LE ALI
DI RIGORE
Conferenza tenuta all’Ospedale Sant’ Orsola
ASSOCIAZIONE
EX COLLABORATORI – Ospedali Fatebenefratelli – o.n.l.u.s. – Via Vittorio Emanuele II, 27 – 25122 BRESCIA
11 Novembre 2007 - Angelo Nocent
«E’ negli uomini che la Chiesa è bella»
(Sant’Agostino)
11 Novembre 2007: giornata della memoria
“Sandro… Domitilla… Raimondo…”
Di Angelo Nocent
PREMESSA
Spero di non esser venuto a guastarvi la festa perché devo parlare di cose bellissime che sanno di Paradiso, ma anche lancinanti per la perdita dell’amico Fra Raimondo Fabello.
Sono lusingato per l’invito che mi hanno rivolto fra Marco e la Dottoressa Inzoli. Dovrei parlarvi di un frate, classe 1942 come me, friulano dalle radici Aquileiesi come me, compagno di scuola ma anche di vita: lui fatebenefratello a tutto tondo, io solo un pochino,… ino,…ino…,ino.
Sono qui a parlare a dei Fatebenefratelli come voi. Perché lo siete. E ci sono anche le Fatebenesorelle, a cominciare dalla Dottoressa.
E quell’ Ex collaboratori è proprio una stonatura. C’è qualcuno di voi che si ritiene ex mamma, ex papà, ex fratello, ex sorella? Nessuno vi ha chiesto di abdicare e così voi siete in piena attività, anche se diversamente abili, ossia impiegati in altra maniera. Ma non ex !
Mi rifiuto di credere che i qui convenuti, a fare “memoria” siano una specie di ex combattenti in pensione che vivono solo di ricordi. Voi formate un solo corpo con quelli che vi hanno ceduto il posto di lavoro perché i legami di comunione non sono stati recisi, come non lo sono con gli assunti al posto vostro. Gli uni e gl’altri li ricordiamo fraternamente, perché camminiamo nel segno della continuità.
Se siamo qui è perché abbiamo amato e l’amore è più forte della morte.
Su di voi tanti anni fa i Fatebenefratelli anno INVESTITO. Fare un INVESTIMENTO vuol dire esercitare l’opera di misericordia di vestire, coprire di attenzioni umane, culturali e spirituali coloro che lavorano nei Centri.
Erano convinti, e lo sono ancora, di due tre cosette fondamentali:
· che il lavoro è partecipare al disegno di Dio.
· che il lavoro appartiene al Padre (il Padrone della vigna)
· che gli uomini sono Suoi collaboratori (vignaioli, operai nella su vigna,
· che l’agenzia di collocamento di cui il Padre si serve sono Cristo e la sua Chiesa.
E così vi hanno insegnato a INVESTIRE a vostra volta. A parte i quattro soldi di stipendio, le vostre fatiche le avete messe in borsa. Ma all’Estero. Non li avete portati in Svizzera dove ci sono gli strozzini. Ma dove li metteva San Riccardo Pampuri il quale vi ha assicurato danno il 100 per uno d’interessi.
Coloro che avete servito, curato, amato, sono tutti segnati nel Libro della Vita. Per ognuno di noi è stata accesa una scheda e lì son registrati tutti i nomi di coloro che ci son passati tra le mani e nel cuore. Gente ormai dimenticata dal punto di vista della fisionomia ma sempre in comunione, sempre in comunione, perché noi ci leghiamo per non lasciarci mai.
Il lavoro a cosa mira? Lo dice il Vangelo: a produrre opere.
Notate: la Scrittura dice: “La fede senza le opere è morta”. Provate a ribaltare il concetto: le opere senza la fede cosa sono?
Sul “fare”, il dover fare, produrre, realizzare e realizzarsi… siamo un po’ tutti d’accordo: faccio il medico, l’infermiere, l’inserviente, il cuoco, l’autista…Lo faccio per il “27 del mese” ma anche perché l’azione mi dà la sensazione di essere vivo, utile.
Ma c’è qualcuno che può lavorare a prescindere da chi lo circonda? Non è possibile. Il lavoro è una catena, un insieme di anelli. Se la catena si spezza, si spezza il lavoro. Se vogliamo usare un linguaggio più raffinato, possiamo dire che il lavoro fa “comunione”:
· una comunione d’intenti (il progetto)
· una comunione solidale (gli interessi reciproci)
Ma per fare ciò, voi avete scelto di passare dall’agenzia di cui parlavo prima: Cristo e la sua Chiesa.
E qui salta fuori Fra Raimondo. Chi era? Priore, Direttore Generale, Presidente, Provinciale, Definitore Generale…Ti verrebbe da pensare a un signor menager. E invece no: è semplicemente un addetto di quell’agenzia CRISTO-CHIESA che ti fornisce quello strumento che può fare del tuo lavoro, delle tue opere quotidiane, un lavorare, un operare cristiano.
Cosa cambia? Cambia, cambia…
La fede è olio che si mette negli ingranaggi affinché la catena scorra, non si surriscaldi e si spezzi. E’ impedire l’effetto serra. La fede crea comunione cristiana nel mondo. Un lavoro fatto con fede crea comunione tra lavoratori. Perché gli interessi, il busines, la carriera, il successo, il possedere, lo sgomitare, l’industrializzarsi per piazzare e piazzarsi, la concorrenza…sono tutte belle cose ma che surriscaldano l’ambiente, possono trasformare il lavoro in “effetto serra”: un lento ma inesorabile degrado ambientale che rende conflittuale la convivenza, nevrotica e alienante la vita, larvata alimentazione di quella che il dott. Pierluigi Micheli, un tempo Primario della “San Giuseppe” di Milano, chiamava “civiltà del disagio”.
MA LA FEDE CHE COS’E’ ?
Un modo di concepire noi stessi. Ma per Grazia, per dono. Voi volete che vi parli di questo frate che se n’è andato in punta di piedi a 65 anni e 47 di vita consacrata sulle spalle. Se aggiungiamo gl’anni della formazione, viene fuori un 57 circa, ossia una intera vita ipotecata per Dio. Parlando di Lui, emerge la risposta all’interrogativo.
A 29 anni Fra Raimondo era già qui a lavorare in questo ospedale sant’Orsola. Ma in un certo modo:
· E’ qui in veste di Priore, ossia di capo, per dare l’assistenza sanitaria che comporta, come ricaduta, che a fine mese si paghino i fornitori e gli stipendi.
· Epperò, se si limitasse a questo, sarebbe semplicemente un menager che ha diritto anche a un discreto stipendio.
· Invece lui è frate. E sullo scapolare ha quattro medaglie che lo contraddistinguono e che deve cercare di non smarrire perché sono la combinazione, il codice per aprire la Cassaforte del Cielo. I gradi, i segni del suo potere si chiamano: povertà, castità, obbedienza e ospitalità.
Non vi sembra che ci troviamo davanti a un paradosso?
Cos’ha da darmi un uomo in queste condizioni: povero, casto, obbediente, ospitale? Verrebbe da dire: un bel niente!
E invece no. E’ qui a cercar di garantirmi lo stipendio, come un menager, ma anche a trasmettermi la fede che devo mettere nelle opere.
Che, se gli riesce di far quadrare il bilancio, è contento, ma solo a metà se non gli è riuscita la sua vocazione che è quella di fare il “pescatore”: “Vi farò pescatori di uomini”.
Che delusione quando getti e rigetti l’amo o la rete e non viene su niente perché i pesci non abboccano o sfuggono alla cattura di Dio
In questo caso, questo frate celibe, casto, povero, obbediente, ospitale e IMPOTENTE, cosa fa?
Chissà quante volte Fra Raimondo, suo fratello Marco, gli altri frati qui presenti…chiudendosi in camera o ritirandosi in Chiesa nella penombra, a tu a tu col mistero, si son detti come i discepoli di Gesù: “Maestro, abbiamo faticato tutta la notte ma non abbiamo preso nulla”.
E la sua risposta: “Gettate le reti”. “ Ma Signore…non hai capito!”. “Getta la rete”. Bene: “Sulla tua parola, getterò la rete”.
Raimondo è stato un uomo di “parola”. In due sensi:
· aveva l’onestà intellettuale;
· possedeva la sincerità verbale: ti do la mia parola…non posso ma ci provo…non dipende da me ma ce la metterò tutta.
Ma Raimondo è uno che crede alla Parola. Quindi, non solo uomo di parola ma anche uomo della Parola. Ossia l’uomo di Dio per gli uomini.
Ecco: se incontri una persona così nella vita, questa ti unge, ti segna, ti cambia… Perché ti costringe a pensare, a trovare il senso della fatica quotidiana.
Se poi sono chiamato a interferire nel dolore degli altri, a lenirlo, a curarlo, allora la cosa si complica ancora di più.
Uno potrebbe dire a buon diritto: “Sono qui perché tengo famiglia. Senza il 27 garantito, non posso dedicarti il mio tempo, la mia professionalità”. Poi si gira e si ritrova alle spalle il Fra Raimondo di turno che lo schiaffeggia senza alzare un dito o dire una parola. La considerazione che ci verrebbe ovvia è questa: “Guarda quello lì: ha talento, sa far girare un’azienda, ha conoscenze, potrebbe fare i soldi, veste sempre di nero, che sarà anche di moda, ma…Una tonaca va in lavanderia e l’altra torna pulita e stirata…ma son sempre quelle che girano. E non è finita: quando si ritira, è solo come un cane, senza affetti, tenerezze…Ma che vita è!”
Domanda legittima: vita da frate. Lui è una bandiera. Indossa un abito firmato dallo stilista San Giovanni di Dio & company. Il frate è mandato nel tuo circuito a dirti che partecipa al tuo lavoro; è con te solidale; i malati gli stanno più a cuore di se stesso…
Ma viene a ricordare a tutti
· che c’è un dopo,
· che il cerchio non si chiude qui,
· che siamo incamminati verso…
· che siamo destinati all’Oltre.
Fra Raimondo, con tutti i suoi titoli, Priore, Provinciale, Direttore della Ricerca sull’Alzheimer, ecc. in realtà è specialista in “escatologia”. Che parolona! Eschata: “cose ultime”. Lui è qui vestito di nero – ma potrebbe esserlo anche di rosso – come segno. E’ messo di fronte a te come un cartello stradale.
I frati, le suore, coloro che si rendono “eunuchi”, castrati “per il Regno dei Cieli” – “Chi può capire, capisca”, dirà Gesù – sono la segnaletica che indica percorsi alternativi ai vicoli ciechi, alle strade senza uscita.
Quando sei malato, stai imboccando una via senza uscita. A meno che…
Ecco l’Ospedale. Ma perché ospedale religioso?
· Perché non mi accontento di ripararti gli organi malati e lasciarti in un vicolo cieco.
· Mi preme darti quella guarigione completa che va in profondità. Mi sta a cuore anche il tuo benessere psichico.
· Ma non mi basta ancora: mi sta a cuore la tua anima, ossia tutta la tua persona: risanata, salvata, guarita. O pronta per il Cielo.
Che è come dire: mi stai a cuore TU. Tu nella tua complessità di uomo braccato, ferito, stremato…che ha lavorato una vita, progettato e adesso sei lì, impotente.
Allora il frate, il laico che condivide lo stesso carisma dell’hospitalitas, ossia del darsi tutto a tutti, sono coloro che ti aiutano ad uscire dall’assurdità in cui sei finito e ti aprono una porta che comunica con l’Oltre…
Questa scoperta ti calma, placa la tempesta interiore. La paura progressivamente si riduce, il coraggio di lottare aumenta, ti colori di speranza e puoi perfino arrivare a sentire la morte come una sorella, la “sorella morte” di san Francesco.
Pensate un attimo a Fra Raimondo come se foste gente senza fede.
· Lui tutta la vita in Ospedali a curare persone, a sostenere la ricerca, a combattere per un mondo migliore…
· Poi va alle Molinette, il top dei trapianti di fegato, si mette in lista d’attesa, passano i mesi, si sottopone a una dieta rigidissima, ci va con le sue gambe e torna qualche giorno dopo in una bara.
Cosa vuoi dire … Cosa vuoi pensare…
Gli sono stato vicino prima del trapianto. Abbiamo parlato, scherzato, riso, sognato…Da ogni parte ci mettiamo a pregare Sar Riccardo Pampuri, Don Giussani…E poi arriva l’ e-mail di Fra marco che ti stroca…
Così mi aveva scritto: “ Il Signore ha dato…” Poi puntini di sospensione. E’ l’inizio di quel passo di Giobbe che dice:
“Quest’uomo stava ancora parlando con Giobbe quando un altro venne a dirgli: “I tuoi figli e le tue figlie banchettavano a casa del fratello maggiore e, d’un tratto, 19un vento fortissimo, che soffiava dal deserto, ha fatto crollare la casa. Sono morti tutti. Solo io sono riuscito a salvarmi, per venirtelo a dire”. 20Udito questo, Giobbe si alzò, stracciò il suo mantello e si rase i capelli in segno di lutto. Poi gettatosi a terra pregò così:
21“Nudo sono venuto al mondo
e nudo ne uscirò;
il Signore dà,
il Signore toglie,
il Signore sia benedetto”.
22Nonostante tutto, Giobbe non peccò, non se la prese con Dio” (Gb 1, 18-22)
Chi era allora questo giovanotto come me? Io lo definirei così: Una “schiena a disposizione di Dio”. E se avrò tempo, vi spiegherò il perché. Ma se l’immagine non vi soddisfa perché sa di scaricatore di porto, ne propongo un’altra: un grande baritono che ha cantato ogni giorno per più di 50 anni il MAGNIFICAT: (vedi Pag. successive)
· qualche volta a squarciagola
· qualche altra con la voce rauca
· talvolta accennando appena con le labbra
· ma sempre , sempre, con una grande passione in cuore.
Passione. Sì, passione, quella da innamorati. Ma quella bruciante passione che si prova quando lei o lui hanno la sensazione di non essere corrisposti.
Voi m’insegnate che in amore vince chi fugge. E in questo caso il “fuggitivo” è Dio. Che si nasconde per inculcare il desiderio. E Dio questo scherzo deve averglielo fatto sovente affinché non si assopisse in lui la passione.
Provate a rifletterci: una grande passione per Dio, l’agnostos, come direbbe Plotino, l’inconoscibile. Non vi sembra un’avventura da visionari? Pensate che un uomo così sia normale, che sia a posto di testa?
Se sono qui, non è tanto per saziare la vostra sete, quanto per suscitare in voi il desiderio di conoscere, per amare e imitare, perché ogni età della vita è buona per farlo.
E da più di due mesi ormai che vado scrivendo nei ritagli di tempo. Ho scritto tante pagine ma senza seguire una logica. Il discorso è frammentato: tanti spezzoni, ricordi, lampi improvvisi, emozioni…
Ho titolato questo appuntamento così:
LE ALI NON SONO DI RIGORE
E c’è anche un sottotitolo preso da sant’Agostino:
«E’ negli uomini che la Chiesa è bella»
Poi ci sono due testi presi dal profeta Isaia che ben sintetizzano la figura di Fra Raimondo.
“4Dio, il Signore mi ha insegnato le parole adatte per sostenere i deboli.
Ogni mattina mi prepara ad ascoltarlo, come discepolo diligente.
5Dio, il Signore, mi insegna ad ascoltarlo, e io non gli resisto né mi tiro indietro.
6 Ho offerto la schiena a chi mi batteva, la faccia a chi mi strappava la barba.
Non ho sottratto il mio volto agli sputi e agli insulti.
7Ma essi non riusciranno a piegarmi, perché Dio, il Signore, mi viene in aiuto, rendo il mio viso duro come la pietra.
So che non resterò deluso. (Is 50 4-7)
1Dio il Signore, ha m’andato il suo spirito su di me; egli mi ha scelto per portare il lieto messaggio ai poveri,
per curare chi ha il cuore spezzato,
per proclamare la liberazione ai deportati,
la scarcerazione ai prigionieri.
2Mi ha mandato ad annunziare il tempo nel quale il Signore sarà favorevole al suo popolo
e si vendicherà dei suoi nemici.
Mi ha mandato a confortare quelli che soffrono,
3a portare loro un turbante prezioso invece di cenere, olio profumato e non abiti da lutto, un canto di lode al posto di un lamento: gioia a chi è afflitto in Sion.” (Isaia 61 1-3)”
E’ su di un uomo fatto così che vorremmo provare a riflettere.
Caro Fra Raimondo,
quando al telefonino mi è giunta la luttuosa comunicazione da tuo fratello Fra Marco, che non ti ha lasciato per tutto il tempo del ricovero, ho pianto. Poi, man mano che si diradavano le nebbie, ho cominciato a vederci più chiaro e a navigare nell’Oltre…fino a ricostruire l’evento. Perché di Evento si tratta.
A far corteo per il tuo ingresso nel Regno erano in tanti: tutti i“centoquarantaquattromila segnati…” di cui parla l’Apocalisse e avevano le lampade accese. Su tutti la gioia radiosa come di amici che partecipano alle nozze dell’amico. Il tuo San Giovanni di Dio era in prima fila come un patriarca orgoglioso, affiancato da uno stuolo di frati. Riconoscibili, San Giovanni Grande, San Benedetto Menni, San Riccardo Pampuri e i più festanti i santi martiri di Spagna con il loro caldo temperamento latino. Ho intravisto anche Padre Mosè Bonadi nelle cui mani avevi emesso la Professione Religiosa, i sacerdoti Innocente, Tarcisio, Giacomo, Roberto, i friulano Natale e Dalmazio… Per la circostanza si sono mossi anche i santi Ambrogio, Agostino, Carlo e, sull’altro versante, Ermacora e Fortunato di Aquileia con i fratelli martiri Canzio, Canziana e Canzionilla…e non poteva mancare il vescovo Cromazio e la folta rappresentanza del Patriarcato.
Ma prima, a tenerti la mano nell’ora della trepidazione c’era lei, la tua mamma. Aveva dovuto lasciarti già nel ’52, tu sui dieci anni e Marco un po’ di meno. I suoi lineamenti li hai sempre conservati impressi nelle pupille e la sua voce ti è rimasta nel cuore, geloso custode di un sacro tesoro. Non oso immaginare l’incontro dopo cinquantacinque anni E c’era anche mia madre a farle compagnia, per via delle origini, della confidenza con il dialetto e delle nostre storie incrociate. Si erano conosciute in Cielo e avevano tanto da raccontarsi…Perché non hanno mai perso di vista i loro figli impetuosi e vagabondi. Di fianco al letto c’era anche il tuo papà, a buon diritto radiante e orgoglioso di suo figlio, non meno di Giovanni di Dio, ma silenzioso come San Giuseppe che faceva gli onori di casa. Me lo ricordo bene il tuo babbo che un paio di volte all’anno veniva dal Friuli a Brescia con il treno per farvi visita nell’Aspirantato ed intrattenersi qualche ora in parlatorio.
Non ho nominato la Madonna. Ma è lei che ha organizzato tutto per la festa, sempre premurosa e attenta come a Cana. E c’eravamo tutti noi, attoniti e confusi, vestiti male, come raccolti all’ultimo momento dalla strada, da qualche giorno ormai intenti a sgranare rosari perché la situazione non precipitasse…
No, amici, non prendeteli come sprazzi di una fantasia malata: questa è la Comunione dei Santi !
ELABORAZIONE DEL LUTTO
Più di una volta m’è venuto da chiedermi: chi ha inventato la morte? Sarei proprio curioso di saperlo. Se qualcuno lo sa, fuori il nome…
Oh, scusate! Dimenticavo san Francesco: lui la chiamava “sorella morte”! Già. I pareri sono contrastanti.
Simon de Beauvoir era del parere che “non si dà morte naturale: [...] Tutti gli uomini sono mortali, ma per ciascun uomo la morte è un incidente e, anche se la conosce e vi acconsente, una violazione inaudita”.
Il tenore Claudio Villa, aveva anche lui la sua idea, da molti condivisa. Negl’ultimi giorni aveva espresso il desiderio – non so se è stato assecondato – che sulla sua tomba si scrivesse: “morte, mi fai schifo!”.
Sono i fluttuanti nostri stati d’animo. Bisogna ammettere che non è facile farsene una ragione. Ma, dopo la risurrezione del Maestro, né la morte né la vita sono più quello che erano state fino ad allora. Nessuna persona è semplicemente quello che vediamo. Io, tu, non siamo più gli stessi.
Perché una disgrazia irreparabile è toccata alla Morte, dopo essersi azzuffata con la Vita: Mors et Vita duello conflixere mirando. Sì, Morte e Vita si sono affrontate in un prodigioso duello…(Sequenza del giorno di Pasqua). Alla morte è successo qualcosa di grave, di irripetibile. Proprio a lei, che sembrava padrona assoluta del campo, dominatrice incontrastata da sempre, abituata ad avere immancabilmente l’ultima parola, è successo l’imprevisto.
Ancora insiste, ma adesso lei, ogni volta che si presenta ha paura ed è consapevole di aver perso la piazza.
Chi come frate Raimondo ( e come voi) ha passato tutta la vita in mezzo al dolore, sa che non lo si può capire. Il dolore non si può comprendere. Il dolore, di cui la morte è l’atto finale, ci butta tra l’assurdo e il mistero.
Ma all’amico Raimondo è successo proprio ciò che il poeta russo Majakovskij temeva: “E’ risaputo che tra me e Dio ci sono moltissimi dissensi. Tu sei il mio rivale, sei il mio insuperabile nemico. Eppure ho paura di continuare a combattere con te, perché combattendoti con questa forza temo, alla fine, di abbracciarti”.
Raimondo, nel Dio crocifisso, ha trovato l’Amico inseparabile e l’abbraccio irresistibile. Lui non lo ha lasciato nemmeno quando, umanamente, poteva sentirsi tradito. (Leggi trapianto di fegato)
A questo ragazzo sono stati messi a disposizione sessantacinque anni allo scopo di comprendere la parola della croce.
Già. Perché tutte le altre s’imparano in breve tempo. Ma per questa, il tempo non è mai sufficiente. E se vogliamo cogliere il senso della sua vita, dell’essere frate, ossia fratello di Gesù e degli uomini, dobbiamo sempre tornare all’evento: il Crocifisso, “parola della croce” (1 Cor 1,18). Lì c’è un fatto, un annuncio, attraverso un Evento.
Perché “la croce è la grande icona, la memoria fissa del credente, lo spettacolo dal quale non si deve mai staccare lo sguardo. Tehoria (= spettacolo) non indica un immagine ferma, ma un dramma in svolgimento.
E’ uno spettacolo che occorre
Questa circostanza luttuosa è provvidenziale proprio in questo senso: ci aiuta a vedere e rivedere, penetrare, scrutare e ripensare…
Perché anche Fra Raimondo è stato crocifisso con Cristo. Le stigmate non si vedono, ma ci sono: “quanto a me non ci sia altro vanto che nella Croce del Signore Nostro Gesù Cristo” (Gal 6,14), “difatti, io porto le stigmate di Cristo nel mio corpo” (Gal 6,17)
“Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).
Certo, piacerebbe a tutti seguire Gesù sul monte Tabor, ma esso fu in funzione del monte Calvario; solo per la via regale della croce (Imitazione di X. i II 12) si può giungere alla gloria e felicità eterna.
“E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio“, dicono gli Atti degli apostoli (At 14,22) e san Paolo ha scritto: “se siamo figli di Dio, siamo anche eredi, eredi di Dio, coeredi di Cristo, se veramente partecipiamo alle sue sofferenze, per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,17).
Questo frate votato all’ospitalità, è morto in croce, come muoiono ogni giorno tante altre persone. Anche il letto può essere una croce. Su di esso si riposano le membra, si consumano gli amori, sul letto sgorga la nuova vita ma si compie il sacrificio finale. Il suo morire nelle mani dei chirurghi, assomiglia al morire di Gesù per mano dei soldati romani, ossia in quel lasciarsi condurre, descritto dal profeta Isaia: “era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”.
Perché il morire di croce è il luogo di una dedizione incondizionata di sé, di una solidarietà assoluta che si realizza precisamente nel non far valere di essere “figli d’adozione” e per ciò stesso “eredi”. Come Gesù, anche il Raimondo è stato invitato a lasciare nelle mani di Dio la sua identità, nella consapevolezza che Lui, il Padre, non abbandona. Questa disponibilità, del resto era già stata assunta in gioventu: nella professione religiosa, al canto delle Litanie dei Santi, disteso sul pavimento del presbiterio, era stato coperto da un drappo nero, simbolo del morire crocifisso con Cristo, mentre dall’alto scendeva una pioggia di petali di fiori, a simboleggiare l’approvazione del Cielo per il dono incondizionato della vita, messo nelle mani del Padre. Un affidarsi in modo radicale a Lui, un disporsi ad assumere come Cristo, tutto il dolore del mondo.
Come inoltrarsi allora questo percorso così difficile? Proverò ad avventurarmi, senza alcun filo logico, con l’anima orante di chi non vede ma crede e si lascia guidare dai sussurri dello Spirito che, invocato, accorre sempre in aiuto alla nostra pochezza:
“Posa il Tuo dito sul mio orecchio ottuso,
la Tua saliva sulla lingua secca,
fammi captare il Logos, la Parola,
per annunziare solamente Cristo.”
* * *
Forse siamo ancora al gelido silenzio del sabato santo.
“Ogni uomo nella sua notte”, dice il titolo di un libro di Julien Green, che descrive la solitudine profonda dell’uomo. Ma ci sono dei momenti in cui questi “ciascuno” possono incontrarsi. Perché ciascuno nel proprio cuore nasconde una stella. E perché una stella brilli basta che vengano infrante le barriere della paura o della diffidenza. Allora la notte diventa luce, e il freddo della solitudine, calore. Tale opportunità d’incontro, per quanto fuggitiva, non va sprecata. Perché, potrebbe darsi che questo raccontare, non giovi solo allo scrivente ma possa far bene al cuore di chi pazientemente legge.
In questi due mesi ho cercato di scandagliare la sua anima, giacché si fatica a trovare scritti di Frate Raimondo. Per il momento, ho scovato solo la prefazione ad una biografia di San Giovanni di Dio, quanto basta però per vederne riassunto il temperamento. Mi hanno suggestionato queste parole che, nella sostanza, mi sono sentito ripetere al telefono e anche de visu: “Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza”.
Forse è vero ciò che scrive Olga Bergholz: che ognuno vorrebbe scrivere o almeno scovare un libro che inglobi tutto e in cui ritrovare descritto il proprio cuore. Lo si aspetta. In esso si vorrebbe vedere, non soltanto il corso superficiale degli avvenimenti, non solo l’apparenza della sua azione, bensì, prima di tutto, il più profondo, il più segreto, il più intimo, il più veridico del nostro cuore. Inutile dire che quel momento è, di volta in volta, puntualmente rimandato. Non so se questo desiderio è passato anche dal suo cuore. Comunque, questi appunti vorrebbero cogliere almeno un poco del suo cuore di fratello e di padre che concepiva la propria appartenenza all’Ordine come fedeltà ad una vocazione e ad una storia che aveva al centro un Dio fattosi Samaritano ossia di aver scelto di occupare l’infimo gradino della scala della reputazione. Umiliandosi al tal punto da diventare il dilettissimo del Padre che in Lui si compiace: “Questo è il Figlio mio, che io amo. Io l’ho mandato“. (Mt 3,15) Noi non troviamo di meglio che chiamarlo Buon Samaritano.
Il mio amico, questo figlio amato da Dio, aveva la pazienza dell’attesa dei suoi tempi. Talvolta a me faceva rabbia, proprio perché questo era il mio difetto. Ma lui operava sempre per allargare gli orizzonti e infondere fiducia nel cammino che lo Spirito fa compiere alla Chiesa di Gesù. Anche perché aveva una sapienza che gli permetteva di intravedere nuovi spazi ed aperture possibili, teologiche, morali e spirituali sia per il futuro della comunità cristiana che di riflesso si sarebbero riversate sull’Ordine.
Scrivere di lui non è solo un tributo e un ringraziamento per ciò che ha dato ma anche un dovere biblico: fare memoria per non dimenticare. Ed è anche una sfida ma che comporta due rischi:
La morte è verità, povertà, spogliazione. Per evitare l’atteggiamento celebrativo e non tacere senza tradire, la cosa migliore è di lasciarsi coinvolgere personalmente. Qui ho provato a ricordare e a raccontare, ma come avventura dello spirito, come itinerario spirituale, lasciandomi guidare da Fra Raimondo, in atteggiamento di obbedienza:
-
obbedire ai fatti e alla memoria;
-
obbedire alla storia vissuta con lui;
-
obbedire alla Parola che attraverso di lui ci ha parlato e intende parlarci ancora.
La sua morte non è che l’ultima tappa di morti precedenti: delusioni, tristezze, silenzi, dolori, solitudini, sempre vissuti nella riservatezza e nella speranza. Di tutte le sue notti buie, non sapremo mai dire. Ma di quella ultima, Pasquale, del suo esodo da noi, che rivela l’uomo a se stesso e agli altri, questa c’interessa e c’interpella.
Mi viene spontanea una preghiera:
Signore, Gesù,
Tu che sei Dio onnipotente,
fa che noi ricordiamo
ciò che dobbiamo ricordare
e che noi dimentichiamo
ciò che dobbiamo dimenticare.
Nel Tuo Nome, Gesù. Amen.
Mi vado convincendo che, a forza di continuare a parlare di ospitalità, di umanizzazione, di carisma dell’Ordine, si rischia di ottenere gli effetti indesiderati della nausea e dell’assuefazione. Il pericolo di scivolare dal carisma, non sempre facilmente percepito come tale, in una ossessione ideologica, esiste. Meglio sarebbe parlare maggiormente dei e con i compagni di strada del passato, a cominciare dai santi fatebenefratelli, che ormai sono tanti. Essi emanano un’essenza che penetra nell’anima e la inebria. Cosa che non producono i discorsi retorici, astratti, disincarnati.
Fra Raimondo è tra coloro che hanno accolto la modernità di san Giovanni di Dio e di San Riccardo Pampuri che riteneva adatti ai nostri tempi, ma con una razionalità limpida e, nello stesso tempo, totalmente aperta alla luce dello Spirito santo. Di entrambi amava l’energia, l’intelligenza, il senso pratico, il coraggio e il disprezzo attraverso il quale sono passati questi uomini sobri, diventati amanti perché conquistati dal loro Signore.
Era insistente il suo dire che bisognava avere più coraggio. Si riferiva un po’ a tutti, a cominciare da coloro che stanno più in alto e che percepiva ondeggianti. L’allusione alla Lettera di Giacomo era chiara: “5Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. 6La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento; 7e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore 8un uomo che ha l’animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni.” (Gc 1, 5-8)
Conversando con lui, mi ha trasmesso più volte, quasi fosse un testamento verbale, la sensazione che vedesse evolversi la situazione proprio all’insegna della paura e dello scoraggiamento; era preoccupato per il venir meno dell’ardimento evangelico, del coraggio di buttarsi fiducioso sulla Parola del Maestro.
A PARTIRE DAL SACRAMENTUM HOSPITALITATIS
Credeva nella Messa, un potenziale inesauribile, una centrale nucleare senza rischi. Le parole di Paolo VI per la liturgia del Corpus Domini del giovedì 10 Giugno 1971 lo e ci avevano profondamente convinti: “Ascoltate un momento. Qual è il vero significato di questa cerimonia? che cosa accadrà durante questo rito, come sempre, quando una Messa è celebrata? Accadrà questo: che Gesù, proprio Lui, Gesù Cristo sarà presente, sarà qui, sarà fra noi, sarà per voi. Noi stiamo rievocando non solo la sua memoria, ma la sua presenza, la sua presenza reale, velata, nascosta, accessibile soltanto a chi crede nella sua divina parola, ripetuta, e potente, da chi possiede il suo prodigioso sacerdozio, ma vera presenza, viva, personale. Lui, Gesù benedetto, sarà presente. L’Eucaristia è innanzi tutto un mistero di presenza. Pensiamoci bene: Gesù mantiene in questa forma e in questa ora la sua profetica parola: «Io sarò con voi fino alla fine dei tempi» (Matth. 28, 28). «Io non vi lascerò orfani, verrò a voi» (Io. 14, 18). Così disse, e così fa: Egli sarà qui, per Noi, per voi, per ciascuno di voi. Ora dite, voi oppressi dalla sofferenza: non è la solitudine, il senso d’essere soli, e quasi separati da tutti, ciò che fa grave, e talora insopportabile e disperata la vostra sofferenza? Il dolore è, di per sé, isolante; e ciò fa paura, e accresce la pena fisica. Ebbene, per chi crede nell’Eucaristia, per chi ha la fortuna di riceverla, questa tremenda solitudine interiore non c’è più. Egli, Gesù, è con chi soffre. Egli conosce il dolore. Egli lo consola. Egli lo condivide. Egli è il medico interiore. Egli è l’amico del cuore. Egli ascolta i gemiti dell’anima. Egli parla in fondo allo spirito”.
Su questa Chiesa del Giovedì Santo ha costruito la sua esistenza, vissuto la fraternità e la vita comune, anche quando l’ha vista ridursi all’osso. Si fa per dire; perché la famiglia dei malati e degli operatori sanitari non gli è mai venuta a mancare, anzi!
Coloro che muoiono possono insegnarci a vivere. Egli ci hai lasciati con buoni presupposti per trasformare la terra arida in giardino vivibile ed affrontare le gravi sfide del nuovo millennio perché ci hai creduto per primo. A patto però che si accetti lo splendore e la tenebra della fede, che si viva di amore che crede e di fede che ama, che si sappia vedere il corpo e il sangue del Signore in ogni fratello, nella povertà e nei limiti delle comunità ecclesiali, nelle tante situazioni difficili del nostro tempo.
Raimondo ha provato a fare ciò che suggerisce il Cardinale Martini: «corpo e sangue» vanno donati in ginocchio. Uso le sue parole perché in questa circostanza risuonino come testamento spirituale di un frate che ha un solo verbo e non ondeggia:
“L’Eucaristia è veramente capìta e accolta non solo quando si fanno certe cose verso di essa (la si celebra, la si adora, la si riceve con le dovute disposizioni, ecc.) o si fanno certe cose a partire da essa (ci si vuol bene, si lotta per la giustizia, ecc.), ma anche e soprattutto quando essa diventa la «forma», la sorgente e il modello operativo che impronta di sé la vita comunitaria e personale dei credenti.
Nell’Eucaristia si rende presente e operante nella Chiesa il Cristo del mistero pasquale. E’ il figlio in ascolto obbediente alla parola del Padre. E’ il Figlio che nell’atto di spendere la propria vita per amore, trova nella drammatica e dolcissima preghiera rivolta al suo «Abbà» (cf Mc 14,36; Lc 23,46) il coraggio, la misura, la norma del proprio comportamento verso gli uomini.
Pertanto la celebrazione eucaristica realizza se stessa quando fa in modo che i credenti donino «corpo e sangue» come Cristo per i fratelli, ma mettendosi in ginocchio, in attenzione di ascolto e di accoglienza, riconoscendo che tutto questo è dono del Padre, non confidando nelle proprie forze, non progettando il servizio degli altri secondo i propri modi di vedere.
Tutto questo richiede, in concreto, la coltivazione di atteggiamenti interiori che precedano, accompagnino, seguano la celebrazione eucaristica: ascolto della parola rivelata, contemplazione dei misteri di Gesù, intuizione della volontà del Padre tralucente dalle parole di Gesù, confronto tra il progetto di vita che scaturisce dalla pasqua-Eucaristia e le sempre nuove situazioni spirituali in cui le comunità e i singoli credenti vengono a trovarsi.
Che bello! Un religioso, accostandomi al funerale mi ha fatto notare di aver ricevuto recentemente da lui un richiamo molto fraterno che sostanzialmente era nella linea della lettera dell’apostolo Giacomo: “26Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana. 27Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,26-27). Il confratello gli era molto riconoscente per l’amorevole ammonimento, ricevuto da uno che, all’ultimo Capitolo Provinciale era stato praticamente degradato, formalmente per motivi di salute. Una retrocessione provvidenziale per presentarsi a Dio nelle sembianze di un “povero cristo”. La kénosis, lo spogliamento totale. (Fil 2, 6-7)
IL PREZZO DEL CORAGGIO
Prima ho accennato al coraggio. Solo che il coraggio ha un prezzo. Ed è salato. E va pagato, come ha fatto San Benedetto Menni, tradizionalmente più amato dalle sue suore che dai confratelli, per via di una rettitudine invisa. Ma l’aveva messo nel conto: ““Se qualcuno mi vuole seguire, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25 (Mt 16, 24-25). E non va perso di vista il lamento di Gesù, perché succede, succede ancora: “Gesusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati…” (Lc 13,34) .
Se é lecito fare paragoni, direi che lui, accostato ai santi dell’Ordine, tende ad assomigliare al Menni, c’è in lui quella stoffa un po’ ruvida ma bonaria, austera ma libera, forte, retta ma comprensiva, tollerante e indulgente, tratti che mi par di scorgere nel santo milanese.
Scegliendo Cristo sapeva cosa lo aspettava ed ha accettato senza lamentarti la minestra che passava il convento. Gli è che anche un buon brodo di carne, se è troppo salato, finisce per essere indigesto e coloro che hanno la mano pesante non mancano mai neanche in convento.
Quando mi diceva di aver cercato ripetutamente fra Pasqual Piles, ex priore generale dell’Ordine, tornato in Spagna come Provinciale alla fine del mandato, sentivo che si dispiaceva di non riuscire a contattarlo. Ma alla fine so che lo ha rintracciato. Si stimavano, perché mi ha sempre parlato bene di lui ed avendo lavorato insieme a Roma, erano animati da reciproca confidenza. Per i funerali, Fra Pasqual, venuto anche in rappresentanza del Padre Generale, ha concelebrato in duomo con il vescovo ausiliare di Brescia monsignor Francesco Beschi,. Chissà che non gli venga in mente di parteciparci almeno qualcosa delle loro ultime confidenze.
Uno che si fa carico dell’uomo, non tanto con la bocca ma perfino con il voto d’ospitarlo sempre nella casa del cuore, anche a costo della vita e di mettere la sua schiena a disposizione di Dio per farsi carico dei fardelli pesanti di chi non è in grado di portarseli, merita attenzione.
Lui, nei diversi momenti della vita ha privilegiato talora quella parte dell’uomo che si chiama corpo, o l’altra che riguarda la psiche ma sempre senza mai perdere di vista l’anima, le tre componenti dell’unità inscindibile, almeno fino alla morte. E s’è provato a trasmettere questa “passione”, in controcorrente rispetto alle prevalenti del momento.
Più d’una volta ci siamo soffermati sulla crisi vocazionale e sul come essere presenti, da frate, nella Chiesa locale, per non far mancare il carisma specifico ed allo stesso tempo, non restare tagliati fuori. Ed abbiamo concluso che bisognerebbe accentuare la presenza non tanto e non solo nella commissione della pastorale sanitaria, come avviene, ma in mezzo alla gente, a parlare ai giovani della teologia del corpo, dell’igiene mentale, della prevenzione, degli effetti della solitudine che colpisce giovani e anziani, dei disturbi della personalità, dei problemi della coppia,…tutte esperienze che si possono fare in collaborazione con medici, psicologi, psichiatri e sacerdoti con i quali si vive ogni giorno nei centri FBF. Condivideva. E si diceva inoltre che bisognerebbe essere presenti dove le giovani leve si preparano a diventare medici e infermieri. E quale può essere il punto d’incontro se non l’università? Come si può continuare a credere che le vocazioni si possano incrementare disseminando depliants in ogni angolo dell’ospedale o distribuendo immaginette di san Giovanni di Dio e san Riccardo Pampuri? Se manca il contatto diretto, la condivisione di progetti, il pregare insieme, la proposta evangelica, l’invito a tavola, a un periodo di esperienza in missione o in un ospedale psichiatrico…hai voglia! I Movimenti del nostro tempo si sono sviluppati per contatto diretto, non per volantinaggio! Ne era convinto. Ma si rendeva anche conto che il sogno coltivato di ringiovanire l’Ordine, agganciandolo alle fresche energie dei Movimenti emergenti non era né facile da far comprendere e ancor meno da realizzare. Bisognava far convivere anime caratterialmente e culturalmente molto diverse. Il test si è avuto con CL. Don Giussani e Fra Fabello si erano parlati, capiti, ed erano passati all’azione. Ma poi… Non serve scaricar le colpe. Meglio sarebbe analizzare spassionatamente per trovare i reciproci punti deboli, i nervi scoperti, non solo quelli della controparte. Cosa che ho tentato di fare sul sito internet: http://fraraimondo.splinder.com/
Noi siamo oggetto di amorosi rimproveri del Signore. La sua morte è uno di questi. A lui pareva di avvertire che fosse in atto da tempo lo stravolgimento completo del Vangelo, “per cui non è più Gesù a salvarci, bensì siamo noi che salviamo lui e la sua Chiesa, non è più il Vangelo dell’iniziativa divina, è il Vangelo della nostra bravura nell’operare a favore di Dio” (Martini)
CONDIVISIONE
Condividere. Forse anche lui ha sognato di condividere il proprio “io” con il mondo intero. Capita di sperare che almeno qualcuno possa dire ciò che non ci riesce di dire o che abbiamo in animo, o di cui abbiamo chiara coscienza. Ci piacerebbe che passasse qualcuno capace almeno di parlare in nostro nome. Perché il nulla dell’oblio ci spaventa. Che guaio se non credessimo che Dio, e Lui solo, può captare e capta le esigenze del cuore e conserva nella sua profondità il grido silenzioso e straziante dell’essere umano. Tu questa esigenza non la senti più ed io spero di ricalcare fedelmente almeno un poco di ciò che, potendolo, avresti voluto dirci. Le leggende raccontano che si possono vedere le stelle anche di giorno, guardando il fondo di un pozzo. Purtroppo bisogna arrendersi all’evidenza: nel fondo dei pozzi non ci sono stelle. Epperò, più vado avanti negl’anni e più mi accorgo di essere circondato da una moltitudine di stelle che nessuno vede alla luce del giorno. Ogni uomo, ogni donna ne porta una nel proprio cuore.
In questo momento vorrei essere il fondo del pozzo, la notte nera, in cui la sua stella si rende visibile nella luce chiara di Dio, ora più fulgente che mai.
Epperò, fratello mio carissimo, mi trovo in difficoltà ad un bivio. Ti chiedo: in questa notte nera in cui s’incrociano le nostre storie e s’incontrano le nostre anime, membri di una medesima famiglia, la grande famiglia umana, è più utile che parlarli di te o è preferibile che continui a parlare con te, come vorrei fare?
In risposta, mi hai fatto trovare un detto che la dice tutta: “Se quello che vedi è tutto quello che vedi, non vedi niente”. Allora per vedere di più bisognerebbe forzare la tua anima. Ma come? In realtà, tu hai continuato ad essere fino in fondo un uomo poco visibile, in un certo modo “alternativo” nel suo contesto. Forse anche un «punto interrogativo». Ha ragione Frère René Voillaume quando parlando del sacerdote scrive che “Il giorno in cui non saremo più, in un certo modo, un punto interrogativo per gli uomini, dovremo pensare che abbiamo cessato di portare in mezzo a loro la presenza del grande invisibile”.
Pedro Casaldaliga, un vescovo latino-americano, mi offre le parole giuste per interpretarti fedelmente, tu fatebenefratello così poco appariscente: “Alla fine del cammino mi diranno: Hai vissuto? Hai amato? E io, senza dir nulla, aprirò il cuore pieno di nomi”.
Caro Raimondo, hai fatto miracoli? No. E allora cosa posso raccontare per far presa su chi vorrebbe sapere, leggere? Dirò semplicemente che di te so una sola cosa certa: che ogni giorno ti sei affidato alle mani tenere e potenti di Dio perché spesso ti sei sentito un po’ come Marc Chagall, quel grande artista autore di quadri e vetrate indimenticabili che pregava così:
“Sono tuo figlio in terra e cammino con fatica. Tu m’hai riempito le mani di colori, di pennelli ed io non so come dipingerti …Forse sarai Tu a fare che il mio quadro si illumini.”
Ma come Chagall mi trovo io stesso nel momento in cui uso la penna al posto dei pennelli. Chiedo perciò allo Spirito di riempire di colori e di luce le parole sguarnite che riesco a formulare. M’incoraggia a parlarti direttamente proprio il Cardinale Martini che è stato il mio arcivescovo e che ho adottato come maestro spirituale. Egli mi dice: “E’ possibile comunicare con i morti. Essi ci conoscono e, pur essendo ora in cielo presso Dio, conoscono il mondo che hanno lasciato, ne conoscono prima di tutto il rapporto con Dio e con i suoi piani eterni che possono ormai contemplare”.
Allora, sicuro che sei in ascolto e, visto che abiti la Luce del Risorto, proverò ad aprirti il cuore. Sì, a partire da Dio, naturalmente, dal momento che conosci le nostre cose, i nostri problemi e ne parlate tra voi, abitatori del Cielo e con l’Amabilissimo Signore, finalmente felice di ospitarvi nel gaudio Trinitario: “Venite, benedetti dal Padre mio, perché ero povero, emarginato e mi avete accolto!” (cfr Mt 25,34-36).
L’Arcivescovo che anche tu hai ben conosciuto, ha parole di fede e di speranza: “Essi non soltanto ci conoscono ma ci sono vicini. E’ vero che hanno lasciato il mondo per abitare dove sono i corpi gloriosi di Gesù e di Maria, cioè al di fuori e al di là di tutto l’universo e del suo spazio. Ma intervengono ancora nel mondo e vi sono presenti con la loro preghiera, con la forza del loro amore , con le ispirazioni che ci offrono, con gli esempi che ci ricordano, con gli effetti delle loro intercessioni”.
In altre parole, ci viene detto che l’amore cha hai nutrito per le persone care, per l’Ordine, per noi, per me, per chi legge, non l’hai perduto. Lo conservi in cielo, “trasfigurato e non abolito dalla gloria”. Se vuoi, anche tu puoi fare tua l’espressione di Santa Teresa di Lisieux: “Voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra”, perché sono parole che non valgono solo per la santa carmelitana. Ed è a partire da qui che trovo l’esaudimento delle nostre preghiere per la tua guarigione, solo apparentemente non ascoltate da Dio. In realtà Lui ha preferito sapientemente collocarti nel luogo più adatto, in compagnia dei tuoi Confratelli santi e martiri, tra coloro che piamente crediamo essere stati accolti dalla misericordia di Dio.
· Tu, voi, come i nostri genitori, parenti ed amici cari, avete la possibilità di parlare a Dio di noi e di presentargli le nostre istanze e le nostre difficoltà.
· E voi conservate, certamente, in cielo “le intenzioni, gli affetti, gli interessi per i grandi valori di questa vita, quegli interessi che sono anche nostri”, quelli che ci avete lasciati in eredità, ai quali siamo stati educati.
· Tu, voi, potete pregare in nostro favore perché questi interessi, intenzioni, valori, crescano in noi e siano portati a quella perfezione che ci permetterà di godere, un giorno, il volto di Dio con voi e come voi.
LA MORTE E’ PRIMA DI MORIRE
Raimondo, mi sembra di averci pensato solo ora: noi, come si nasce, dal primo vagito, già condannati a morte! E’ folle. Ma ora capisco…
Ricordi quando il Padre Tarcisio Morini, ogni mese, conduceva il “Pio esercizio della buona morte” ? Oggi si griderebbe alla violenza sui minori e già solo il tema fa inorridire anche gli adulti; ma allora noi ragazzi venivamo presi per mano e introdotti realisticamente nel “tragicum mysterium”, senza esitazione. Del resto, i nostri educatori si facevano forti dell’esperienza di San Giovanni Bosco che considerava il «punto di morte» il momento da cui dipende l’eternità: «Don Bosco lo teneva desto nei suoi figli spirituali, giovani e adulti, specialmente mediante l’esercizio mensile della buona morte: un pomeriggio di predicazione, di riflessione, di confessione, sospendendo lo studio e, al mattino seguente, con la Santa Messa curata in modo speciale e con la Comunione Eucaristica, era un momento vissuto con serenità e fiducia stimolante nello «stare molto allegri, combattendo il peccato che rende tristi e cattivi, e compiendo i nostri doveri incominciando con quelli verso Dio» (San Domenico Savio). Ancor oggi i cooperatori salesiani lo prevedono nel loro regolamento: “ (2.) Sono consigliati di fare ogni anno almeno alcuni giorni di esercizi spirituali. L’ultimo giorno di ciascun mese, od altro giorno di maggior com odità, faranno l’esercizio della buona morte”.
Ho letto da qualche parte: “Non hai finito di imparare a vivere, che devi imparare a morire. Ma c’è forse una grande differenza? Sono due classi della stessa scuola”. Ebbene sì: per questo abbiamo imparato da piccoli a invocare il Misericordioso almeno una volta al mese con queste parole:
…7. Quando i miei piedi immobili…8. Quando le mie mani tremole e intorpidite… 9. Quando i miei occhi offuscati e stravolti… 10. Quando le mie labbra fredde e tremanti …11. Quando le mie guance pallide e livide… 12. Quando le mie orecchie presso a chiudersi per sempre… 13. Quando la mia immaginazione agitata da orrendi e spaventevoli fantasmi …14. Quando il mio debole cuore oppresso …15. Quando verserò le mie ultime lagrime… 16. Quando i miei parenti , ed amici stretti a me d’intorno… 17. Quando avrò perduto l’uso di tutti i sensi…18. Quando gli ultimi sospiri del cuore …19. Quando la mia Anima uscirà… 20. Finalmente quando la mia Anima comparirà innanzi a Te… in quel terribile momento, misericordioso Gesù abbi pietà di me”.
La tua morte ci fa riflettere. La tua dipartita ci rende consapevoli di grandi verità che di questi tempi si fa volentieri a meno: “C’è un modo di presenza dei nostri morti che vorrei sottolineare – scrive il mio vescovo – . Essi sono presenti presso ogni tabernacolo e presso ogni altare su cui si celebra l’Eucaristia. Nell’Eucaristia c’è Gesù Risorto, sono presenti tutti i santi, tutti coloro che sono morti nel Signore. Sono presenti con la loro adorazione e con il loro amore per Gesù che è anche amore per noi che siamo attorno all’Eucaristia. E sono presenti, in particolare, quelli che ci amano di più, che ci sono cari e che con noi adorano Gesù”.
Certo, caro Raimondo, non abbiamo ancora digerito che te ne sia andato così, in sordina. E, dal momento che rimane un terribile velo tra il mondo visibile e quello invisibile, siamo tentati di sentire come retoriche le parole del Pastore. Epperò “è altrettanto vero che l’amore è più forte della morte e l’amore di Cristo Risorto riempie il cuore e la vita dei nostri cari defunti. Lo stesso amore di carità che è in noi è in loro, anche se in loro è in pienezza.” A partire da questa pienezza, io so che ci raggiungi e noi pure possiamo congiungerci con te, attraverso il nostro amore e con la nostra preghiera.
Mi viene da pensare in questo momento alle tante persone che, provate dal dolore per la perdita repentina di una persona carissima, cercano di mettersi in contatto con lei. Ne hai certamente incontrate e conosciute anche tu. Per grazia di Dio, a noi non servono i mezzi superstiziosi. Abbiamo nella fede, nella preghiera e nell’Eucaristia, Sacramentum Hospitalitatis, il mezzo, il luogo e l’ambiente per una reale comunicazione di amore con i defunti. Questa è la lezione che ci viene sostando sulla tua tomba.
A proposito, nella tomba di Famiglia dei FBF di Brescia, dove ora le tue spoglie mortali soggiornano in attesa di risurrezione della carne, alloggiano altri confratelli che ci hanno preceduto. Di alcuni abbiamo solo sentito parlare dai nostri vecchi; altri, a cominciare dall’indimenticabile Padre Damaso, il compagno di noviziato di San Riccardo Pampuri – ricordi? – li abbiamo conosciuti di persona: una lunga lista… Sai, scorrendo quei nomi incisi sulla lapide che coprono un arco di cinquant’anni, non ho saputo trattenere il pianto della commozione E tu, adesso lì, il primo della nostra clesse ’42 che in quel di Brescia, ha condiviso nell’Aspirantato gioie e dolori dell’età adolescenziale ed evolutiva. Mi sembrava di udire la tua voce che ripeteva le parole del Maestro: “Ragazzi, vigilate! A voi non è concesso di conoscere né il giorno né l’ora…”.
CONVERSIONE
Non ci è dato di sapere in quale giorno della tua vita hai avuto il tuo incontro personale con Dio, l’ora in cu hai avvertito - con stupore sconvolgente – la Sua presenza nella tua vita, tale da poter gridare, come ha fatto l’evangelista Giovanni dalla barca , sul lago: “E’ il Signore!” (Gv 21,7)
Pur cresciuto fin dalla giovinezza nei giardini di Dio, anche tu hai avuto bisogno del giorno della conversione. Non lo hai scritto, come Agostino, ma lo hai provato: “Come ardevo, Dio mio, come ardevo di rivolare dalle cose terrene a Te, pur ignorando cosa volessi fare di me” (Conf. 4,.7-8). Non conosciamo il giorno e l’ora in cui hai aperto la porta a Cristo e lo hai fatto entrare nella tua vita, ti sei lasciato amare, perdonare e e hai creduto che Lui è morto proprio per te. Ma sappiamo che questo giorno c’è stato, che l’ora del bacio di Gesù non è passata invano. Anche Giuda si è lasciato baciare ma non si è lasciato amare perché non ha capito e non ha accettato.
“In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è Lui che ha amato noi” (1 Gv 4,10).
Quando hai avvertito il Signore alla porta è perché avevi l’orecchio teso e gl’occhi dilatati per discernere i segni del suo passaggio. Così hai potuto udire la voce misteriosa della Sua rassicurante presenza. Gli hai aperto e lo hai accolto nella tua casa come ospite gradito, per accorgerti poi che l’accolto e il rinfrancato eri proprio tu.
Così hai imparato il galateo dello stare a tavola con Lui:
· condividere il pane della tenerezza e della forza,
· il vino della letizia e del sacrificio,
· la parola della sapienza e della promessa,
· la preghiera del ringraziamento e dell’abbandono nelle mani del Padre.
Il tempo passato con Lui, l’hai detratto alla morte. E quando lei ha bussato, sapevi che sarebbe entrato Lui per condurti nel tempo senza tempo, nella Sapienza dei mondi per assaporare la Bellezza con infiniti sguardi d’intesa.
Quando Paolo VI ha scritto la Populorum progressio, eravamo giovani e sensibili alle voci dall’alto. Vedendo il duomo stracolmo di gente per i tuoi funerali – eri semplicemente un frate – ho capito che avevi colto nel segno: “Più che chiunque altro, - scriveva il Papa – colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente”.
La “miseria” che hai incontrato sul tuo cammino porta i nomi delle patologie organiche, della psiche e dell’anima che crocifiggono tanti uomini. Le iniziative che hai posto in essere sono quelle di un operatore di pace e di benessere: “Egli percorrerà la sua strada accendendo la gioia e versando la luce e la grazia nel cuore degli uomini su tutta la superficie della terra, facendo loro scoprire, al di là di tutte le frontiere, volti di fratelli, volti di amici” (Populorum progresso, 75).
E, se “grande è la ricompensa nei cieli” (Mt 5,12), anche la gente ha voluto esprimerti la sua riconoscenza.
IL DISCORSO MISSIONARIO
A chi mi chiedesse come hai vissuto il discorso missionario, risponderei con il passo nel Vangelo di Matteo, capitolo 10, che mette in crisi suore, frati, preti, vescovi e anche i laici Christifideles, ossia discepoli di Cristo.
Dice così:
vv. 8 -9 –
· “Come avete ricevuto gratuitamente, così date gratuitamente. 9Non procuratevi monete d’oro o d’argento o di rame da portare con voi. 10Non prendete borse per il viaggio, né un vestito di ricambio, né sandali, né bastone. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date…”
· Al di là delle contingenze storiche in cui il discorso è pronunciato,bisaccia, nastone, sandali, tunica…)rimane fondamentale nel Discorso, l’insegnamento della gratuità e della libertà, del disinteresse. Da giovani è più facile essere disinteressati. Più avanti negli anni, al sopraggiungere di acciacchi e malattie, ci si preoccupa di sé, con gli anni aumentano le cose care, libri, oggetti, doni ricevuti…
· Fra Raimondo ha viaggiato leggero, sempre pronto a traslocare e proprio negli ultimi giorni, prima dell’intervento, ha cercato di eliminare tutta la zavorra.
· v. 16 – “Ascoltate: io vi mando come pecore in mezzo ai lupi. Perciò siate prudenti come serpenti e semplici come colombe .17State in guardia, perché vi porteranno nei tribunali e nelle sinagoghe e vi tortureranno. 18Sarete trascinati davanti a governatori e re per causa mia, e sarete miei testimoni di fronte a loro e di fronte ai pagani.”
· ”. Gesù ha voluto avvisare i suoi fin dagli inizi: il ministero implica le contrarietà, ed è per natura contestato.
· Le circostanze difficili della Chiesa non sono mai cose nuove. A te, Raimondo, sono forse mancate le contrarietà. No. Allora buon segno! Il segno del Regno è proprio nel modo con cui viene, perché è l’opera dello Spirito Santo, non dei progetti umani,
vv. 19-20 – “19Ma quando sarete arrestati, non preoccupatevi di quel che dovrete dire e di come dirlo. In quel momento Dio ve lo suggerirà. 20Non sarete voi a parlare, ma sarà lo Spirito del Padre vostro che parlerà in voi”.
Ogni volta che t’è capitato di avere intrighi legali, il Signore t’ha chiesto di non cadere nell’ansia, l’eccessiva ansia per il ministero stesso. Nell’abbandono in Dio, anche la mancanza di strumenti o in condizioni di incertezza operativa, è lo Spirito del Padre che si manifesta.
L’ORA DELLA PROVA
Il 10 Aprile di quest’anno, avvicinandosi la data del Capitolo Provinciale al quale avresti partecipato, così hai scritto agli amici della Compagnia…”…E, per favore, pregate un pochino anche per il nostro Capitolo Provinciale. Grazie nello splendore della Resurrezione. Fra Raymondo Fabello o.h.”.Poche parole, come sempre.Ma di spessore. Leggevi gli avvenimenti nello “splendore del Risorto”, in chiave pasquale.Ed eri perfino convinto che anche una formica come noi, rinchiusa nell’anonimato, avrebbe potuto dare un contributo perché l’assise capitolare si muovesse sottomessa alla Voce dello Spirito.
Fino all’ultima telefonata ho avuto la sensazione che eri innamorato della vita e perciò ad essa legato come lo si è per ogni amore. Ma ti sentivo altrettanto disposto a cederla a quell’Amore che un giorno te l’ha donata. Quasi per scaramanzia, abbiamo provato anche scherzarvi sopra. Ma l’iniziativa era più mia che tua, impegnato com’eri a discernere, presagendolo, il volere di Dio con gli occhi di Giobbe: “Il Signore ha dato…”. Tu non hai esitato a mettere in conto che il Signore può anche togliere: per amore, s’intende, solo per amore. E così è stato.
Quando il 10 Giugno u.s mi scrivevi: “Dal giorno 5 u.s. sono entrato il lista per il trapianto. Aspettiamo che il nostro “Dottore”,[s.Riccardo Pampuri] anche con l’aiuto di qualche Altro, mi trovi un ricambio di buona qualità e quando sarà il momento dia una mano al chirurgo. ”Il Signore ha dato ……………….” in quei puntini di sospensione ho colto subito il tuo riferimento a Giobbe. Chiarissima la professione di fede nella adorabile Volontà di Dio che non ti ha risparmiato la prova: “In tutto questo Giobbe non peccò e non attribuì a Dio nessuna colpa”, (Giobbe 1).
E che di prova si tratti, per non dire qualche bestialità, lo faccio spiegare al mio venerato Cardinale. La domanda che ci viene spontanea è: c’e n’era davvero bisogno, dal momento che Dio sa benissimo se l’uomo vale o non vale ancor prima di provalo?
Il vescovo, sulla base delle Scritture, ci dice che “la prova c’è e c’è per tutti, anche per i migliori. Giobbe non offriva nessun motivo per essere tentato, perché era perfetto in tutto. E’ dunque necessario prendere coscienza che la prova o tentazione è un fatto fondamentale della vita”. Il Deuteronomio parla chiaro: “Io ti ho fatto passare per quarant’anni nel deserto per metterti alla prova e per vedere se tu veramente mi amavi” (cfr. 8,2)
La riflessione ci porta a concludere che il comportamento di Dio è misterioso: “é parte, mi sembra, di quel mistero impenetrabile per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’incarnazione. Perché anche l’incarnazione e la vita di Gesù sono una prova”.
L’atteggiamento col quale hai affrontato la situazione è proprio quello giusto della sottomissione. L’hai accolta ma senza domandare. Il prologo nel Libro di Giobbe è illuminante: ‘Nudo sono uscito dal grembo di mia madre, e nudo tornerò in grembo alla terra; il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore’…Se da Dio accettiamo il bene perché non dovremo accettare il male?” (Gb 1,21; 2,10)
Caro Raimondo, c’insegni che questa sottomissione suona misteriosa. E’ il culmine dell’esistenza umana davanti a Dio, un’indicazione a cui ispirarsi. Che vuol dire che non è già in noi come non lo fu in Giobbe se non dopo tutto il suo travaglio. Questa sottomissione,secondo l’arcivescovo “viene messa in rilievo, perché è la sola capace di gettare una scintilla di luce sull’esperienza drammatica dell’esistenza”.
Nella prova c’è in agguato un altro pericolo: il rischio della riflessione. Non so se a te è capitato. “L’uomo, per grazia di Dio, può rapidamente assumere l’atteggiamento della sottomissione, ma subito dopo sopravviene il momento della riflessione, che è la prova più terribile. Il Libro di Giobbe si sarebbe potuto concludere alla fine del secondo capitolo, dimostrando che Giobbe aveva resistito perché il suo amore per Dio era vero, autentico. In realtà, bisogna attendere e la situazione concreta di Giobbe non è quella di chi se la cava con un sospiro, con un’accettazione data una volta per tutte; piuttosto è la situazione concreta di un uomo che, avendo espresso la propria accettazione, deve incanalarla nel quotidiano.”
Noi ti ringraziamo per l’opportunità che ci offri di misurarci con il terribilis, di acquisire una sapienza che ci scarseggia, giacché potremmo trovarci impreparati al momento della nostra prova. “Talora noi sperimentiamo qualcosa di simile: di fronte a una decisione difficile, a un evento grave, li accogliamo presi dall’entusiasmo e dal coraggio che ci viene dato nei momenti duri della vita. Dopo un po’ di riflessione, però, si fa strada un tumulto di pensieri e sperimentiamo la difficoltà di accettare ciò a cui abbiamo detto di sì. Questa è la prova vera e propria”.
Il Vescovo ci dice che il primo “sì” detto da Giobbe è tipico di chi istintivamente sa reagire al meglio; “la fatica è di perdurare per una vita in questo “sì” sotto l’incalzare dei sentimenti e della battaglia mentale. La prima accettazione, dunque, che spesso è una grande grazia di Dio, non è ancora completamente rivelativa della gratuità della persona. Occorre sia passata per il vaglio lungo della quotidianità.
La prova di Giobbe non è tanto l’essere privato di ogni bene e l’essere piagato, ma il dover resistere per giorni e giorni alle parole degli amici, alla cascata di ragionamenti che cercano di fargli perdere il senso di chi egli è veramente. Da questo punto la prova comincia a snodarsi dentro l’intelletto dell’uomo e la vera e diuturna tentazione nella quale anche noi entriamo e rischiamo di soccombere è quella di perderci nel terribile travaglio della mente, del cuore, della fantasia”.
Sei passato attraverso la prova. Che non è soltanto quella dell’ultima malattia. Essa non è che il coronamento di una vita di aspirazioni, intuizioni, tentativi, ricerca…sempre entusiasmanti, ma accompagnate dal sapore amarognolo delle valutazioni ingenerose dei diffidenti o degli eterni perplessi.
Non ti aspettavi un trattamento migliore di quello riservato al Maestro che, nonostante facesse miracoli, è finito persino scomunicato dal Tempio. La domanda è: ce n’era proprio bisogno, dal momento che Dio sa benissimo se l’uomo vale o non vale ancor prima di provarlo ? Eppure, il Dio amabilissimo e misterioso, prova i suoi figli: “Io ti ho fatto passare per quarant’anni nel deserto per metterti alla prova e per vedere se tu veramente mi ami” (cnf. Dt 8,2), dice ogni volta il Signore esprimendo lo stesso concetto. “Questo comportamento di Dio è parte, mi sembra, di quel mistero impenetrabile per cui, pur conoscendo il Figlio, lo mette alla prova nell’incarnazione. Perché anche l’incarnazione e la vita di Gesù sono una prova”.
Io credo che questa morte, per un certo verso prematura, sia venuta per dirci qualcosa d’importante che altrimenti ci sarebbe stato impossibile. In realtà non è lei ma è Dio che si serve di lei per parlare al cuore dei Fatebenefratelli e alla grande famiglia che se ne sta intorno: il mondo delle scienze biologiche, degli operatori sanitari, dei sofferenti psichici, delle solitudini, degli anonimi…La tentazione subdola è quella di sentirci ingranaggi di un meccanismo e provare perciò la sensazione di essere importanti. Dunque, bisognosi di nulla.
MA IN FIN DEI CONTI CHI SEI?
A chi non riesce ad inquadrarti nel contesto della tua famiglia religiosa, suggerirei la lettura, altrettanto arida dei passi biblici che parlano di Elia. A me pare che lì ci siano gli spunti rivelatori della tua personalità complessa. Si sbaglierebbe a procedere per classificazioni superficiali. Sarebbe il modo infallibile per screditare ed emarginare personaggi “scomodi”. E tu, per certi versi, lo sei stato.
Ci sei stato rapito come Elia, costretto a salire sul carro di fuoco di quella scienza che hai sempre ammirato e incoraggiato, spesso orgogliosa, talvolta arrogante, ma indispensabile. Solo che nel tuo caso ha fatto cilecca. La tua morte risuona come profezia. Con il riferimento al profeta Elia ci vai ricordando come la vera schiavitù sia quella del cuore, quella dell’uomo che, nella sua paura, si inchina davanti agli idoli di sempre: il potere, il denaro, il successo. E la medicina non ne va proprio esente.
Nell’omelia per il trigesimo della morte, P.Luca Beato ti ha paragonato al Battista:“ Fu capace di andare controcorrente. Come il Battista è stato spesso un precursore, anticipando le linee strategiche di ciò che altri avrebbero poi realizzato.” Trovo significativa la convergenza di vedute. Infatti, anche a me è parso di vedere in te quei segni che contraddistinguono il profeta Elia. Il tuo ruolo nell’Ordine, già intuibile nel Fabello ragazzo, non sarà quello di essere fondatore. Tu sei destinato a “camminare innanzi con lo spirito di Elia, per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo [la Fraternità] ben disposto” (Lc 1,15-17).
E cosa dice testualmente il Vangelo? “Molti si rallegreranno. 15Egli infatti sarà grande nei progetti di Dio. Egli non berrà mai vino né bevande inebrianti ma Dio lo colmerà di Spirito Santo fin dalla nascita. 16Questo tuo figlio riporterà molti Israeliti al Signore loro Dio: 17forte e potente come il profeta Elia, verrà prima del Signore, per riconciliare i padri con i figli, per ricondurre i ribelli a pensare come i giusti. Così egli preparerà al Signore un popolo ben disposto.” (Lc 1,15-17)
Cos’è questo “spirito e forza di Elia”? Ce lo spiega Sant’Ambrogio commentando il passo evangelico: “Elia ebbe una grande virtù e grazia: la virtù di convertire gli animi dalla incredulità alla fede, la virtù di una vita mortificata e paziente e lo spirito della profezia”.
Ti sei ben guardato dal sentirti un profeta, né hai tentato di essere un dottore della legge o un maestro della Parola. Non eri il tipo di assume atteggiamenti da convertitore carismatico ed avevi scelto di stava semplicemente davanti a Jahvé: “Per la vita del Signore Dio d’Israele alla cui presenza io sto” (1 Re 17,1). Il segreto della tua forza è qui: “Oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo” (1 Re 18,36). Sei stato un servitore fedele che conosce i pensieri del Re, che ascolta dalla viva voce i suoi comandi e li esegue prontamente.
Come hai vissuto la ricerca del Dio solo, lo stare alla sua presenza, il regolarti soltanto sulla parola del Signore? Come Elia:
· Egli non ha paura di nessuna autorità umana;
· Egli non ha paura del giudizio della gente
· Egli è pieno di zelo per il Signore;
· Egli vive la solitudine spirituale, senza temerla.
Sono atteggiamenti che andrebbero esplicitati ma già sufficientemente indicativi di una dimenticanza di te stesso, nella povertà di spirito, nella riverenza adorante.
Il frate è per definizione l’uomo della libertà, liberato com’è dai voti di povertà, castità, obbedienza ed ospitalità, per meglio servire. E’ un uomo leggero, quindi, attento a non accumulare zavorra sulla sua piccola imbarcazione. Ma talvolta, come nel tuo caso, si trova anche ad essere un imprenditore sui generis che ha la responsabilità di un’ impresa che, in fin dei conti, non è sua.
Chi ama l’Altare (quello che viene baciato ad ogni messa perché rappresenta Cristo pietra angolare) ha le sue paure, sente il peso delle responsabilità ma non teme. Sa che lo Spirito soffia: sulla Mensa, pane e vino, divenuti corpo e sangue di Cristo, annunciano già la trasformazione delle realtà di questo mondo, una trasformazione che va al di là dell’Altare per giungere a tutta la creazione.
Più d’una volta mi sono sentito interrompere la comunicazione telefonica: “Devo andare. Abbiamo la Messa”. Un uomo che aspetta “cieli nuovi e terra nuova” ha bisogno di Eucaristia, il pane di vita che lega gli uni gli altri, e a Dio. Perché il finale è perentorio: “Andate e fate lo stesso”. La preghiera, il culto, esigono l’azione. Con tutto ciò, tu avevi la chiara consapevolezza che, rispetto alle attese, alle aspettative, le possibilità erano sempre modeste. Direi che di ciò ne hai fatto un motto esistenziele: “Il ben poco che si può fare, bisogna farlo. Ma senza illusioni”. A Messa tu ci andavi come a “fare il pieno” di Vita per ricominciare la corsa.
Entrare a fondo nei meandri del tuo cuore umano è quasi impossibile. Se ho lasciato divagare la mente senza un rigoroso filo logico è perché ho nel cuore la certezza che tu terrai in seria considerazione le mie, le nostre riflessioni e perplessità, quelle della famiglia religiosa e della comunità terapeutica per la quale non ti sei risparmiato affinché fosse anche evangelica.
Ora saprai valutare lucidamente i nostri poveri ragionamenti. Perciò, continua a stare con noi, ad ispirarci pensieri di cielo ed a stimolarci per una “nuova fantasia della carità”, che sia allo stesso tempo amorosa e operosa ee a richiamarci con la tua preghiera d’intercessore, ogni volta che avverti il nostro deviare, magari convinto e determinato, sulle rotte suggerite dalla miopia umana dell’uomo psichico. Aiutaci a tenere sveglio in noi l’uomo “peumatico”, affinche sia lo Spirito a guidare i nostri passiu, ad ispirare le opzioni che impone il tormentato quotidiano.
PROFETA?
Bisogna intendersi. Nella Bibbia vi figurano due razze: i profeti e i falsi profeti.
I primi si riconoscono meno facilmente dei secondi che dispongono di mezzi persuasivi di sapienza umana che fa molta presa sugli spiriti fragili e perciò più manipolabili. Ma c’interessano i primi.
La nostra è un’età “aggredita” da spiritualismi d’ogni genere (New Age) che guardano in alto ed hanno i piedi che sembrano aver perduto il contatto con la terra degli uomini; e ci sono, all’opposto, persone, religiose o laiche, talmente incollate al proprio frammento di terra da perdere di vista l’insieme e l’orizzonte più grande. Da qui la necessità di avere dei profeti autentici che sembrano scarseggiare. Martin Buber ha trovato le parole giuste per definirli: “ coloro che tengono lo sguardo fisso verso il Dio che viene”. La loro mente è supportata dai piedi ben piantati per terra. Che vuol dire leggere con passione le cose che si vedono ma sempre nella prospettiva del Mistero e delle cose che non si vedono: visibilia et invisibilia.
La mia umanità si fa autentica e vera nella misura in cui cresco nella conoscenza della Pasqua che fa “nuovi” tutti gli uomini. Vuol dire che do spazio allo Spirito del Signore Risorto che mi abita. Dunque, a portata di mano.
Il profeta sta in mezzo a noi per insegnarci a ripartire da Dio. Fra Raimondo lo è stato. Egli sentiva prepotente il bisogno di compiere dei gesti, delle azioni simboliche che anticipavano e rappresentavano sinteticamente azioni ora intuite come in un lampo, ma che avrebbero poi richiesto un lungo periodo di realizzazione. Sapeva anche riconoscere in un dettaglio, un una sfumatura, l’elemento decisivo, il tassello mancante. Quanto sia stato in grado di farlo recepire anche agli altri, non sono in grado di dirlo. Temo che non vi sia riuscito anche per via di un sordomutismo diffuso che preferisce galleggiare più che rischiare.
CANTO
Ci legava una convinzione comune: il canto era tante cose, ma anche un modo per ricoprire le persone della misericordia del Signore. Dove ci sono dolori, difficoltà, tristezze, il canto ispirato è terapeutico: ha la capacità di consolare, lenire, infondere speranza. Un esempio semplicissimo: si provi a cantare le Litanie del Sacro Cuore di Gesù, senza la preoccupazione di terminarle in fretta perché barbose. Se pregare è cantare due volte, come insegna S.Agostino, l’implorazione cantata coinvolge, va in profondità, scava nell’anima:
· Figlio di Davide, abbi pietà di me.
· Signore se tu vuoi, salvarmi puoi…
· Signore, che io veda…
Solo Dio può modificare il mio cuore perché raggiunge le sue profondità che vibrano con il cosmo:
· Acqua viva, disseta la mia anima,
· Spirito di Dio, Signore della creazione…
· Spirito di gioia, Spirito d’amore…
· Signore Dio dell’Universo, dalla Tua bontà…
Povera psichiatria! Quanto ci sarebbe da approfondire.
CORPOREITA’
Che bello se tutto, ma proprio tutto della giornata fosse vissuto come una perenne liturgia.
Alzarsi dal letto, prendere il tè, avere l’influenza o un dolore reumatico, recitare un salmo o rispondere al telefono…
Santificarci per contagio, per vicinanza corporea, avere la capacità di sollevare, innalzare, santificare, trasmettere. Fare in modo che gli altri possano dire: quando ti vedo, mi sento bene! Con la corporeità trasmettere l’anima. A me è riuscito di coglierla nell’amico.
MAESTRO
E’ sempre rifuggito dalla tentazione di sedersi in cattedra. Era convinto che la verità non si lascia possedere. La sua saggezza si è rivelata nel non ritenersi maestro ma soltanto amico dello Sposo, uno che si accompagna a cercare la verità senza presumere di possederla. Bravo chi sa scomparire al momento giusto e in nessuna occasione si sostituisce allo Spirito santo, né si rende indispensabile mediatore dell’incontro con Dio.
Credo che fra Raimondo abbia sempre ritenuto compito essenziale quello di limitarsi a preparare la strada, di PROFETA?
facilitare l’incontro, di liberare il cuore e la mente…E lasciar fare allo Spirito, vivo, presente e operante.
S’E’ FATTO BUIO TUTT’INTORNO(Mc 15,21-41; cfr. Mt 27,32-56; Lc 23,26-49)
Alle Molinette di Torino, verso il Mezzogiorno di quel giovedì, 30 Agosto, memoria del Beato Alfredo Ildefonso Schuster, vescovo, di cui da ragazzi avevamo tanto sentito parlare e anche qualcosa letto sulle feste del Messale, ci hai lasciati. La liturgia Eucaristica del giorno celebrata in tutto il mondo sembrava fatta per la circostanza apposta.
Questo è il Salmo responsoriale che è risuonato nelle chiese:
Sal.89
Tu o Signore, fai ritornare l’uomo in polvere
e dici: «Ritornate, figli dell’uomo» .
Ai tuoi occhi, mille anni
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
Vòlgiti, Signore; fino a quando?
Muoviti a pietà dei tuoi servi.
Saziaci al mattino con la tua grazia:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la bontà del Signore, nostro Dio:
rafforza per noi l’opera delle nostre mani.
E il canto al Vangelo, tra un alleluia e l’altro:
Vegliate e pregate in ogni momento,
per essere trovati degni
di comparire davanti al Figlio dell’uomo.
Non parliamo del Vangelo:
Mt 24, 42-51
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà.
Questo considerate: se il padrone di casa sapesse in quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa.
Perciò anche voi state pronti, perché nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà.
Qual è dunque il servo fidato e prudente che il padrone ha preposto ai suoi domestici con l’incarico di dar loro il cibo al tempo dovuto?
Beato quel servo che il padrone al suo ritorno troverà ad agire così! In verità vi dico: gli affiderà l’amministrazione di tutti i suoi beni.
Ma se questo servo malvagio dicesse in cuor suo: Il mio padrone tarda a venire, e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a bere e a mangiare con gli ubriaconi, arriverà il padrone quando il servo non se l’aspetta e nell’ora che non sa, lo punirà con rigore e gli infliggerà la sorte che gli ipocriti si meritano: e là sarà pianto e stridore di denti» .
A sentir queste parole, ogni nota aggiuntiva risulterebbe superflua. Se non fosse che abbiamo tanto bisogno di sfogare le nostre tensioni emotive e che il parlarne potrebbe farci anche bene. E’ vero: a prenderti è venuto nientemeno che il Figlio dell’uomo e dovremo scoppiare di gioia, segno che eri importante ai Suoi occhi. Ma i nostri alleluia si confondono ancora con i singhiozzi.
A coloro che t’hanno conosciuto meno da vicino vorrei dire che sei stato un normale ragazzo prima ed un normale frate poi. Senza le “ali”, perché non sono di rigore. Per andare in alto a noi non sono strettamente richieste. Anche a te è bastato soltanto essere uomo. A guardar bene, questa apparente limitazione del non disporre di ali è stata la tua fortuna: ti ha impedito di “starnazzare” come un pollo per richiamare l’attenzione del pollaio. E se ti sei trovato in posti di responsabilità, vi sei giunto senza far rumore. Hai sempre parlato più con le scelte che con i proclami farciti di luoghi comuni o parole ad effetto. Avevi uno sviluppato intuito naturale ma non eri impulsivo nelle decisioni che maturavano nella riflessione della Parola di Dio. Eravamo giovanotti quando Papa Giovanni ci ha iniziati a scrutare i “segni dei tempi”. Era un’espressione evangelica ma in disuso e il Papa buono l’ha ripresa e ci ha insegnato a guardare in altro, ad andare oltre, a non peccare di miopia… Così anche tu ti sei limitato a cogliere l’incanto che l’aurora di ogni giorno riserba, quasi che il mondo ricominci da capo.
Nelle nostre conversazioni, mai fatte di pettegolezzi o di pregiudizi sulle persone o sulle decisioni da altri poste in atto e non sempre da te condivise, ti stava a cuore il futuro del tuo Ordine ma con quel distacco di consapevolezza che a ciascuno compete di far bene la sua parte, non di più. Avvertivi le forti limitazioni che talora nascono tra il dire e il fare, l’intuire ed il realizzare. Ed avevi una tua filosofia che più di una volta mi hai espressa: “Se la Vigna è Sua, ha pure Lui da pensarci, no?”.
Si avvertiva che avevi percorso un lungo cammino, fatto anche di tanta solitudine. Ma, ad ogni risveglio, conservavi sempre una grande capacità di stupire. Ricordo le stringate parole al telefono nel risentirci dopo anni: “E’ proprio vero…quando poniamo resistenza, Dio poi ci sbalordisce…”. Ho capito ciò che intendevi dire. Seguivi attivamente su internet le nostre timide evoluzioni perché credevi che anche da un semino di senape trasportato dal vento su un metro di terra, per opera di Dio, può svilupparsi fino a diventare albero frondoso e gigantesco, destinato a stupire, come ogni iniziativa del Signore Gesù. Dove io sarei stato più portato al pessimismo, ho notato che in te vigilava sempre la speranza. Non quella di un allocco. Ma la virtù bambina, che ha il potere di guidare le sorelle più anziane: la gioia, il dolore, la routine, la novità, l’amore, il sesso, la stupidità, il canto degli uccelli e la nascita di un bambino, un anniversario, un venticinquesimo di lavoro, come la nascita di un nuovo giorno o la notizia di un nuovo progresso scientifico nella ricerca …
Ti ho perso di vista per tanti anni. E quando t’ho ritrovato, eri quello di sempre. Tutto aveva concorso a rendere straordinaria la tua vita di frate che, non essendo né angelo né aquila, è rimasta sempre senz’ ali per volare. Ma lo stesso t’è riuscito di andare in alto. Il segreto? Forse più di uno. Ma riassumibile nella sublime cantica dantesca che vede in Maria, la
“umile e alta più che creatura,
termine fisso d’ etterno consiglio”:
Ne avevi fatto l’esperienza diretta:
Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
Che, qual vuol grazia e a te non ricorre,
Sua disïanza vuol volar senz’ali.
La tua benignità non pur soccorre
A chi domanda, ma molte fiate
Liberamente al domandar precorre.
In te misericordia, in te pietate,
In te magnificenza, in te s’aduna
Quantunque in creatura è di bontate!
(Paradiso, XXXIII, 1-39
Volendo, oggi si potrebbe sostenere con più d’un buon argomento che la pedagogia dei nostri tempi faceva acqua da tante parti. Apparteniamo ad una generazione, forse l’ultima, venuta grande con i metodi di una formazione tradizionale, entrata in crisi già con noi e processata aspramente nel ’68 e negl’anni successivi. Ma, grazie ad esempi autorevoli, a parole forti e sublimi tramandate dalla tradizione, attinte dalla letteratura latina o italiana come il testo sopra che i nostri educatori ci hanno quasi imposto di memorizzare, dal Manzoni, dal Vangelo in briciole e dagli avvenimenti liturgici ed ecclesiali… abbiamo avuto anche la fortuna di mettere dei punti saldi nella vita. E qualche buon principio, capace di resistere alle intemperie, ce l’hanno pure inculcato. Quello almeno di scoprire che in noi urge qualcosa di più grande della banalità di tutti i giorni: il rapporto con il proprio destino, con lo scopo ultimo della propria vita che si è reso incontrabile nella grande presenza amica di Cristo.
I manuali di spiritualità del tempo possono aver suscitato sia negli educatori che negli educandi non pochi equivoci moralistici, a cominciare dalla smania di metterci le “ali”, insistendo più sulla innata capacità di perfezione attraverso l’esercizio quotidiano delle virtù (?) che puntando a coltivare una vera maturità psico-affettiva individuale e comunitaria. Ma la familiarità con l’Altare, e il Tabernacolo ce l’hanno inculcata ed ha lasciato il suo segno positivo: un po’ alla volta, ci siamo resi consapevoli di una Presenza costante nella vita che avrebbe potuto sollevarci dalla insignificanza del quotidiano verso una più piena ed umana realizzazione di sé. Ricordo ancora bene un passo formidabile della Populorum Progressio di Paolo VI del 26 marzo 1967 che allora, proprio quando venivano posti in discussione certi metodi, ci dava la dritta per non sprofondare nello sterile avvilimento:
“Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento, frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dall’ambiente e dello sforzo personale, permetterà a ciascuno di orientarsi verso il destino propostogli dal suo Creatore. Dotato d’intelligenza e di libertà, egli è responsabile della sua crescita, così come della sua salvezza. Aiutato, e talvolta impedito, da coloro che lo educano e lo circondano, ciascuno rimane, quali che siano le influenze che si esercitano su di lui, l’artefice della sua riuscita o del suo fallimento: col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più.” (n.15)
Qui ho imparato a prendermi le mie responsabilità, evitando di distribuire ad altri le colpe dei miei insuccessi, la miopia delle mie scelte. Il Papa non intendeva spronare ad una pedagogia balorda ma a reagire alla rassegnazione fatale. Alcuni che portiamo nel cuore potrebbero non avercela fatta e per questo ci stanno ancora più a cuore.
Le opere di misericordia che la tradizione cristiana ci invita a compiere affondano le loro radici nella infinita misericordia divina, che tocca la sua vita più eccelsa in Gesù Cristo che ha dato la sua vita per noi. La verità è che Dio, nostro Padre, passa ancora oggi davanti a tutti noi come quando apparve a Mosè, per dirci: Ecco, io sono il Signore, l’Iddio pietoso e misericordioso, lento all’ira e grande in benignità e verità (Es 34,6).
La misericordia, con tutte le sue opere, non viene lasciata all’arbitrio delle creature umane. Esiste infatti un comandamento che ci vincola tutti: “Ama il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19.18).
L’Antico Testamento ci presenta un bell’esempio in Giobbe. Nella sua difesa contro i suoi accusatori egli esclamava:
“Io liberavo il povero che gridava
e l’orfano che non aveva chi l’aiutasse
e facevo cantare il cuore della vedova.
Io ero occhi al cieco e piedi allo zoppo
e padre ai bisognosi” (Gb 29).
Ricordi Raimondo quella carità così visibile in tanti anziani imitatori di San Giovanni di Dio? Possiamo dire che abbiamo conosciuto da vicino i santi del quotidiano che sapevano coprire limiti e debolezze personali con lo scapolare della carità misericordiosa. E ne siamo rimasti influenzati, contagiati. Sarebbe laborioso voler stendere un elenco nominativo. A quanti di essi si potrebbero applicare le parole di Giobbe!
Ci sono tanti modi di andare incontro ai nostri fratelli. Ma una cosa è assolutamente necessaria: un cuore nuovo secondo Dio. “Allora donerai qualcosa di tuo al fratello bisognoso, gli andrai incontro con qualche piccolo gesto, ti interesserai di lui, della sua salute corporale e di quella spirituale “(cfr Dt 15.7-8). Così è stato il tuo silenzioso lavoro di ogni giorno, benedetto da Dio, per la salvezza di tutti, per la divinizzazione dell’uomo.
Hai avuto incarichi di responsabilità. Essere il “Padre Provinciale” lì per lì può dare appagamento, emozione, apprensione. Ma poi…Quel santo vescovo e pastore che fu dom Helder Camara mi offre parole su misura per te e che posso dirti solo ora, senza farti arrossire:
“Beato chi si sente eternamente in viaggio e in ogni viaggio, in ogni prossimo vede un compagno desiderato. Un buon camminatore si preoccupa
dei compagni scoraggiati e stanchi. Intuisce il momento in cui cominciano a disperare. Li prende dove li trova. Li ascolta. Con intelligenza e delicatezza, soprattutto con amore, ridà coraggio e gusto per il cammino”.
Non posso giurare che tu vi sia riuscito in pieno ma sono certo che hai provato a farlo. Ed il richiamo non può tornare che benefico anche per il domani.
E ti ricordi del Prof. Celli, il nostro insegnante di lettere al ginnasio? Delle sue lezioni di greco m’è rimasto poco più dell’alfabeto ma ho caro nel cuore il “ Pater emon o en tois uranois…” ossia il Padre nostro (Mt 6, 9-13) che talvolta ancora recito. E quella passione che ci ha inculcato, senza forzare, leggendo i “Promessi sposi”? Non si è più assopita in me e in te s’è fatta anche vistosa nelle iniziative sanitarie, psichiatriche e missionarie che hai avviato ed animato fino all’ultimo. “La c’è la c’è la Provvidenza”, eccome!
Anche per la musica sacra e la divina liturgia ci siamo dati da fare insieme. Qualche traccia , come alcuni canti della Novena in onore di San Giovanni di Dio che avevamo messo insieme, su richiesta del P. Marchesi, sono ancora in circolazione. Continuo a ribadirlo: nulla si capisce di te se vieni separato dall’Altare.
FORMIDABILI QUEGL’ANNI
E gli anni del Concilio Vaticano II ? Il discorso si farebbe lungo, interessante, impegnativo, critico. Poiché abbraccia il quarantennio post-conciliare, quello che molto ha interessato gli Ordini Religiosi alle prese con la revisione e adattamento delle Costituzioni, sono sicuro che risulterebbe anche proficuo per capire, capirsi, rileggere fatti ed atteggiamenti con il senno del poi, avere ripensamenti, ridimensionare progetti, buttarsi nell’oltre… Lo spazio non c’è. Ma poi ne sarei capace? Comunque, volendo, non mancherà il tempo, anche con il tuo aiuto, per rileggere un periodo di storia formidabile e travagliata. Forse si capirebbe l’origine della sterilità attuale della Provincia Lombardo-Veneta. Il sollievo del “mal comune mezzo gaudio” non era nel tuo temperamento.
Equivoci. Se negl’anni in cui hai dato il meglio di te equivoci vi sono stati in una cultura dominante, malata di eventi e incapace di cogliere la forza nascosta nelle opere dei giorni feriali e anonimi di tanti membri della famiglia religiosa, sarebbe salutare che venissero messi in luce. La storia della grazia e della fedeltà si verifica anche nel silenzio. Ci sono tempi di fedeltà tacita ma sempre tenace, nella difficile volontà di non cedere alle pulsioni di rottura o di separazione. In questo ci sei stato di esempio, proprio quando hai provato a dire cose che forse non sono state capite, sottovalutate.
A ragion veduta posso sostenere che hai mantenuto una fecondità nascosta e viva fino agli ultimi giorni, mostrandoti maestro di vita e di fede, perseverante nell’alveo del Concilio e della profezia, ma sempre con un’attenzione di carità perché l’Ordine e la tua Provincia in particolare non assomigliassero alla conflittuale Chiesa di Corinto. Proprio per questa ragione bisognerebbe provare a interrogarsi. E, poiché i dati si presentano sempre complessi e le analisi semplificatrici sono di per sé inadeguate e quindi sconsigliabili, è auspicabile che nasca una tavola rotonda, informale e aperta, per verificare che non siano state osteggiate le linee di profezia che lo Spirito non fa mai mancare e che non vi sia in atto una sistematica e subdola volontà di sradicamento dei fermenti, seppur inconscia e ammantata da buoni propositi che talvolta nascono proprio per evadere le scomode domande.
Se il silenzio non ha parole, è pur vero che la superficialità non riesce a conoscere l’esistenza di tempi e di modi di fedeltà silenziosa e sofferta, ma per questo anche redentiva e vitalizzante.
Di te mi sento di dire che hai lavorato per una Chiesa che abbia davvero il dono di quella contemporaneità, senza la quale si cade nella falsa coscienza. Mi chiedo: e se, nel tuo contesto, a un certo momento fosse venuto a mancare quel profondo substrato di intensità spirituale che sempre prepara, provoca e sostiene i tempi della profezia?
In questo momento a te è dato di vederlo chiaramente. Se così fosse, non ti resta che accentuare il tuo ruolo di intercessore e propulsore affinché le nostre vite siano capaci di sostenere e di accentuare una prassi cristiana segnata da molta generosità. Potrei sbagliarmi ma l’impressione è che, nella Chiesa in senso lato ma anche in quella che ci riguarda più da vicino, la Chiesa locale, il Convento, sia in atto una ideologizzazione del vangelo, frettolosa e non profetica. L’intensità delle intenzioni non deve far velo alla verità intera. Purtroppo, le incomprensioni generano irrigidimenti e cosi si rifugge dalla critica benefica che non dovrebbe mai mancare e che dev’essere generosa ed intus-legente, ossia intelligente.
Alcuni temi dovrebbero convocare a una riflessione faticosa ma inevitabile. Guai a evitarla. I cammini si mostrano spesso opinabili e tuttavia dotati di qualche ragione. Se viene a mancare quel discernimento sapienziale che va chiesto giornalmente in ginocchio, non c’è altro che possa far schivare l’inevitabile deriva.
E’ facile fare l’apologia del glorioso passato ma non paga se non alle condizioni descritte. Ogni volta che si trasformano i carismi in miti, si finisce in un culto della personalità e si apre la strada della decadenza. Il carismatico Giovanni di Dio non ha mitizzato ma scavato un solco fecondo. Il tempo galantuomo dirà se anche tu, amico mio, stavi dalla parte della profezia, come io penso. La memoria che suscita lo Spirito di Dio nella Chiesa (Gv 14, 26) è anche il processo per il quale nel nuovo e concreto storico si attualizza quello che i padri fecero nel loro tempo e nelle loro condizioni.
Negli ultimi tempi avvertivo che respiravi un’aria di disagio. Segnato da una volontà di fede, di presenza nella vita sociale e scientifica, di dialogo ecclesiale (facevi considerazioni lucide e severe quando ti provocavo anche sulla Chiesa locale), sentivi il bisogno di sciogliere la vela al vento dello Spirito.
Ogni tentazione di deriva verso progetti di potere andrebbe scongiurata ed è cosa evangelica dire il proprio dissenso, porre domande e chiedere dialogo. I votati all’ospitalità sono discepoli del Verbo Incanato. E voler fare ancora opera di incarnazione non costituisce una deriva mimetica, perché è una essenziale linea evangelica, quella per cui Dio si confibra alla vita umana e ad essa si propone e non s’impone.
In ciò che sto per dirti spero di non equivocare: anche tu hai fatto l’esperienza del venir meno dell’autorità. Sono molti gli elementi che hanno determinato il calo di obbedienza. Oggi c’è un altro modo di ascoltare. Potrà essere deprecabile quanto si vuole ma bisogna realisticamente prenderne atto. Se l’autorità vuole essere ascoltata, deve dialogare con un tempo nel quale non vige l’autorità della persona ma la persona di autorità. Al limite, qualcuno può perfino ritenerlo un percorso di peccato. Ma perché non chiedersi: “e se fosse un provvidenziale fatto di liberazione che non sia più vero “iustum quia iussum – giusto perché ordinato”, ma che venga il faticoso e costoso criterio dello “iussum quia iustum – ordinato perché giusto”?
Dove può trovare sostegno scritturale una simile posizione? Lo esplicita Matteo: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». (28, 19-20) Manasce dal cuore del Dio trinitario, come ben evidenzia il vangelo di Giovanni: “Il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’ insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. (Gv 14, 26)
“Solo nel criterio trinitario della auctorias: la “monarchia” del Padre è gloriosa, perché è una “archè”, un principio per “augere”, per far crescere la vita ed essere fonte di “altri” che nella loro autonomia (”hypostasis”) vivano una ricchezza che è quella della fonte e pure è altra. La gioia di Dio è nel constatare che “l’altro” vive nella sua autonomia di vita. La compiacenza di Dio (“e Dio vide che era cosa bella-buona”) coglie la forma di sé data attraverso il Verbo che in Amore dà la vita e la dà in abbondanza.
Se l’autorità non vive tale forma trinitaria, ma cerca il povero sussidio di capacità organizzativa o di riduzione dell’alterità all’uniformità, allora la Chiesa viene a mancare di un elemento essenziale alla sua vita, appunto l’autorità come segno della ”monarchia” del Padre che è “unità di principio”, non “unicità di potere
”. Fantasie retoriche, si chiede Paolo Giannoni l’autore benedettino-camaldolese di tale riflessione ?
Spero che le parole che ti attribuiscousate come modo per spiegare, non finiscano per aver bisogno di essere spiegate. In tal caso, vedrò di ritornare sull’argomento un’altra volta. E tu mi aiuterai dal seno della Trinità.
Adesso mi piacerebbe provare a parlarti della Compagnia dei 72 di cui anche tu hai fatto parte. Non avendo ricevuto la sacra unzione presbiterale, non appartieni al “gruppo dei Dodici” bensì alla quello dei “Settantadue discepoli”. Il Vangelo di Luca chiarisce tutto e in questo testo viene esplicitata anche la tua e nostra comune vocazione: “In quel tempo, il Signore designò altri settantadue discepoli e li inviò a due a due avanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: “La messe è molta, ma gli operai sono pochi. Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai per la sua messe. Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né bisaccia, né sandali e non salutate nessuno lungo la strada.
In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l’operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa.
Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà messo dinanzi, curate i malati che vi si trovano, e dite loro: È vicino a voi il regno di Dio”. (10, 1-9)
Considerazioni sulla pagina evangelica ci porterebbero in alto mare.
Visto che le nostre strade ad un certo punto si sono divise, mi verrebbe da chiederti: com’è andata la spedizione? Qualcosa ti ho raccontato della mia ma della tua so molto poco. Farebbero bene a parlare i tuoi compagni di viaggio perché non c’è miglior circostanza per fare il punto della situazione. Non credo giovi a nessuno operaio giocare a nascondino nella Vigna che appartiene al Signore. Io resto fiducioso in attesa.
Forte dei principi in cui credevi, hai lasciato che il disegno di Dio su di te si adempisse al meglio, agendo in base a ragioni che non sono umane.
Come recita il Magnificat che abbiamo cantato tutta la vita a squarciagola fin dalla giovinezza, si può dire senza esitazione che “Il Signore ha fatto della tua vita un luogo di prodigi, dei tuoi giorni un luogo di stupore” (Lc 1,47). Che importa se non sappiamo elencarli, spiattellarli sulla tavola come biscotti fragranti. E’ che avevi fatto tuo quel canto che la Compagnia…cerca ogni giorno di memorizzare e vivere e che recita così:
1. “Cerco nel cuore le più belle parole per il mio Dio, l’anima mia canta per il mio amato” (Lc 1,46).
2. “Perché ha fatto della mia vita un luogo di prodigi, ha fatto dei miei giorni un tempo di stupore” (Lc 1,47)
3. “Ha guardato a me che non sono niente: sperate con me, siate felici con me, tutti che mi udite. Cose più grandi di me stanno accadendo. E’ Lui che può tutto, Lui solo, il santo!” (Lc 1, 48-49)
4. “ E’ lui che ha guardato, è lui che solleva, è Lui che colma di beni, è lui…” “Santo e misericordioso, santo e dolce, con cuore di madre verso tutti, verso chiunque” (Lc 1,50).
5. “Ha liberato la sua forza, ha imprigionato i progetti dei forti” (Lc 1,51).
6. “Coloro che si fidano della forza sono senza troni. Coloro che non contano nulla hanno il nido nella sua mano” ( Lc 1,52)
7. “Ha saziato la fame degli affamati di vita, ha lasciato a se stessi i ricchi: le loro mani sono vuote, i loro tesori sono aria” (Lc 1,53)
Ed è proprio con queste parole così pregne, pronunciate per la prima volta dalla Madre di Dio, che vorrei avvolgere come in un manto regale la tua persona di frate per gli uomini.
Capita nella vita di trovarsi soli. Soli contro tutti. Soli nella folla. E si può perfino essere soli in famiglia. Ma capita, talvolta, di avere ragione contro tutti e di apparire perfino, nella migliore delle ipotesi, sognatori ridicoli, degni di compatimento. Forse è accaduto anche a te.
In te ho constatato un atteggiamento interiore, uno stato d’animo, una forza che ti derivavano derivano dall’amore. E se è vero che gl’occhi sono l’espressione dell’anima, i tuoi sono da innamorato.
Tutto quello che sale, converge, diceva Teilhard de Chardin. Perché la montagna della vita noi la scaliamo gli uni gli altri in modo diverso ma con la speranza di ritrovarci tutti sulla cima.
Mi piacerebbe sentirti dire: “Hai parlato in mio nome, bene dixisti de me”. Se così non fosse, compatiscimi lo stesso, perché sono un tuo fratello, limitato e confuso.
LA BENEDIZIONE PASQUALE
Mentre la bara scendeva dall’auto funebre e venivi trasportato per le esequie nella cattedrale gremita di fedeli e tante persone in piedi in ogni angolo, la piazza era inondata di sole e le pietre bianche del duomo rifulgevano, con la maestosa cupola, nell’azzurro cielo, accentuando il desiderio delle colse dall’alto.
Il tempio è dedicato all’Assunta; un invito in più, un motivo più forte per aspirare alle cose di lassù. Un uomo è un nulla. Ma se è in ginocchio davanti alla Trinità, come te ora, è improvvisamente grande. Perciò, prima di chiudere questo colloquio in cui spero solo apparentemente di aver parlato solo io, a nomi di tutti sono a chiederti un favore: benedici questa tua grande famiglia che si è costituita nel tempo intorno a te.
Da cielo abbassa la mano come per riversare la grazia e la vita sulla terra. Benedire: “bene-dicere”, cioè “dire del bene”, vuol dire aiutarci a vivere. Tante persone muoiono per non avere incontrato l’ individuo capace di dir loro la verità: “Tu sei amato”, “tu puoi vivere”, “tu puoi essere te stesso”. La sete è grande e un po’ tutti siamo in ricerca della parola che ci sproni a esistere. Del resto, “tu sei amato”, non è il magnifico significato del termine “grazia”? Cosa c’è al mondo di più confortante del sapersi “amati da Dio” ?
A questo punto, per una volta, lascia che ti chiamiamo “padre. Perché ora lo sei a tutti gli effetti, caro Padre Raimondo. “Padre di una moltitudine”, come il patriarca Abramo. E quando ci si sente soli, è bello ricordarsi che qualcuno ci ha benedetto.
E’ stato scritto che “nel giovane brucia un fuoco, nell’anziano brilla una luce”. In te ho visto il miracolo di entrambi. Segno di perenne giovinezza.
Con queste parole che ti appartengono, tu ci passi il testimone affinché noi si continui la corsa:
“Siamo tutti chiamati, credenti e non credenti, a creare una società nella quale venga eliminata la violenza, l’emarginazione, la competitività, la manipolazione e sia instaurata la giustizia, la solidarietà, il rispetto e la dignità di tutti nell’amore. Assumere gli atteggiamenti di San Giovanni di Dio significa lanciarsi nella vita senza paura, con coraggio, con speranza”. (Dalla Prefazione a …)
Mandi, frari! Proveremo a camminare sulle tue orme.
Per questo, preghiera silenziosa, ascolto della Parola, meditazione biblica, riflessione personale, non sono disgiunti dall’Eucaristia, ma sono vitalmente collegati ad essa”.
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