazione totalmente diversa da quella della Guinea. La presenza missionaria qui è nel segno della condivisione e della resistenza.

I missionari da secoli sono al fianco di minoranze etniche che vivono una situazione di pesante discriminazione, oppresse dalla maggioranza bengalese/ e musulmana che impedisce loro di esistere nella loro differenza culturale.

Per queste popolazioni i missionari sono re e profeti. La Chiesa è una presenza debole dal punto di vista numerico e insignificante dal punto di vista del potere politico, ma una presenza forte e chiara del segno della predilezione di Dio per i poveri. I Missionari sono i difensori dei poveri.

In questa situazione so che Barbaglio parlava anche del dovere della politica come dovere della liberazione dell’uomo, di tutto l’uomo, e non solo come liberazione dal peccato.

La terza situazione di cui volevo parlarvi, è quella di Hong Kong, la situazione più “paolina” di tutte: una chiesa giovane, solo 150 anni, immersa in un mondo che guarda solo al futuro.

L’affacciarsi dei popoli asiatici alla modernità, al mercato e al consumo individuale è come uno tzunami, un’ondata ritardata – ma inarrestabile. L’est guarda a ovest: Guarda al suo modo di consumare, alla sua concezione della vita come a un modello da imitare: il sole non sorge più a oriente ma a occidente, una specie di Ecce Bombo planetario.

I ns missionari dopo avere atteso con timore e tremore l’arrivo del 1997 (che sarebbe la data in cui Hong Kong doveva tornare alla Cina), si trovano ora travolti non dal maoismo, non dal confucianesimo, ma dall’ondata tossica della occidentalizzazione del mondo.

Una nuova koinè si va formando a HK – riferisco le parole di Renzo Tino Carlo Franco – la Comunità nella quale vivono è una comunita’ polarizzata attorno a due lingue, Cantonese e Inglese, (numericamente le due componenti hanno la stessa consistenza) con le gioie e i mal di testa che comporta, dice Renzo – ma ci sono segni di un mondo nuovo: A Natale nella mia parrocchia abbiamo contanto almeno 17 nazionalita’; una parrocchia visitata giorni fa ne accoglie 40.

A Hong Kong, i matrimoni di “mista religione” sono piu’ dell’80%, sono in aumento i matrimoni tra gente di nazionalita’ diverse.

La nuova koinè è l’inglese (certamente a HK, in Asia, e un po’ in tutto il mondo), come lo spagnolo lo è soprattutto in America).

La koinè è lo spazio nel quale ci muoviamo, in cui respiriamo, in cui è possibile l’incontro tra diversi: si salvano solo le comunità che si modificano e che sanno produrre incroci e incontri. E’ nella koinè che nasce e prende forma l’annuncio.

Pian piano ci arriveremo. Il crogiuolo di gente, lingue e culture diverse e’ in atto. Fra cinquanta o cento anni si vedranno i frutti.

Un risultato dell’anno dedicato a S. Paolo dovrebbe essere: “Parrocchie di tutto il mondo, apritevi a diventare comunita’ multiculturali, multirazziali e multilinguistiche.” I casini aumenterebbero di molto, ma si troverebbe anche una nuova vitalita’ e nuove possibilità di innesto.

Termino con le parole stesse di Giuseppe, studioso riconosciuto da tutti, ma per noi è solo l’uomo di cui parla il Vangelo:quello che trovata la perla preziosa, la compra e la mette al sicuro nella sua bisaccia: ecco, per noi suoi studenti Giuseppe è quell’uomo lì, l’uomo che, chiusi i libri e terminato

l’insegnamento, testimonia una fede schietta e limpida nella resurrezione, la stessa dei cristiani delle prime comunità che lui studiava nelle fonti e imitava nella fede, e come loro attendeva la venuta del Signore.


 

L’ATTUALITA’ DEL PENSARE DELL’APOSTOLO PAOLO

 

ROMA, 21-22 MARZO 2009

Paolo, apostolo delle genti, per una comunità in cammino

La nostra esperienza di comunità continua da più di quarant’anni con momenti attivi e altri più stanchi legati alle vicende personali di ognuno ed alle tensioni positive e negative che provengono dall’ambiente nel quale viviamo, sia a livello locale che a carattere più ampio.

Inizialmente ci siamo ritrovati come gruppo di giovani con l’intenzione di vivere un’esperienza di fede diversa da quelle fino ad allora proposte e con l’impegno di approfondire la comprensione delle Scritture, cercando una dimensione di vita coerente con la realtà dei grandi cambiamenti di fine anni sessanta.

Le speranze suscitate dal Concilio ci hanno sostenuto nel continuare l’esperienza dentro la Chiesa senza arrivare a fratture decisive, nonostante le significative differenze.

L’esigenza di essere guidati nella ricerca teologica ci ha portato a conoscere Giuseppe all’inizio degli anni settanta: abbiamo apprezzato subito la chiarezza e la profondità delle sue spiegazioni che, aiutandoci a selezionare l’essenziale dal sovrapposto, ci hanno motivato soprattutto alla ricerca di un metodo di studio e di lavoro.

Abbiamo lasciato la pretesa di trovare certezze e abbiamo raccolto la sfida della ricerca continua della fede che cresce attraverso tentativi, speranze e illusioni e che ancora oggi ci sentiamo di sostenere.

La celebrazione dell’Eucaristia è stato ed è tuttora il momento centrale della nostra esperienza. La caratterizziamo con la preparazione comunitaria delle esegesi domenicali (da qualche anno in alternanza con alcune realtà parrocchiali locali), di preghiere e riflessioni comuni inserite in vari momenti della liturgia, espressione della nostra sensibilità e maturità.

Altro momento costante è la riflessione teologica. Negli ultimi anni abbiamo riletto insieme “Gesù ebreo di Galilea” e “Gesù di Nazareth e Paolo di Tarso”. Le figure di Gesù e Paolo, alla luce della ricerca storica, aprono nuovi orizzonti alla fede e la rafforzano liberandola da sovrastrutture a cui si

affida spesso la Chiesa-istituzione.

Da sempre abbiamo ritenuto importante aprirci e confrontarci con altre esperienze, non solo ecclesiali, di persone diverse ma animate dalla stessa tensione interiore.

Abbiamo condiviso la testimonianza delle Comunità di Base di cui ancora apprezziamo l’esperienza. Ci ritroviamo anche nelle istanze portate avanti dal movimento Noi Siamo Chiesa.

Sul piano dell’impegno attualmente partecipiamo a gruppi di volontariato quali l’Associazione Insieme, che si pone come momento di scambio, confronto e aiuto alla realtà dell’immigrazione, e l’Opera Nomadi che svolge ruolo di collegamento, presenza e stimolo con la locale realtà dei sinti.

Fede e religione

Per riallacciarci al tema dell’incontro, abbiamo pensato di soffermarci su alcuni temi attorno ai quali abbiamo ragionato con Giuseppe pochi mesi prima che ci lasciasse. Gli avevamo proposto di parlare della presenza della comunità cristiana nella nostra società sempre in mutamento e della

tendenza della Chiesa ad “andare all’indietro”.

Abbiamo osservato come in effetti i vertici ecclesiastici non tengano conto dei cambiamenti e continuino a credere di poter far valere le loro convinzioni e i loro principi su tutta la società. Nel tentativo di riprodurre la situazione di controllo, come avevano un tempo, mescolano gli orizzonti della fede con quelli della società civile, confondendo la fede con la religione.

La difesa della religione cattolica intesa secondo i riti, le credenze e i codici di comportamento tradizionali, spinge la Chiesa a incrementare una religione che esclude coloro che non seguono tale logica.

Realtà ben lontana dalla testimonianza di Paolo ai Gàlati: “Il Vangelo che io porto è un Vangelo di libertà: libertà di essere quello che voi siete culturalmente, con le vostre tradizioni, i vostri usi, i vostri costumi, con il fatto che siete degli incirconcisi”.

Avere fede significa “accettare e accogliere l’annuncio del Vangelo con un atteggiamento fiducioso in Cristo e nel Dio di Gesù Cristo per poi testimoniarlo nella vita “.

La fede è una realtà profondamente interiore, nascosta nel cuore della persona, mentre la religione è ciò che appare all’esterno e si manifesta attraverso tre elementi: i riti (preghiere, pellegrinaggi, e anche i sacramenti) le credenze (nel paradiso, nell’inferno, nei dogmi…) e determinati codici di

comportamento.

La fede è affidarsi a un Dio che accoglie tutti ed è esperienza di ognuno in quanto “persona” al di là delle differenze.

Se per un verso la fede diventa anche religione, per un altro deve essere critica nei confronti dei riti, delle credenze, dei comportamenti, che escludono o opprimono le persone.

Per Paolo, la fede cristiana diventa, e sembra un paradosso, negatrice della religione e di ogni religione, quando essa tende a limitare la validità di un gruppo di persone, pretendendo che cambino per essere accolti.

Paolo assegna pertanto alla fede il compito di mettere in crisi la religione nel momento in cui questa sia escludente. E oggi abbiamo proprio questo problema: una religione che ha sequestrato la fede, anziché la fede che diventa istanza critica nei confronti della religione e la contesta nei suoi limiti.

Benché le religioni, attraverso riti, credenze e norme del loro tempo, corrano tutte il rischio di costituirsi attorno all’immagine di un Dio escludente, la fede è invece l’affidarsi ad un Dio includente.

La nostra responsabilità di credenti è aprirsi al Dio che accoglie e liberarsi della schiavitù di una religione che divide e separa. Tutto ciò interpella le comunità riguardo i modi di rivestire di forme vissute la propria fede.

Nella lettera ai Galati, come dicevamo, Paolo si trova di fronte ai gentili incirconcisi che non seguivano la religione mosaica. A loro ha detto: “Voi siete liberi, non avete bisogno di sottomettervi alle prescrizioni che tale religione prevede”.

Certo non pensava all’azzeramento di tutte le differenze: esse sono caratteristiche individuali che distinguono ma non discriminano. Le persone valgono per quello che sono. “Solo la fede” (Rm. 3,30) accomuna incirconcisi e circoncisi perché aperta a tutti.

L’immagine di Dio

La distinzione tra fede e religione è collegata anche all’immagine di Dio che Paolo esprime. Questa immagine, pur prendendo nomi diversi, converge con quella di Gesù: il Dio di Paolo, che ha risorto il crocefisso è lo stesso Dio re e padre di Gesù che dal futuro viene incontro al nostro oggi, un Dio veniente, Deus adveniens, a liberarci dal dominio di Satana, e nello stesso tempo sempre presente al mondo e all’umanità, un Deus praesens che si presenta con il nome di padre e che trova un’espressione originale nel comandamento dell’amore per i nemici: ”Affinché diventiate figli dell’Altissimo: egli fa sorgere il sole su cattivi e buoni e fa piovere su giusti e ingiusti” (Q: Mt 5,45;

Lc 6,35).

Per Paolo e Gesù, le due immagini di Dio hanno in comune l’inclusione degli esclusi, l’amore indiscriminato per buoni e cattivi, il perdono accordato senza condizioni ai peccatori, l’amorosa cura degli indifesi e dei minacciati. Un Dio di parte, che agisce al di fuori di ogni logica meritocratica, che si muove sotto il segno della gratuità, superando l’immagine di Dio della tradizione biblico giudaica. Un Dio controcorrente che preferisce i non-preferiti di questo mondo.

E’ un Dio solidale con gli esclusi a parole e a fatti. Ovviamente Paolo ha dovuto scontrarsi, anche fortemente, con altri cristiani che erano di parere

opposto e pretendevano che i nuovi convertiti si dovessero sottomettere alla legge mosaica.

Ricordiamo, ad esempio, i contrasti anche aspri con la comunità aramaica gerosolimitano dei parenti del Nazareno. Possiamo anche chiederci chi siano “i gentili” oggi per noi. Domanda complessa e non scontata che ci invita a non sentirci “puri e perfetti” mentre chiudiamo porte verso gli altri.

L’universalità di Paolo

Paolo unisce l’apertura al mondo dei gentili e la novità cristiana alla storia della salvezza narrata nelle scritture: il Vangelo di Cristo, preannunciato da Dio ad Abramo “In te saranno benedette da Dio tutte le tribù della terra”. (Gen 12,3) e già promesso dai profeti (Rm 1,2), viene esteso da Paolo anche ai gentili (Gal 2,7), integrando la fede ebraica con un respiro universale inclusivo degli esclusi e strettamente collegato alla fede e alla grazia (Gal 3,17-18). I discendenti di Abramo sono i credenti in Cristo, siano essi ebrei o gentili. Paolo, autodefinitosi “Apostolo dei gentili” (Rm 11.13), indica il focus della sua azione missionaria: “A me è stato affidato dall’alto il vangelo degli

incirconcisi” (Gal 2,7) e, forte di questa convinzione, si è fatto strenuo difensore del loro buon diritto di entrare sola fide nello spazio di quanti si sono incamminati verso la salvezza.

Nessun uomo è giustificato da Dio per le opere della Legge, ma solo mediante la fede in Gesù Cristo” (Gal.2,16). Avendo un padre comune nella fede, anche i rapporti tra le tre religioni monoteiste dovrebbero essere improntati al desiderio di capirsi e dialogare tra loro pur nelle tante e profonde diversità.

Aprirsi al dialogo significa trovare “il meglio dell’altro”. Non dobbiamo dunque avere paura di confrontarci. “Non c’è giudeo né greco, non esiste schiavo né

libero, non c’è maschio né femmina, tutti voi siete un solo essere il Cristo” (Gal. 3,28). Non scompaiono le differenze ma devono svanire le differenze erette ad identità. Se sono le diversità a definire le persone nessuno accetterà più l’altro in quanto diverso.

Oggi la sfida della società globale ci richiama a chiederci come possiamo dimostrare di essere “tutti figli di Abramo”, come possiamo aprirci al Dio accogliente e liberarci dalla schiavitù di una religione che al contrario divide e separa.

L’etica della condivisione

La comunità dei credenti costituisce una famiglia il cui Padre è solo Dio e i credenti sono i suoi figli, a immagine del figlio Gesù (Rm. 8,29). Paolo ha accentuato la fratellanza umana e il reciproco aiuto,”Tutti voi siete figli di Dio in Gesù Cristo mediante la fede”(Gal. 3,26). Conseguenza della fratellanza è la solidarietà, intesa in senso bilaterale (Koinonia), costituita dal dare e ricevere, dallo scambio di beni tra donatore e ricevente.

E’ il codice della gratuità che regge il cammino degli uomini nella verità, non quello del dovuto. Non la persona autocratica che vive in una realtà priva di porte e finestre è nel giusto, ma l’uomo che si apre al dono altrui, allo scambio gratuito, che riconosce la sua dipendenza da Dio e dagli altri,

che sa dire grazie.

Riprendendo la metafora del corpo, Paolo mette in risalto la comune partecipazione dei credenti alla morte e risurrezione di Cristo che si manifesta con il dono dei carismi (1 Cor, 12). Lo Spirito li ripartisce tra tutti i credenti in modo che nessuno ne sia privo e nessuno li possieda tutti. Essi, però, devono essere considerati come un dono di grazia funzionale al buon andamento della comunità e lo stesso vale per il servizio prestato dai diaconi, perché è il duro lavoro che legittima e la responsabilità è di tutti.

Essere credenti, e maturare nella fede, è un impegno che dobbiamo coniugare nella realtà concreta, in questo mondo. Non è un fatto pacifico ma un bene continuamente minacciato (Gal. 5,16). Quello che conta è il mettersi fiduciosi nelle mani di Dio.

Per realizzare questa prospettiva, Paolo si appella ai credenti perché si lascino condurre dal dinamismo della libertà (Gal. 5,13-14), come dono della grazia contrapposta alla libertà individualistica ed egocentrica del mondo greco. Una libertà quindi nel segno della reciprocità, sotto l’impulso dell’amore (Agape) che si traduce nella predisposizione a dare e a darsi,

prendendosi cura degli altri “Fatevi carico gli uni dei pesi degli altri” (Gal. 6,2).

Siamo qui per chiederci come possiamo seguire Paolo sulle strade dell’impero, proclamando il Dio della vita.

Ci siamo appassionati a Paolo perché abbiamo vissuto l’amicizia e la testimonianza di Giuseppe.

Concludendo, nel ringraziarlo per quello che ci ha dato, lo pensiamo con affetto mentre, usando le parole di Paolo, ci dice: “siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature. Così affezionati a voi avremmo desiderato non solo darvi il Vangelo di Dio ma la

nostra stessa vita perché ci siete diventati cari” (1 Tess. 2, 7.8).

La Comunità del Carmine di Voghera

21 marzo 2009

 DIO E’ UN BACIO – Eucaristia per il mio professore Giuseppe Barbaglio 

DAL CONCILIO VATICANO II IN QUA…Per non dimenticare

Posted on Maggio 26th, 2009 di Angelo


DAL CONCILIO VATICANO II IN QUA…Per non dimenticare

 

(Paolo VI, Discorso ai rappresentanti della II Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, 10 ottobre 1973,
in Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Volume XI, 1973, 971s).


Ci rallegriamo con voi, cari amici, del rinnovamento di vita spirituale che si manifesta oggi nella Chiesa, sotto forme differenti e in ambienti diversi [...]. In tutto questo possiamo riconoscere l’opera misteriosa e discreta dello Spirito, che è l’anima della Chiesa [...]“.

Paolo VI, Discorso ai partecipanti al III Congresso Internazionale del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Basilica Vaticana, Pentecoste 1975. Cfr. testo francese in Insegnamenti di Paolo VI, Città del Vaticano, Vol. XIII, 1975, 536-542).

Cari figli e figlie, in quest’Anno Santo avete scelto la città di Roma per celebrare il vostro III Congresso Internazionale; ci avete chiesto di incontrarvi oggi e di rivolgervi alcune parole; con questo avete voluto indicare il vostro attaccamento alla Chiesa istituita da Gesù Cristo e a ciò che per voi rappresenta questa sede di Pietro. Questa preoccupazione di situarvi in modo giusto nella Chiesa è un segno autentico dell’azione dello Spirito Santo [...]. Nell’ottobre scorso dicevamo ad alcuni di voi che la Chiesa e il mondo hanno bisogno più che mai che “il prodigio di Pentecoste continui nella storia”(1). [...] Come potrebbe questo “rinnovamento spirituale” non essere una chance per la Chiesa e per il mondo? [...] Abbiamo dimenticato lo Spirito Santo? No, certo! Noi lo vogliamo, lo onoriamo, lo amiamo, lo invochiamo; e voi con la vostra devozione, il vostro fervore, voi volete vivere nello Spirito. Questo deve essere un “rinnovamento”. Deve ringiovanire il mondo, deve ridare una spiritualità, un’anima, un pensiero religioso al mondo, deve riaprire le sue labbra chiuse alla preghiera e aprire al canto, alla gioia, all’inno, alla testimonianza e sarà veramente una grande fortuna per il nostro tempo, per i nostri fratelli, che ci sia tutta una generazione di giovani che grida al mondo le glorie e le grandezze di Dio nella Pentecoste”.

Giovanni Paolo II, Udienza ai gruppi italiani del Rinnovamento nello Spirito Santo, Aula Paolo VI, 23 novembre 1980, in Alleluja n. 6, novembre/dicembre 1980).

Grazie, innanzi tutto, di questa gioiosa visita e, in particolare, delle preghiere che avete rivolto al Signore per me e per le responsabilità del mio servizio pastorale. Vi dirò con San Paolo che avevo “un vivo desiderio di vedervi per comunicarvi qualche dono spirituale perché ne siate fortificati o, meglio, per rinfrancarmi con voi e tra voi mediante la fede che abbiamo in comune, voi ed io” (Rm 1,11-12).

( Stamani ho la gioia di incontrarmi con questa vostra assemblea, in cui vedo giovani, adulti, anziani, uomini e donne, solidali nella progressione della stessa fede, sorretti dall’anelito di una medesima speranza, stretti insieme dai vincoli di quella carità che “è stata riversata nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (cfr. Rm 5,5). A questa “effusione dello Spirito” noi sappiamo di essere debitori di una esperienza sempre più profonda della presenza di Cristo, grazie alla quale possiamo ogni giorno crescere nella conoscenza amorosa del Padre. Giustamente, pertanto, il vostro movimento presta particolare attenzione all’azione, misteriosa ma reale, che la terza Persona della Santissima Trinità svolge nella vita del cristiano [...]. [Cristo] ha affidato allo Spirito Santo la missione di portare a compimento la “nuova creazione”, a cui egli stesso ha dato inizio con la sua risurrezione [...]. Il Rinnovamento nello Spirito, infatti, ho ricordato nell’esortazione apostolica Catechesi tradendae, “avrà una vera fecondità nella Chiesa, non tanto nella misura in cui susciterà carismi straordinari, quanto piuttosto nella misura in cui porterà il più gran numero possibile di fedeli, sulle strade della vita quotidiana, allo sforzo umile, paziente, perseverante per conoscere meglio il mistero di Cristo e per testimoniarlo” (n. 72)”.

(Giovanni Paolo II, Discorso in lingua inglese ai partecipanti alla IV Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Giardini Vaticani, 7 maggio 1981, in Alleluja, n. 3, maggio/giugno 1981).

La vostra fama vi precede come quella degli amati Filippesi, che suggeri all’apostolo Paolo d’iniziare la lettera ad essi indirizzata con un sentimento a cui sono felice di fare eco: “Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi… e perciò prego che il vostro amore si arricchisca sempre più in conoscenza e in ricchezza di esperienza perchè possiate distinguere il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno del Signore” (Fil 1,3.9-10) [...]. Con gioia particolare abbiamo notato il modo in cui i responsabili del Rinnovamento hanno sviluppato una visione ecclesiale sempre più larga e si sono sforzati affinchè tale visione divenisse sempre più reale per tutti quelli che si affidano a loro per essere guidati. E abbiamo visto parimenti i segni della vostra generosità nel condividere i doni di Dio con gli sfortunati di questo mondo in giustizia e carità, di modo che tutti possano sperimentare la dignità inestimabile che appartiene loro in Cristo. Che questo lavoro d’amore già iniziato in voi possa essere portato a compimento con successo (cfr. 2 Cor 8,6-11) [...]. Molti Vescovi di tutto il mondo, sia individualmente che in dichiarazioni delle loro conferenze episcopali, hanno incoraggiato e dato direttive al Rinnovamento Carismatico – e a volte anche un’utile parola di prudenza – ed hanno aiutato le comunità cristiane in generale a comprendere meglio il loro posto nella Chiesa. Esercitando la loro responsabilità pastorale, i vescovi hanno reso un grande servizio a noi tutti per assicurare al Rinnovamento un modello di crescita e sviluppo pienamente aperto a tutte le ricchezze dell’amore di Dio nella sua Chiesa”.

(Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla V Conferenza Internazionale dei Leader del Rinnovamento Carismatico Cattolico, Roma, 30 aprile 1984, testo in inglese in L’ Osservatore Romano, 2 maggio 1984).

Con tutto il mio cuore, vi do il benvenuto a Roma, nella gioia di Cristo risorto. Il vostro Congresso a Roma, nel centro della Chiesa, giunge nel momento in cui essa sta ringraziando il Padre di N.S. Gesù Cristo per il sacrificio di suo Figlio e per l’effusione dello Spirito Santo che la riempie di vita nuova. Come ho detto nel mio messaggio di Pasqua, la Porta Santa dell’Anno Giubilare della Rendenzione è ora stata chiusa, ma non dobbiamo mai dimenticare che a Pasqua la porta del Sepolcro di Cristo è stata aperta per sempre e per tutti [...]. Per questa ragione io domando a voi tutti e a tutti i membri del Rinnovamento Carismatico di continuare a gridare forte al mondo insieme a me “aprite le porte al Redentore!” [...]. Voi partecipate in concreto a questa missione nella misura in cui i vostri gruppi e comunità sono radicati nelle chiese locali, diocesi e parrocchie”.

Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della II Udienza ai gruppi italiani delRinnovamento nello Spirito Santo, Basilica di S. Pietro, 17 novembre 1986, in Rinnovamento nello Spirito Santo, suppl. al n. 1/1987).

La vostra presenza, carissimi fratelli e sorelle, accanto al successore di Pietro, capo visibile della Chiesa universale, le ripetute attestazioni di comunione sincera e operosa con lui e con i vescovi delle vostre chiese locali, significano che voi avete ben compreso ciò che il Vangelo insegna, ciò che lo Spirito Santo presente nei vostri cuori ispira come principio centrale della legge nuova, come regola fondamentale dell’azione e della preghiera ecclesiale, come segreto sicuro di ogni rinnovamento e di ogni progresso: essere al servizio del regno di Cristo secondo le indicazioni dello Spirito in comunione di fede, di pensiero e di disciplina con i pastori della Chiesa. Su questa strada vi auguro di perseverare e di progredire”.

Tratto da: Leo Jozef Suenens, Ecumenismo e Rinnovamento Carismatico. Orientamenti Teologici e Pastorali, secondo “Documento di Malines”, Ed. Paoline, Roma 1978).

[...] Il Rinnovamento è una grazia per la Chiesa di Dio a più di un titolo, ma lo è assai particolarmente a titolo ecumenico.

Infatti, il Rinnovamento, per la sua origine stessa, già invita al ravvicinamento dei cristiani assai lontani gli uni dagli altri, dando loro come terreno di incontro privilegiato una fede comune nell’attualità e nella potenza dello Spirito Santo. Il Rinnovamento nello Spirito è una nuova accentuazione, un’insistenza sul ruolo e sulla presenza attiva e manifesta dello Spirito Santo in mezzo a noi. Nella Chiesa non si tratta di una novità, ma di una presa di coscienza accresciuta di una Presenza tanto spesso sfumata ed implicita. Tale “risveglio” ci viene, storicamente, dal Pentecostalismo classico, come pure da quello che si è convenuto di chiamare Neo-pentecostalismo. Tale riconoscimento di debiti che poniamo all’inizio di queste pagine non misconosce di quanto siamo debitori alla tradizione orientale, sempre così sensibile al ruolo dello Spirito Santo: durante il Vaticano II i Padri conciliari non hanno cessato di sottolinearlo [...]. Il Rinnovamento nello Spirito, di cui oggi siamo testimoni, si presenta come un avvenimento spirituale sostanzialmente simile nella maggior parte delle Chiese e denominazioni cristiane. Si tratta di un avvenimento spirituale idoneo a ravvicinare i cristiani [...]. A numerosi cristiani che ne fanno l’esperienza, oggi il Rinnovamento Carismatico appare come un esaudimento, tra tanti altri, di questa audace speranza ecumenica del Concilio. È permesso pensare che il Rinnovamento si pone tra gli impulsi futuri dello Spirito che il Concilio confusamente prevedeva. La storia della Chiesa è fatta di queste mozioni e imprese dello Spirito che, periodicamente, vengono a rivitalizzare la Chiesa. Il Rinnovamento si inserisce nel prolungamento della corrente di grazia che fu e rimane il Vaticano II [...].

Il Rinnovamento Carismatico è una grazia di predilezione per la Chiesa del nostro tempo. Esso ci interpella tutti, pastori e fedeli, e ci invita ad intensificare il vigore della nostra fede e a suscitare nuovi modelli di vita cristiana, in condivisione fraterna, ad immagine del Cristianesimo della Chiesa primitiva.

Nella crisi che stiamo attraversando, questa grazia, per molti cristiani, assume un ruolo di supplenza per nutrire la loro vita religiosa, laddove la nostra liturgia manca troppo spesso di anima e di vita, la nostra predicazione di potenza nello Spirito, la nostra passività ha bisogno di coraggio apostolico [...]“.

(Dall’Omelia di S.E.R. il card. C.M. Martini nella celebrazione eucaristicadi apertura per la XI Convocazione Nazionale del RnS [Rimini 22 aprile 1988], in Rinnovamento nello Spirito Santo, luglio/agosto 1988).

[...] Sorge qui la domanda: in che consiste questa maturità spirituale? Che cosa è richiesto dal cammino ormai quindicennale del Rinnovamento nello Spirito?Questo è il segreto di Dio e ve lo dirà il Signore.Ma noi possiamo chiederci ugualmente, partendo dai testi delle Scritture, quale sia il modo di santità a cui sono chiamati, oggi, anche i più semplici e umili tra noi. E io, con le stesse parole delle Scritture e con il coraggio che mi viene soltanto dalla parola di Dio, lo esprimerei sinteticamente così: la maturità spirituale è crescere nella carità con tutti i suoi frutti. Nel linguaggio giovanneo, è crescere nella coscienza di tralcio attaccato alla vite; come tralcio che è parte della vite, che cresce dalla vite, nella vite e con la vite. Guai al tralcio che o si stacca dalla vite o si blocca nella sua crescita (cfr. Gv 15,1-6)!Questo comporta due aspetti:

  • il primo, negativo, è di non bloccarsi nella crescita, di non restare al di qua del guado di Cafarnao;

  • il secondo, positivo, è di crescere con la vigna, nella vigna, dalla vigna, insieme alla vigna intera [...].

1. Crescere anzitutto nella conoscenza e nell’amore della vigna che è lo stesso Gesù morto e risorto, nostra vita e Signore delle nostre vite.

2. Crescere nella conoscenza, amore e stima di quella vigna che Dio stesso ha piantato e per la quale Gesù è morto, cioè la santa Chiesa visibile, unita attorno al Papa, sotto la guida dei vescovi, amando ognuno e ciascuno dei più piccoli fratelli di essa.

3. Crescere nella conoscenza della Parola di Dio, studiata e approfondita secondo i criteri della Dei Verbum (capitoli III e VI), imparando a prendere la Scrittura come un insieme, come la rivelazione di un unico disegno di Dio sulla Chiesa e non come una semplice raccolta di parole staccate.

4. Crescere nell’interiorità della fede e della preghiera, imparando a fare una graduale economia dei segni esteriori e sensibili a favore di una preghiera interiore, di una adorazione umile e silenziosa.

5. Crescere nella forza evangelizzatrice che non viene dal gridare “Signore, Signore” ma, anzitutto, dal fare la volontà del Padre che è nei cieli: “Vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro che è nei cieli” (cfr. Mt 5,16: questa è la prima evangelizzazione!).

6. Crescere nell’attenzione al contesto sociale, culturale e politico in cui la Chiesa opera, favorendo sempre più i gesti di prossimità concreta verso i più bisognosi

.7. Crescere nella delicatezza delle espressioni delle preghiere private e pubbliche, non in commotione Domini. Crescere cioè nella dolce sensibilità del tocco leggero e soave della preghiera e dei gesti, nella delicatezza delle espressioni corporee, nella gioia intima e profonda, pudica e rispettosa, che non si esibisce ma, piuttosto si nasconde ed effonde soltanto una minima parte del suo ricchissimo tesoro interiore. Così sarà più facile far percepire ad altri, dal tenue profumo, la ricchezza del fiore nascosto e coltivarlo con attenzione anche nel proprio cuore.

8. Crescere nel dolore dei propri peccati; piangere per i peccati del mondo; contemplare senza sosta Cristo crocifisso; entrare nelle sue ferite e in quelle dell’umanità ferita e farsene carico come il buon Samaritano.

Se frutto del Rinnovamento nello Spirito sarà, anzitutto, il suscitare nella Chiesa intera, fino agli strati più semplici del popolo di Dio, presso tutti i laici, la gioia della lode, la lode spontanea, gratuita, nata dalla contemplazione del Signore crocifisso e risorto, e dalla misericordia di Dio per l’umanità perduta, tale lode potrà invadere tutte le Chiese e le parrocchie della terra quanto più sarà semplice, composta Ma la gioia della manna, l’alimento che “manifestava la dolcezza di Dio verso i suoi figli” (cfr. Sap 16,21), è dunque da lasciare cadere del tutto in vista di una lode puramente spirituale? Gesù non ha condannato la manna del deserto, anzi ha moltiplicato lui stesso i pani; però ci ha insegnato, nel discorso di Cafarnao, a cercare e gustare, a partire dalla manna e al di là di essa, quel frutto dello Spirito che è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,22).

Gesù ci insegna a capire come il vero pane del Cielo è lui. Sei tu, Signore, il pane del Cielo, sei tu che dai lo Spirito, il Pane e lo Spirito che effonde nei cuori la carità

.A queste cose occorre anzitutto aspirare.Sono esse che hanno una irradiazione gioiosa e contagiosa.

Gli altri carismi sono tappe intermedie, oasi nel deserto, stazioni di passaggio, aiuti per il cammino, manifestazioni per l’utilità; ma non sono un punto di arrivo, non sono la Terra Promessa, non sono lo stesso Cristo Signore, unico premio di coloro che lo cercano [...]“.

IL NUOVO VOLTO DELL’ORDINE – Fra Donatus Forkan

 NUOVO VOLTO DELL’ORDINE  

Lettera sul rinnovamento

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5)

 

 

di fra Donatus Forkan o.h. – Superiore Generale

 

A TUTTO L’ORDINE

Roma, 26 aprile 2009 – Festa della Madonna del Buon Consiglio

Prot. N. PG050/2009

 

Miei cari fratelli e sorelle nell’ospitalità, 

 

                   ogni cambiamento comporta un importante impatto psicologico sulla mente umana. Per la persona timorosa, esso costituisce una minaccia, in quanto pensa che le cose potrebbero peggiorare. Per chi è fiducioso, invece, il cambiamento è una fonte di incoraggiamento, perché è convinto che le cose potranno migliorare. Chi ha delle certezze, poi, trova nel cambiamento una fonte di ispirazione, perché ogni sfida lo spinge a fare le cose ancora meglio.

 

INTRODUZIONE

 

1. IL RINNOVAMENTO

 

1.1. Il concetto di rinnovamento.

Il rinnovamento organizzativo1 è il processo con il quale si dà inizio, si creano e si confrontano i cambiamenti necessari in un’organizzazione, affinché essa possa diventare o restare vitale, adattarsi alle nuove situazioni, risolvere i problemi, apprendere dalle esperienze del passato e crescere da un punto di vista organizzativo.

 

Il rinnovamento, nel nostro caso, ci riporta ad una conoscenza delle origini dell’Ordine, della storia di San Giovanni di Dio e della sua filosofia di vita. Non dobbiamo limitarci a conoscere Giovanni, mostrando suoi ritratti o narrando storie della sua vita, ma – ed è la cosa più importante – dobbiamo cercare di incarnare il suo spirito con entusiasmo, esprimendolo con atteggiamenti ed azioni concrete nei confronti delle persone che serviamo. Lavorare con gli altri ci permetterà di condividere un’unica visione del futuro, aprendoci ad esso con fiducia2, orientando la missione e restituendo speranza a quanti si trovano nella sofferenza.

 

Come per la conversione del cuore, dobbiamo sentirci coinvolti ogni giorno nel processo di rinnovamento, poiché “l’amore del Cristo ci spinge” (2Cor 5,14). Per usare l’analogia di San Paolo, anche noi, come l’atleta, ci dobbiamo sforzare per raggiungere la meta, ma con la consapevolezza che persino se distribuissimo tutte le nostre sostanze e dessimo il nostro corpo per essere bruciato, ma non avessimo la carità, niente ci giova3.

 

Affinché il rinnovamento metta radici, deve toccare tutti gli aspetti della nostra vita. Ogni Provincia deve redigere un piano strategico per il proprio rinnovamento, per quello di ogni suo Centro e di ogni sua Comunità. Il processo deve coinvolgere anche i Collaboratori, oltre ovviamente ai Confratelli, e tutti dobbiamo avere la “formazione del cuore e un cuore che vede”4 per portare ed esercitare l’ospitalità di Giovanni di Dio in un mondo devastato da guerre, violenza, corruzione, emarginazione e sofferenze di ogni tipo.

 

È stato Fra Pierluigi Marchesi, quando era Priore Generale, ad avviare un vero processo di rinnovamento nel nostro Ordine. Usava una sola parola per descrivere ciò che era realmente necessario fare per intraprendere il rinnovamento: umanizzazione. Per P. Marchesi, l’umanizzazione costituiva il legame che potesse unificare ed integrare i diversi elementi che ci avrebbero permesso di mettere in pratica il processo di rinnovamento: “Rivedere la nostra cultura significa soprattutto finalizzare le nostre conoscenze, le nostre abilità, le nostre capacità […] per diagnosticare la nostra salute […] e per assumere la responsabilità della nostra cultura, di una cultura che sia soprattutto umanizzante. Per rinnovarci in profondità, e riuscire ad essere autentici testimoni umanizzazione, è indispensabile che riscopriamo i valori che esistono in noi e nella nostra comunità”5. Rinnovamento significa perciò rigenerare, rivedere, rileggere nella continuità!

 

1.2. Le basi biblico-teologiche

Quanto mi accingo ad affrontare in questo documento ha un suo profondo radicamento biblico-teologico che è possibile rintracciare in alcuni elementi salienti dei quali sintetizziamo le principali tappe cronologiche:

• Metànoia evangelica. Il cambiamento è richiesto innanzitutto dal messaggio evangelico la cui predicazione originaria (antecedente l’annunzio del kerygma pasquale) riguarda proprio le esigenze della “conversione”, termine che mal traduce, nelle lingue moderne, la densità  ell’originale greco metànoia che significa letteralmente “cambiamento di mentalità”. L’ottica che il Vangelo propone, infatti, comporta un radicale mutamento nei modi di pensare e,  conseguentemente, di agire ben espressi dalle Beatitudini. Queste, infatti, pongono la felicità non in questa ma nell’altra vita basandola, peraltro, su elementi che la “logica del mondo” è portata a rifiutare radicalmente, come la povertà, la rinunzia a logiche di vendetta e la sofferenza per l’impegno ad essere giusti.

• Adattamenti della chiesa apostolica. Non è però solo il Vangelo a chiedere un cambiamento di mentalità. La chiesa apostolica, nel momento in cui si trova priva della presenza fisica di Gesù, deve trovare, sotto la guida dello Spirito, le soluzioni più appropriate per far fronte alle esigenze dell’evangelizzazione, non solo sul piano pratico, come ad esempio l’istituzione dei diaconi, ma anche su quello propriamente pastorale, come il confronto col mondo ebraico da una parte e quello ellenistico dall’altro. Tale confronto, peraltro, non è privo di contrasti (basti pensare allo “scontro” sulla circoncisione, al confronto tra Pietro e Paolo, al cosiddetto “Concilio di Gerusalemme”, ecc.). Questo deve costituire per noi un riferimento esemplare, che testimonia come il cambiamento, anche in una comunità di alto tenore spirituale come era certamente quella apostolica, non è esente da ostacoli, resistenze, perplessità o scontri.

 

Tutti, però, sempre superati sotto la guida dello Spirito e nello scopo dell’unica missione caritativa ed evangelizzatrice.

• Ecclesia semper reformanda. Questo antico detto latino pone l’accento non solo e non tanto su quanto è avvenuto ai tempi della Riforma Protestante, ma su una sorta di perenne attitudine che deve avere la Chiesa nei confronti di se stessa. La riforma della Chiesa non significa necessariamente che ci sia qualcosa di “sbagliato” ma indica la necessita di un constante atteggiamento di crescita, di miglioramento interno, di non sentirsi mai perfetta – nelle sue

componenti umane – ma “perfettibile”. Per far questo però si dovrà prendere atto dei profondi mutamenti sociali, dei cambiamenti intervenuti e che continuamente intervengono nel mondo sul piano sociale, economico, familiare, bioetico, ecc., per cui non è possibile trattare questi aspetti così come si faceva cento anni fa. La storia della Chiesa, d’altra parte, è una costante  testimonianza di tali continui adattamenti. Oltre al già citato confronto col mondo del paganesimo greco, pensiamo al Medioevo in cui tutta la teologia è stata “ripensata” ed attuata secondo le categorie della filosofia scolastica, e pensiamo alla cosiddetta “Controriforma” conseguente alla Riforma protestante col fiorire di Ordini religiosi, l’istituzione dei seminari, la celebrazione canonica del matrimonio, ecc. Tutte innovazioni che persistono a tutt’oggi.

 

• Il Concilio Vaticano II. Indubbiamente è stata la maggiore “innovazione ecclesiale” dei tempi moderni. In fondo, se scriviamo queste pagine esortandoci al cambiamento, lo dobbiamo proprio al varco aperto dal Vaticano II. Innanzitutto con una diversa concezione di Chiesa, non più piramidale ma comunionale, intesa come popolo di Dio in cammino nel quale Dio stesso suscita diverse vocazioni e attribuisce diversi ministeri. In secondo luogo con un ritorno alle fonti bibliche ma anche patristiche (il ressourcement a cui si riferiva spesso Paolo VI). E ancora col rinnovamento della liturgia, della teologia morale, ecc. Proprio tale profondo rinnovamento e “aggiornamento” ha posto le basi perché il rinnovamento, nella Chiesa, sia un’attitudine costante che deve trovare, nelle varie condizioni di vita, nelle varie situazioni esistenziali e contingenze storiche le sue diverse espressioni. In modo particolare, per ciò che ci riguarda, il Vaticano II ha posto le basi, successivamente sviluppate, di un profondo rinnovamento della vita consacrata, maggiormente inserita nel contesto ecclesiale e sociale, in cui la dimensione dei voti è vista più come dono di sé che come rinunzia, in cui l’icona cristologica costituisce la dimensione di riferimento esemplare, in cui l’ambito caritativo diventa espressione centrale caratterizzante anche la vita contemplativa.

Questa breve rassegna non può che avere come comune riferimento la proiezione escatologica del Dio che “fa nuove tutte le cose” (cfr. Ap 21, 5). Non limitandosi dunque a “rinnovarle” quasi rivestendole di novità o ponendo semplici adeguamenti strutturali, ma realmente “facendole nuove”, assumendo cioè l’esistente come fonte esso stesso di novità. È proprio questa la prospettiva a cui lo Spirito oggi ci chiama e alla quale, in queste pagine, cercherò di esortare.

 

1.3 Il rinnovamento è opera dello Spirito

Parlando di rinnovamento, dobbiamo dire che non esiste un unico metodo o processo che vada

bene per tutti. Malgrado ciò, credo che non risponderebbe allo spirito del Concilio Vaticano II se una persona o un singolo gruppo affermassero che il rinnovamento non fa per noi o che non ci riguarda. Rifiutarsi di rispondere alla chiamata al rinnovamento o non prenderla sul serio significherebbe agire contro o resistere allo Spirito di Dio, che agisce sempre, e che è colui che guida la Chiesa e il nostro Ordine. Il Signore ci parla attraverso le Scritture, nell’Eucaristia, nei rapporti interpersonali, attraverso la preghiera, la bellezza del creato, le persone che serviamo

quotidianamente, persino nel silenzio. Indipendentemente dal fatto che possiamo realizzarlo o meno, siamo coinvolti nel Suo messaggio di cambiamento di vita, un messaggio di speranza. Dobbiamo tenerlo ben presente nella nostra mente e nel nostro cuore. Come i discepoli, anche noi dobbiamo scoprire che Gesù viene tra noi, portandoci la pace del Padre e la forza dello Spirito Santo. Riempiti dalla forza dello Spirito, ci sentiremo liberi di condividere la buona novella con le persone che incontreremo sul nostro cammino.

Il rinnovamento perciò è il frutto dell’opera dello Spirito, che rinnova costantemente il nostro Ordine. Per noi è estremamente importante essere consapevoli di ciò che sta accadendo, e cooperare pienamente con Dio. Un elemento essenziale nel rinnovamento è la purificazione della nostra motivazione, della nostra conversione, aperti allo Spirito, in un dialogo riflessivo e nella preghiera, ponendoci all’ascolto della brezza leggera dello Spirito che soffia dove vuole6.

Lasciamoci guidare da Dio, lasciamoci ispirare e sorprendere da Lui, così come Egli vuole. Quando ci sentiamo vulnerabili o insicuri, il che è normale quando ci si confronta con un cambiamento, questo atteggiamento ci sarà di conforto, dandoci la gioia e la soddisfazione di essere parte di un qualcosa che è più grande di noi stessi, e che non dipende totalmente da noi.

Ciò ci riempirà di orgoglio e ci farà sentire privilegiati di far parte di qualcosa che non si è ancora manifestato totalmente, qualcosa di bello, che mai avremmo pensato fosse possibile. Questa trasformazione sta già avvenendo in molte parti dell’Ordine, attraverso l’operato di singoli Confratelli e Collaboratori, acquisendo alla fine un senso per quanto riguarda la nostra missione.

Questa visione del rinnovamento potrebbe non farci sentire pienamente soddisfatti di ciò che stiamo facendo, o del modo in cui stiamo vivendo. È ovvio che non tutti potranno e possono procedere allo stesso modo, né è tassativo o necessario che sia così. Ciò che è importante è che i leaders della Provincia/Delegazione/Comunità o Servizio, assieme al proprio gruppo di lavoro, al Consiglio, ai Confratelli e ai Collaboratori direttivi, studino i documenti della Chiesa e dell’Ordine concernenti il rinnovamento, arrivando così a formulare insieme un piano o un programma che ne preveda lo studio, l’applicazione e laddove necessario anche la sperimentazione, applicabile ad una situazione specifica.

Come Religiosi, ci troviamo al cuore della Chiesa e al confine della sua missione evangelizzatrice. Per questo, viviamo ed esercitiamo il nostro ministero in uno spazio che differisce da quello degli altri ministri della Chiesa, come ad es. vescovi e parroci, che portano avanti la loro missione in un luogo sacro: parrocchie, chiese, case per esercizi, ecc. Essi accompagnano e sostengono il popolo di Dio con la parola e i sacramenti. Ovviamente, come membri di un’unica famiglia, la Chiesa, operiamo in armonia per raggiungere lo stesso obiettivo, e cioè per l’edificazione del Regno di Dio.

Il modo in cui dobbiamo farlo è attraverso l’esercizio del ministero ospedaliero. La nostra missione è quella di evangelizzare attraverso l’ospitalità, secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Praticare l’Ospitalità così come ci ha indicato Giovanni di Dio significa evangelizzare. Se saremo fedeli alla nostra missione avremo un impatto sociale, potremo dare una svolta alla vita delle persone, e contribuiremo così anche alla missione evangelizzatrice della chiesa locale.

Per molte persone, siamo l’unica “bibbia” che abbiano mai letto. Per poter testimoniare Cristo, però, dobbiamo essere costantemente in uno stato di conversione e di rinnovamento. Stiamo lavorando assieme ad altri nella Chiesa per l’edificazione del Regno di Dio, ma non possiamo aspettarci che la sua leadership arrivi da noi. È per questo che i Religiosi godono di uno ‘status speciale’ nell’ambito della Chiesa, sentendosi liberi di cercare quanti vivono nelle tenebre, di andare dove mai nessuno ha osato recarsi, di fare ciò che gli altri non possono o non vogliono fare, di amare coloro che si sentono abbandonati, incompresi, emarginati e non voluti, amandoli nella loro interezza nello stesso modo in cui fecero Gesù e San Giovanni di Dio. Questa è la nostra missione. 

DOMANDE PER L’APPROFONDIMENTO DEL TESTO

Capitolo 1 – Il Rinnovamento

Per i Confratelli

  1. Scegliendo uno dei riferimenti biblici citati provare ad analizzarlo alla luce della situazione della comunità locale, lasciandosi interpellare dalla Parola di Dio in relazione al rinnovamento.

  2. Applicare la nozione di “rinnovamento” al carisma dell’Ospitalità ed indicare le espressioni operative che può assumere.

  3. Ricercare e commentare tra le molte preghiere (o inni) allo Spirito Santo quella che maggiormente potrebbe prestarsi ad approfondimenti sul tema del rinnovamento.

Per i Confratelli e i Collaboratori (o per i soli Collaboratori laddove non vi siano Confratelli)

  1. Alla luce della biografia o delle lettere di San Giovanni di Dio analizzare l’incidenza del rinnovamento da lui portato alla società del suo tempo.

  2. Applicare tali criteri a un possibile “piano di rinnovamento” della propria comunità locale.

  3. Quali apporti potrebbe dare la spiritualità laicale al rinnovamento dell’Ordine? 

2. STORIA DEL RINNOVAMENTO NELL’ORDINE

I cambiamenti – peraltro necessari – che sono stati richiesti all’Ordine, per trasformarsi in  un’attiva istituzione apostolica dopo il Concilio Vaticano II, erano di proporzioni enormi. Come sempre quando accadono cambiamenti di massa, nessuno può sapere, prevedere o addirittura ipotizzare, in che modo le cose cambieranno. Questa è una prerogativa della storia. Se guardiamo al passato, possiamo vedere che l’Ordine, da quando ha intrapreso il processo di rinnovamento, ha compiuto un grande passo avanti, un cambiamento in termini di fede e rispetto alla visione che aveva di sé, della sua missione e dei suoi punti centrali. Grazie all’intervento dello Spirito Santo, i cambiamenti, gli adattamenti e i sacrifici realizzati dai membri dell’Ordine per perseguire un autentico rinnovamento sono stati veramente di proporzioni enormi. Il risultato è stato una verifica del processo di rinnovamento, con la consapevolezza che lo Spirito Santo fosse ben presente. Il rinnovamento intrapreso dall’Ordine si è concretizzato in una visione più originale e autentica dell’Ospitalità, della missione dell’Ordine e del suo posto nella Chiesa. Ciò a sua volta ha prodotto una forte espansione e un inarrestabile sviluppo dei servizi destinati a vari tipi di bisogni, favorendo così un afflusso sempre maggioredi persone ai nostri centri e servizi. Sono più che certo che anche San Giovanni di Dio ne sarebbe orgoglioso.

2.1. Le premesse storiche di un rinnovamento perenne

2.1.1. “Il cuore comanda”7

Facendoci ‘comandare’ soltanto dal cuore, abbiamo portato l’Ordine a scoprire nuovi orizzonti, nuove frontiere, nuove sfide e nuove opportunità. L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio continua ad essere uno strumento affidabile nelle mani di Dio, per portare il Suo Regno sulla terra, non perché chi ci ha preceduti avesse dato prova di grande valore intellettuale, lasciandoci intere raccolte di saggi e trattati, anche se abbiamo opere preziose che racchiudono la memoria collettiva del passato, ma soprattutto perché c’è stato chi ha saputo interpretare la storia alla luce dei tempi in cui viveva. L’Ordine di San Giovanni di Dio è così come è oggi perché i suoi membri hanno permesso al cuore di ‘comandare’. È un cuore che ascolta la voce dei poveri, che vede dove c’è bisogno d’amore e agisce in modo conseguente8.

L’Ospitalità esercitata secondo lo stile di San Giovanni di Dio è come un filo d’oro che tesse attraverso i secoli il tessuto dell’Ordine, mantenendolo compatto e intatto. L’ospitalità è come un vestito con tante sfumature, i cui colori rappresentano i diversi modi in cui è stata espressa lungo i secoli, secondo le esigenze del momento, del luogo e dei bisogni della società. Il filo d’oro del carisma dell’ospitalità di San Giovanni di Dio ha formato la trama di questo stupendo tessuto.

La fedeltà all’ispirazione originaria, costituita da San Giovanni di Dio e dalla sua eredità di Ospitalità che ci ha lasciato, è l’elemento fondante che ha permesso all’Ordine di continuare a crescere. Ho usato deliberatamente questa espressione perché un’organizzazione o un organismo che non cresce è destinato gradualmente a morire. La vita di un’organizzazione viene misurata attraverso la sua capacità di crescita, di espandersi e, da ultimo, per la sua capacità  di ricostituirsi, di produrre risultati.

2.1.2. Ogni forma di vita è destinata a crescere oppure a morire

Questa espressione potrebbe sembrare un modo forse troppo crudo per descrivere l’operato di un’istituzione religiosa, e cioè il produrre o meno dei risultati. Sappiamo infatti che, nel nostro caso, i risultati sono spirituali, e pertanto non possono essere misurati. I mezzi che usiamo sono la cura e l’assistenza corporale e spirituale all’umanità sofferente9. Rimanendo fedeli a questa missione sacra, l’Ordine continua ad essere uno strumento essenziale di evangelizzazione nel mondo della salute. Se il contadino non coltiva la propria terra, piantando la semenza e dando nutrimento alle piantine di grano, non ci sarà alcun raccolto. Allo stesso modo, per potere avere un risultato spirituale, l’evangelizzazione, deve esserci un impatto sociale.

L’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio oggi assiste e cura molte più persone di quanto non abbia mai fatto nella sua storia. Annualmente, l’esistenza di circa venti milioni di persone viene a contatto con un seguace di San Giovanni di Dio, e ciò avviene attraverso un’espressione dell’Ospitalità così vasta che non era certo immaginabile prima del Concilio Vaticano

II. L’Ordine inoltre porta avanti la sua missione in un modo e con un tale livello di eccellenza che solo 40 anni fa non erano certamente realizzabili. Bisogna notare che, prima dell’aggiornamento cui ci ha esortati il Concilio, il Voto di Ospitalità aveva effetto quando “i professi adempivano diligentemente gli offici assegnati […] per la cura o l’assistenza degli infermi di sesso maschile, nelle case proprie dell’Ordine o ad esso affidate”10.

La nuova definizione del Voto di Obbedienza, come riportano le Costituzioni del 1984, così recita: “Con il voto di ospitalità ci dedichiamo, sotto l’obbedienza dei superiori, all’assistenza degli ammalati e dei bisognosi, impegnandoci a prestare loro tutti i servizi necessari, anche i più umili e con pericolo della propria vita, a imitazione di Cristo, che ci amò fino a morire per la nostra salvezza.

La maggiore nostra felicità consiste nel vivere a contatto con i destinatari della nostra missione: li accogliamo e li serviamo con l’amabilità, la comprensione e lo spirito di fede, che essi meritano e come persone e come figli di Dio; e mettiamo a loro disposizione tutte le nostre energie e tutte le nostre capacità, nei vari uffici che ci vengono affidati”11.

2.1.3. Una visione originale e autentica dell’Ospitalità

Sebbene sia stato un processo difficile, e talvolta persino travolgente, il coraggio e la dedizione nei confronti del rinnovamento, secondo lo spirito del Vaticano II, hanno portato ad un nuovo volto dell’Ordine, che ha iniziato a presentarsi come un’Istituzione formata da uomini consacrati nell’ospitalità, che hanno deciso di vivere in modo radicale la sequela di Cristo come Religiosi Fratelli, oltre a uomini e donne che, affascinati dalla ‘storia di San Giovanni di Dio’, si sono impegnati a continuare la sua missione, secondo la filosofia, le peculiarità e i valori dell’Ordine.

Questo nuovo volto dell’Ordine è stato il risultato di un profondo impegno nel processo di rinnovamento. La strada che porta al rinnovamento è dura, talvolta difficile, spesso emozionante e piacevole, ma pone delle sfide, che ci saranno sempre, perlomeno fintanto che l’Ordine esisterà. Qualora in un momento qualsiasi l’Ordine, nella sua totalità o nelle parti che lo costituiscono (Province, comunità), smetterà di impegnarsi nel processo di rinnovamento, smetterà cioè di ricrearsi, di rifondarsi o di rifocalizzare la propria missione, allora morirà. Non c’è alcuna garanzia, però, che pur impegnandosi appieno nel processo di rinnovamento, l’Ordine continuerà ad esistere anche nel futuro.Tuttavia, lo scopo (o la motivazione) che ci deve spingere al rinnovamento, non è solo la longevità o la continuazione dell’Ordine nel futuro, perché il futuro è nelle mani di Dio. La nostra responsabilità è quella di cercare di fare sempre ciò che Egli desidera da noi. Attraverso una profonda riflessione, la preghiera comunitaria e personale di ciascuno di noi, dobbiamo sempre sforzarci di essere in sintonia con ciò che il Signore vuole da noi: “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” 12.

2.2. Come eravamo…

2.2.1. I Confratelli prima del Concilio Vaticano II.

Comprendo bene che alcune persone che leggeranno questo documento o che guarderanno il DVD che lo accompagna, potrebbero non conoscere bene la nostra storia. Per aiutarci a comprendere meglio le nostre origini, desidero riflettere brevemente sul modo in cui vivevamo e svolgevamo il nostro ministero come Ordine Religioso nel periodo antecedente il Concilio Vaticano II, che non era poi troppo dissimile da quello degli altri istituti religiosi dell’epoca.

Ciò potrebbe aiutare tanti “nuovi ospedalieri” (Confratelli e Collaboratori) ad apprezzare di più la nostra storia ed essere orgogliosi della missione che da secoli ci colloca al fianco dell’umanità sofferente. È interessante notare che, malgrado le molte sfide, persecuzioni e vicissitudini che i membri del nostro Ordine hanno dovuto affrontare nell’arco della storia, come istituto religioso l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio è sempre rimasto fedele alla sua missione, schierandosi dalla parte degli emarginati, delle persone rifiutate dalla società o trattate ingiustamente a causa della loro malattia o disabilità, dei poveri, dei malati e dei sofferenti.

È sottinteso che per poter avere “un quadro completo” della nostra Istituzione, in poche parole chi siamo, e per comprendere al meglio la nostra missione, è necessario studiare la vita di San Giovanni di Dio, il nostro Fondatore e la nostra fonte di ispirazione. Abbiamo molto materiale al riguardo, ma il testo più importante è senz’altro la prima Biografia di San Giovanni di Dio, scritta da Francisco de Castro, Rettore dell’Ospedale di Granada, nel 1585. Fondamentalmente, l’Ordine sta uscendo da una lunga tradizione che potremmo definire “monastica”, che contraddistingueva i nostri ospedali e il nostro stile di vita. Nel passato ci consideravamo un po’ come dei monaci, con un ministero ospedaliero e una forte struttura monastica che si rifletteva nella preghiera, nel silenzio, nella clausura e nella routine quotidiana.

Esercitavamo il nostro ministero occupandoci della cura o dell’assistenza degli infermi di sesso maschile, nelle case proprie dell’Ordine o ad esso affidate13. Questo stile di vita ‘monastico’ non era stata una scelta dei primi Fratelli di San Giovanni di Dio, ma era stato piuttosto imposto loro dalla Chiesa. Uno degli aspetti positivi di questa situazione, è stato il fatto che il luogo in cui i Confratelli vivevano e lavoravano fosse definito come ‘monastero-ospedale’. Ciò significa che i Confratelli vivevano vicini ai pazienti, in una struttura nei pressi dell’ospedale o addirittura al suo interno. Dato che le comunità erano relativamente grandi in quanto al numero dei Confratelli, essi erano in grado di gestire tutti i reparti dell’ospedale, con l’aiuto di pochi Collaboratori laici. Malgrado questo “ambiente monastico”, Urbano VIII concesse all’Ordine i privilegi degli Ordini Mendicanti (1624), il che comportava, tra le altre cose, che essi potevano uscire dalla loro dimora e recarsi per le strade a chiedere l’elemosina per l’ospedale, così come aveva fatto Giovanni di Dio a Granada.

Tuttavia, se ci soffermiamo a riflettere su chi eravamo, sulla nostra missione o sulla nostra spiritualità prima delle riforme avviate dal Concilio, vediamo che forse Giovanni di Dio non occupava il posto che meritava.Anche se pronunciavamo il Voto di Ospitalità, erano i tre ‘Voti di Religione’ (povertà, obbedienza e castità), che ci collocavano in uno stato di perfezione, distinto da quello dei laici. Sembra che sia stata data più enfasi a ciò che ci ha differenziati dagli altri nella Chiesa, piuttosto che a ciò che avevamo in comune con il popolo di Dio.

Il Concilio ha incoraggiato i religiosi ad avvalersi delle scritture e a ritornare alle proprie radici, al proprio fondatore (o alla fondatrice), come strumenti per il rinnovamento. Ci hanno aiutati in questo processo i tanti documenti attinenti la vita religiosa che sono stati promulgati dal Concilio, da parte dei Papi che sono venuti dopo, e dalla Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che hanno pubblicato molti documenti riguar do la vita religiosa14.

La leadership del nostro Ordine ha preso molto sul serio le direttive sul rinnovamento che erano state avviate dal Concilio. Sono state intraprese diverse iniziative, a livello internazionale ma anche provinciale. L’Ordine ha pubblicato svariati documenti al riguardo15, si sono celebrati capitoli speciali e congressi, ci sono stati corsi di rinnovamento per i Confratelli, diretti da persone esperte, e periodi di ‘sperimentazione’ nello svolgimento del ministero, oltre che della vita comunitaria e della preghiera. È stato un momento cruciale per l’Ordine.

Abbiamo iniziato a chiederci:

  • siamo ancora paragonabili a dei monaci?

  • Siamo religiosi apostolici?

  • Siamo laici o apparteniamo al clero?

  • Quale è la nostra missione nella Chiesa?

  • Chi sono i destinatari della nostra missione?

Per qualcuno, in particolare per coloro che rivestivano posizioni di leadership, non è stato certo un periodo facile. Sono state molte le domande, i periodi di serenità o di crisi, i dissensi su come muoverci, che sono arrivati addirittura a determinare l’abbandono del ministero da parte di religiosi e sacerdoti. È stato un periodo di cambiamenti, di sfide e di opportunità per esercitare il ministero, mentre per altri si è trattato di un’esperienza dolorosa, che li ha lasciati con un profondo senso di perdita. Tutto ciò è accaduto in un lasso di tempo durato 40 anni che, rispetto ai 460 anni di storia dell’Ordine, può essere considerato un breve periodo. Malgrado  utto, è stato un periodo stimolante, che ci ha offerto nuove libertà di pensiero e di espressione; un maggiore discernimento teologico e rispetto per l’individualità del religioso e per la diversità nello svolgimento del ministero. Molte persone credono che sia soltanto l’inizio, perché non sappiamo dove ci porterà questo processo; ciò che sappiamo è che tutto è nelle mani di Dio, e che Lui agirà per il meglio.

Prima del Concilio, gli spostamenti erano difficoltosi e costosi, ragion per cui i contatti tra le Province erano piuttosto limitati, eccetto quando si celebrava un Capitolo Generale, e ciò ovviamente contribuiva all’isolamento dei religiosi, anche se appartenevano allo stesso Istituto. Di conseguenza, erano rare le occasioni in cui i Confratelli potevano incontrarsi, ad eccezione di quelli che partecipavano ai Capitoli Generali, in quanto era questa l’unica opportunità di cui disponevano all’epoca i religiosi per potersi riunire a livello internazionale.

In uno scenario come questo, le Province acquisirono una certa indipendenza, e nel nostro Ordine in particolare. Una volta un Priore Generale disse che si sentiva come il Superiore di una federazione formata da 20 Ordini diversi, piuttosto che da 20 Province. Queste ultime non erano soltanto indipendenti l’una dall’altra, ma contattavano la Curia Generalizia solamente per definire le questioni attinenti il diritto canonico e le nostre Costituzioni, e sempre per lettera.

Per ricevere una risposta era necessario molto tempo, mentre solo per le questioni urgenti si faceva ricorso all’invio di un telegramma. È importante ricordare che quanto accadeva nella vita religiosa rifletteva, così come accade ancora oggi, ciò che succedeva nella società civile, che allora si muoveva più lentamente: i cambiamenti e gli sviluppi erano limitati ed andavano a rilento, le comunicazioni erano difficoltose e non immediate come oggi, i viaggi erano lunghi e dispendiosi, sia economicamente che in termini di tempo, ed erano limitate anche le influenze degli altri Paesi sulla vita nazionale.

Oggi viviamo in un contesto nettamente diverso, caratterizzato da un’evoluzione rapida e costante; nel nostro ‘villaggio globale’ le comunicazioni sono immediate, grazie agli spostamenti più facili e più economici rispetto al passato, il che favorisce le influenze transnazionali e il progresso. Solo in campo medico, ad esempio, ci sono stati sviluppi che fino a qualche tempo fa erano addirittura inimmaginabili. Per poter avere un impatto sociale in questo nostro mondo, l’Ordine deve riconoscere di dover affrontare il cambiamento, aggiornandosi e dandosi unvolto ‘più nuovo’.

L’impulso al cambiamento è scaturito dalla riflessione sulla vita e sul ministero di San Giovanni di Dio. Ciò che abbiamo scoperto quando abbiamo guardato con occhi nuovi alla sua vita è stata una vera rivelazione. La statura morale del Fondatore, con riferimento alla sua spiritualità e alla missione, è straordinaria. Nell’ambito del processo di rinnovamento, questa scoperta ha costituito un momento incoraggiante, determinante, ma che ci ha altresì posto delle sfide, e che ha influenzato l’Ordine come mai era accaduto prima, sin da quando l’istituto religioso avviato dai primi seguaci di Giovanni di Dio venne riconosciuto come Congregazione dal Papa Pio V, nel 1572.

San Giovanni di Dio influenzò enormemente ogni decisione che venne presa dopo il Concilio. I Confratelli hanno iniziato a chiedersi cosa avrebbe pensato e come avrebbe agito il Fondatore in una determinata situazione. Questa scoperta influenzò la nostra vita in un modo che non avremmo mai pensato fosse possibile, ispirando il nostro modo di agire, di intendere la missione e l’ospitalità, che è il punto centrale della nostra esistenza, oltre a farci comprendere in quanti modi questa ospitalità poteva essere espressa. È stata veramente un’esperienza entusiasmante e sostanziale. L’Ordine raggiunse così una profonda consapevolezza del proprio ruolo e della propria missione, paragonabile ad un’esperienza di rifondazione.

La riscoperta del Fondatore attraverso il processo di rinnovamento fece sì che iniziassimo a vederci come Religiosi Fratelli, rivoluzionando anche il modo di considerare la missione e i nostri rapporti con gli altri: rappresentanti del clero, religiosi, laici, cristiani e non cristiani. Iniziammo a giudicare e a vedere le cose attraverso il prisma dell’ospitalità, con nuove possibilità per viverla e per esprimerla. Tutto ciò è stato emozionante e stimolante.

2.2.2. I Confratelli all’epoca del Concilio Vaticano II

È con un profondo senso di gratitudine che vorrei sottolineare la grande eredità, costituita dall’esercizio dell’ospitalità, che ci hanno lasciato i nostri Confratelli che ci hanno preceduti su questa terra, sin dai primi compagni di Giovanni di Dio. Questi uomini sono stati dei modelli, ed hanno mostrato al mondo il lato più bello e più nobile della vocazione del Fatebenefratello.

La loro dedizione nel servizio al malato, praticata costantemente, giorno e notte, mettendo persino a rischio la propria vita, l’austerità che ha caratterizzato la loro esistenza e la devozione nella preghiera, costituiscono un punto di riferimento per le attuali generazioni, come testimonianza dei valori fondamentali dell’Ordine che sono al centro della vocazione del Fatebenefratello. Il patrimonio dell’Ordine, relativamente al suo orientamento verso la cura e l’assistenza dei membri più trascurati e più bisognosi della nostra società, tendendo sempre all’eccellenza nel servizio, deriva dalla convinzione che ogni essere umano è stato creato da Dio a Sua immagine e somiglianza e che niente (povertà, deformità, disabilità o malattia) può in qualche modo distruggere o diminuire questa bellezza intrinseca dell’uomo. È una ricca eredità che abbiamo ricevuto dalle passate generazioni di Confratelli, che ci lega orgogliosamente al nostro passato e al nostro Fondatore.

Grazie a Dio, abbiamo ancora tra noi tanti Confratelli che hanno avviato il processo di rinnovamento dopo il Concilio, e che sono ancora attivi ed efficienti; altri sono avanti negli anni ma danno ancora il proprio contributo alla missione dell’Ordine, seppure in modi diversi. Altri Confratelli ci hanno lasciati per fare ritorno alla casa del Padre, mentre ce ne sono parecchi altri che esercitano il loro ministero attraverso le preghiere e la sofferenza, a causa dei malanni e dei disturbi propri dell’età ormai avanzata.Tutti questi Confratelli, ovviamente a seconda delle circostanze, sono ancora impegnati nel processo di rinnovamento. Personalmente, non ho mai conosciuto un Confratello che, avendo vissuto il periodo preconciliare, e sentendosi attualmente impegnato nel processo di rinnovamento, desideri tornare indietro a quel  periodo.

Nello spirito del Concilio Vaticano II, il rinnovamento non deve solamente preservare il legame con il passato, ma rafforzarlo, attingendo e conservando ciò che è essenziale, escludendo quanto non è più applicabile ai giorni nostri e pianificando il futuro. Dobbiamo pertanto fermarci a riflettere, scegliendo ciò che è essenziale per preservare l’identità di Giovanni di Dio, che caratterizza tutto ciò che facciamo.

2.3. …e come siamo

2.3.1. Gli effetti del rinnovamento

Quando il rinnovamento venne avviato, gli effetti iniziarono ad essere evidenti: c’erano vita ed entusiasmo. La cosa più importante, però, era che questi effetti ebbero delle ripercussioni immediate sull’assistenza e sulla cura che venivano fornite ai pazienti, che in definitiva sono i destinatari della nostra missione. La ragione del rinnovamento, pertanto, non è che quanto è stato fatto nel passato fosse sbagliato, ma piuttosto che l’Ordine continui ad essere fedele alla propria missione, adattandosi ad una società che è in continuo cambiamento. Anche l’Ordine si trova costantemente interessato dal cambiamento. Come ebbe a dire il Cardinale Newman, ‘vivere significa cambiare, e vivere a lungo significa dover cambiare spesso’.

Anche il nostro Ordine ha una lunga vita, pertanto nel corso degli anni ha dovuto affrontare notevoli cambiamenti. Ciò che invece è rimasto sempre uguale nel tempo è stata la sua fedeltà alla missione di ospitalità. I Confratelli ed i Collaboratori non devono vedere nel rinnovamento una sorta di ‘terapia’ , ma uno strumento per garantire la sopravvivenza della missione, rimanendo fedeli e rispecchiando l’ispirazione originale di San Giovanni di Dio.

Tuttavia, impegnarsi totalmente nel progetto ospedaliero porta gradatamente a rendersi conto di essere coinvolti in qualcosa di pregevole e di utile per la comunità, che va oltre la singola persona o il singolo gruppo, come ho già detto. Anche se l’ospitalità esercitata secondo lo stile di San Giovanni di Dio è un carisma, un dono di Dio, non è qualcosa di statico o di immutabile.

La parola stessa, ‘carisma’, ha un significato spirituale: è una grazia, un potere, generalmente di natura spirituale, un dono fatto liberamente da Dio.Viene usato altresì nel contesto sociale-psicologico e in circostanze secolari, per indicare che chi possiede questa qualità riesce ad influenzare gli altri, singole persone o gruppi. Gli istituti religiosi ricorrono a questo termine per descrivere il proprio orientamento spirituale e le caratteristiche peculiari della propria missione o dei propri valori, che si manifestano attraverso i voti emessi dai membri, e dall’orientamento dell’istituto cui essi appartengono. Un esempio concreto del nostro carisma è il modo in cui l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio mette in evidenza il servizio che offriamo ai poveri, ai malati e alle persone svantaggiate: è l’Ospitalità esercitata secondo lo stile di San Giovanni di Dio, che in definitiva è il valore che sostiene la missione del nostro Ordine.

Affinché possa essere tangibile ed efficace, il carisma deve radicarsi e crescere nella vita della persona che ha ricevuto questo dono. Come ebbe a dire il Santo Padre Giovanni Paolo II, “Giovanni non solo praticò l’ospitalità, ma si fece, per così dire, egli stesso ospitalità”16. Ciò accade quando la persona fornisce un servizio agli altri, in special modo a quanti si trovano nel bisogno, che ci interpellano ed esigono una risposta da ciascuno di noi. Pensiamo all’immagine della melagrana, che quando è matura si apre, offrendo nutrimento, e perciò vita, forza ed energia. Essendo un dono dinamico, e non inerte, l’ospitalità richiede un investimento personale da parte dell’individuo e quando ciò accade l’ospitalità stessa ne è arricchita, e la ricompensa per la persona è appagante, da un punto di vista umano ma anche professionale.  

Questi effetti rigeneranti del processo di rinnovamento hanno diffuso nuova energia e nuovo entusiasmo per Giovanni di Dio ed il suo operato. C’erano nuovi spazi, nuovi porticati e nuove esigenze che avevano bisogno di una risposta, e tutti hanno permesso al fiore dell’ospitalità di crescere, di sbocciare e di diffondere il suo profumo nel mondo della sofferenza, portando salute, speranza e gioia a milioni di persone. L’Ospitalità secondo lo stile di Giovanni è il dono che Dio vuole fare al mondo e alla società. Essendosi liberata dalle costrizioni delle vecchie strutture, ormai superate, che ne ostacolavano la crescita e lo sviluppo, ha potuto fiorire per il bene di milioni di persone.

2.3.2. Il rinnovamento ha portato a qualcosa di nuovo

È vero che lungo il processo di rinnovamento ci sono stati alti e bassi, successi e sconfitte, gioie e delusioni. Comprensibilmente, talvolta è stato un processo oltremodo doloroso, a causa di alcuni sacrifici che è stato necessario affrontare, come abbandonare il passato e ciò che ci era familiare. Ciò ha portato alcuni Confratelli ad avvertire una sensazione di perdita, di confusione, talvolta come se si stesse andando ‘alla deriva’. Ci si sentiva meno sicuri e più vulnerabili, senza il controllo delle cose, e si avvertiva l’eventualità di un fallimento. Ci sono volute umiltà, piena fiducia in Dio e nei fratelli, per perseverare nel processo di rinnovamento.

Alla fine, però, qualcosa di nuovo ha iniziato a materializzarsi, un qualcosa che ci appare molto bello e significativo. Come la nuova vita che sempre rinasce a primavera dopo il lungo periodo invernale, l’Ordine ha iniziato ad aprirsi e a sbocciare. Sono abbastanza sicuro che non ha raggiunto la piena fioritura, e che dobbiamo ancora vederne la meraviglia, che fa elevare il nostro cuore a Dio in segno di ringraziamento.

2.3.3. La ‘Nuova Ospitalità’

L’espressione ‘Nuova Ospitalità’ deriva dal tema che era stato scelto per il Capitolo Generale del 1994: “La nuova evangelizzazione e l’ospitalità alle soglie del terzo millennio”. Ciò che è nuovo riguardo l’ospitalità è la grande varietà di modi e di forme in cui essa può essere vissuta ed espressa nel mondo, laddove in pratica l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio è presente. Considerare la missione dell’Ordine non soltanto come un oggetto di abbellimento della Chiesa, ma consentirle di continuare il ministero sanante di Cristo, è stato emozionante ed estremamente stimolante. Nuove espressioni di ospitalità iniziavano a moltiplicarsi, così come si ampliava il numero dei nostri Collaboratori mentre, allo stesso tempo, aumentava l’età dei Confratelli, soprattutto nel mondo cosiddetto industrializzato, e iniziavano a scarseggiare i giovani che decidevano di scegliere il nostro stile di vita. Viceversa, nei Paesi in via di sviluppo il numero dei Confratelli andava aumentando, così come venivano creati nuovi centri e servizi, o si ampliavano quelli già esistenti. La situazione contingente, causata da questi elementi, ha portato alla scoperta che i Collaboratori possono rivestire un ruolo chiave nell’aiutare l’Ordine a portare avanti la propria missione.

Forse qualcuno potrebbe obiettare che ciò è avvenuto solo perché l’Ordine, a causa della scarsità di Confratelli, si è visto costretto ad affidare ai laici un ruolo più attivo nell’amministrazione e nella conduzione dei propri centri e servizi. Dio però agisce in modi diversi, anche se dobbiamo ammettere che forse, se il numero dei Confratelli fosse stato sufficiente, non avremmo visto i nostri Collaboratori sotto la stessa luce. Non dobbiamo dimenticare però che quelle Province che nella collaborazione con i laici hanno visto un’opportunità per essere aiutate, consigliate e per programmare un nuovo modo per portare avanti la missione, così come in campo amministrativo e gestionale, quelle Province – dicevo – hanno tratto da questa  collaborazione benefici enormi.

Considero l’evoluzione che sta avvenendo nella Chiesa non come una scomparsa dei religiosi, ma piuttosto come l’emergere del laicato. Come ho già detto, i Religiosi saranno sempre al cuore della Chiesa e in prima linea nella sua missione evangelizzatrice. Di certo però la loro presenza sarà ben diversa dal passato, ma il loro ruolo sarà imprescindibile in quanto fanno parte della vita e della santità della Chiesa stessa.

Come risultato dell’impegno nel processo di rinnovamento, due cose sono accadute contemporaneamente: la prima è che, attraverso il processo formativo associato a quello di rinnovamento, i Collaboratori hanno dimostrato una reale volontà di mettersi al servizio dell’ospitalità, immedesimandosi sempre di più nel loro ruolo. La seconda, e forse la vera forza del cambiamento, sta nel fatto che i Confratelli si sono resi conto che l’Ordine non ha l’‘esclusiva’ su Giovanni di Dio, che appartiene alla società e alla Chiesa17, né che l’ospitalità riguarda solamente loro, ma che anche i laici possono condividere l’ospitalità di Giovanni di Dio e mettere a disposizione i propri talenti e la propria competenza professionale per arricchire questo grande dono che abbiamo ricevuto dal Signore.

Entrambi, Confratelli e Collaboratori, avendo ricevuto il dono dell’ospitalità, sono fratelli e sorelle nell’ospitalità, uniti nella stessa missione18. Come fratelli e sorelle, pertanto, siamo membri della stessa famiglia, la Famiglia di San Giovanni di Dio. Ciò è la diretta conseguenza del modo in cui Giovanni si rapportava con le persone che serviva, con quanti lavoravano assieme a lui, con le persone che incontrava per la strada, quando si aggirava con la sua sporta chiedendo l’elemosina per sostentare i suoi malati o per assistere i poveri. È un rapporto – o legame – che si basa sulla fiducia e sul rispetto reciproci, sull’amicizia e su una visione condivisa. Questa evoluzione nel rapporto tra Confratelli e Collaboratori non è soltanto confortante e segno di arricchimento e di maturità, ma devo dire che ci pone anche delle sfide… è comunque la strada da percorrere nel futuro.

Questa visione del futuro dell’Ordine non esige solamente che i Collaboratori assumano maggiori responsabilità in campo amministrativo e manageriale, ma è necessario che ricevano un’adeguata formazione che consenta loro di esercitare il proprio ruolo secondo lo spirito e lo stile di San Giovanni di Dio, e nel pieno rispetto della filosofia e dei valori della sua Famiglia Ospedaliera. In questo processo, la Scuola dell’Ospitalità avrà un compito veramente importante.

2.3.4. La purificazione della memoria

Nel presentare quanto di bello è stato fatto storicamente nel servizio alla persona malata, povera o emarginata, non possiamo trascurare anche le inevitabili mancanze e le fragilità del nostro operato. La Chiesa stessa, sul magistrale esempio di Giovanni Paolo II e della grande richiesta di perdono solennemente pronunziata nel Giubileo del 2000, ci invita a farlo.

Ovviamente non è questa la sede per evidenziare mancanze o insufficienze né per analizzare, in una revisione critica della nostra storia, quali siano stati i possibili elementi di debolezza. Tuttavia, dobbiamo imparare dalla storia per il presente e per il futuro. In tal senso, l’ammissione delle nostre mancanze assume un significato di purificazione e, quindi, anch’esso, di rinnovamento. Noi non siamo i “perfetti” che si rivolgono ai peccatori, ma fratelli che insieme vogliono operare per l’edificazione del Regno, in un percorso che è costellato anche di cadute.

Ma proprio ogni caduta è pure un’implicita richiesta di aiuto, di una mano fraterna che eviti di farci cadere o che ci aiuti a rialzarci. Se questa caduta, poi, è stata lesiva del bene altrui allora esige, da parte nostra, l’umile e sincera richiesta di perdono e, da parte di chi è stato offeso, la sua generosa elargizione. Se da un lato, infatti, siamo invitati a “confessare i peccati gli uni agli altri”19, dall’altro siamo invitati a perdonarli “non sette volte ma fino a settanta volte sette”20. Chiediamoci allora perdono per le nostre colpe, anzitutto tra noi Confratelli, ma anche tra Confratelli e Collaboratori, e in particolare, chiediamo perdono a coloro che, per un motivo o per l’altro, sono stati ospiti in una delle nostre strutture in un determinato momento della loro vita. Siamo convinti che non c’è rinnovamento se la confessione delle proprie fragilità non porta al loro superamento.

Tra queste colpe dobbiamo certamente includere:

  • - le mancanze agli impegni assunti nell’ambito della vita consacrata;

  • - non aver fornito un’assistenza d’eccellenza a quanti abbiamo ospitato nei nostri centri o hanno usufruito dei nostri servizi;

  • - le offese alla dignità delle persone;

  • - le chiusure egoistiche ai bisogni delle persone assistite, e che per questo non si sono  sentite come veri figli di Dio, come nostri fratelli e sorelle;

  • - la scarsa pratica della vita fraterna;

  • - l’incomprensione e la mancanza di ascolto nei confronti degli altri;

  • - l’inadeguata valorizzazione dei nostri Collaboratori;

  • - il prevalere delle logiche di potere su quelle di servizio;

  • - l’attaccamento personale ai beni della comunità, ecc.

2.3.5. Verso una nuova collaborazione

Attualmente, Confratelli e Collaboratori lavorano insieme per portare avanti la missione di Giovanni di Dio. L’Ordine non affida posti di responsabilità nell’ambito della missione solamente ai Confratelli, ma concepisce il proprio operato assieme ai Collaboratori. Malgrado questo rapporto fosse molto importante per il buon esito della missione, alcune istituzioni religiose nell’ambito della Chiesa se ne sono rese conto con un certo ritardo, oppure hanno allontanato dalle proprie strutture (o da quelle che a loro erano state affidate) quanti appartenevano ad un’altra religione. Per il nostro Ordine, il processo di rinnovamento, che ha portato a cooperare insieme ai Collaboratori, ha comportato sì un rischio, ma ne è valsa la pena. Relativamente alla missione dell’Ordine, l’esperienza si è dimostrata positiva, che valeva gli sforzi e gli investimenti economici realizzati, anche se ovviamente le difficoltà non sono mancate.

Il Capitolo Generale del 2006 ha ribadito in modo chiaro che, affinché l’operato di San Giovanni di Dio continui nel futuro attraverso un’organizzazione in crescita, estesa, internazionale e multiculturale, la trasmissione dei valori ai Collaboratori è essenziale. Ispirati dagli insegnamenti del Concilio Vaticano II, e dalle successive intuizioni teologiche, in particolar modo dalla storia del nostro Fondatore, San Giovanni di Dio, come ho già detto l’Ordine ha iniziato a considerarsi una ‘Famiglia Ospedaliera’.

La richiesta del riconoscimento ufficiale della Chiesa da parte del primo gruppo di seguaci di Giovanni di Dio, ebbe tra le motivazioni anche quella di preservare l’eredità tramandata da Giovanni di Dio. Dopo la morte del ‘fondatore carismatico’, infatti, il pericolo della disintegrazione fu molto forte, come spesso accade per certi movimenti o idee e modi di fare le cose che sono innovativi. Dietro consiglio di alcune persone a loro vicine, i seguaci di Giovanni di Dio, proprio per preservare la sua eredità spirituale, vennero a Roma per chiedere al Sommo Pontefice il riconoscimento ufficiale del nascente Istituto21. Sappiamo però che, malgrado avessero ricevuto lo status di istituto religioso, ciò non impedì ad ingerenze esterne, da parte di gruppi e persone, di interferire negli affari interni dell’istituto. Infine, la Santa Sede concesse l’esenzione dell’Ordine dalla giurisdizione degli Ordinari dei luoghi, il che significava che i Fratelli e la loro missione non erano più soggetti al vescovo locale. Tutto per preservare l’eredità di Giovanni di Dio.

2.3.6. Una struttura per conservare l’eredità di Giovanni di Dio.

Quando Giovanni di Dio morì, l’8 marzo del 1550, c’era già un gruppo di ‘fratelli’: Antón Martín (al quale Giovanni affidò i suoi poveri e gli ammalati), Pietro Velasco, Simone d’Avila, Domenico Piola e Giovanni García22. Erano uomini totalmente devoti a Cristo nel servizio ai poveri, secondo lo stile di vita che aveva indicato loro Giovanni di Dio23. Altri invece, come Angulo, erano sposati, mentre altri ancora prestavano la loro opera come volontari. Il primo gruppo, che chiameremo di ‘fratelli’, anche se non erano ancora uniti dai voti religiosi, costituivano quella Confraternita che si era riunita attorno a Giovanni.

Quando questi uomini si consacrarono a Dio con i voti religiosi, diventando membri della nuova Congregazione di Giovanni di Dio, divenne necessario separarsi materialmente dagli altri residenti della ‘Casa’. Non si trattava però una separazione dal mondo, e cioè dai loro collaboratori o addirittura dalle persone di cui si prendevano cura, in quanto continuarono a svolgere i propri compiti come prima.Anche dopo la costituzione di questo gruppo di seguaci di Giovanni di Dio in congregazione religiosa, la popolazione di Granada continuò a vedere i “Fratelli camminare per le strade alla ricerca dei poveri, caricarseli sulle spalle e portarli nell’ospedale, dove potevano essere curati con amore…Tutti sapevano che i Fratelli giravano per le strade, raccoglievano i poveri, se li caricavano sulle spalle e li portavano nell’ospedale”24.

Dato che lo stile di vita dei primi Confratelli inevitabilmente subì un cambiamento, perché dovettero adattare la propria esistenza alle Costituzioni della nuova Congregazione, è importante notare che nessun testo riporta che i Confratelli si allontanarono dall’ispirazione originale e dall’esempio del Fondatore, Giovanni di Dio. Viceversa, come abbiamo già detto, i cittadini di Granada continuarono a vederli per le strade, mentre andavano alla ricerca dei poveri, per poi caricarseli sulle spalle e portarli al loro ospedale, dove li curavano con amore e dedizione. Questi primi Fratelli di Giovanni di Dio hanno lasciato una testimonianza tangibile del Vangelo della Misericordia e sono stati dei veri Religiosi ospedalieri, esemplari nell’amore e nel servizio che rendevano ai malati e ai poveri.

2.4 Il carisma dell’ospitalità

2.4.1. La fedeltà al carisma dell’Ospitalità: elemento distintivo dei Confratelli

Questi primi Confratelli e le generazioni successive si impegnarono totalmente per continuare l’operato di Giovanni di Dio, non soltanto nella città di Granada, ma si estesero ai quattro angoli della terra. L’Ordine ha donato alla Chiesa molti Confratelli santi e martiri dell’ospitalità, che hanno dato testimonianza di uno stile di vita che porta alla santità. Gli esempio più recenti sono i Martiri spagnoli e colombiani, Fra José Olallo Valdés e Fra Eustachio Kügler. Sono certamente molti di più i Confratelli che, pur non essendo stati elevati agli onori degli altari, hanno vissuto al più alto livello l’ideale della chiamata alla santità nel servizio ai poveri e ai malati, che hanno sempre svolto con gioia, impegno e perseveranza.

È l’ospitalità che definisce chi siamo. Il nome ufficiale della nostra Istituzione è: Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio. Ospedaliero è la parola-chiave, e questo titolo definisce in modo eloquente il nostro carisma e la maniera in cui viviamo la nostra vita consacrata. Tuttavia, nell’arco della storia dell’Ordine è andato modificandosi il modo in cui i primi Confratelli praticavano l’ospitalità.Ad esempio, le terze Costituzioni dell’Ordine, pubblicate nel 1587, riportano:

“Il quarto voto (ospitalità), è quello di servire i poveri infermi, nel quale si raggiunge e si completa la perfezione della vita cristiana. Attraverso la pratica di questo voto, serviamo lo stesso Gesù Cristo nei poveri infermi”25.

Dopo circa quattro secoli, le nostre ultime Costituzioni (1984), affermano che:

“Con il voto di ospitalità ci dedichiamo, sotto l’obbedienza dei superiori, all’assistenza degli ammalati e dei bisognosi, impegnandoci a prestare loro tutti i servizi necessari, anche i più umili e con pericolo della propria vita, a imitazione di Cristo, che ci amò fino a morire per la nostra salvezza.

La maggiore nostra felicità consiste nel vivere a contatto con i destinatari della nostra missione: li accogliamo e li serviamo con l’amabilità, la comprensione e lo spirito di fede, che essi meritano come persone e come figli di Dio; e mettiamo a loro disposizione tutte le nostre energie e tutte le nostre capacità, nei vari uffici che ci vengono affidati”26 .

2.4.2. L’Ospitalità è la nostra eredità

Il carisma dell’Ospitalità è una virtù dinamica, in quanto è arricchita da coloro che l’hanno assimilata e la vivono. L’eredità che ci è stata tramandata da San Giovanni di Dio è stata arricchita e rinnovata da successive generazioni di Confratelli e Collaboratori che, seguendo l’esempio del Fondatore, hanno sempre cercato di rispondere ai poveri e ai malati che incontravano e che servivano secondo lo stile di San Giovanni di Dio. Questo dono è ciò che definiamo come il Carisma dell’Ospitalità. È per noi interessante, ed altresì incoraggiante, vedere che, lungo i secoli, la fedeltà al dono ricevuto ha spinto i Confratelli ad agire con creatività, immaginazione ed impegno, per rispondere alle necessità esistenti in ogni momento e in diversi luoghi.

L’imperativo contenuto nell’Ospitalità di San Giovanni di Dio è che non potremo mai voltaregli occhi davanti alle necessità o alle sofferenze umane. Questo imperativo fu mantenuto vivo e alimentato in diversi modi dalle successive generazioni di Confratelli, malgrado la ‘struttura monastica’ in cui vivevano. Incoraggiati dal Concilio Vaticano II a tornare indietro all’ispirazione originale del Fondatore, hanno iniziato a fiorire nuovi modi per esprimere il carisma, come non si era mai visto prima nella storia dell’Ordine.

I primi cristiani avevano compreso che anche i Gentili avevano ricevuto il loro stesso dono, e cioè la salvezza attraverso la fede in Cristo Gesù27. Allo stesso modo, potremmo dire che ciò che ha permesso all’Ordine di fiorire relativamente al proprio ministero è dovuto al fatto che la maggior parte dei Confratelli si sono resi conto che anche i nostri Collaboratori hanno ricevuto il dono dell’Ospitalità28.Tutto ciò ovviamente è andato maturando col tempo, oltre ad una re-interpretazione del carisma e del voto di ospitalità, portando così nuova vita, freschezza, creatività e immaginazione alla missione dell’Ordine, più che mai necessaria.

2.4.3. Un rapporto di totale fiducia

Giovanni aveva un rapporto molto stretto con Giovanni d’Avila, il suo fidato compagno che aveva soprannominato Angulo. Sembrerebbe che Angulo fosse una sorta di collaboratore, di amministratore, nel quale Giovanni riponeva la sua più totale fiducia. Così riporta il Castro nella sua Biografia: “[…] un serviente dell’ospedale, chiamato Giovanni d’Avila, uomo prudente e di buona vita, morto da pochi giorni dopo aver servito lodevolmente molti anni nella casa, il quale diede testimonianza di ciò che accadde […].”29 . Dal testo del Castro, così come dalle lettere di Giovanni di Dio, emerge chiaramente come Angulo fosse il compagno di viaggio che il Santo preferiva.

Spesso Giovanni mandava Angulo anche fuori Granada per svolgere alcune commissioni di fiducia per suo conto. Ovviamente c’erano altre persone nelle quali Giovanni riponeva la sua fiducia, anche perché spesso, nei suoi viaggi, preferiva portare Angulo con sé, come ad esempio nel viaggio a Toledo con le quattro donne che voleva riscattare dalla prostituzione. In questa occasione, così come in tante altre, Angulo era sempre accanto a Giovanni di Dio, godendo della sua fiducia incondizionata.

Sembrerebbe che Giovanni e i suoi compagni non disponessero di un posto speciale in cui risiedere, nella ‘Casa di Dio’. Sappiamo infatti che il nostro Fondatore cedeva spesso il suo letto a chi ne aveva bisogno quando la casa era piena. Il suo ultimo desiderio era quello di morire tra i suoi poveri, un desiderio che gli venne negato persino quando, ormai molto malato, dovette accettare le insistenze di Donna Anna Ossorio, moglie di Garcia de Pisa30 , e si fece portare a casa di quest’ultimo affinché venisse curato: era la dimostrazione dell’affetto, del rispetto e della preoccupazione che queste persone avevano per lui. Pur con il cuore colmo di dolore, egli obbedì, non volendo fare la sua volontà ma quella del Signore, così come gli era stato indicato dal Vescovo.

 

DOMANDE PER L’APPROFONDIMENTO DEL TESTO

Capitolo 2 – Storia del rinnovamento nell’Ordine

 

Per i Confratelli:

1. Oltre a quelli citati nel testo, quali ritenete siano gli elementi più positivi da attribuire al rinnovamento avvenuto nell’Ordine, in modo particolare dopo il Concilio Vaticano II?

2. E quali, al contrario, gli atteggiamenti negativi dai quali dobbiamo ancora “purificarci” per un effettivo rinnovamento?

3. Rimpiangete qualcosa del passato che, a vostro giudizio, andrebbe recuperato e riproposto?

 

Per i Confratelli e i Collaboratori (o per i soli Collaboratori laddove non vi siano Confratelli)

1. L’analisi fatta nel testo vi sembra che corrisponda effettivamente ai punti di forza e ai punti di criticità nel processo di rinnovamento dell’Ordine?

2. Ritenete ancora attuale l’esigenza di rinnovamento o quanto fatto è già abbastanza ed è sufficiente?

3. Come ritenete di poter promuovere maggiormente il ruolo dei Collaboratori laici nell’Ordine?

 

3. LE PROSPETTIVE DEL RINNOVAMENTO

 

3.1. L’Ordine come “famiglia”

3.1.1. La Famiglia Ospedaliera

Quale tipo di struttura esisteva durante la vita di Giovanni? Credo che si trattasse di una specie di ‘famiglia’. Nelle sue lettere, quando si riferisce alla sua casa, Giovanni la chiama ‘Casa di Dio’ (4 volte), oppure semplicemente ‘Casa’ (16 volte), mentre solo per due volte la chiama ‘Ospedale’. Se guardiamo poi al modo in cui la gestiva, ci sembra che sia qualcosa che assomiglia molto ad una famiglia. Egli stesso era sempre indaffarato nei lavori domestici di ogni giorno, oltre ad essere attivamente impegnato nella cura, nell’ascolto dei malati, nel riportare la pace nelle dispute tra le persone, e nel guidare la preghiera di ogni giorno.

“Si occupava tutto il giorno in diverse opere di carità, e la sera, quando tornava a casa, per quanto stanco fosse, non si ritirava mai senza aver prima visitato tutti gli infermi, uno per uno, e chiesto loro com’era andata la giornata, come stavano e di che cosa avevano bisogno, e con parole molto amorevoli li confortava spiritualmente e corporalmente”31. Per provvedere alle necessità della casa e ai suoi 110 ospiti, Giovanni trascorreva la maggior parte della giornata chiedendo l’elemosina.

Vi erano volte in cui era lontano da casa per settimane, ma non c’è ragione di credere che al suo ritorno trovasse una situazione caotica o problemi da risolvere. Sembrerebbe piuttosto che la casa venisse gestita così come egli aveva predisposto. Nella Casa di Giovanni di Dio regnavano sempre l’armonia, la pace e l’ospitalità, indipendentemente dal fatto che egli fosse presente o meno.

Nei documenti più recenti e negli ultimi Capitoli Generali, l’Ordine ha definito la sua stessa  atura, che ha evidenziato essere formata da Confratelli e Collaboratori32. Il Capitolo Generale del 2006 ha affermato in modo chiaro che i Confratelli e i Collaboratori sono uniti nella missione e nel carisma33. Assieme ai nostri Collaboratori siamo impegnati nel coltivare e promuovere i valori della persona, e a diffondere la cultura dell’ospitalità. Noi Religiosi abbiamo molto in comune con i nostri Collaboratori: condividiamo gli stessi valori e siamo uniti nella missione, è perciò abbastanza naturale considerarci come un’unica famiglia, la Famiglia di San Giovanni di Dio. È interessante notare che la recente Conferenza Internazionale dei Religiosi di recente ha affermato lo stesso concetto: “Riteniamo che la vita consacrata debba uscire dalle frontiere dei nostri istituti, della nostra fede cattolica, della nostra fede cristiana.

Uniamoci allora ai nostri fratelli e sorelle laici che condividono il nostro stesso Carisma, identificandoci così non come un Ordine o come una Congregazione, ma come una famiglia, condividendo la nostra vita e la nostra missione”. Credo che questa sia anche la nostra esperienza; è vero che molti nostri  Collaboratori non condividono la nostra fede, ma sono molto impegnati nel portare avanti l’operato di San Giovanni di Dio e condividono la nostra filosofia e i nostri valori, per cui sentono di far parte della Famiglia di San Giovanni di Dio. Definirci in questo modo, e cioè come appartenenti ad un’unica famiglia, è secondo me un’altra espressione dell’ospitalità che professiamo.

3.1.2.Apprendere dai Confratelli missionari

Possiamo osservare un altro fattore interessante, relativamente a come le nuove esperienze hanno influenzato il modo in cui esercitiamo il nostro ministero. Prima che i Confratelli europei iniziassero a recarsi “sul campo”, nei luoghi cioè in cui c’era bisogno di loro, mettendosi al servizio dell’Ospitalità, i Confratelli missionari erano già abituati a farlo. Dato che molte persone povere e malate non potevano recarsi in ospedale, i Confratelli e i Collaboratori, sentendosi incoraggiati dall’esempio di San Giovanni di Dio, organizzarono ambulatori mobili e iniziarono a recarsi nei villaggi più remoti e nelle colonie per lebbrosi (come si diceva all’epoca) portando loro cibo, medicinali ed altre cose di cui i malati e i bambini avevano estremo bisogno.

Come sempre, per rispondere alle necessità urgenti delle persone che erano andati ad evangelizzare attraverso il loro servizio caritatevole, i Confratelli iniziarono ad abbandonare il modello tradizionale adottato in Europa. Queste attività dei missionari ospedalieri diedero inizio ad un dibattito sulla natura dell’ospitalità, che diede un notevole contributo a tutto l’Ordine portando ad una maggiore comprensione dell’Ospitalità di San Giovanni di Dio, così come la sperimentiamo noi oggi. Questi Confratelli furono dei pionieri nel campo della salute mentale, in quello delle cure palliative e di tipo hospice per malati terminali, nei programmi di ortopedia e riabilitazione, così come in quelli nutrizionali e di medicina preventiva, in campo educativo e formativo per ragazzi e giovani adulti con difficoltà di apprendimento, nel proporre programmi assistenziali e cure per gli anziani, aprendo asili notturni per senzatetto, nella ricerca di un lavoro per gli immigrati, e in molte altre iniziative.

3.2.Verso il rinnovamento

Ci sono molti modi, a dire il vero tantissimi, in quanto smisurate sono le necessità degli uomini, per esprimere l’ospitalità con la creatività, l’immaginazione, l’aspetto esteriore e con un modo non-istituzionale. Inoltre, e ciò è molto importante, quanto maggiore è il numero delle persone che come seguaci di Giovanni di Dio riusciamo a permeare con il suo esempio e a motivare con la sua vita, tanto più saremo riusciti a portare cura e speranza nella vita dei nostri fratelli e sorelle che soffrono.

La risposta della Famiglia Ospedaliera ai nuovi bisogni della società e a quelli che ancora non hanno ricevuto una risposta, è costantemente in aumento in tutto il mondo, mentre allo stesso tempo si continuano a mantenere le espressioni tradizionali dell’ospitalità. Di conseguenza, la Famiglia di San Giovanni di Dio è in continuo aumento, per accompagnare lo sviluppo dei servizi, e mi riferisco al numero dei nostri Collaboratori laici. Con l’aumento dei servizi e, parallelamente, del numero di Collaboratori, si va affermando la necessità di trasmettere a questi ultimi i valori della Famiglia Ospedaliera di San Giovanni di Dio. La formazione dei Collaboratori, perciò, è una questione che riveste grande importanza per il futuro dell’Ordine e la sua missione, e dovrà includere la vita di San Giovanni di Dio, una chiara comprensione della sua missione, la conoscenza della storia, della filosofia e dei valori dell’Ordine.

Per far coincidere il nuovo volto dell’Ordine che si sta progressivamente delineando, con i servizi in costante espansione che offriamo in tutto il mondo, si va affermando un nuovo vocabolario, con termini ed espressioni come Collaboratore, che ha un significato diverso da quello  di semplice dipendente o salariato; missione invece di apostolato; valori che sostengono e guidano la missione, e ovviamente Famiglia Ospedaliera.

3.2.1. ‘Ripartire’

Credo che sia giusto dire che l’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio è stato ri-fondato, ha avuto una nuova rinascita, si è re-inventato, assumendo “un nuovo volto”. Ciò non rientrava nelle intenzioni dei suoi membri, ma in realtà è proprio ciò che è accaduto, frutto dell’incessabile ricerca da parte dei suoi membri di conoscere e di fare la volontà di Dio.

Il processo non è ancora finito, è in piena evoluzione, come se fosse interminabile. Il pericolo o la tentazione, in un dato momento, è quello di cercare una formula per ‘fissare’ definitivamente o per arrestare l’onda del cambiamento. Ciò potrebbe comportare che si sapeva a cosa l’Ordine avrebbe dovuto assomigliare. Sarebbe però presuntuoso. Chi sa a cosa assomiglierà il nostro Ordine nel futuro? Sappiamo solo che il futuro è nelle mani di Dio.

L’appello che ci viene rivolto è di porci in un costante stato di conversione; di ascoltare la voce di Dio che alberga nel nostro cuore e ciò che Egli ha da dire alla Chiesa attraverso di noi, i nostri Confratelli e i Collaboratori. Dobbiamo ascoltare il popolo di Dio, in special modo i sofferenti: sono loro la nostra università34. Dobbiamo cercare costantemente di leggere ed interpretare i segni dei tempi, per poter conoscere ciò che Dio vuole da noi in un preciso momento storico.

Scopriremo così l’operato dello Spirito Santo, attraverso il nostro aiuto, per quanto povero e limitato esso possa essere, ma che il Signore, nella sua infinita saggezza, considera essenziale. È ciò che ci spinge a cooperare con Lui in modo calmo e sereno, e che ci trasmette gioia ed energia. È questa convinzione che ci conferisce un senso di privilegio, di entusiasmo e di gioia che ci riempiono di nuova energia. Ogni giorno rappresenta un’opportunità per ‘ripartire’, nel senso che ogni giorno porta nuove opportunità per fare il bene, e non dovremmo mai cessare di fare il bene mentre possiamo farlo (San Giovanni di Dio, 1DS, 13).

3.2.2. A che punto ci troviamo nel nostro cammino verso il rinnovamento?

Come sapete, il Governo Generale considera il rinnovamento dell’Ordine come una priorità. Quando parliamo di rinnovamento, dobbiamo avere ben presente che, fondamentalmente, nell’Ordine ci sono cinque gruppi di cui tenere conto.Tra i Confratelli i gruppi sono due: coloro che hanno partecipato al processo di rinnovamento immediatamente dopo il Concilio Vaticano II e quei Confratelli che sono entrati nell’Ordine quando non si faceva già più appello al processo e le persone si erano abituate all’idea che, come dice il Presidente Obama,“il mondo sta cambiando e noi dobbiamo cambiare con esso”. È più comodo abituarsi all’idea che dobbiamo adattarci e aggiornarci. Indipendentemente dal fatto che ne siamo consapevoli o meno, il rinnovamento, così come la conversione, è un processo permanente. Oltre a ciò, ovunque vi sia la nostra presenza le esigenze sono grandi, la risposta è proporzionata alle risorse disponibili, la qualità dei servizi rimane elevata e non veniamo meno ai nostri impegni.

Anche tra i Collaboratori ci sono due gruppi:

  • il primo è costituito da coloro che potrebbero essere considera ti come il frutto del processo di rinnovamento, e che attualmente rivestono le posizioni di maggiore responsabilità nell’ambito dell’Ordine per quanto riguarda la sua missione di Ospitalità.

  • Il secondo gruppo è formato dai Collaboratori che operano in Europa, nel Nord America e in Oceania, e che sono entrati nell’Ordine mentre i Confratelli sono pochi di numero e vengono visti come delle figure simboliche.

  • Allo stesso tempo, in America Latina, in Africa e in Asia esiste ancora un numero considerevole di Confratelli.

  • Ci sono poi quei Collaboratori che si trovano in una situazione simile a quella di chi li ha preceduti prima che il processo di rinnovamento avesse inizio, dopo cioè il Concilio Vaticano II.

  • Il quinto e ultimo gruppo è formato dai pazienti, dagli ospiti e da quanti usufruiscono dei nostri servizi, unitamente ai loro familiari, ai volontari e ai benefattori che ci aiutano nel nostro operato.

Tutti insieme costituiscono una grande varietà di persone, che l’Ordine abbraccia in una vera espressione di ospitalità, che come missione e punto centrale della nostra Famiglia Ospedaliera è destinata a crescere e ad espandersi in questa direzione. Non farlo significherebbe estromettere dalla nostra vita i destinatari ultimi della nostra missione, e cioè le persone che si trovano nel bisogno, e quanti hanno il dono di giungere a loro in uno spirito di servizio.

Aprendosi alla riflessione sulla ragione della propria esistenza e su di sé, l’Ordine è cambiato ed è cresciuto notevolmente negli ultimi cinquant’anni e più. La questione centrale, la sfida più importante che dobbiamo affrontare oggi, è come mantenere vivo lo spirito di San Giovanni di Dio e la sua missione rimanendo fedeli alla sua ispirazione originale.

Se guardiamo alla Chiesa come Popolo di Dio, tutti, compresi i Collaboratori, sono chiamati ad operare per la missione della Chiesa35. Ciò conferisce al Religioso il compito di dare una testimonianza profetica viva di ciò che è essenziale nel Vangelo. Attraverso la sua opzione e il suo  stile di vita e di agire, il religioso dimostra ciò che è fondamentale nella vocazione di seguire Gesù, la vocazione di chiunque si identifichi come cristiano, e cioè seguace di Cristo, per giungere alla santità.

Il futuro ruolo del Religioso nella Famiglia di Dio, nel Popolo di Dio, può essere paragonato al lievito nel pane. Solo una piccola parte di lievito è necessaria per produrre il risultato sperato, e cioè per far lievitare tutta la massa. Allo stesso modo, per esercitare un’influenza positiva, non è indispensabile un grande numero di Religiosi.

Ciò che è necessario è che i Religiosi diano una testimonianza viva della loro sequela radicale di Gesù e manifestino chiaramente il dono speciale, o carisma, che hanno ricevuto dalla Chiesa. L’Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, ad esempio, è un dono fatto da Dio alla sua Chiesa, per permetterle di realizzare la sua missione evangelizzatrice al servizio dell’umanità. Il compito dei Confratelli è quello di essere dei compagni di viaggio assieme ai Collaboratori,essendo allo stesso tempo coscienza critica, guida morale e una presenza profetica aperta e flessibile.

Uno sviluppo certamente positivo, ma al tempo stesso una sfida in termini di rinnovamento, e che non esisteva prima, è il carattere internazionale che l’Ordine è andato assumendo. Alla chiusura del Concilio, i Confratelli detenevano la responsabilità per la missione dell’Ordine, e la maggior parte di loro erano europei. Le iniziative missionarie intraprese negli anni ’50 grazie all’impulso dell’allora Priore Generale, Fra Mosé Bonardi, non avevano ancora portato i frutti sperati in termini di vocazioni autoctone nei Paesi terra di missione.

Come già detto, oggi nell’ambito dell’Ordine ci sono gruppi molto diversificati, che devono essere considerati al momento di pianificare o di affrontare un processo di rinnovamento. Oggi più che nel passato, la Famiglia di San Giovanni di Dio si ritrova veramente rappresentata dal proprio simbolo, la melagrana, che rappresenta la grande varietà di ministeri e servizi che l’Ordine fornisce e che porta avanti in tutto il mondo, con un’estensione e un livello di professionalità che non ha avuto eguali nel passato, e che solo 40 anni fa, dopo il Concilio Vaticano II, non ci saremmo neanche sognati di raggiungere. Di ciò non possiamo ovviamente che rallegrarci, e dobbiamo rendere grazie a Dio per queste nuove forme e modi di esprimere l’ospitalità.

È un altro volto del processo di rinnovamento, che non deve farci dimenticare che esistiamo per servire le persone che si trovano nel bisogno, e dobbiamo farlo con sempre maggior vigore, con immaginazione e con impegno, determinati a rispondere a queste necessità con determinazione e in modo organizzato.

Un’altra realtà che dobbiamo prendere in considerazione è la grande diversità dei Confratelli e dei Collaboratori che costituiscono la Famiglia di San Giovanni di Dio. Ciascuno di loro ha i propri talenti, che contribuiscono ad arricchire l’Ospitalità. L’Ordine è presente in molte parti del mondo, alcune delle quali sono altamente industrializzate, ma in cui prevalgono la secolarizzazione e il relativismo, che ostacolano il rinnovamento.

Ecco alcuni dei principali cambiamenti che sono scaturiti dall’impegno nel processo di rinnovamento:

• Un forte cambiamento nel modo in cui l’Ordine esercita la sua missione di Ospitalità;

• Un cambiamento nel modo in cui ci consideriamo come Ordine di Fratelli nella Chiesa;

• Sono cambiati il modo in cui preghiamo, lo stile di vita dei Confratelli, il modo in cui ci relazioniamo e viviamo in comunità;

• Riconosciamo che il dono dell’ospitalità non è stato affidato soltanto ai Confratelli, ma che anche gli altri, i nostri Collaboratori, lo possono ricevere;

• Riconosciamo il ruolo dei laici nella Chiesa, che ha portato ad uno sforzo concertato e al l’integrazione di Confratelli e Collaboratori nella missione dell’Ordine;

• Confratelli e Collaboratori uniti nella missione.

• Il fatto che la Famiglia di San Giovanni di Dio ha assunto un vero significato.

Quando Gesù voleva comunicare a coloro che lo stavano ascoltando argomenti complessi, ricorreva alle parabole. Le parabole di Gesù sono storie molto semplici, facili da ricordare, spesso facendo ricorso ad immagini e a concetti facili da capire, ciascuna delle quali conteneva un solo messaggio. Allo stesso tempo, le parabole di Gesù non sono semplici storie, perché contengono in sé una vera sfida per chi ascolta, richiedendo una riflessione profonda. Vorrei utilizzare la parabola del Figliol Prodigo36 per spiegare, seppure sommariamente, a che punto ci troviamo nel processo di rinnovamento. Nella parabola del Figliol Prodigo, così come è narrata da Gesù, esistono vari personaggi: gli spettatori, i servi, il padre e i suoi due figli.

Relativamente al rinnovamento, ci sono alcune persone che potrebbero essere gli “spettatori” 37. Essi non impediscono il processo di rinnovamento, ma non si lasciano neanche coinvolgere. Sembrano in attesa del ritorno dei vecchi tempi, con i noviziati pieni di giovani, e che le cose possano tornare ad essere ‘normali’, come erano prima. In questo caso, sono come il ‘figlio primogenito’ della parabola: hanno lavorato sodo ma provano una sorta di risentimento, o di gelosia, quando vedono che i Collaboratori assumono posizioni di leadership che una volta appartenevano solo ai Confratelli. 

Poi ci sono “i servi” e cioè uomini e donne, la maggioranza silenziosa, che tutti i giorni continuano fedelmente l’opera di Giovanni di Dio in un’ampia varietà di modi. Queste persone, rappresentate dalla figura del “figliol prodigo” vogliono occuparsi delle proprie cose, sentirsi liberi, accettano pochi compiti e con un minimo di responsabilità.

Da ultimo troviamo “il padre”, che è una splendida immagine del nostro Padre Celeste, che apre le braccia in un grande gesto di accoglienza, di perdono e di ospitalità, e che attraverso questo gesto ci esorta tutti ad unirci a lui nella cura dei nostri fratelli e sorelle che soffrono e aspettano… 

Chi sono le persone che questa immagine rappresenta? Se siamo onesti con noi stessi, allora penso che ciascuno di noi possa identificarsi con una delle figure che ho appena descritto. Credo che sia giunto il momento, per tutti noi, di lavorare insieme per rinnovarci, per rinnovare le nostre comunità e i nostri centri, in modo da poter essere veramente strumenti di salvezza e di speranza per le attuali e le per future generazioni di nostri fratelli e sorelle sofferenti. 

3.2.3. Riscopriamo Giovanni di Dio!

Il processo di rinnovamento avviato dall’Ordine dopo la chiusura del Concilio Vaticano II ci ha riportati alle origini, ed ovviamente a San Giovanni di Dio. Ripercorrendo la sua vita e quella dell’Ordine siamo giunti ad una grande intuizione: l’Ospitalità è ciò che conferisce identità all’Ordine. È il punto centrale della nostra Famiglia Religiosa. Un’altra intuizione è che come Religiosi siamo nel cuore della Chiesa e allo stesso tempo ‘in prima linea’ nella sua missione evangelizzatrice. “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri, ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”38.

La ‘riscoperta’ di San Giovanni di Dio ha fatto sì che il nostro Ordine si sviluppasse più di ogni altro istituto negli anni successivi al Concilio. Questo è stato l’evento più stimolante di tutti, in quanto ha cambiato ogni cosa. Non è stato certo per caso che la Curia Generalizia, durante  questa intensa fase di rinnovamento, ha pubblicato un documento dal titolo “Giovanni di Dio continua a vivere nel tempo” (1992).

La parabola del Buon Samaritano39, raccontata da Gesù, costituisce l’immagine più forte di ciò che è essenziale nel Vangelo della Misericordia, che San Giovanni di Dio ha incarnato personalmente. Per questo, nessun ebreo userebbe deliberatamente nella stessa frase le parole ‘buono’ e ‘Samaritano’. Per i giudei, la parola ‘Samaritano’ richiamava alla mente tutto ciò che essi consideravano sgradevole e disprezzabile nei Samaritani.

È facile comprendere allora come la parabola del Buon Samaritano abbia fornito un contenuto importante su cui meditare, e fosse stata una fonte ricca di alimento spirituale e vocazionale per generazioni di Confratelli. Le parole usate da Gesù: gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, le medicò (vi versò olio e vino), lo caricò sopra il suo giumento, lo portò a una locanda, si prese cura di lui, sono caratteristiche dell’ospitalità, così come la intendiamo noi. Gesù stesso, come Figlio di Dio, era la personificazione dell’ospitalità di Dio.

Tuttavia, quando Juan Ciudad iniziò il suo lavoro con i poveri di Granada, fu trattato così come i giudei trattavano i Samaritani al tempo di Gesù: fu emarginato e disprezzato. Col tempo però, vedendo ciò che egli faceva ogni giorno, e come si aggirasse per le strade della città andando alla ricerca dei poveri e dei malati di cui si prendeva cura, i “granadini” iniziarono a cambiare opinione nei suoi confronti. E proprio perché assomigliava al Samaritano, nel senso che intendiamo noi oggi, non solo lo definirono ‘BUONO’, ma gli diedero anche l’appellativo “di DIO”: Giovanni DI DIO.

3.3. L’importanza della comunità religiosa

Diversi avvenimenti sono accaduti contemporaneamente, ed hanno interessato il modo in cui i Confratelli vivono in comunità. In molti centri o servizi dell’Ordine il loro numero è piuttosto limitato; in alcune strutture è presente un solo Religioso, o al massimo due, mentre in altre non ce n’è neanche uno. Non di rado un Confratello si accorge di essere l’unico a lavorare nel centro o servizio. La realtà è che molte nostre comunità sono formate in media da 5-7 Confratelli, alcuni dei quali possono essere anziani o malati; e non sono affatto poche le comunità formate da meno di 5 Confratelli. Per questo motivo, la residenza della comunità, inizialmente costruita per un gruppo numeroso di persone, dovrà essere ristrutturata per essere più confortevole, semplice e accogliente per i Confratelli. La casa della comunità è la casa dei Confratelli e, di conseguenza, dovrà essere confortevole per offrire un ambiente accogliente, che favorisca la preghiera e la distensione.

La comunità religiosa, proprio in quanto tale ha un compito molto importante da svolgere nell’ambito della missione dell’Ordine, e ciò per diverse ragioni.Vorrei richiamare l’attenzione su alcune di esse:

a) La missione della comunità.

Affinché le nostre comunità siano dinamiche, oltre ad essere delle fonti di vita, dobbiamo promuovere un tipo di comunità aperta, ma che allo stesso tempo rispetti la privacy dei suoi membri e la residenza dei Confratelli. Gli ospiti, i familiari e i Collaboratori possono essere invitati ad alcune celebrazioni. Sarebbe importante che i Collaboratori che rivestono posizioni direttive nel servizio o nel centro adiacente la comunità, come ad esempio i Direttori, venissero invitati dai Confratelli con una certa regolarità. L’occasione potrebbe essere un pranzo fraterno, una preghiera appositamente preparata, la condivisione di alcune informazioni da parte dei Collaboratori, seguita da una discussione aperta sugli argomenti che riguardano da vicino la vita e il lavoro del Centro.

Oltre ad aggiornarsi sugli argomenti attinenti il Centro, i Confratelli avrebbero così l’opportunità di condividere le proprie preoccupazioni, ciò che pensano e la loro visione del futuro. Ciò sarebbe fonte di ispirazione e di incoraggiamento per i nostri Collaboratori, per rimanere fedeli alla missione del Centro e dare un’autentica testimonianza della nostra missione di ospitalità.

Questi incontri dimostrerebbero che, sebbene la comunità religiosa potrebbe non avere compiti di tipo amministrativo nel Centro, i Confratelli ne condividono la responsabilità assieme ai Collaboratori, attraverso il Carisma di Ospitalità. Sarebbe inoltre la dimostrazione che i Confratelli sono interessati – e si preoccupano – di ciò che accade nel Centro, del benessere di quanti vi trovano cure e assistenza, così come dimostrerebbe in modo tangibile il loro appoggio e l’apprezzamento per i Collaboratori che quotidianamente portano avanti l’operato di San Giovanni di Dio.

b) La comunità religiosa come punto di riferimento.

Questo è un ruolo che le nostre comunità, oggi più di prima, sono chiamate ad esercitare. Dato l’elevato numero di Collaboratori che lavorano nei nostri servizi, è una tendenza che continuerà fino a quando l’Ordine cercherà di rispondere ai nuovi bisogni della società, indipendentemente dal numero di vocazioni che avremo. La comunità religiosa sarà allora come una massa di lievito che, sebbene ridotta nelle sue dimensioni, è chiamata a vivere e a dare testimonianza della vera natura della missione dell’Ordine; sarà come una sorta di ‘centrale spirituale’ da cui irradiano i valori del Vangelo, in special modo la misericordia, la compassione e ovviamente l’ospitalità.

La presenza dei Confratelli, con il nostro modo di vivere, la chiamata che abbiamo ricevuto, il nostro atteggiamento nei confronti dei Collaboratori e dell’umanità sofferente, che si traduce in azioni concrete, ricorderà costantemente ai Collaboratori che il servizio che essi forniscono nelle nostre strutture non è soltanto un servizio sociale ma anche spirituale, un ministero della Chiesa40. I nostri Collaboratori, insieme ai Confratelli, stanno continuando il lavoro intrapreso da San Giovanni di Dio, un lavoro che, come dice Benedetto XVI, è“un compito essenziale della Chiesa, quello dell’amore ben ordinato del prossimo” 41. E nella stessa enciclica il Santo Padre afferma che “La carità non è per la Chiesa una specie di attività di assistenza sociale che si potrebbe anche lasciare ad altri,ma appartiene alla sua natura, è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza”42.

c) Il Fatebenefratello mantiene vivo lo stesso modo che aveva Giovanni di Dio nel relazionarsi con le persone, che per lui erano fratelli e sorelle. Un dono particolare che i Confratelli hanno ricevuto è quello di sentirsi tutti reciprocamentefratelli, non solo tra di loro, nell’ambito della comunità, ma anche nei confronti di coloro con i quali si relazionano o che incontrano nel centro o servizio. La presenza emblematica del Fatebenefratello mantiene vivo quel particolare rapporto che Gio-vanni di Dio aveva con coloro che serviva nella sua Casa di Ospitalità, con le persone che lavoravano con lui e con i suoi benefattori. Egli si sentiva fratello di tutti, e considerava gli altri come suoi fratelli e suo prossimo.

Quando si recò alla corte del Conte di Tendilla, a Valladolid, fu ricevuto dal Principe e quando venne ammesso alla sua presenza, Giovanni gli disse: “Signore, io sono solito chiamare tutti fratelli in Gesù Cristo. Voi siete il mio re e il mio signore, e devo ubbidirvi. Come volete che vi chiami?”43.

Quando si recava per le strade di Granada a chiedere l’elemosina, Giovanni si rivolgeva alle persone che incontrava chiamandole ‘fratello’ o ‘sorella’. La fraternità è un valore fondamentale, un elemento essenziale dello stile di San Giovanni di Dio, e pertanto quanti lavorano nei nostri centri sono chiamati ad instaurare nella struttura un’atmosfera familiare, in cui tutti si sentano curati, amati e rispettati, indipendentemente dal fatto che nel centro vi sia o meno la presenza  dei Confratelli.

3.4. Collaboratori/ Missione

3.4.1. Confratelli e Collaboratori hanno ricevuto entrambi il dono dell’Ospitalità Ogni nostro Collaboratore, indipendentemente dal proprio bagaglio culturale o dalla sua fede religiosa, nel praticare l’ospitalità apporta i suoi talenti e la propria competenza professionale, potenziandone così l’espressione. Confratelli e Collaboratori hanno ricevuto entrambi il dono dell’Ospitalità e insieme nella missione formano un grande fiume, il fiume dell’Ospitalità, che purifica, guarisce e restituisce la speranza in una migliore qualità di vita per coloro che serviamo nello spirito e secondo lo stile di San Giovanni di Dio.

La massa d’acqua di un fiume che scorre è formata da tante minuscole goccioline. Allo stesso modo, l’Ospitalità è incrementata dall’impegno personale di tanti Confratelli e Collaboratori nello svolgimento quotidiano del loro servizio. La persona che pratica l’ospitalità si fa essa stessa ospitalità per colui che serve, così come Giovanni di Dio si faceva ospitalità per le persone che serviva nella città di Granada.

3.4.2. Formazione dei Collaboratori e chiarezza sulla missione

Su questa linea, aprendo i Capitoli Provinciali affermavo che:

a) Per tutti i Collaboratori deve essere ben chiaro che la Chiesa promuove le nostre Istituzioni, sia dall’inizio che lungo tutta l’esistenza del nostro Ordine. Pertanto, uno dei nostri principali obiettivi è quello di essere testimoni di Gesù Cristo, presentando un volto della Chiesa che è benigno e compassionevole, e trasmettere il messaggio di salvezza, non soltanto attraverso le parole, ma soprattutto con le nostre opere.

b) Nella comunione che ci definisce come Chiesa, abbiamo un concetto di vita pluralistico, siamo consapevoli che i nostri centri sono centri di salute, e rispettiamo quanti frequentano  i nostri servizi, amandoli e servendoli in tutto e per tutto.

c) Le stesse circostanze professionali coinvolgeranno persone che hanno valori simili ai nostri. Consideriamo che quanti sono legati all’Ordine debbano rispettarli, aderire a ciò che è buono e promuovere i principi dell’Istituzione, sempre rispettando la libertà di coscienza.

L’Ordine è arrivato a definire i principi secondo i quali opera, illuminato dagli insegnamenti della Chiesa, e tenendo conto della legislazione dei Paesi in cui è presente. I Confratelli e i Collaboratori, come rappresentanti dell’Ordine, devono partecipare all’elaborazione di questi principi.

d) Come Istituzione, dobbiamo impegnarci ad incoraggiare il senso di appartenenza e l’identificazione con lo spirito di San Giovanni di Dio.A questo riguardo, l’Ordine promuove in tutto il mondo molteplici iniziative, ed in modo particolare una serie di riflessioni, per illuminarci come Ordine e come famiglia.

e) Sappiamo che, per poter realizzare una buona amministrazione nei nostri centri, il tipo di gestione che vogliamo mettere in pratica, cioè secondo i nostri valori, questa amministrazione deve essere carismatica. Ci troviamo di fronte alla sfida che ci pone questa realtà, e dobbiamo affrontarla in un modo che sia coerente con il Vangelo.

f) Il punto centrale del nostro carisma è la persona, indipendentemente dal tipo di malattia o di bisogno che possa avere, e per il quale è necessaria la nostra assistenza. Dalla parte opposta si trova un’altra persona: è il Confratello o il Collaboratore, che deve avere la competenza per agevolare l’incontro con il malato e, di conseguenza, l’assistenza e la cura che gli sono dovute.Tutti noi che facciamo parte dell’Ordine dobbiamo impegnarci fortemente nel trovare un sano modo di vivere.

Con questo progetto realizziamo una dimensione di ospitalità che non soltanto si mette in relazione con noi da un punto di vista professionale e inerente la missione, ma anche con la realtà che ci è peculiare.

3.5. Le sfide

La teologa Sandra M. Schneiders, così scrive: “La vita religiosa è idealmente una testimonianza profetica primaria nella Chiesa del tipo di comunità che Gesù intendeva. La famiglia che Egli ha fondato non era composta soltanto da un gruppo di amici, ma era una comunità di persone reciprocamente responsabili verso la comune missione e nella condivisione del ministero. Comprendeva alcune persone che avevano tra loro un legame di sangue, ma per la maggior parte di loro non era così. C’erano viaggiatori erranti e capi famiglia. Alcuni vivevano insieme, altri invece no. Ma ciò che avevano in comune era la fede e l’amore che nutrivano per Gesù, il loro impegno per la realizzazione del Regno di Dio, e la determinazione a dare la propria vita per il prossimo, così come aveva fatto Gesù Cristo”44.

Allo stesso modo, la Famiglia di Giovanni di Dio racchiude una varietà ed una ricchezza di elementi che consentono all’Ordine di rimanere fedele alla propria missione. Molte Istituzioni Religiose stanno iniziando ad identificarsi come una Famiglia. Comprensibilmente, per una varietà di ragioni, alcuni Religiosi pensano, a livello individuale, che è difficile da mettere in pratica.

Per quanto mi riguarda, penso che ciò costituisca un nuovo inizio per la vita religiosa, e non certo la fine. Forse quanti si sono formati secondo vecchi schemi e quanti avrebbero voluto un diverso modello di Chiesa, potrebbero trovare delle difficoltà con questo modo di vedere il futuro della vita religiosa, e cioè come una Famiglia. Tuttavia, in uno spirito di dialogo, nella ricerca sincera della volontà di Dio, la diversità di opinioni e di idee non deve necessariamentecreare divisioni; al contrario, può costituire uno strumento che ci esorti ad una più profonda riflessione su chi siamo, sulla nostra missione e sulla realtà del mondo in cui viviamo ed esercitiamo la missione stessa.

3.5.1. Fedeltà alla nostra identità ospedaliera

Questa situazione ci spinge al rinnovamento, allo studio e al dialogo, per affrontare il futuro con speranza. “La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora sino alla fine, fino al pieno compimento”45.

“La fedeltà alla nostra identità ospedaliera richiede da ogni Confratello una formazione integrale, solida e permanente, in accordo con le attitudini delle persone e con le condizioni di ogni tempo e luogo, affinché possa rispondere alle esigenze della propria vocazione”46. Ciò può applicarsi anche ad ogni Collaboratore che desideri abbracciare l’identità del nostro Ordine ed essere custode del carisma che anima le nostre opere.

In uno spirito di servizio all’Ordine, dobbiamo continuare nel dialogo, mettendoci in ascolto della voce dello Spirito, cercando di leggere ed interpretare i segni dei tempi. In questo modo, potremo condividere il futuro assieme ai nostri Collaboratori, il che darà maggiore enfasi al concetto di Famiglia Ospedaliera; dovrebbe ispirarci inoltre a dimostrare attraverso le azioni concrete il nostro impegno nei confronti del Regno di Dio, praticando l’Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, lavorando insieme agli altri membri della Famiglia Ospedaliera.

Questa è una nuova ed esaltante sfida che noi religiosi dobbiamo affrontare, e sulla quale dobbiamo riflettere alla luce del Vangelo, per darle il suo reale significato. Tuttavia, sarà necessario avere del coraggio per essere profetici, evangelici ed ospitali. Dobbiamo rivolgerci a Dio così come ci esorta il Santo Padre: “Pregare non significa uscire dalla storia e ritirarsi nell’angolo privato della propria felicità”47. Attraverso la preghiera il nostro cuore si espande e si purifica; avvertiamo una forte speranza e diventiamo capaci di accogliere Dio e i nostri Collaboratori, assieme ai quali consideriamo i valori della nostra Famiglia e li viviamo appassionatamente, supportandoci a vicenda, ciascuno con la propria vocazione, ma sempre nell’ambito della stessa Famiglia.

3.5.2. La dimensione internazionale

Come ho già detto prima, alla chiusura del Concilio Vaticano II, nel 1965, i Confratelli detenevano gran parte della responsabilità per la missione dell’Ordine. La maggior parte di loro erano europei, e nei Paesi in via di sviluppo le iniziative missionarie intraprese negli anni ’50 non avevano ancora portato frutti, in termini di vocazioni autoctone.

All’inizio del terzo millennio, però, la situazione è notevolmente diversa. Ora formiamo veramente un organismo internazionale. L’Ordine è presente in 50 Paesi del mondo, 30 dei quali si trovano nel mondo cosiddetto “in via di sviluppo”. Questa nuova realtà non può essere dimenticata, in quanto fa parte del rinnovamento, di questa nuova visione e della futura pianificazione dell’Ordine. Non siamo più un’istituzione centrata soprattutto a livello europeo, ma abbiamo assunto un volto veramente internazionale, con i Confratelli che provengono da 56 nazioni, appartenenti ai 5 continenti. Abbiamo oltre 40.000 Collaboratori, che non rappresentano soltanto i Paesi in cui l’Ordine è presente, ma molti di più, a causa dell’immigrazione e per altri fattori che facilitano gli spostamenti anche oltre i confini nazionali.

3.5.3. Cooperazione interprovinciale e internazionale

Il nostro futuro si basa sulla nostra capacità e sulla volontà di lavorare insieme ai Collaboratori, in una cooperazione che oltrepassa i confini delle Province e in una rete operativa che comprende anche altri gruppi ed organizzazioni. Il futuro dell’Ordine si basa sulla cooperazione interprovinciale e sulla condivisione delle risorse; viceversa in molti Paesi la presenza dell’Ordine gradualmente cesserà di esistere, non soltanto nei Paesi in via di sviluppo, ma anche in quelli industrializzati. Ciò a cui sto pensando non è soltanto la sopravvivenza materiale delle nostre opere, il che ovviamente è nelle mani di Dio, ma soprattutto la sopravvivenza del Carisma.

Affinché il carisma dell’Ospitalità continui a sopravvivere, anzi ad essere espresso in modi che rispondano ai bisogni delle persone, due cose sono essenziali. La prima è che ci siano persone impegnate verso Giovanni di Dio e il suo operato, che vogliono portare avanti per il bene dell’umanità, e che pertanto si dedicano a questo obiettivo; la seconda è che si realizzi la trasmissione dei nostri valori alle future generazioni.

3.6. Quale futuro?

Ovviamente ci vorrebbe un profeta per predire il futuro della Vita Religiosa. Una cosa però è certa: il futuro sarà ben diverso dal presente, dato che l’Ordine già oggi è diverso da come era ai tempi del Concilio. È una cosa positiva? Personalmente, credo che sia la direzione verso cui ci sta guidando lo Spirito. Ricordo che il mio Maestro, quando ero novizio, era solito dire che dobbiamo cercare di fare le cose al meglio, come se dipendesse tutto da noi, e pregare come se tutto dipendesse da Dio, come in effetti è.

Non è importante quale forma assumerà la Vita Religiosa nel futuro, ma la domanda fondamentale è: come continuare ad essere testimoni credibili della sequela radicale di Gesù, e inoltre, in che modo essere la presenza compassionevole del Padre celeste per i suoi figli sofferenti?48. Ciò deriverà dal potere dello Spirito Santo e dalla nostra volontà di cooperare con Lui con gioia ed entusiasmo.

Il Concilio Vaticano II non ci ha fornito un piano d’azione o un programma, soltanto un’esortazione che dice di ritornare alle scritture e all’ispirazione originale del proprio istituto, al Fondatore!

Questo consiglio è ancora valido e ad esso dovremmo aggiungerne un altro: saper distinguere i segni dei tempi49. Dovremmo altresì prendere coscienza e imparare dalle esperienze degli ultimi 40 anni, dalle riflessioni teologiche e dalle intuizioni cui siamo giunti in questo periodo.

I fattori che plasmeranno il modo in cui l’Ordine si evolverà nel futuro, ci permetteranno di continuare a dare un’autentica testimonianza dell’amore compassionevole del Padre per i suoi figli, in special modo per quelli si trovano nel bisogno. Questi fattori sono:

a) L’urgenza e la necessità della missione, nella quale siamo impegnati, e che ci spinge al cambiamento, adattandoci e rifocalizzando la missione dell’Ordine.

b) Il Signore ha dato alla sua Chiesa, attraverso il nostro Ordine, due doni speciali: il primo è la Fraternità. Implicito in questo dono è il comandamento ad amarci gli uni gli altri, e ad amare in modo particolare le persone che serviamo e quelle con le quali lavoriamo, considerandoli nostri fratelli e sorelle. Questo dono ci richiama all’unicità della chiamata ad essere fratelli e sorelle, e mostra all’umanità intera come dovrebbero vivere i membri della stessa Famiglia di Dio, un compito cui tutti siamo chiamati50.

c) Una maggiore comprensione del secondo dono che Dio ha fatto a noi e all’umanità attraverso il nostro Ordine, e cioè l’Ospitalità, che può essere definita come l’accoglienza del forestiero, dell’altro, di colui che bussa alla nostra porta perché si trova nel bisogno e che non ha nulla da offrirci, e che fa appello alla lunga tradizione di ospitalità della nostra Famiglia Ospedaliera. Ogni atto di ospitalità trasforma così il rapporto che esiste tra i membri di un gruppo di persone estranee, trasformandolo in un gruppo di persone prossime, in senso biblico. NON SEI PIU’ FORESTIERO, come dice la canzone dell’Ospitalità che costituisce la ‘colonna sonora’ del DVD che accompagna questo documento.

d) Arrivare al punto in cui, riferendoci ai membri dell’Ordine, non sia più necessario specificare Confratelli e Collaboratori, ma usare soltanto il termine noi, che ci comprende tutti.

e) Un elemento importante nel processo di rinnovamento è il fatto che tutti debbano essere informati di quanto sta accadendo, sentendosi coinvolti e impegnati in questo processo.

Una buona comunicazione perciò è essenziale. Molte buone idee e iniziative si perdono proprio per mancanza di comunicazione. Le persone devono sapere cosa ci si attende da loro, che la loro cooperazione attiva è importante e necessaria affinché il processo di rinnovamento abbia un esito positivo. Tuttavia, dobbiamo essere forti e molto coraggiosi 51, perché quello del rinnovamento è un processo che richiede tempo, l’impegno volontario delle persone e tanta perseveranza. Solo quando le menti e i cuori delle singole persone saranno toccati da questa trasformazione, avrà luogo un vero cambiamento.

3.7. Impegni concreti

Ovviamente le diverse istanze di cambiamento potranno venire solo dal confronto tra la volontà di rinnovarsi e il confronto con le esigenze delle comunità locali. Per questo, sarebbe improprio, o addirittura azzardato, dare indicazioni concrete in tal senso, che si possano applicare ad ogni situazione. Tuttavia, credo sia doveroso indicare alcune direttrici lungo cui incamminarsi, anche se certamente non sono le uniche e non sono tutte necessariamente da percorrere.

Quantomeno, però, costituiscono un possibile orizzonte da intravedere.

➢Una rinnovata comprensione del Carisma.

Alla luce del rinnovamento della teologia conciliare e del documento “Vita consecrata” dobbiamo comprendere come il Carisma non sia il privilegio concesso da Dio a un Fondatore, e da questi trasmesso ai suoi seguaci. Si tratta piuttosto di un dono fatto da Dio alla Chiesa per il bene comune, attraverso la specifica vocazione di un Fondatore e da questi trasmesso alla famiglia religiosa da lui fondata. In tal senso il carisma ha tre caratteristiche fondamentali:

a) Ecclesialità. Innanzitutto il Carisma, nel nostro caso l’Ospitalità, è dono fatto da Dio alla Chiesa, affidato a San Giovanni di Dio e da questi trasmesso all’Ordine Ospedaliero. Pertanto non è possibile vivere, comprendere ed attuare l’Ospitalità se non nel contesto ecclesiale in cui esso si colloca. Detto in altri termini, anche il Carisma deve camminare nel tempo, al passo con la Chiesa e con l’evolversi della diversa sensibilità ecclesiale. Non può essere custodito come fosse un pezzo da museo, cercando di conservarlo in tutto e per tutto nella sua forma originaria: sarebbe il modo migliore per tradirlo. Come spero appaia chiaramente da questo documento, il Carisma dell’Ospitalità ha una sua intrinseca dinamicità, che si riferisce al cammino di progresso che anche la Chiesa realizza nella storia.

b) Incarnazione. In virtù del “principio di incarnazione” sottostante tutta la teologia pastorale anche il Carisma dell’Ospitalità, per quanto detto prima, deve concretamente incarnarsi nelle diverse situazioni e circostanze storiche in cui si trova ad essere esercitato. Se il punto precedente richiamava l’“ecclesialità” del Carisma, questo aspetto è più relativo alla sua “socialità”, se possiamo usare questo termine. In altre parole, le istanze del mondo, della contemporaneità, le mutate esigenze del malato di oggi, le nuove forme di patologia, ecc. esigono che l’Ospitalità sia praticata secondo stili diversi, anche profondamente mutati rispetto a quelli del tempo di S. Giovanni di Dio. Grazie a questo diverso approccio all’Ospitalità rimarremo fedeli al Carisma e, quindi, alla volontà di Dio che lo ha donato per il bene comune.

c) Espansività. Il Carisma, come dice un’espressione latina, è expansivus sui, tende cioè ad espandersi, a riverberare su altri che, a vario titolo, ne diventano partecipi. Se, infatti, è l’Ordine Ospedaliero il suo “titolare” e custode, ad esso partecipano quanti a vario titolo collaborano  con l’Ordine. L’avevamo già compreso molti anni fa, ma l’ultimo Capitolo Generale (2006) ha evidenziato questo fatto ancora una volta. Ovviamente esistono varie forme di collaborazione, da quelle più remote e periferiche – ad esempio benefattori ed amici che danno il proprio sostegno – a quelle più dirette e partecipative. Di conseguenza, anche la condivisione del Carisma partecipa in qualche modo a tali diversi gradi di vicinanza ed è stato già più volte auspicato di dare anche una specie di riconoscimento canonico a questa più diretta partecipazione.

In ogni caso, l’importante è prendere atto che, sul piano carismatico (al di là di ogni riconoscimento canonico) esiste già una diversificata partecipazione al Carisma, che in alcuni casi, è assai simile a quella dei Confratelli.

➢I rapporti con i Collaboratori.

Da parecchi decenni, quantomeno dai tempi di Fra Pierluigi Marchesi, c’è stata una progressiva crescita nel rapporto tra Confratelli e Collaboratori, affidando a questi ultimi sempre maggiori responsabilità nella missione dell’Ordine. Con un numero costantemente in aumento di centri e servizi, i Collaboratori non saranno soltanto impegnati nell’assistenza ai sofferenti, ma assumeranno responsabilità amministrative e direttive. Inoltre, nelle questioni più attinenti la missione, i Collaboratori sono coinvolti nell’organizzazione delle politiche e nella pianificazione del futuro. Come ho già detto prima, però, ci sono quelli che in questo processo rivestono il ruolo di ‘osservatori’, preferendo tornare ai vecchi modelli del passato, e che vedono questa prospettiva con sospetto o con indifferenza. In questa situazione, è difficile affidare ai Collaboratori un ruolo attivo in ambito decisionale. Le loro opinioni e il loro ruolo rimangono quelli di un ‘impiegato’, piuttosto che quelli di una persona che partecipa a pieno titolo della vita dell’Ordine, facendosi carico responsabilmente della sua vita e del suo progresso nella storia.

➢Esemplarità di vita.

Come abbiamo già detto in un’altra parte di questo documento, ciascuno di noi ha le sue cadute e le proprie fragilità. Si tratta di aspetti che sono inevitabilmente connessi alla nostra condizione umana. Tuttavia, in particolar modo noi Confratelli, dovremo impegnarci di più per fornire una testimonianza esemplare di vita cristiana, così come esige la nostra pubblica consacrazione nell’Ospitalità. Purtroppo, a volte non solo non diamo un buon esempio, ma addirittura con i nostri atteggiamenti, il nostro stile di vita e il nostro comportamento abbiamo dato una contro-testimonianza di ciò che è essenziale nel messaggio evangelico e nella sequela di Cristo.

➢Vocazioni.

Quanto abbiamo appena detto ha un importante risvolto vocazionale. A un giovane che ci chiede cosa significhi essere un Fratello di S. Giovanni di Dio, un Fatebenefratello, dobbiamo sempre essere in grado di dire “vieni e vedi”52. La migliore strategia vocazionale deve basarsi proprio sulla testimonianza di vita. Una comunità che si dimostri accogliente nel confronti di un aspirante è un fattore importante per aiutare chi vuole identificare con chiarezza la propria vocazione: ciò che egli sperimenta quando visita una comunità può incoraggiarlo, così come distoglierlo. “L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”53. Per questa ragione, dovremo fare in modo da poter dare, in ogni situazione, una testimonianza chiara di ciò che costituisce il nucleo del nostro essere Fatebenefratelli, e cioè l’Ospitalità.

Periodicamente si parla della possibilità dell’esistenza di vari tipi di impegno temporaneo, considerandolo tale sin dall’inizio. Questo tema potrebbe essere discusso in sedi appropriate, insieme ad altri modi di condividere la Vita Consacrata per un limitato periodo di tempo. Come ho già detto, non dovremmo considerare la diminuzione delle vocazioni e l’aumento delle responsabilità dei laici in termini negativi. Secondo me, ci saranno Confratelli sufficienti per fornire una testimonianza viva della sequela radicale di Gesù, e saranno una presenza emblematica della fraternità, un esempio di ciò che è essenziale nella missione, in termini di servizio e di dedizione, in un rapporto basato sul rispetto reciproco, sulla giustizia, sull’armonia e sull’ospitalità.

Considero questo momento storico come una “età del laicato”, che vede cioè emergere i laici nella Chiesa. L’aumento, in termini numerici, di uomini e donne impegnati – che nel nostro caso specifico sono i nostri Collaboratori – deve essere considerato non tanto come una forma per compensare la scarsità di Religiosi, ma soprattutto come una diversa “distribuzione” tra le due vocazioni. Tutto fa parte del progetto di Dio per il suo Popolo. Uno dei grandi documenti del Concilio è la costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen Gentium”. Nel capitolo IV, quello espressamente dedicato ai Laici, il Concilio afferma che: “Grava su tutti i laici il glorioso peso di lavorare, affinché il divino disegno di salvezza raggiunga ogni giorno più tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutta la terra. Sia perciò loro aperta qualunque via affinché, secondo le loro forze e le necessità dei tempi, anch’essi attivamente partecipino all’opera salvifica della Chiesa” (n° 33).

Ciò conferisce ai Religiosi il compito di dare una testimonianza profetica viva di ciò che è al centro del Vangelo.Attraverso la loro scelta di vita, il loro modo di vivere e le loro azioni, i Religiosi dimostrano  che la chiamata a seguire Cristo – una vocazione che è comune a tutti coloro che si identificano come cristiani e cioè come seguaci di Cristo – è al cuore della chiamata ad essere Religioso.

➢Prossimità.

Purtroppo sono sempre meno i Confratelli che sono attivamente impegnati nell’assistenza ai malati e a quanti usufruiscono dei nostri servizi. Laddove i Confratelli sono pochi, ci si potrebbe chiedere: dove dovrebbero stare per dare una testimonianza di ciò che è al cuore del messaggio evangelico e della nostra vocazione di Fatebenefratelli? Avrebbe forse più valore dare questa testimonianza nel settore amministrativo o svolgendo funzioni manageriali? Ovviamente anche questo è un servizio, che esemplifica il cambiamento carismatico di cui ho già parlato; ma non si può limitare ad esso tutta l’essenza e il fine della vocazione. Dobbiamo trovare forme e mezzi adeguati affinché le persone e le comunità possano decidere per proprio conto, così da permettere ai Confratelli di avere un contatto più diretto con i malati e con le persone che si trovano nel bisogno, e non necessariamente attraverso cure di tipo medico-infermieristico, ma a livello umano, relazionale e pastorale. Ho visto spesso nostri Confratelli già avanti negli anni che ancora rendono un servizio prezioso ai malati, alle persone sole o abbandonate.

Nel DVD che accompagna questo documento fornisco un elenco – peraltro non completo – dei modi in cui un Confratello può mantenere un contatto diretto con le persone che soffrono. Possono essere modi “semplici”, come quello di sedersi, in modo amichevole, accanto ad un bambino malato o a un anziano che soffre, e semplicemente fargli compagnia.

Questo è un magnifico servizio di carità che anche un Confratello avanti negli anni può svolgere, e nel quale può trovare una personale gratificazione e un’alternativa alla sensazione di vuoto e di solitudine in cui a volte si passano le giornate. 

DOMANDE PER L’APPROFONDIMENTO DEL TESTO

Capitolo 3 – Prospettive di rinnovamento

Per i Confratelli

1. Quali difficoltà pensate possano esservi nel ritenere i Collaboratori “membri della nostra famiglia”?

2. Quale incidenza potrebbe avere il rinnovamento sulla nostra vita comunitaria, sulla missione della comunità e sul piano vocazionale?

3. Cosa ritenete debba essere cambiato nel nostro stile di vita per una migliore adesione al Vangelo, al Carisma dell’Ospitalità e ai nuovi bisogni dell’umanità?

Per i Confratelli e i Collaboratori (o per i soli Collaboratori laddove non vi siano Confratelli)

1. Vi sembra pertinente questo concetto di “Famiglia Ospedaliera”?

2. Come adattereste alla vostra realtà locale le prospettive di rinnovamento proposte dal documento?

3. Quali iniziative si possono prendere concretamente per un più ampio respiro internazio nale dell’Ordine?

 

4. CONCLUSIONI

4.1. La ricchezza del Carisma dell’Ospitalità.

Ciò che ho descritto della nostra vita e del nostro ministero è veramente qualcosa di molto speciale. Quanto sta avvenendo nell’Ordine è ovviamente l’operato dello Spirito Santo, e per questo mostra tutta la bellezza, l’ampiezza e la ricchezza del Carisma dell’Ospitalità. Il modo in cui trasformare, introdurre e abbracciare un dono è qualcosa che nessuna singola persona o istituzione può controllare o limitare. “Solo lo Spirito Santo può mantenere costante la freschezza e l’autenticità degli inizi e, nello stesso tempo, infondere il coraggio dell’intraprendenza e dell’inventiva per rispondere ai segni dei tempi” 54.

Se guardassimo all’Ordine come se stessimo guardando attraverso un prisma, vedremmo che ha una grande varietà di colori e di forme nell’espressione dell’ospitalità: sono i doni che abbiamo ricevuto, le persone e le vocazioni. C’è la vocazione del Fatebenefratello e quella del cristiano laico, entrambe fondate sul Battesimo e unite nella missione55. Ci sono altresì persone di buona volontà che si identificano e condividono i valori fondamentali dell’Ordine, non necessariamente appartenenti alla fede cristiana, ma che contribuiscono alla sua missione di misericordia attraverso il proprio lavoro professionale e la loro bontà d’animo, i talenti e le qualità umane che possiedono56.

Per usare una metafora, l’Ospitalità può essere vista come un grande fiume formato da due corsi d’acqua che confluiscono nello stesso alveo, pur provenendo da due fonti diverse. Uno è quello formato da coloro che hanno ricevuto la chiamata a seguire Cristo come Fatebenefratelli, e che cercano di viverla mettendosi al servizio dell’Ospitalità, dando così la testimonianza dell’amore compassionevole del Padre per i suoi figli sofferenti. Il secondo corso d’acqua è quello dei Collaboratori, che ha la sua fonte nel Battesimo cristiano, per coloro che appartengono alla nostra stessa fede, e la scelta vocazionale che hanno fatto nella propria vita.

Come un fiume che si espande continuamente erodendo le proprie sponde, permeando nuovi terreni, certe volte solo in superficie, altre anche nel profondo, l’ospitalità è una forte corrente che tende sempre, senza sosta, a continuare il proprio viaggio verso il mare. Nella fedeltà allo spirito di Giovanni di Dio, la nostra sorgente deve rimanere profonda, segnando la corrente o l’influenza che ci guida.Attraverso la ricerca e lo studio, l’ospitalità ci spinge, in ogni generazione, ad utilizzare mezzi aggiornati e sviluppi scientifici per servire in modo più efficace l’umanità sofferente, sempre illuminati e guidati dal Magistero della Chiesa e da quello dell’Ordine57.

La forte corrente che ci guida senza sosta è la forza dello Spirito e l’urgenza della missione, e non potrebbe essere altrimenti, se ci soffermiamo a riflettere sulla vita del Fondatore, che era molto triste nel “vedere soffrire tanti poveri, che si trovano in grandi necessità sia per il corpo che per l’anima”58.

La profonda spiritualità che ci è stata tramandata è una nuova fonte di illuminazione alla quale attingere. “Oggi l’Ordine mostra un volto pluralista, interculturale ed interrazziale e si sente chiamato a proporre il cammino spirituale di Giovanni di Dio anche a uomini e donne che non appartengono più solo alle culture occidentali, come succedeva finora… Oggi emergono sfide nuove ed inedite; non è più sufficiente accogliere il carisma come eredità ricevuta. Bisogna riconfigurarlo, dargli un nuovo volto, interpretarlo in modo più attuale. Occorre ‘far ardere il cuore’ non solo ai membri dell’Ordine, ma anche alla società, alla gente, alla Chiesa”59. E la forza che ci sostiene in questo ministero è costituita dai bisogni della gente, che ci spingono ad agire e a farci ritornare sempre alla nostra fonte, San Giovanni di Dio, in cui troviamo l’ispirazione e la guida.

4.2. Superare tutto per Cristo

Dobbiamo costantemente ricordare a noi stessi quanto sia importante la missione di Ospitalità, nei confronti della quale ci siamo impegnati e nella quale siamo stati consacrati. Come Fatebenefratelli dobbiamo fungere da esempi ed essere uomini di speranza per tutti, in un mondo che sta rapidamente perdendo la speranza, e ciò riguarda in modo particolare le giovani generazioni. Dobbiamo continuare a dimostrarci testimoni dell’amore di Dio, essendo coscienza critica, testimonianza profetica e guida morale, e nell’apertura verso i nuovi bisogni, in  collaborazione con tutti i membri dell’Ordine60.

Miei cari fratelli e sorelle nell’Ospitalità, la nostra amata Famiglia Ospedaliera ha ancora molto da offrire al mondo e alla Chiesa, oggi e nel futuro. Non smettiamo di sostenerci e di incoraggiarci a vicenda attraverso la parola e soprattutto con l’esempio concreto, cercando di non sprecare le opportunità che ci vengono offerte ogni giorno. Cerchiamo di riconoscerle e di affrontarle con fermezza, convinzione, entusiasmo, e con il profondo desiderio di superare tutto per Cristo.

Ancora una volta vorrei sottolineare il fatto che il futuro dell’Ordine e la garanzia per il successo della sua missione è nella solida formazione dei Confratelli, nel lavoro assieme ai nostri Collaboratori e nella loro formazione. È questa ‘partnership’ con i Collaboratori che darà nuovo vigore al nostro Ordine, ed un nuovo significato al termine “Ordine”. La nostra Famiglia Ospedaliera è formata da tanti uomini e donne: ci sono coloro che hanno professato i voti religiosi, e ci sono altre persone, la grande maggioranza, che pur seguendo la loro vocazione nella vita sono uniti ai Religiosi professi nel servizio alla missione.Tutte queste persone formano un grande fiume di ospitalità, che cura, guarisce, restituisce vita e speranza alle persone che si trovano nel bisogno. Con questo spirito di collaborazione, di fiducia e rispetto reciproci, oltre che di amicizia tra Confratelli e Collaboratori, riusciremo a dare una nuova vita, un nuovo significato e un nuovo slancio alla missione, che ravviverà la nostra fede, rafforzerà la nostra speranza e riaccenderà la nostra carità. È così che l’ospitalità praticata secondo lo stile di San Giovanni di Dio diventerà una vera “Passione per l’Ospitalità di San Giovanni di Dio oggi nel mondo”, con l’entusiasmo e l’impegno che ne derivano.

L’ospitalità è oggi interpretata ed espressa in un modo che è antico ma al tempo stesso ancora attuale e moderno, secondo le necessità delle persone sofferenti. Per usare le parole di Pio IX, dobbiamo praticare la “carità antica ma con mezzi modernissimi”. Questo processo certamente non ha mai fine, ma si ricrea, pieno di vitalità e fervente di attività. Mi piace pensare a come Giovanni di Dio sarebbe orgoglioso nel vedere quanto stanno realizzando oggi i suoi seguaci, così come un insegnante sarebbe orgoglioso nel vedere che i suoi studenti realizzano le cose meglio di come ha fatto lui nel passato. Gesù disse: “compirete le opere che io compio e ne farete di più grandi”61. Senza dubbio San Giovanni di Dio si meraviglierebbe nel vedere come il seme che ha gettato a Granada nel 1539, attraverso la potenza dello Spirito Santo sia diventato quel bel fiore che mancava nel giardino della Chiesa, come lo definì il Papa San Pio V nel 1572, quando approvò l’Istituto formato dai seguaci di Giovanni di Dio come Congregazione62.

Affidiamo alle mani sicure di Maria, Madre del Buon Consiglio, le nostre necessità individuali, quelle della nostra famiglia e della comunità, nel giorno della sua Festa e nel quale pubblichiamo questo documento. Possiamo essere certi che proprio come una madre, non abbandonerà i suoi figli, ma ci aiuterà a fare ciò che vuole da noi il suo Divin Figlio63. Dato che San Giovanni di Dio continua a vivere in ciascuno di noi, è con noi tutti i giorni, guidando e intercedendo per le nostre necessità e per quelle delle persone che serviamo in suo nome.

La memoria e l’esempio. 

La memoria e l’esempio di tanti membri della nostra Famiglia Ospedaliera che ci hanno preceduti e che sono stati “marcati dall’Ospitalità”, alcuni dei quali proposti come icone di ospitalità e per questo canonizzati e beatificati, possano continuare ad ispirarci e a motivarci nel nostro operato quotidiano al servizio dei sofferenti. 

Mi unisco a voi nella speranza di un futuro luminoso per la nostra grande Famiglia Ospedalieradi San Giovanni di Dio.

Fra Donatus Forkan,O.H. – Priore Generale 

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1 Cfr. Lippitt, 1969.

2 Cfr. Giovanni Paolo II, Novo Millennio Ineunte, 1.

3 Cfr. 1Cor 13, 3.

4 Cfr. Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 31 a,b.

5 Fra P. Marchesi, Umanizzazione, Roma, 1981, pp. 34-35.

6 Cfr. Gv 3, 8; 1Re 19, 11-17.

7 Lo stemma della Famiglia Venegas, che si può ancora scorgere sull’architrave della porta di quella cheanticamente era la casa di questa importante famiglia di Granada, raffigura un cuore trafitto da una spada,dove si legge il motto ‘Il cuore comanda’. Il padrone di casa, Don Miguel Abiz de Venegas, aveva concessoa Giovanni di passare la notte all’ingresso della sua casa. Ma il cuore di Giovanni non era sordo alla voce dei poveri, e li invitò a rifugiarsi con lui in questo alloggio di fortuna, che ben presto si riempì di quei poveri e malati che egli portava lì, tanto che gli abitanti della casa avevano difficoltà ad entrare e ad uscire. Comprensibilmente perciò, a Giovanni venne chiesto di cercare un luogo più appropriato in cui ospitare i suoi ‘amici’. Potremmo dire che fu allora che l’ospitalità di Giovanni iniziò a prendere forma, nell’androne di una casa.

8 Cfr. Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 31b.

9 Cfr. Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Costituzioni 1984, cap. I.

10 Cfr. Costituzioni 1927, art. 79 a.

11 Costituzioni 1984, art. 22.

12 Mt 6, 33.

13 Cfr. Costituzioni 1927, art. 79a.

14 Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica Vita Consecrata, 1996. Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica: La vita fraterna in comunità (1994), Ripartire da Cristo (2002); Il servizio dell’autorità e l’obbedienza (2008).

15 Umanizzazione; I Fatebenefratelli alle soglie del Terzo Millennio; Fatebenefratelli e Collaboratori insieme per servire e promuovere la vita; Progetto Formativo dei Fatebenefratelli; La Carta d’Identità dell’Ordine; Il cammino di Ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio.

16 Discorso di Giovanni Paolo II ai Religiosi dell’Ordine Ospedaliero di San Giovanni di Dio, Città del Vaticano, 2 dicembre 1995.

17 Cfr. Fra Pascual Piles, Lasciatevi guidare dallo Spirito, Roma 1996.

18 Cfr. Dichiarazioni del Capitolo Generale 2006.

19 Gc 5, 16.

20 Mt 18, 22.

21 Gabriele Russotto OH, San Giovanni di Dio e il suo Ordine Ospedaliero, Roma 1969, vol. I, pag.116.

22 G. Russotto, op. cit., Roma 1969, vol. I, pagg. 111-112.

23 F. de Castro, Storia della vita e sante opere di Giovanni di Dio, cap. XXIII.

24 Cfr. J. Sánchez Martinez OH. Kenosis-diaconia en el itinerario espiritual de San Juan de Dios, pp 292, 307, 393.

25 Cfr. Primitivas Constituciones, cap. 35 (traduzione libera in italiano).

26 Costituzioni 1984, art. 22

27 Cfr. At 11, 1-18.

28 Cfr. Dichiarazioni del Capitolo Generale 2006.

29 F. de Castro, op. cit., cap. XIII.

30 F. de Castro, op. cit., cap. XX.

31 F. de Castro, op. cit., cap. XIV.

32 Cfr. Confratelli e Collaboratori Insieme per servire e promuovere la vita (dove si fa una definizione dei Collaboratori al n. 6).

33 Dichiarazioni del LXVI Capitolo Generale, 2006, Missione dell’Ordine, 2.C.

34 Cfr. Fra Pierluigi Marchesi, Umanizzazione.

35 Cfr. Lumen Gentium, n. 13.

36 Lc 15, 11.32.

37 Nel quadro di Rembrandt che raffigura il ritorno del Figliol Prodigo, oltre alle tre figure principali della storia ci sono degli spettatori curiosi. Anche se la parabola non ne fa menzione, è possibile immaginare che, avendo sentito dire che il giovane aveva fatto ritorno a casa, qualcuno fosse stato mosso dalla curiosità e pertanto si fosse recato a vedere come lo avrebbe accolto il padre. In questo modo, ne avrebbero ricevuto una sorta di ‘suggerimento’, di indicazione per riaccoglierlo nella comunità.

38 Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 25a.

39 Lc 10, 29-37.

40 Cfr. Benedetto XVI, Deus Caritas Est.

41 Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 21

42 Benedetto XVI, Deus Caritas Est, 25 a.

43 F. de Castro, op. cit., cap. XVI.

44 Cfr. Sandra M. Schneiders, Selling Out (traduzione libera in italiano).

45 Benedetto XVI, Spe Salvi, 27.

46 Costituzioni 1984, art. 55.

47 Benedetto XVI, Spe Salvi, 33.

48 Cfr. Mt 14, 14.

49 Cfr. Mt 16, 3.

50 Cfr. Vita Consecrata, n. 60.

51 Cfr. Gs 1, 6-7.

52 Gv 1, 46.

53 Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, IV, n. 41.

54 Ripartire da Cristo, 20.

55 Cfr. Christifideles Laici, 33.

56 Cfr. Vita Consecrata, n. 54.

57 Cfr. Carta d’Identità dell’Ordine.

58 Cfr. San Giovanni di Dio 2 GL, 8.

59 Il cammino di ospitalità secondo lo stile di San Giovanni di Dio, nn. 5; 6.

60 Cfr. Capitolo Generale del 2006.

61 Cfr. Gv 14, 12.

62 Cfr. Russotto, G., op. cit., vol. I, pag. 108

63 Cfr. Gv 2, 1-5

INDICE

1. IL RINNOVAMENTO II

1.1. Il concetto di rinnovamento II

1.2. Le basi biblico-teologiche II

1.3. Il rinnovamento è opera dello Spirito IV

2. STORIA DEL RINNOVAMENTO NELL’ORDINE VI

2.1. Le premesse storiche di un rinnovamento perenne VI

2.1.1. “Il cuore comanda”

2.1.2. Ogni forma di vita è destinata a crescere oppure a morire

2.1.3. Una visione originale e autentica dell’Ospitalità

2.2. Come eravamo… VIII

2.2.1. I Confratelli prima del Concilio Vaticano II

2.2.2. I Confratelli all’epoca del Concilio Vaticano II

2.3. …e come siamo XI

2.3.1. Gli effetti del rinnovamento

2.3.2. Il rinnovamento ha portato qualcosa di nuovo

2.3.3. La ‘Nuova Ospitalità’

2.3.4. La purificazione della memoria

2.3.5.Verso una nuova collaborazione

2.3.6. Una struttura per conservare l’eredità di Giovanni di Dio

2.4. Il carisma dell’ospitalità XV

2.4.1. La fedeltà al carisma dell’ospitalità: elemento distintivo dei Confratelli

2.4.2. L’Ospitalità è la nostra eredità

2.4.3. Un rapporto di totale fiducia

3. PROSPETTIVE DEL RINNOVAMENTO XVIII

3.1. L’Ordine come “famiglia” XVIII

3.1.1 La famiglia Ospedaliera

3.1.2. Apprendere dai Confratelli missionari

3.2.Verso il rinnovamento XIX

3.2.1. ‘Ripartire’

3.2.2. A che punto ci troviamo nel nostro cammino verso il rinnovamento?

3.2.3. Riscopriamo Giovanni di Dio!

3.3. L’importanza della comunità religiosa XXIII

3.4. Collaboratori/Missione XXV

3.4.1. Confratelli e Collaboratori hanno ricevuto entrambi il dono dell’Ospitalità

3.4.2. Formazione dei Collaboratori e chiarezza sulla missione

3.5. Le sfide XXVI

3.5.1. Fedeltà alla nostra identità ospedaliera

3.5.2. La dimensione internazionale

3.5.3. Cooperazione interprovinciale e internazionale

3.6. Quale futuro? XXVII

3.7. Impegni concreti XXVIII

4. CONCLUSIONI . XXXII

4.1. La ricchezza del carisma dell’ospitalità XXXII

4.2. Superare tutto per Cristo XXXIII

NOTE XXXIV